Posts written by fallagain

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    Grazie infinite per apprezzare <3 <3 <3
    Mi dispiace tanto avere così poche parole per farvi capire la mia gratitudine. Sappiate che è sentita e profonda. :]
    Un abbraccio <3
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    Mi vergogno un po', perchè non penso al mio racconto come qualcosa così immenso da farci un trailer, ma è comunque una fanfiction che mi sta a cuore. Quindi, per fangirlare e per ringraziare chi mi è sempre stato accanto - e ha sempre creduto e amato questa storia - dedico questo piccolo sgorbietto.



    Edited by fallagain - 20/3/2021, 00:12
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    closedeyes closedeyes
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    Penso che mi urta un sacco!
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    L'impronta (invisibile) di Michael anche qui <3

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    Penso che ho avuto la malsana idea di leggere i post di quando avevo 17/18 anni... MA DIO SANTO CHE CRINGE AHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHA

    Edited by fallagain - 11/4/2020, 22:21
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    There's a hole in my soul
    Can you fill it? Can you fill it?
    You have always worn your flaws upon your sleeve
    And I have always buried them deep beneath the ground
    Dig them up; let's finish what we've started
    Dig them up, so nothing's left untouched
    (Flaws, Bastille)

    Sleeve
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    Floorgasm

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    We come from the brink of destruction
    We gathered ourselves from the floor
    We tried and we suffered, and finally recovered
    And found a new way to live
    (Brink of destruction, Sarah McLachlan)

    Peace
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    Lose you to love me - Selena Gomez
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    CITAZIONE (‚effulgent @ 24/2/2015, 19:15) 
    Penso che odio le donne incinte!

    Penso di aver riso troppo per questa frase HAHAHAHAHAHAHAHA

    No, comunque...

    Penso che certi casi umani non finiranno mai di stupirmi <.<
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    Piango ❤️ ❤️ ❤️

    Non so che dire e sicuramente non volevo finire a fare egocentrica e parlare di me... ma per quel che vale, per quanto possa riuscire a farlo capire, ti sono grata... sapere che ti ho aiutato e supportato con i miei racconti è la vittoria più grande, veramente :) Non sei esagerata, a me succede ed è successo lo stesso diverse volte. Ognuno si appoggia a ciò che sente più vicino a sé in quel momento e rimane appeso ad esso nelle situazioni peggiori, per poi provare un senso di devozione e riconoscimento che non se ne va più. Può essere la musica, una religione, uno sport o una serie tv, non importa, se la mia storia ti ha fatto sentire meno sola per me è come vincere un premio Nobel.
    Spero di darti sempre queste emozioni.

    Sono sicura che Michael è fiero del sentimento e legame che provi ancora per lui, dopo tutto questo tempo. <3
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    Cara ❤
    Ti capisco per la questione dell'allontanamento. Ognuno ha le proprie ragioni, la vita fa il suo corso. Ma il fatto che tu sia ancora qui, ad ammettere quanto Michael sia ancora una parte di te e che lo sarà per sempre, è la conferma che la sua persona ti ha lasciato un segno profondo nel cuore, indelebile, anche se a volte può sembrare invisibile. Questa è una cosa meravigliosa. Sono sicura che - se la sua "presenza" esiste - è contentissimo di saperti ancora profondamente vicina a lui :)

    Mi raccomando, non angustiarti per il "silenzio" che c'è in questo sito. Hai fatto bene a raccontare le tue emozioni. Anzi, ti ringrazio per averle condivise a cuore aperto. Io non mi sono mai considerata parte di questa famiglia, quanto piuttosto legata a pochissimi elementi presenti, ma ogni tanto tornare qua sembra come essere più vicini a casa. Capisco cosa vuoi dire.

