The Wish

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    GENERE:
    Introspettivo, Romantico, Drammatico

    DATA DI CREAZIONE:
    08/01/2011

    DATA DI INIZIO RISCRITTURA:
    16/01/2019

    LUNGHEZZA:
    46 Capitoli

    PERIODO:
    Trial Era (2003-2005)

    PERSONAGGI:
    > Michael J. Jackson
    > Nuovo Personaggio (Sarah A. Morris)
    > Prince, Paris & Blanket Jackson
    > Altri personaggi

    COPERTINA:
    Creata dall'autrice ( fallagain )

    RATING:
    Rosso
    Presenza di contenuti non adatti a minori:
    - ampie e dettagliate descrizioni di atti sessuali;
    - contenuti forti e tematiche delicate ( racconto
    ambientato durante un processo per accuse di
    pedofilia, pur non presentando alcuna scena in
    cui venga descritto l'atto di per sé).
    - presenza di parole/linguaggio forte (imprecazioni)






    Capitolo Uno: L'Inizio

    È veramente strano come la vita prenda il suo corso, volente o nolente.

    È la carta su cui ognuno di noi butta giù la propria storia, parola per parola, secondo per secondo. E, nel mentre, non ci si rende quasi mai conto della bellezza che ci si lascia alle spalle.

    In genere, molti riconoscono il suo valore quando si trovano sull’orlo precipizio – la morte – o quando non si può più tornare indietro e rimediare all’irrimediabile. E poi ci sono i saggi, con il loro incredibile modo di vedere le cose, che si rendono conto di tutto sempre ben in tempo. Realizzano quanto la vita sia importante prima che la morte ci tolga la possibilità di amarla incondizionatamente. Questi saggi hanno ricevuto il dono della purezza, pensandosi anche solo fortunati per essere nati.

    E io credo che, ciò nonostante, siamo stati tutti uno di quei famigerati saggi. Lo siamo soprattutto quando siamo innamorati. Allora crediamo che tutto attorno a noi risplenda, che noi stessi - pur non vedendoci - risplendiamo; tutto ci sembra incantevole, perfino l’oscurità che risiede ancora nei cuori pieni di paure. In quel momento siamo vivi.

    La vita è bella quando si ama, quando questo sentimento è parte di ognuno di noi e della nostra quotidianità. Non importa il resto, tutto gira intorno all’amore. La vita si vive con l’amore.

    Mi chiamo Sarah Anne Morris, ma in questa storia mi conoscerete e sentirete parlare di me semplicemente come Sarah Morris, o ancora meglio, come Sarah e basta.

    Non sono affatto una di quelle modelle dal fisico provocante o tonico delle riviste, né una di quelle grandi ‘fiche’ tutta sorrisini e moine; non ho nobili origini e ancor meno talenti eccezionali o particolari che mi rendono speciale e diversa all’apparenza; non sono vergine, non sono alcolizzata né faccio uso di droghe e sigarette. Sono la tipica “insegnante modello”.

    Come già accennato non ho un fisico mingherlino e longilineo, anzi. Ho le gambe tornite e muscolose, la pancetta non propriamente inesistente, tutt'altro, e quei tre/quattro centimetri in più di cui non mi vergogno; ho la vita stretta, seno e fondoschiena ampi e un viso tondeggiante. I miei sono grandi – come il mio sorriso – di un colore verde brillante; le labbra sono carnose, i capelli castano rossiccio – mossi e folti – che al sole brillano di lucenti sfumature ramate.

    Sono nata il 25 gennaio 1975 in Italia, in una sperduta cittadina del Veneto. Nata da madre italiana e padre americano – entrambi benestanti – vissi con loro fino a quando non conseguii il diploma; il giorno in cui finirono i cinque anni di liceo classico non persi l’occasione per partire in America sotto l’ala protettiva dei miei zii, anche se di certo in Italia non mancavano le università per continuare gli studi.

    Una volta negli USA frequentai la Harvard, Boston. Riuscii ad ottenere ottimi voti e prestigio e in poco tempo e a ventisei anni – già parecchio avanti con gli studi –, trovai lavoro come insegnante di letteratura inglese presso una scuola privata non molto distante dalla mia università.

    Dopo nemmeno un anno di lavoro venni a sapere che una donna di mezza età, segretamente informata della mia bravura ed eccellenza accademica, chiedeva il mio contributo per l’educazione privata dei suoi figli adolescenti; quella signora si chiamava Liza Todd Burton, figlia non poco di meno di Elizabeth Taylor – oh sì, avevo sentito moltissimo parlare di lei, data l’ossessione di mia madre per i suoi magnifici occhi pervinca.

    Non incontrai mai Liz Taylor personalmente, se è questo che vi state chiedendo; io ero solo l’istruttrice dei nipoti Quinn e Rhys Tivey, perciò visitavo casa Burton soltanto nei momenti in cui mi era necessario insegnare. Il mio rapporto con quella famiglia era di rispetto, discrezione e privacy - e la cosa mi andava assolutamente bene, non chiedevo di meglio.

    Non durai molto neanche là – pressoché due anni – perché ricevetti una proposta da un certo signor Jackson. La mia stessa datrice di lavoro, la signora Liza, mi chiese se mi sarebbe piaciuto lavorare per un amico della madre, una persona di buon cuore.

    Forse dava per scontato che io avessi intuito di chi si stesse parlando, ma si sbagliava; ingenuamente credevo che si riferisse ad uno di quei VIP ormai sconosciuti, uomini di mezza età abbandonati dai fan dopo il periodo di successo fin troppo breve, con a carico degli adolescenti da tirar su.

    Quando la signora Burton mi offrì quella proposta su un piatto d'argento acconsentii senza mostrarmi titubante. Sembrava che ci tenesse molto a farmi accettare quel lavoro, addirittura pensai che volesse sbarazzarsi di me.


    Soltanto qualche mese più tardi avrei compreso quanto lei sarebbe stata importante per il mio futuro.

    *

    Ed eccomi qualche giorno più tardi, catapultata in una lussuosa limousine e vestita senza troppo sfarzosità, in viaggio verso il famigerato signor Jackson in un mite e soleggiato pomeriggio di Santa Barbara. Le mani congiunte sulle gambe accavallate, lo sguardo puntato al di fuori del finestrino oscurato; nonostante fosse autunno inoltrato, il calore dei raggi non dava l’impressione che l’inverno fosse alle porte.