    E guarda, ti dirò la mia esperienza personale... per sei/sette anni mi sono allontanata da questo sito e dalla scrittura (solo per quanto riguarda le ff su MJ). Difficoltà personali a parte, stava diventando pesante - per me - continuare a scrivere e frequentare qualsiasi posto riguardasse Michael. Immagino che in molti strabuzzerebbero gli occhi a sentirlo, dicendo quanto questo mi renda poco "fan", ma nella vita può succedere di tutto :) Mi sono completamente distaccata dalla sua persona e a malapena volevo sentire la sua musica, se non in occasioni particolari. Non riuscivo neanche a dire una parola carina o guardare un suo video, per non parlare di quando arrivava la data di morte o di compleanno. Mi saliva un nodo in gola allucinante e un rifiuto psicologico immane. Ho imparato a fidarmi delle mie sensazioni e non ero pronta per ritornare "sui miei passi". Eppure eccomi qua, adesso, che per un colpo di matto ritorno a scrivere XD

    Sei un amore quando parli della mia ff e di quello che ha fatto/sta facendo ancora per te... tu non hai idea di quanto mi renda felice! Non ho mai pensato di essere un granché nella scrittura, ma mi fa un enorme piacere aiutarti -indirettamente- a farti sentire Michael più vicino.

    Tutte noi scrittrici, alla fine, cerchiamo di averlo accanto come se fosse ancora qui, e così fanno le lettrici. Entrambe le parti sono accumunate dal bisogno di averlo qui. Tutte queste fan fiction saranno il tuo rifugio sicuro ogni volta che vorrai :)
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    Capitolo Quarantasei: La Fine


    «Non è giusto, Prince!», gli urlò dietro la sorella, posizionandosi al suo fianco con un broncio incredibile. «Sempre tu che sali su Thunder!»

    Thunder era uno dei cavallini inanimati del carosello di Neverland. Ogni tanto tornavamo al ranch per fare felici i bambini.

    Prince e Paris avevano dato un nome ad ognuno dei cavalli e, nelle loro fantasie, erano destrieri in carne ed ossa. Sognavano di essere due avventurieri coraggiosi e la maggior parte dei loro giochi di ruolo erano ambientati nel vecchio West. Salivano sui cavallini del carosello e si sfidavano a chi andasse più veloce dell’altro. Thunder era quello che nelle loro testoline a dir poco creative era il più indomabile e il più rapido tra tutti. Prince, veloce come una gazzella, cercava di fregare la sorella più piccola ogni qualvolta potesse.

    Le fece la linguaccia. «Sono arrivato prima io!»

    «Lo hai già preso la scorsa volta! Non è giusto!»

    «Sei lenta!»

    «No!»

    «Sì!»

    «Nooo!»

    «Sììì!».

    Prince fece una pomposa imitazione della sorella e riuscì a farmi sorridere. Grace, un po’ irritata da quel loro battibecco sempre più chiassoso e incontenibile, li raggiunse in un baleno e li sgridò. Sbattei le palpebre lentamente e guardai in basso, facendo scemare il sorriso nel giro di qualche secondo, fissando con sguardo vacuo i miei piedi e Blanket che mi stava in braccio, il quale canticchiava canzoncine e stritolava senza pietà il suo pupazzo di Monsters & Co. Gli altri due ripresero a giocare come se niente fosse sotto lo sguardo attento e severo di Grace.

    Sospirai pesantemente e il mio sguardo si fissò sui capelli lisci e neri di Blanket.

    In quei giorni sembravo continuamente ipnotizzata dal vuoto; forse lo ero anche da settimane, ma in quegli ultimi tempi me ne rendevo conto anche da sola. Quando pensavo troppo mi assentavo totalmente dal tempo e dallo spazio circostante.

    Avrei dovuto farlo. Sapevo che dovevo farlo. Il punto è che non ne avevo il coraggio, perché il solo pensiero mi uccideva. Non avrei avuto un’altra occasione: Prince e Paris erano lì, da soli, senza Michael tra i piedi. Avrei dovuto chiedere a Grace di allontanarsi quel poco che bastava per comunicare loro la notizia, ma non sapevo come…

    «Ti va di bere qualcosa?»

    Alzai lo sguardo e notai che Grace era a tre passi da me, sguardo serio e incomprensibile. Mi puntava con attenzione sostenuta, cercando di essere gentile ma non troppo. Cominciavo a pensare che non le piacessi affatto.

    Mi scossi con un veloce battito di palpebre. Blanket mi guardò con un sorrisone stampato in faccia.

    «Vorrei parlare con Prince e Paris di una cosa…».

    Mi tremò la voce. Mi bagnai le labbra e cercai di fare un respiro profondo per non lasciarmi andare alle lacrime prima del tempo. Accarezzai la morbida testolina di Blanket e gli diedi un delicato bacio sulla nuca. Non ebbi il coraggio di osservare il viso di Grace e l’espressione che doveva avere.

    «La scuola è finita e presto me ne andrò definitivamente. Vorrei poter esprimere loro il mio affetto e la mia gratitudine… ti dispiace se rimango qualche minuto da sola con loro?»

    Mi si bagnarono gli occhi così tanto che non riuscii a trattenere una lacrima. Questa scivolò giù per la mia guancia destra e con un veloce movimento di polso la asciugai. Espirai sul punto di emettere un gemito sofferente; strinsi forte le labbra e drizzai le spalle per impormi di non piangere.

    Il silenzio durò un minuto abbondante.

    «Certamente», Grace fece altri due passi in avanti e aspettò che mi alzassi per darle Blanket in braccio. Sempre senza guardarla in viso glielo porsi e con la coda dell’occhio la osservai evitare il contatto con il mio sguardo. «Torno fra poco».

    La ringraziai con un fil di voce ed ella mi diede immediatamente le spalle. Parlottò con allegria con il più piccolo dei Jackson, volatilizzandosi nel giro di mezzo minuto.

    Presi un altro gran bel respiro e mi sentii morire.

    Lanciai un’occhiata a Prince e Paris, che scatenati continuavano a lottare con le loro pistole invisibili e imitare il suono degli spari con le labbra. Quando scorsero che li fissavo, mi rivolsero due grandi sorrisi e io feci loro cenno con il capo di raggiungermi.

    Non erano affatto stupidi. Capirono dal mio cipiglio sofferente e malinconico che qualcosa non andava; subito anche il loro ghigno divertito scemò dai loro visini paffuti e scesero dai cavallini in movimento.

    Andai loro incontro e mi fermai in mezzo al nulla, di punto in bianco, incapace di muovermi ulteriormente. Mi vennero vicino sempre più inquieti e perplessi, a causa dei miei occhi lucidi.

    «Va tutto bene, zia?»

    Mi chinai sulle ginocchia, puntandole sul sentiero ciottolato ai miei piedi. Inspirai ed espirai ancora, stavolta incapace di trattenere le lacrime: non importava quanto cercassi di cancellarle con i dorsi e con i palmi delle mani, queste scivolavano dai miei occhi senza freni.

    Prince e Paris si congelarono sul posto. Non mi avevano mai visto piangere se non per qualche scena commovente dei film. Subito ricercarono le mie mani e mi chiesero perché stessi piangendo attraverso i loro flebili e tristi pigolii.

    «Scusatemi, piccoli…», mi asciugai le guance per l’ennesima e ridacchiai senza divertimento. Li ammirai con uno sguardo colmo di orgoglio e nostalgia, afferrando le loro manine di rimando. Prince ero turbato ma serio e attento, mentre Paris era decisamente più scossa. «Devo dirvi una cosa molto importante… ma ho bisogno che mi promettiate di non raccontare nulla a vostro padre, non ancora… si sentirebbe male per me e per voi. Non è un buon periodo per lui, ha bisogno di serenità assoluta e voi siete la sua cura…».

    Prince e Paris si guardarono a lungo.

    «Quando sarete più grandi potrete parlargli di questa nostra conversazione… promesso?»

    Paris puntò lo sguardo in basso, trascinando un piede sul terreno a destra e a sinistra, mordendosi nervosamente un labbro come faceva il padre. Prince tenne la testolina alta e mi scrutò con apparente impassibilità. Dopo che il fratello maggiore annuì, anche Paris si lasciò convincere – pur non felice di dover nascondere qualcosa al suo papà.

    «Grazie…».

    La voce tremò per l’emozione e la vista si offuscò per l’ennesima volta in quel giorno. Accarezzai le loro manine, le quali si strinsero forti alle mie.