    La limousine uscì dall’autostrada imboccando un percorso sempre più deserto, un panorama che pian piano si spogliava della sua ricca vegetazione. Si potevano scorgere i rilievi montuosi a distanza, dagli spigoli leggermente sfumati per via di un cielo non completamente terso e pulito.

    Era l’11 novembre 2003 e presto avrei conosciuto il mio forse-nuovo datore di lavoro, con cui avrei discusso dei miei forse-futuri compiti da insegnante.

    Sentivo quel familiare nodo alla gola tipico dei colloqui di lavoro, un misto fra speranza e paura dell’ignoto. I cambiamenti non erano il mio forte, anzi. Inutilmente cercavo di distrarmi ammirando le figure delle auto che passavano veloci dal senso opposto.

    Forse il signor Jackson abita in una casa piuttosto isolata – pensai fra me e me. Magari ama la tranquillità e disprezza la movimentata e caotica LA.

    Qualche chilometro più avanti il deserto aveva già fatto posto ad un panorama differente, un viale stracolmo di alberi dalle chiome giallastre lungo tutto il ciglio della strada; in quelli che a me parvero soltanto pochi minuti - totalmente persa nelle mie ansie e previsioni da colloquio imminente - questo ci guidò direttamente dinanzi a un’enorme recinzione in mattoni rossi, dove l’auto si fermò spegnendo il motore.

    Sobbalzai.

    Mi sporsi verso il finestrino opposto allentando la cintura di sicurezza, per scoprire qualche maggiore dettaglio sulla residenza. Notai immediatamente la statua di bronzo di una bambina con le trecce, pressoché di sei o sette anni, la gamba sinistra alzata in procinto di compiere un salto e le braccia spalancate verso l’alto.

    Mi ritrassi mordicchiando l'interno guancia.

    Era una strana statua, in effetti, così tanto da scatenare uno strano punto interrogativo nella mia testa.

    Ero curiosa come una cavalletta.

    Con due orecchie ritte come antenne e lo sguardo vigile, mi apprestai ad abbassare il finestrino pigiando uno dei tasti sulla maniglia della portiera. Mi bloccai nell'immediato, paralizzata.

    Si avvicinò un uomo basso e con la divisa nera. Pareva fosse in grado di vedermi anche attraverso il vetro oscurato, perché mi lanciò uno sguardo truce. Aveva il viso leggermente incavato e uno sguardo privo di allegria, un walkie talkie appeso alla tasca esterna della tuta e una sigaretta accesa fra le labbra.

    Anche se non poteva vedermi veramente mi sentii bollire le guance. Si rivolse al guidatore ed io accostai l’orecchio al vetro per ascoltare le loro parole con fremente interesse, intossicandomi leggermente con il fumo della sigaretta che entrava dal finestrino del conducente.

    «È la signorina Morris?», chiese l’uomo reggendosi alla portiera con una mano. Lanciò una rapida occhiata verso di me.

    «Sì, è lei».

    Evidentemente gli ospiti non erano ben accetti, perché lo sconosciuto in divisa aveva un tono piuttosto diffidente e cinico. Probabilmente questo signor Jackson non amava la compagnia o i visitatori di alcun genere - o forse si circondava di stronzi al posto di personale educato e cortese.

    «Bene», l'uomo si sistemò il cappellino nero sopra i capelli brizzolati. «Portatela presso la casa del signor Jackson. Ci penseranno le guardie a condurla da lui. Grazie per l’ottimo lavoro, puoi andare!», diede un colpo al cofano e l’autista rimise in moto.

    Sentii un forte boato metallico e capii che l’enorme cancello d'ingresso si stava aprendo. Quando il signore misterioso sparì dalla visuale, il guidatore rimise in moto l'auto e piede all’acceleratore. Ripartì di nuovo, stavolta con molta più calma.

    Non persi l’occasione per tirare giù il finestrino proprio nel momento in cui oltrepassammo il cancello. Solo allora riuscì a scorgere l’insegna in alto, anche se non nel miglior dei modi.

    “Never –" e qualcosa, una scritta a caratteri cubitali color oro.

    Con sguardo perplesso risollevai il finestrino, lasciando una piccolissima fessura per fare entrare l'aria pulita.

    Pensavo che Jackson fosse tutt'altro che un personaggio da prima pagina, perché quella non sembrava affatto la residenza di un attore o di un musicista di poco conto.

    Per quanto impossibile crederci, non seguivo affatto la Tv – il che aveva i suoi pro e contro. Non compravo giornali scandalistici, non amavo il gossip. Informarmi quel poco e giusto sui fatti di attualità nel mondo, quello sì. Ma non leggere i tabloid.

    La mia vita era piuttosto tranquilla rispetto al furore di LA. Ero la tipica ragazza sulle sue che coltivava poche ma buone amicizie, pur senza avere qualcuno a cui tenere particolarmente; inoltre, lavorando per Liza, avevo dovuto abbandonare la compagnia universitaria da molto tempo. Perciò ormai i miei svaghi ruotavano solo attorno a cinema, telefilm e documentari, a qualche passeggiata per parchi o per siti artistici che ritenevo belli e interessanti, al pianoforte e alla lettura un buon libro, magari accompagnata dal rumore delle spiagge di Los Angeles. Insomma, una vera e propria straniera in città più grande di lei.

    L’auto oltrepassò un altro lungo, immenso viale. Le chiome degli alberi si divertivano a giocare con il Sole creando magnifici effetti di luce e ombre. Le colline dai dolci lineamenti cedettero il palcoscenico a un lago, questo decorato da fontane dal getto d'acqua alto e scintillante.

    Sebbene supponessi che il signor Jackson non amasse gli ospiti, dovetti complimentarmi con lui per il maestoso ranch in cui aveva scelto di abitare.

    L’autista si fermò nelle vicinanze di un ponte. Un altro uomo – anch'egli vestito di nero – ci stava raggiungendo.

    Senza aspettare che mi aprisse la portiera scesi; il tizio accelerò il passo. Agganciando la borsa alla spalla destra dedicai un sottile «Grazie» all’autista, il quale annuì soltanto senza rivolgermi lo sguardo. Trattenni uno sbuffo spazientito.

    Il secondo uomo indossava un completo elegante, era piuttosto robusto, scuro di pelle e con capelli cortissimi, quasi del tutto rasati. Gli occhi erano scuri e luminosi, le labbra strette in una linea seria e perfetta. Era un armadio di lui, alto e con le spalle ampissime. Doveva essere sicuramente un bodyguard.

    Quando mi fu accanto mi strinse la mano con decisione (ma neanche la mia stretta fu tanto male).

    «Benvenuta signorina Morris. Prego, mi segua».

    «Grazie...».

    Costui fece retromarcia senza darmi ulteriori attenzioni e spiegazioni ed io lo seguii senza attendere oltre, cercando di stare attenta a dove mettevo i piedi mentre davo un'occhiata furtiva all’ambiente circostante.

    Credevo di essere in una favola. Alla mia sinistra vedevo il lago, lo stesso che avevo scorto dalla limousine, di un intenso color verde smeraldo; alla mia destra un prato attraversato da alcuni viottoli in sassi, costeggiati da rigogliosissimi alberi che non mi permettevano di indagare sulle altre meraviglie nascoste.

    Proseguimmo per il percorso in pietra e alla fine della strada ci trovammo dinanzi ad una casetta di legno e mattoni; era una residenza a due piani, punteggiata da numerose finestre e porte vetrate e costeggiata da giardini ben curati, con incantevoli aiuole dai tantissimi fiori rossi, gialli e lilla.

    Più che una “casetta”, quella era una villa.

    Avrei voluto fermarmi un attimo per osservare il tutto con calma e meraviglia, ma l’omone dinanzi a me non rallentò, neanche per controllare che lo stessi seguendo. Mi guidò alla porta principale e come se niente fosse entrò. Infine si scostò dall’entrata, tenendo la porta spalancata per lasciarmi passare.

    Una volta dentro le prime cose che mi colpirono furono il profumo e l’arredamento semplice ma di classe. Si respirava aria fresca, pulita – una strana essenza di sandalo che si fondeva con l'odore del legno pregiato e antico. Tutto era straordinariamente luminoso a causa dei lampadari di cristallo sopra le nostre teste, il parquet e i mobili erano lustrati come fossero appena comprati.

    Attraversammo un ampio e silenzioso corridoio e ben presto ci trovammo in salotto. Non feci tempo a dare un’occhiata all’arredamento principesco che fui subito attratta da tre persone, due delle quali sedute comodamente su un divano. C'era un uomo vestito in smoking e due bambini, rispettivamente un maschietto biondissimo e una femminuccia dai capelli ondulati e castani; quest'ultimi erano vestiti come due piccoli nobili, completo elegante per lui e abito in tulle per lei. Evidentemente erano loro, il padrone di casa e i figli.

    «Signor Jackson...».

    Mi fermai qualche passo dietro al bodyguard, incapace di muovere un muscolo. Il mio sguardo si puntò sull’uomo ritto in piedi, schiena rivolta verso di noi e testa abbassata sui suoi figli. I piccoli, che dapprima parlavano con fare eccitato al padre, mi guardarono interessati e improvvisamente ammutoliti.

    Anche il signor Jackson si voltò.

    Era un uomo snello, di corporatura magra ma non esagerata, i capelli lisci e neri e un vestito davvero raffinato, degno di un appuntamento di lavoro importante (e io che indossavo solo pantaloni neri e una camicetta bianca da quattro soldi). Il portamento era eretto e maestoso, le sopracciglia leggermente inarcate per la sorpresa. Indossava un paio di occhiali da sole che impedivano la vista sui suoi occhi.

    Lo percepivo scrutarmi con intensità ed io non fui da meno. Gli feci un rapido check-up, dal busto ai capelli, interrompendomi volutamente sul viso. Questo sorrise delicatamente.

    Credevo che fosse un uomo più anziano, più serio, e soprattutto più severo. Invece la sua espressione era tranquilla, non era affatto come me lo ero immaginato.

    Fu lui che mi venne vicino a gran falcate.

    Aveva un colorito piuttosto pallido e rosato, con delle labbra molto belle e marcate. Il naso era piuttosto fine e aveva una fossetta sul mento molto profonda. La pelle era perfettamente liscia, segno che si era fatto da poco la barba. Ed era alto pure lui, molto più di quanto avevo dedotto scorgendolo da lontano!

    Potei guardarlo negli occhi soltanto quando, lungo il tragitto dal divano all’entrata del salotto, si fu tolto gli occhiali. Li appese fra i bottoni della camicia e, con espressione serena ma interessata, si pose a neanche un metro dalla sottoscritta.

    Soltanto allora li potei osservare. Erano grandi, profondi e scuri. Quegli occhi erano luminosi. Li sentivo scavare dentro le profondità della mia anima quasi fossero in grado di spogliarmi dei miei vestiti.

    Forse fu il contatto diretto, forse la vicinanza, o forse quello stupido senso di nudità che sentivo, ma mi irrigidii sul posto. Cercai di essere il più naturale possibile anche quando mi porse la mano.

    «Piacere di conoscerla, il mio nome è Michael Jackson», disse vellutato ma deciso.

    Non smise di fissarmi neanche un secondo, nemmeno quando abbassai gli occhi arrossendo.

    Evitai di scoppiare a ridergli in faccia per la sua battuta. Era anche divertente, glielo dovevo concedere!

    Non che io mi ricordassi bene come fosse Michael Jackson, ecco. Come già detto non ero a conoscenza delle ultime news riguardo le superstar. Conoscevo alcune sue canzoni molto belle, ma l’ultima volta che lo avevo visto chiaramente era - se non erravo - in qualche spot o video musicale degli anni 90.

    «Che c’è...?», chiese mostrando i denti.

    Non solo aveva dei bellissimi occhi, ma anche un sorriso talmente grande che pareva arrivare da un orecchio all’altro. Non era affatto male pur non essendo il mio tipo ideale; aveva il tipico fascino da uomo maturo che piaceva tanto a me, ma non lo vedevo come uomo dei miei sogni.

    Tuttavia non era così sveglio da capire che avevo inteso il suo gioco di parole. Era evidente che stesse dicendo che era Michael Jackson per via del cognome uguale a quello della star mondiale, non ero così scema!

    O almeno così credevo.

    Risi leggermente. «Lei è Michael Jackson?», issai di poco le sopracciglia.

    Lui divenne serio, aggrottò la fronte e strinse la bocca con fare confuso. Il mio sorriso scomparve ogni secondo in cui la sua serietà diveniva maggiore. Mi chiesi se si fosse offeso per la mia risatina ironica o se invece fossi stata io ad aver detto o pensato a qualcosa di sbagliato.