    Erano il mio orgoglio più grande. Sapere di aver avuto un impatto positivo almeno nella loro vita mi dava la forza per non sentirmi completamente inutile e fuori luogo. Ero stata la loro insegnante, la loro confidente e la loro amica. Avevano conquistato dei gran bei voti e un’educazione invidiabile a qualsiasi altro bambino della loro età. Avevamo giocato, avevamo riso a crepapelle fino a star male, avevamo scherzato… e io li avevo amati infinitamente – amandomi a loro volta forse tre volte di più di quanto non avessi fatto io con loro. Mi avevano visto come una guida, pendendo dalle mie labbra ad ogni consiglio o lezione impartita, senza mai trattarmi con maleducazione e arroganza. Mi avevano voluto bene come se fossi veramente una loro zia preferita o una sorella maggiore, premurosi e affettuosi come pochi, prendendomi come esempio e ascoltandomi sempre con ligia attenzione.

    Prince, Paris e Blanket erano stati la mia luce e la mia speranza in tutta quell’oscurità durata mesi e questo pensiero mi avrebbe accompagnato fino alla fine dei giorni.

    *

    Smisi di tamburellare le dita sul poggiolo della poltrona udendo lo scatto della porta che si apriva. Le iridi che dapprima peregrinavano su ogni mobile e oggetto presente nell’ufficio di Michael con atteggiamento apatico si bloccarono sulla maniglia che si abbassava lentamente.

    Il cuore perse un battito e risalì con un balzo in gola. La stanza iniziò a profumare, oltre che di legno nuovo e di muschio bianco, anche di sandalo.

    Nascosi tra le cosce la pila di fogli che tenevo in mano.

    Presi fiato col naso percependo i suoi passi in mia direzione.

    Lo stomaco venne tritato in una morsa di angosciante trepidazione. Ciò nonostante le dita alleviarono la stretta sui documenti che fino a poco prima avevo stretto con spasmodica prepotenza.

    Michael si pose accanto alla poltrona vuota che risiedeva di fronte a me. Ero sicura che, una volta seduto, sarebbe stato come se non ci fossi stata comunque.

    Lo inchiodai con lo sguardo mentre si lasciava cadere di peso sulla sedia, senza guardarmi.

    Le sue spalle erano ricurve e i capelli ricadevano ordinatamente lungo le sue gote estremamente pallide. Era diventato più magro – molto più magro rispetto a due mesi prima, in particolar modo rispetto all’inizio del processo – e il viso era scavato da due solchi profondi. Le iridi scurissime presentavano un perenne accenno di sofferenza e devastazione. I raggi solari, i quali penetravano dalle tende appese alle finestre, fecero risaltare le sfumature lucenti della sua chioma corvina.

    Il cuore risentì di quella visione con un lieve tumulto.

    Rimanemmo un po’ di tempo occhi negli occhi senza sputar fuori una singola parola di bocca.

    Mentirei se dicessi che in fondo, nascosto fra la rabbia, la delusione e lo sconforto che covavo per lui, un minimo di affetto non lo sentissi più. In realtà spesso consideravo quella sottospecie di amore nei suoi confronti come una catena, un qualcosa che temevo di spezzare per paura di sentirmi incapace di andare avanti senza di lui. Un obbligo verso me stessa e un profondo senso di lealtà verso Michael. Una promessa che dovevo mantenere, al contrario di quelle che lui non aveva mantenuto, e uno sforzo sovrumano che dovevo portare avanti fino a quando l’inferno non sarebbe cessato di esistere.

    Quest’ultimo pensiero mi dava la nausea.

    Avevo una paura enorme all’idea di lasciarlo.

    Se mi fossi liberata dal suo amore, Michael non avrebbe fatto niente per riprendermi con sé. Ne ero assolutamente convinta.

    Volevo che si mettesse alla prova, che combattesse per riavermi accanto; che si arrabbiasse anche, purché dimostrasse che mi amava ancora. Ero anch’io egoista. E nello sconforto, capendo che le mie erano soltanto illusioni e false aspettative, errori uno di seguito all’altro, mi lasciavo scivolare sempre più in basso... in basso, in un dolore che mi faceva annegare ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo.

    Il mio animo era diviso in due... il desiderio di non abbandonarlo opposto a quello di smettere di soffrire. Il desiderio di percepire il suo sentimento d’amore in eterno contro il desiderio di riacquisire quell’affetto per me stessa che - per Michael - avevo sepolto senza esitazione. Il desiderio di ricominciare una vita nuova con lui opposto a quello di scappare lontano e chiudere ogni rapporto. Il desiderio di realizzare che niente sarebbe più stato lo stesso... contro la volontà di vivere per sempre in un purgatorio di parole non dette, allontanamenti e situazioni irrisolte.