    Un attimo dopo e scoppiò a ridere. Una risata cristallina e innocente.

    «Be’, ...», disse toccandosi la fossetta sul mento con pollice e indice. Era quasi imbarazzato, ma non riuscivo a capire il perché. Incatenò il suo sguardo al mio. «Io sono Michael Jackson, e non sto scherzando».

    Se dapprima sghignazzavo pensando che il signor Jackson possedesse un gran senso dell’umorismo – e anche un po’ di ingenuità – in quell'istante capii di essere io la vera cretina di turno.

    Chissà come mai, tutt’un tratto, non dubitai delle sue parole.

    C’era una frase che volteggiava ad alta voce nella mia testa e che non la smetteva di prendermi in giro. E quella frase era: «Brava, Sarah, complimenti per la tua prima, meravigliosa figura di merda».




    Edited by fallagain - 1/4/2021, 21:51
     
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    Capitolo Due: Il Colloquio

    Che grande figura di merda. Lo sapevo che sarebbe finita così.

    Mi ero preparata come si deve per un colloquio senza figuracce e alla prima occasione sbagliavo a causa di un dettaglio a cui non avevo dato peso: il mio forse-futuro capo era Michael Jackson.

    Che gioia sarebbe stata scoprire che il vostro datore di lavoro era famoso in tutto il mondo o il vostro idolo! Io, invece, desideravo scomparire dalla faccia della Terra e lasciarmi indietro quella grande entrata in scena che soltanto io avrei potuto fare.

    Al contrario di me, che continuavo a darmi dell'idiota mentalmente, il signore che mi stava di fronte era partito a ridere come un pazzo.

    Mi aveva guardato seriamente – forse pensando che gli stessi mentendo, o che avessi un qualche grosso problema mentale –, le mie guance si erano tinte di rosso scarlatto e Jackson si era messo a sghignazzare rumorosamente davanti alla mia espressione esterrefatta. Aveva unito le mani e se le era posate sul petto, molleggiando avanti e indietro con lentezza, guardandomi come se avesse appena visto la cosa più buffa della sua vita. Perfino il suo bodyguard, rigido come un palo, lo aveva adocchiato perplesso.

    Il viso era un palloncino rosso, i miei occhi strabuzzati e la voce svanita totalmente.

    Una cosa mi colpì a discapito di tutto: aveva davvero una bella risata. Strana, è vero, e anche piuttosto acuta. Molto simile alla risata di una mia nonna, quella defunta.

    Non sto facendo la sarcastica o la macabra, quella di mia nonna Angela era davvero una risata contagiosa! Sentire quella di Michael Jackson mi avrebbe fatto morire, se la condizione del momento fosse stata molto meno professionale.

    «Oh Dio», si ricompose con uno o due colpetti di tosse. Udii i suoi bambini mormorare fra loro, curiosi e ignari del perché loro padre stesse ridendo così tanto. «Davvero strano che tu non sappia chi sono... davvero...», il suo sguardo si fece cupo. Un attimo di pausa e continuò bagnandosi le labbra. «Comunque, prego!», mi dette cenno di avanzare verso il divano.

    Usava un tono molto confidenziale, quasi fossi una vecchia amica che si fa risentire dopo anni e anni di lontananza. Forse si era sciolto a causa della mia figuraccia, forse era così di natura: fatto stava che mi sentivo nervosa da morire.

    Anche se convinta che un clima più amichevole sarebbe stata la cosa migliore per tutti, mi sentivo fredda come il ghiaccio.

    Ci accomodammo insieme, uno di fronte all’altra. Il bimbo era seduto alla destra del padre; aveva due occhi scuri quasi come quelli del genitore, aria scrutatrice e intensa, severa addirittura. La bambina aveva grandissimi occhi azzurro/verde, anch'essi molto profondi e osservatori, labbra sottili e nasetto perfetto. Sedeva alla parte opposta del fratello. Pensai subito che fosse una bimba bellissima, intelligente e dal carattere furbetto.

    Sorrisi a entrambi e loro ricambiarono con discrezione. Dedussi che non fossero molto grandi, forse sui sei o sette anni.

    «Ti presento i miei figli», il signor Jackson mi sorrise delicato. «Lui è Prince, ha sei anni e ha iniziato la seconda classe. Invece lei è Paris, ha cinque anni e frequenta il primo anno. Salutate la signorina Morris», lì invitò.

    «Buongiorno signorina Morris».

    Paris mostrò i denti apertamente. Sembrava che non vedesse l’ora fare amicizia. Prince, invece, si dondolava avanti e indietro con fare un po’ annoiato.

    «Papà», chiese la piccola. «Possiamo fare qualche domanda alla signorina?»

    Dovevano essere stati educati molto bene. La cosa mi lasciò stupita, erano pochi i bambini che chiedevano ai loro genitori di fare qualcosa in quel modo così docile e gentile. Era perfettamente conscia della situazione in cui si trovava.

    «Se la signorina Morris vuole, certo che puoi», mi scrutò intensamente.

    Ricambiai lo sguardo e riposi gli occhi sulla bimba nel giro di mezzo secondo, la quale mi analizzava con espressiva trepidanza.

    «Puoi farmene quante ne vuoi», le feci un timido occhiolino.

    I bambini hanno una caratteristica molto particolare: sono in grado di farti domande schiette e sincere, richieste capaci di stupire la persona che si trova davanti; i bambini non formulano le loro frasi valutando pro e contro, non sempre; loro chiedono, ignari e innocenti, e si aspettano soltanto una risposta altrettanto sincera.

    Paris si sistemò più comodamente sul divano, sporgendosi in avanti.

    «Come ti chiami, signorina Morris?».

    «Puoi chiamarmi Sarah, Paris».

    «Grazie», gongolò imbarazzata, «e quanti anni hai?»

    Ridacchiai notando l’espressione del padre che la puntava titubante.

    «Ne ho 28».

    Ignorai la reazione del signor Jackson, improvvisamente incuriosito e puntato sulla sottoscritta

    «Davvero?», Paris sollevò le sopracciglia. «E quando compi gli anni?»

    «Il 25 gennaio, e tu?».

    «Il 3 aprile». Poi guardò il fratello e successivamente il papà. «Invece Prince il 13 febbraio, mentre papà il 29 agosto...»

    «Davvero?».

    Durante le chiacchiere con Paris, notai che Prince non aveva un carattere molto aperto con gli estranei. Era evidente che preferisse e amasse ascoltare. Probabilmente il suo era un carattere inizialmente introverso.

    «E da dove vieni?».

    «Sono di origini italoamericane. Adesso abito a Los Angeles, proprio nelle vicinanze dei bambini a cui insegno».

    «Quindi se diventerai la nostra maestra vivrai a Neverland con noi?»

    Non capii il riferimento a Neverland – l’Isola che non c’è – ma poi realizzai. I conti tornavano vista la scritta all’entrata del maestoso ranch. Non seppi che risponderle, perciò dissi la verità senza tanti giri di parole.

    «In realtà io e il vostro papà dobbiamo ancora parlarne» e formulai la frase al plurale per coinvolgere Prince.

    Paris fissò il signor Jackson eloquentemente. Lui la studiò di rimando e, accorgendosi del mio sguardo fisso sul suo viso, si affrettò a rispondere.

    «Paris, Prince, credo sia meglio che andiate» disse posando le grandi mani sulle loro spalle minute. «Io e la signorina Morris dobbiamo discutere di tante cose, fra queste anche dove vivrebbe se gli accordi venissero presi. Più avanti le farete tutte le domande che vorrete, ok?».

    I bimbi annuirono e si alzarono in un batter d'occhio; si avvicinarono, mi salutarono con le loro ditina sottili e si volatizzarono accompagnati dalla guardia del corpo.

    Osservai la popstar seguire i figli con gli occhi, fino a quando entrambi non scomparvero dalla sua vista. Traboccava di adorazione per quelle due creature.

    Mi squadrò e attese circa tre o quattro secondi prima di spiccicare parola. Ciò nonostante non distolsi l'attenzione; capii che più mi stava lontano, più riuscivo a guardarlo in faccia senza dover mirare altrove.

    Strano, vero? Eppure standogli vicino percepivo tensione. Non per timore o ribrezzo, ma per quella stupida sensazione di sentirmi messa a nudo.

    «Sono felice che tu abbia accettato di venir qui, per discutere del posto che ti vorrei offrire», disse umettandosi il labbro inferiore.

    Esaminai con vigile cura ogni sua mossa. Era fin troppo confidenziale per un primo colloquio di lavoro, per i miei gusti. Che mi stesse testando?

    Abbozzò una risata. «In effetti, uhm... mi stupisce che tu non sappia chi sono», si accigliò aspettando spiegazioni.

    Esalai un sospiro divertito. Chinai gli occhi per un secondo. «Liza Burton, la mia datrice di lavoro, non mi ha accennato alla sua vera identità. Mi ha detto che la proposta arrivava da un certo signor Jackson, ma non credevo fosse... Lei», borbottai gesticolando.

    «Ma non mi hai nemmeno riconosciuto quando ti ho detto che sono Michael Jackson», continuò arcuando un sopracciglio rispetto all'altro.

    Ne ero certa, mi stava facendo domande per capire se la mia reazione di poco prima era stata onesta o recitata.

    «Io sono una persona un po’ fuori dal mondo», dissi con risatina ironica ma sincera. «So poco e niente del mondo dello spettacolo. Non guardo spesso la Tv e non compro giornali, non quelli scandalistici. Mi ricordo di Lei dagli anni 80 e 90, perché era l'idolo delle masse e perché piacevano alcune sue canzoni, ma non sono mai stata una fan».

    Il mio discorso era stato così schietto che, finito di parlare, mi chiesi se non fossi stata un po' brutale. Poteva sembrare che parlassi così perché irritata dal tuo tono indagatore, ma in realtà ero solo molto diretta. Non ero tipo da mentire, non ero affatto brava in quello.

    Mi affrettai ad addolcire il tono della conversazione.

    «Mentirle non sarebbe un atto saggio. Teme che le stia mentendo, per questo credo che essere onesta sia la cosa più sensata da fare. Io...»

    Stavo parlando a vanvera. A Michael Jackson non interessavano le mie ipotesi e constatazioni, perché mi stavo trasformando in un vecchio giradischi?

    Egli mi fissò accuratamente. Teneva una gamba accavallata sull’altra e il braccio opposto disteso sopra di essa, schiena aderente alla poltrona in posizione rilassata. Mi fissava imperturbabile. Forse per quello mi sentivo così nervosa.

    Stava riflettendo sulle mie parole.

    Più qualcuno dubitava di me, più io dovevo spiegarmi – e questo non era sempre una buona cosa.

    Sorrise e si accigliò. «Sei un po’ permalosa, vero?»

    Avvampai, ma non fui in grado di dire nulla a mia discolpa. Lui ridacchiò ed io mi feci ancora più piccola.

    «Non è solo questo...», ribadii. «Ci tengo a dire la verità».

    Il signor Jackson smise di sghignazzare e mi scrutò socchiudendo gli occhi, mantenendo un sorriso quasi invisibile. «Ti credo. Purtroppo devo stare attento a chi ho di fronte, soprattutto quando si parla di affidare i miei figli a qualcuno».

    Questa volta lo guardai comprensiva. Doveva essere un padre molto protettivo e sicuramente doveva aver ricevuto parecchie batoste nella vita per assumere un’espressione così triste.

    «Non credere che non mi sia informato sul tuo conto. Liza afferma che tu sia meritevole di fiducia e lei è mia amica, figlia di una delle vere e poche donne che mi sono state accanto nella vita. Liz Taylor, sua madre, è stata una compagna di giochi e una persona fedele, pronta a testimoniare la mia innocenza in qualsiasi occasione...»

    Non capii molto dell'ultima frase ed infatti si fermò ad osservare il mio cipiglio dubbioso.

    Rise senza divertimento e mi lanciò un’occhiata sconsolata. «Scommetto che non sai neanche delle accuse sul mio conto...»

    Dissentii percependo un senso di angoscia nelle vene.

    Sollevò un sopracciglio. «Per il mondo io sono un pedofilo».

    Silenzio tombale.

    Ogni mio pensiero si annullò momentaneamente.

    Aspettai che continuasse. Chinò lo sguardo e riprese.

    «Alcuni anni fa sono stato accusato di essere un molestatore di bambini. Dopo dieci anni, un altro bambino si è presentato al mondo ribadendo che lo sono. Ora... vuoi chiedimi se sono una persona così?», mi domandò fissandomi e bagnandosi la bocca, soffocando emozioni che non potei comprendere.

    Aveva la tempesta negli occhi.