    Michael interruppe il silenzio con un sospiro tremante.

    Spostava gli occhi su qualsiasi oggetto sopra il ripiano scuro della scrivania come poco prima avevo fatto anch’io.

    Drizzò le spalle. Aspettava una spiegazione sul motivo per cui avessi voluto parlargli in quella sede.

    Quel pensiero mi stritolò le interiora.

    «Tra qualche giorno verrà emessa la mia sentenza», bisbigliò con visibile stanchezza ed esasperazione negli occhi e nella voce, «se venissi considerato innocente, partirò immediatamente… e vorrei che tu venissi con me, Prince, Paris e Blanket». Prese una pausa e mi fissò con due pietre lucide al posto degli occhi. «Stavo pensando all’Europa… o al Medio Oriente… magari anche in Italia, che dici?».

    Le mie sopracciglia si corrugarono un po’ ma senza molto stupore.

    La sola cosa che mi venne da pensare fu un semplice e secco “Ah”. Per il resto, il cervello non riuscì a concretizzare i sentimenti in parole e di conseguenza non risposi.

    Stetti a contemplare gli scatti ansiosi che compivano la sua bocca e le sue palpebre. Ingoiava la saliva e picchiettava le unghie sulla scrivania con evidente tensione. Una serie di domande iniziarono a istigare la mia mente ma un forte richiamo, imponente rispetto a tutte le altre vocine in testa, non mi permise di dar loro voce. Il petto s’alzò e s’abbassò con scatti più rapidi.

    Tu mi ami ancora?

    Silenzio.

    No, non sarei tornata indietro.

    Da sotto il tavolo le mie mani scoprirono un paio di lettere piegate in tre parti uguali, perfettamente intatte, scritte a computer e stampate da ormai tre settimane a quella parte, gettate nel cestino per poi essere ricostruite da capo assieme alle lacrime di cui Michael certamente non era a conoscenza.

    A fatica riuscii ad analizzare la sua reazione. Notai il suo irrigidimento e la sua diffidenza come se gli stessi per infliggere una chissà quale pugnalata alle spalla. La faccia era congelata in una smorfia di sospetto. Dopodiché deposi la lettera sul banco in mogano; con la mano destra che sussultava appena la feci scivolare in avanti; arrivata vicino alle sue dita che afferravano saldamente i bordi del tavolo ritrassi le mie e incrociai le braccia al petto, lasciandomi cadere sulla sedia con un tonfo leggero.

    «Cos’è...?», il tono della sua domanda era cupo e allarmato.

    Fui colta da un istinto di pianto che mi confuse per un istante. «È la mia risposta».

    L’idea di lasciarlo mi provocava un dolore imparagonabile a qualsiasi altro...

    Mi gettò un’occhiata indecifrabile. Studiò il documento per un minuto abbondante e poi decise di leggere. Lo tenne lontano affinché potesse farlo senza aver bisogno di mettersi gli occhiali. L’espressione dapprima crucciata mutò all’improvviso: la delusione, lo sconforto, l’incredulità per quello che aveva davanti ai suoi occhi lo costrinsero a serrare le labbra per non piangere. Si accorse che assieme ad essa c’era anche un’altra copia.

    «No...», bisbigliò sconvolto. «Non è vero… Tu mi stai prendendo in giro... non è vero…?!»

    Non mi guardò, ma continuò a sbattere le labbra velocemente per quel moto di rabbia che lo aveva pervaso di colpo. Scuoteva la testa sempre più forte, sorrideva sardonicamente, ma le sue iridi erano accecate dallo shock.

    Lanciò la lettera lontano, verso la finestra, ritirandosi sullo schienale della sedia e rovesciando qualche altra carta presente sulla scrivania. Sobbalzai.

    Mi fulminò irato e disperato assieme.

    «È così divertente secondo te, Sarah?», esclamò con voce più alta. Sorrise con un ghigno irato. Ricominciò a dissentire col capo come se fosse impazzito. «Pensi che sia una stronzata divertente, uh?»

    Pareva sul punto di ridere e piangere contemporaneamente e mi faceva male.

    Sussurrai con fiato sottile. «Non sto scherzando...». Mi bagnai le bocca raddrizzando la spina dorsale, guardando i fogli caduti a terra alla mia sinistra. «Non sto scherzando affatto».

    Ero seria, glaciale, esattamente come lo era stato lui con me per molto tempo.

    Ero la consapevolezza di non essere abbastanza, la certezza di essermi finalmente arresa ad una battaglia portata avanti per troppo tempo. Ero un pozzo vuoto, senza acqua. Ero lo specchio del suo volto e delle sue parole incise a fuoco nel mio cervello e nel mio cuore. Ero la conferma delle mie paure più grandi, il risultato di un qualcosa che avevo immaginato sarebbe accaduto.

    Mi esaminò riproponendo quella sua solita maschera di assoluta indifferenza.

    «No», ribatté. «Tu non ti licenzierai».

    Mi strinsi nelle spalle, assumendo una smorfia fintamente neutrale. «In effetti posso», sussurrai, «Non appena finirà il processo, me ne andrò. Non puoi rif – »

    «No, non lo farai!». Si alzò in piedi e colpì le nocche sul tavolo.

    Saltai sul posto. Lo scrutai con la paura e la tristezza negli occhi. Da quella posizione potei osservare quanto stesse tremando.

    «Tu...», ansimò. Mi raggelò manifestando tutta la sua vulnerabilità in uno sguardo. «Tu servi qui...!»

    Ingoiai le lacrime. «No… non è vero...»

    Silenzio.

    Nessuno dei due abbassò gli occhi.

    «Come puoi abbandonarci così? Come puoi fare questo a me...?!», si mise una mano sul cuore e sostò in quella posizione per due minuti. Le palpebre erano spalancate. Si scosse con una risata poco divertita, passandosi una mano sul collo. «Tu mi stai mentendo…».

    Mi alzai in piedi. Mi squadrò con la bocca socchiusa dal turbamento, vedendomi camminare verso le carte lanciate a terra da egli stesso. Senza fare una piega le sistemai in ordine numerico e ritornai al mio posto di fronte a lui. Mi sedetti e feci per porgerglieli una seconda volta, ma Michael accostò il palmo della mano al mio dorso chinandosi in avanti con rapidità sorprendente. Appena lo percepii sulla pelle mi ritrassi; portai le dita al petto e ammirai le sue con sguardo vacuo.

    Se mi avesse anche solo sfiorato, non sarei riuscita a portare avanti quella scelta.

    Non sarei stata la persona che lo avrebbe salvato e Michael non sarebbe stato colui che mi avrebbe ascoltato. Io ero colei che non sapeva amare, lui era colui che amando allontanava gli altri da sé. Io ero il burattino e lui colui che dirigeva i giochi. Io ero colei che si allontanava silenziosamente, Michael era colui che non faceva nulla per trattenermi. Io ero colei che scappava in punta di piedi, lui colui che fuggiva con una magia, scomparendo nel nulla e riapparendo quando più gli piaceva.

    «Non sono più niente per te...?!»

    Era sul punto di delirare. Le sue accuse sotto forma di domande mi squarciavano l’anima.

    «Rispondimi! Non sono più niente per te...?!»

    Chiusi gli occhi.

    Smettila di trattarmi come se non mi importasse.

    «A quanto pare non sono abbastanza! Ho fatto qualcosa di sbagliato, sono incompleto per te, sono tutto fuorché l’uomo giusto!», urlò.

    Le mie ciglia si risollevarono e con queste anche la voglia di andarmene da quell’ufficio. Mi issai dalla sedia senza far rumore; conscia di cosa stessi rischiando con quel gesto, e gli rimisi sotto il naso il fascicolo che doveva assolutamente firmare.

    «Mi dispiace».

    Le parole non erano mai servite fra noi, neanche in quell’occasione.

    Mi fissò con due occhi sconvolti.

    Poco dopo lo shock lasciò il posto alla rabbia.

    Afferrò i documenti. Li posizionò davanti a sé in modo che potesse chinarsi e firmarli senza doversi sedere sulla poltrona.

    «D’accordo...», sibilò furioso.

    Prese una penna con ferocia e premette la punta sul primo foglio che beccò.

    Mi sarebbe mancato tutto di lui…

    «D’accordo...»