    Senza aver ben compreso in che cavolo di situazione mi fossi cacciata, glielo chiesi. La mia voce era titubante. Temevo che la risposta potesse essere affermativa, ma non credevo che avrebbe confessato il vero se mai lo fosse stato.

    «No, certo che non lo sono!», esclamò in tono esausto, scuotendo il capo veemente. Si stava contenendo; parlare di quel fatto lo nuoceva più di quanto cercasse di nascondere. Gesticolò visibilmente. «Le persone si divertono a dirlo da una vita! Vogliono i miei soldi... vogliono rendermi un mostro di fronte a tutti. Mi hanno perseguitato per anni ed è probabile che mi troverò ad affrontare un processo che mi metterà in seria difficoltà. Se la verità non verrà fuori, finirò in prigione... non rivedrò mai più i miei figli», le parole si spezzarono in gola.

    Un senso di pesantezza mi puntigliò la testa. Di primo acchito pensai che stesse soffrendo veramente; anche se il dubbio c’era ancora, palesemente direi, in quel momento non fu difficile concedergli il beneficio dell'incertezza.

    «Non voglio che le persone mi procurino altro dolore, soprattutto non voglio che facciano del male ai miei figli. Che mi uccidano, che mi impicchino o che mi picchino fino alla morte, ma loro non si toccano», disse premendosi il palmo della mano destra sul cuore, guardandomi con intensità sbalorditiva.

    La mia attenzione non morì un istante.

    «Perciò perdonami» continuò dopo qualche secondo di silenzio, calmandosi. «Mi dispiace se ti ho offeso in qualche modo. Non è facile credere a uno che è accusato di pedofilia, ma neanche per me dev’esserlo fidarmi di te».

    Non lo guardai. Meditai adocchiando le mie dita allacciate in grembo.

    «In realtà non so cosa pensare...». Alzai la testa. «Non credo che sia così falso da mentire su un reato come questo, ma di persone bugiarde ce ne sono tante. Non mi sento di giudicarla, non ora, e Lei ha ragione: la fiducia la si acquisisce solo vivendo. Nel caso in cui decidessi di non accettare questo lavoro e io diffidassi di lei, come lei di me, le nostre strade si divideranno così come si sono incrociate. Non sono persona che usa la stampa per diffamare, anche perché non saprei comunque a chi rivolgermi, visto la mia scarsa attenzione verso di loro».

    Sorrise mesto, lasciando per un attimo il rancore alle spalle. Feci lo stesso.

    Batté i palmi sulle ginocchia distese. «Il suo curriculum! Me ne stavo dimenticando».

    «Oh, non si preoccupi», proruppi prima che si alzasse.

    Presi quel dannato insieme di fogli dalla borsa al mio fianco. Glieli consegnai con mano ferma. Li guardò. Mi fissò confuso.

    «Questo non è il curriculum».

    Mi sentii male.

    Il signor Jackson si mise a ridere. Michael Jackson sghignazzò sotto il mio sguardo attonito.

    «Scherzo, non ti preoccupare...», negò con il capo e lesse il CV, serio ma con quel che rimaneva di un sorrisino soddisfatto.

    Internamente tirai un sospiro di sollievo.

    Sembrò che il tempo non passasse mai. Lo osservai a lungo, trattenendo uno spasmo divertito; sicuramente portava gli occhiali da vista, perché teneva i fogli fin troppo distanti dagli occhi e li strizzava come un pazzo. Quando tornò a me, mi passò in rassegna con un’altra occhiata esaminatrice. Il colloquio vero e proprio era iniziato.

    Si umettò il labbro inferiore abbassando gli occhi scuri sul curriculum. «Disponi di una laurea in lettere con il massimo dei voti e qualche specializzazione in fatto di psicologia infantile e linguistica. Hai detto che sei italoamericana?»

    «Sì, esatto. Sono qui da quasi undici anni, ma sono nata e cresciuta in Italia. Ho frequentato la Harvard, il corso per diventare insegnante, e nel mentre ho seguito altri corsi e master di breve durata».

    «Mmh-mmh...» annuì meditabondo, «non mi meraviglio del perchè Liza ti abbia scelto. Hai ottenuto il massimo dei voti in tutte le materie? Comprese quelle in cui non eri specializzata?»

    «Sì, tutte».

    Mi puntò. «Parlami dei lavori che hai svolto».

    Gli spiegai tutto per filo e per segno, compresi la gavetta fatta per riuscire a pagare almeno una parte della retta universitaria e non dipendere completamente dai miei zii e dai miei genitori. Dettagli noiosi sicuramente, ma di certo non il modo in cui mi studiava. Non riuscivo a fissarlo per più di un minuto senza rischiare di perdere la concentrazione. Era terribile sentirsi continuamente sotto osservazione, non avere il libero controllo delle proprie azioni, ed era una cosa che non mi capitava più tanto spesso.

    Finito il discorso sulla mia istruzione e sul lavoro, passò a chiedermi cose decisamente inaspettate: gli argomenti di psicologia che preferivo, domande di cultura generale. Cercava di capire i miei gusti e il mio livello di conoscenza. Mi fece anche domande apparentemente difficili, ma molto specifiche; era interessato in particolar modo alla storia antica e alla pedagogia.

    Scrutò il curriculum un'ultima volta e lambendosi la bocca me lo riporse.

    «Pensi di essere in grado di istruire i miei figli?».

    Un attimo di silenzio. Sbattei le ciglia lentamente. Il signor Jackson attese paziente la mia risposta, cosa che avvenne solo cinque secondi più tardi, mentre io cercavo le parole adatte per una domanda superficialmente scontata. Di certo non si poteva dire che fosse una persona priva di intelligenza.

    «Non posso essere sicura di niente» affermai, «posso solo fare del mio meglio. Non mi piace considerarmi un'eccellenza in quello che sono e se un giorno Lei o i suoi bambini vi stancherete dei miei metodi di insegnamento o, uhm... o non ci saranno progressi nell'istruzione dei suoi figli, allora mi riterrò incapace di aiutarli. Fino ad allora non do nulla per scontato».

    La mia voce era quasi un sussurro, ma non per questo titubante. Ero decisamente più distaccata di lui, lo si notava dal tono di voce e dal tipo di approccio che utilizzavo.

    Nessuna risposta. Dopodiché sorrise. Sembrava contento della mia affermazione, perciò trassi un respiro di sollievo interiore.