    L’inchiostro bagnò la carta bianca di un nero catrame sbavando in alcuni punti; non appena ebbe finito di compilare quella serie infinita di carte fu colto da un gesto di stizza e gettò la penna a terra, alla sua destra. Quella volta non sobbalzai.

    Si mise le mani fra i capelli, vicino alla fronte, e mi dette le spalle. Dondolò sul posto, avanzando lentamente verso la finestra dell’ufficio, mentre i suoi respiri affannati si confondevano col silenzio. Mi parve di sentirlo singhiozzare.

    Ingoiai il fiato e una lacrima scivolò giù dai miei occhi.

    «Lasciami solo...»

    Affondò il viso tra le mani. Pianse.

    Io non stavo dormendo.

    Non era un sogno.

    Stavo annegando sul serio.

    Sollevò la testa sempre in direzione della finestra. «Ho detto di uscire!», urlò. «Vattene

    Presi la copia firmata da sopra scrivania, la strinsi al petto e feci dietrofront. Con le guance bagnate e il fiato affannoso mi diressi verso la porta, uscii dalla stanza e accorsi verso la mia camera da letto.

    Non mi fermai. Continuai a camminare senza sosta, passo dopo passo dopo passo.

    Da quel giorno non tornai più indietro.

    *

    Corte Suprema dello Stato della California per la Contea di Santa Barbara, divisione di Santa Maria. Processo dello Stato della California contro l'imputato Michael Joe Jackson. Caso numero 1133603.

    Tenni stretto il telecomando della TV senza muovere un muscolo del corpo. Fissai lo schermo col cuore che batteva a mille.

    Ero seduta a terra, sul pavimento, con la schiena appoggiata al materasso.

    Verdetto numero uno. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole di cospirazione, come accusato nel primo capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    Trattenni il fiato.

    Verdetto numero due. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole di atto osceno su minore, come accusato nel secondo capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    Emisi un sospiro strozzato, dolorante.

    Nascosi la testa fra le ginocchia piegandomi in avanti.

    Tentai a fatica di smettere di piangere.

    Lo stesso verdetto venne dato anche per la terza, la quarta e la quinta accusa, tutte e tre riguardanti le principali accuse di pedofilia.

    Verdetto numero sei. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole di tentato atto osceno su minore, come accusato nel sesto capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    Non ricordo quanto rimasi lì ferma in quella posizione.

    Rimembro soltanto le grida dei fan, tutti raccolti in gruppo, che vibravano in aria e con esse anche il loro amore per Michael. L’attesa nei loro volti, quei visi congelati nei secondi precedenti ai diversi verdetti, si trasformava in uno scoppio di felicità ad ogni “non colpevole” emesso dal giudice.

    Verdetto numero sette. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole di somministrazione di un agente inebriante finalizzato alla commissione di un crimine, come accusato nel settimo capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    Ricordo loro mani alte in cielo, le loro lacrime e i loro abbracci. Un boato di giubilo che le telecamere avevano ripreso senza sosta e da più angolazioni e quei giornalisti increduli che non la smettevano di stare zitti, nemmeno in un momento come quello. I brividi causati dai sorrisi di chi amava Michael, dalle loro esclamazioni di vittoria, dalle parole del giudice, dalle colombe bianche che una donna bionda aveva liberato e fatto volare in cielo.

    Ad ogni sentenza in cui Michael veniva definito innocente, una parte di me respirava e moriva contemporaneamente.

    Verdetto numero otto, reato minore. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole della fornitura di bevande alcoliche a persone di età inferiore ai 21 anni, come accusato nell'ottavo capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    14 accuse, 14 verdetti di innocenza.

    Quando il giudice smise di parlare le telecamere ripresero l’uscita di tutti i presenti dall’aula. Chiusi la Tv non appena scorsi i capelli corvini di Michael, incapace di reggere la sua espressione.

    Non smisi di avere i brividi neanche dopo aver spento la Tv.

    Il cuore era sul punto di esplodermi in petto.

    Era finita.

    Il sollievo e quella gioia indescrivibile si erano spenti poco dopo la sua uscita da quell'edificio freddo e angustiante che era il tribunale.

    Ogni scusa era buona per rallentare il tempo che scorreva inesorabile, ma ad un certo punto era finalmente arrivata l’ora di dire addio a tutto. Le valigie erano pronte. Le telefonate per gli ultimi dettagli di viaggio pure. Mancava solo andarmene e, con la mia partenza, lasciare l’ultimo ricordo di me a Michael…

    Immaginavo già la sua reazione… quando avrebbe visto la busta e ciò che vi era al suo interno…

    Potevo sentire il corpo rabbrividire percependo la contentezza dei fan, mentre tutto ciò che ero si distruggeva in miliardi di pezzettini, e ogni pezzo che si staccava da me si trasformava in una lacrima; quando tutti i resti di me si erano depositati al suolo, ero rimasta immobile.

    Camminavo nel vuoto, sperduta.

    Respiravo perché non potevo far altro.

    Ero smembrata, sbriciolata, frantumata… ma resistevo ancora.

    Salii sopra il letto a gattoni. Il mio pigiama profumava vagamente di ciclamino. Ciclamino significa timida speranza, pensai senza emozione. Mi distesi, mi nascosi sotto le coperte e rimasi in quella posizione per ore.

    Quando la porta della mia camera si aprì io non mi mossi.

    Passi lievi risuonarono sul parquet della stanza.

    Mi si sedette accanto.

    Scoppiò a piangere nel giro di qualche secondo. Un pianto disperato, sollevato, stremato, vittorioso. Ero certa che le mani gli coprissero il volto ma io non potevo vederle, perché incapace di muovermi. Rimasi ad ascoltarlo senza liberare una lacrima.

    Poco dopo si distese al mio fianco e crollò in un sonno profondo, consumando l’ultimo tacito momento che ci rimaneva da vivere assieme.

    *

    Feci piano. Non si accorse dei miei spostamenti.

    Silenziosamente ero riuscita a lasciare la sua mano stretta nella mia, a portar fuori tutti i bagagli, a sistemare la busta nel suo lato del letto. Abbassai completamente la serranda per evitare che si svegliasse con la luce dell’alba. Ero riuscita a cambiarmi, a infilarmi scarpe e giubbotto e il tutto senza farmi udire.

    Dormiva come non faceva da mesi.

    Avrei voluto baciarlo, sentire il suo calore un’altra volta, ma la sola idea di farlo mi uccideva.

    Ero sicura che non mi avrebbe mai perdonato. Ero sicura che una volta digerito il dolore avrebbe covato soltanto odio nei miei confronti. L’odio era senz’altro meglio di quell’angoscia. E poi anche l’odio prima si sarebbe assopito e mi avrebbe dimenticato. Prima o poi sarebbe andato avanti e mi avrebbe pensato soltanto come un grande errore.

    Non voglio vivere senza di te.

    Con il naso che pizzicava e gli occhi lucidi esaminai quella busta sul suo comodino.

    Andarmene sarebbe stato il rimpianto e il dolore più grande che mi avrebbe accompagnato per il resto della vita.

    Avevo fatto quello che dovevo fare. Finalmente era salvo.

    Lasciai la stanza con l’odore del suo corpo impresso nella pelle.

    Era strano, quasi ironico, che l’ultimo giorno che avremmo speso insieme sarebbe stato proprio nel luogo in cui tutto era iniziato: il Neverland ranch. Dopotutto sarebbe stato anche l’ultimo giorno che Michael avrebbe speso lì prima di partire per l’Europa e l’Asia e non rivedere mai più.

    Abbandonai Neverland senza emettere una parola, senza restare ad ammirarla per un minuto di più. Salii in macchina e salutai con un cenno del capo gli uomini della sicurezza che gentilmente mi avevano aperto i cancelli, cercando di captare inutilmente una mia espressione nascosta dagli occhiali da sole.

    Quel vuoto che premeva nel petto divampò in ogni parte del corpo, tanto velocemente quanto la mia auto e i battiti del cuore, mentre il numero di chilometri che dividevano me e Michael si faceva sempre più ampio secondo dopo secondo.

    La mente scalpitava nel tentativo di cancellare ogni momento di me e lui assieme. I ricordi che volevo lasciare alle spalle, man mano che mi avvicinavo all’aeroporto, persero il loro colore e la loro nitidezza.

    Morii silenziosamente. In una resa lenta e spietata, precipitando in un vuoto senza luce.







    Fine.

    Seconda parte: The Rebirth.






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