    «Allora ci vediamo fra due settimane, che ne dici?», chiese con un risolino derivato dalla mia espressione basita. «Non ti dispiace il 24 novembre, vero? Quel giorno scadrà il contratto con il maestro che andrai a sostituire e sarebbe meglio non far perdere loro lezioni». 1

    «Oh no, per me non c’è nessun problema!», esclamai energicamente. In tal modo avrei potuto compilare e consegnare i moduli del licenziamento senza fretta, oltre che cercare un posto più vicino in cui abitare.

    Entrambi ci sollevammo in piedi. Mi venne accanto e mi strinse la mano.

    «Ti farò firmare il contratto il primo giorno di lavoro», disse in tono più soffice.

    Si sciolse la stretta. «Grazie di cuore».

    Mostrò un sorriso delicato. «No, grazie a te».

    Mi adocchiò a lungo. Presi la borsa dal divano con un certo impaccio.

    «Vieni», mi indicò l’uscita dal salotto con un dito. «Ti accompagno».

    «Non serve, davvero. Mi ricordo la strada», dissi senza esitare. «Non c'è bisogno che si disturbi».

    Mi guardò sbigottito, quasi perplesso, ma annuì rispettosamente. Si bagnò per l'ennesima volta la bocca e si dondolò per qualche secondo sulle punte dei piedi come un bimbo. Tutte quelle pause mi mandavano in palla.

    «A presto», dissi interrompendo il silenzio. Mi fissò senza rispondere. Arrossii. «E grazie ancora».

    Chinai la testa in segno di gratitudine e saluto. Mi diressi verso la porta d’uscita e, sotto l'arco che portava al corridoio principale, mi sembrò di averlo sentito parlare. Mi voltai spaesata. Fece un espressione del tipo "Che c’è?" e imbarazzata non seppi cosa dire.

    Mostrò i denti e il suo grande sorriso. E questa volta – lo giuro – lo sentii chiaramente.

    «Arrivederci... signorina Morris».

    Ricambiai chinando il capo una seconda volta e gli diedi le spalle. In un secondo avevo già percorso il corridoio e messo mano sulla maniglia, nell’atto di aprire la porta d'ingresso.

    L’aria fresca sciolse immediatamente ogni muscolo irrigidito e raffreddò il rossore sulle gote. Ero scombussolata. Non ci potevo credere.

    Con la testa fin troppo persa nel vuoto, in pensieri e parole offuscate, mi diressi verso la limousine che mi aspettava distante, dando un'ultima fugace occhiata a quella dimora di favole e fiabe.




    1. Il giorno del colloquio è l’11 novembre 2003. Nella mia testa, viste le accuse di pedofilia su Michael, il precedente insegnante decide di licenziarsi. Questo è il motivo per cui Sarah viene chiamata in quel periodo e non prima. Inoltre, c’è un perché ho scelto il 24 novembre come data di inizio: il 20 novembre Michael venne arrestato (e rilasciato su cauzione) dalla polizia.


    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:05
     
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    Capitolo Tre: La Bambina Sperduta

    Non mi definisco insegnante nel vero senso della parola. Per dirla meglio, non mi definisco una maestra che fa il suo lavoro e, una volta finita l’ora di lezione, torna a casa come se fosse niente, felicemente soddisfatta per aver spiegato due o tre cose ai suoi alunni. Per me il termine maestro è molto di più.

    L’insegnante è colui che cerca di interagire, che tenta di instaurare un rapporto di rispetto reciproco e divertimento senza che il suo ruolo venga mai sottovalutato – senza che nessuno dei presenti venga sottovalutato.

    Diciamo che per me l’insegnante è simile ad un maestro di vita: racconta le sue esperienze e aiuta i suoi allievi a guardare al futuro, preparandoli ad affrontare le situazioni più belle e le più difficili.

    Non molti capiscono l’importanza della conoscenza – quanto mi piace questa parola, conoscenza, proprio come la canzone di Janet Jackson. Questo termine non è soltanto legato all'istruzione, ma anche alle questioni di vita più importanti, profonde, come l'amore e il rispetto. Ogni persona – i giovani più di ogni altro – devono conoscere certi valori morali affinché possano metterli in pratica. Conoscere può aiutare l'uomo del domani a essere sensibile, se davvero sa apprendere e lavorare su se stesso.

    Se si insegna a un bambino a maltrattare gli altri, quando farà le sue prime esperienze di vita crederà che i suoi atteggiamenti siano giusti, e perciò le uniche conoscenze che avrà saranno soltanto quelle di schernire o trattar male chi gli sta intorno.

    La conoscenza non deve riguardare soltanto le materie scolastiche, ma anche quelle sociali ed emotive. Ai bambini devono essere insegnanti i principi, per trasformare questo mondo perverso e fuori controllo in un posto migliore. Bisogna dare, ma non farsi calpestare. Bisogna essere gentili, ma non essere malleabili.

    Ovviamente ognuno sceglie cosa fare della propria vita e come comportarsi, ma credo che se si dà un buon esempio c’è una possibilità che i bambini crescano con maggior sensibilità e bontà, qualità necessarie per portare la pace in questo piccolo apparente inferno. E quale luogo può essere migliore della scuola? La scuola non dovrebbe essere noia e disturbo: dovrebbe essere una guida, un’ispirazione.

    Per quel che mi riguarda, faccio del mio meglio.

    *

    E all’improvviso, in un lunedì di Sole splendente, mi ritrovai davanti ai cancelli di Neverland. Io alla guida della mia auto e non la passeggera ansiosa di qualche settimana precedente.

    Quell'ingresso era così bello che non riuscivo a distogliere lo sguardo; modellato in ferro – o acciaio, forse – color verde bottiglia, era ornato da magnifiche rifiniture dorate. Al centro uno stemma rappresentava un leone con una corona sul capo e un unicorno – appoggiati uno di fronte all'altra sopra un simbolo che non riuscivo bene a decifrare, troppo scintillante a causa dei raggi solari. Sopra al cancello, più in alto del "Neverland" a caratteri cubitali, c'era un altro stemma: "Michael Jackson" e una corona rossa e oro appoggiata sulla scritta.

    A colloquio finito non avevamo parlato dell’ipotetico orario da rispettare. Non seppi come, ma un dipendente (un manager, forse?) di Michael Jackson era riuscito ad avere il mio numero e a telefonarmi, comunicandomi di presentarmi alle 8 in punto per le lezioni.

    Un uomo sbucò da oltre il cancello, lasciandolo socchiuso, e si avvicinò alla mia macchina. Era lo stesso tizio che mi aveva fissato con aria truce la volta precedente. Lo scrutai con silenziosa discrezione e questo mi si avvicinò con sguardo imperturbabile. Abbassai il finestrino.

    «Lei è Sarah Morris?», chiese quando mi raggiunse, appoggiandosi al finestrino abbassato con una mano esattamente come aveva fatto la volta precedente. Mi squadrò ed io feci lo stesso, sulla difensiva per quel suo atteggiamento freddo e indagatore.

    «Sì, sono io».

    L’uomo estrasse un walkie talkie dall’enorme tuta nera che indossava, si allontanò un po’ e disse qualche parola biascicata a non sapevo chi. Stetti ad osservarlo e lui ricambiò con altrettanta risolutezza.

    «Vada sempre dritta» disse quando terminò la conversazione al walkie talkie, «dopodiché segua le rive del lago fino alla residenza principale, la stessa della prima volta. Dal parcheggio prosegua dritta, a piedi, verso la villa».

    Annuii, ma in realtà non ci avevo capito niente. Sapevo che mi sarei persa e quel uomo di certo non aveva né la voglia né la pazienza di spiegarmelo una seconda volta. Lo si vedeva in faccia. Si allontanò dalla portiera, aprì il cancello del tutto e mi lasciò passare.

    Proseguii seguendo le indicazioni che mi aveva indicato. Mi persi, ovviamente, ma ce la feci.

    Arrivata al parcheggio per gli ospiti spensi l’auto e tirai un sospiro di sollievo. Mi sembrava di aver fatto una maratona. Scesi e presi la mia roba dal sedile accanto; mi guardai intorno e ricordai la piccola salita percorsa la volta precedente, quella che mi avrebbe portato alla residence principale.

    Inutile dire che, a parte lo stupore per la bellezza che regnava incontrastata, era dato di fatto che fossi in ritardo. Diciamo che come primo giorno di lavoro non partivo molto bene.

    Camminai a passo spedito e pregai che qualche impegno improvviso avesse trattenuto il mio capo più del previsto, ma non mi dava l’idea del ritardatario.

    Quando raggiunsi il villino rimasi a contemplarlo per qualche istante. Era la più bella casetta che avessi mai visto... ok, reggia. Era quasi più bella di tutte le dimore dei cartoni Disney. Grandi vetrate e finestre a muro, mattoni arancioni incastrati perfettamente trai serramenti di legno color di noce.

    Arrivata dinanzi alla porta d’ingresso trassi un profondo respiro, seppur con difficoltà, a causa del fiatone. Suonai il campanello e attesi che qualcuno venisse ad aprirmi. Sentii un trillo vivace, fin troppo allegro per un citofono normale. Una signora venne alla porta.

    Era una donna piuttosto giovane – sulla trentina o quarantina - e scura di pelle. Aveva i capelli corti e ricci, occhi neri come il carbone; aveva labbra piuttosto carnose e un naso leggermente grosso. Era vestita con un paio di jeans e una maglia a maniche lunghe, celeste. A primo impatto la considerai una donna gentile e di bell’aspetto.

    Sorrise gentilmente.

    «Lei è l’istitutrice di Paris e Prince, vero?», domandò senza togliermi gli occhi di dosso. Sembrava dolcemente incuriosita dalla mia persona.

    «Sì, sono io», risposi con voce bassa, annuendo.

    La prima cosa che pensai, ingenuamente, fu che fosse la moglie o la fidanzata di Jackson.

    «Piacere», disse porgendomi la mano. «Io sono Grace Rwaramba, la tata dei due bambini. Ma prego, entri... la stanno aspettando con ansia».

    E ti pareva che sbagliavo anche questa...

    Mi fece entrare serrando la porta non appena oltrepassai la soglia. Non ebbi il coraggio di chiederle se il signor Jackson fosse presente quel giorno - più che altro, appunto, per firmare il contratto di lavoro come concordato al nostro primo incontro.

    Con un dolce «Prego, mi segua» non appena mi fui tolta la giacca, appoggiando quest'ultima su un appendiabiti vicino, mi condusse al primo piano salendo una scala scura e lucida. Proseguimmo per il corridoio di destra, un altro svicolo più in là a sinistra, e si fermò davanti alla prima porta che incrociammo. Mi lasciò passare per prima.

    Immediatamente fui colpita dalla freschezza e dal candore di quella stanza. Aveva pareti bianche come la neve, un terrazzo con ante socchiuse che dava direttamente sul giardino anteriore della villa – quello che non avevo ancora avuto la possibilità di scoprire – e mobilia in legno chiaro. C'era una libreria di medie dimensioni proprio a sinistra della porta, un grande tavolo in tiglio proprio al centro della stanza, quattro sedie, un armadio con molti cassetti e una lavagna. Non era immensa come il salotto, ma sarebbe bastata per soli due alunni e un'insegnante. In più, ad abbellire il tutto, il pianoforte. Sentii l'impulso di avvicinarmi e suonare qualcosa, ma mi trattenni con intima e silenziosa forza.

    I due bambini, Prince e Paris, erano seduti al tavolo con libri e quaderni aperti. Non appena mi videro mi salutarono con le loro piccole mani, entusiasti del mio arrivo. Paris, soprattutto, sembrava felice di vedermi. Salutai di rimando.

    «Vi lascio lavorare in pace, vado nella stanza dei bambini a controllare Blanket... il loro fratellino» disse specificando chi fosse, captando la mia perplessità di fronte alla parola “Blanket”. Che strano nome per un bambino. «Il signor Jackson verrà a farvi visita al suo ritorno, poco prima della pausa pranzo».

    Grazie a Dio era fuori.

    Nei giorni precedenti avevo pensato molto a lui, a quello che mi aveva detto e alle occhiate intense che mi aveva rivolto, probabilmente le stesse che rivolgeva a chiunque. Pensai a quando mi aveva detto che era un pedofilo e non riuscivo a darmi risposta. Non sapevo dove trovare la risposta. E non nego che non avere certezze era un’altra di quelle cose che mi mandavano letteralmente in bestia.

    L’unica cosa che potevo fare era ignorare quei continui affilati interrogativi che invadevano la testa come una tortura. Di certo non sarebbe stato piacevole lavorare con un molestatore, ma... ecco, volevo concedergli il beneficio del dubbio. In apparenza sembrava tutto il contrario di un pedofilo, ma forse mi sbagliavo.

    Speravo di non sbagliarmi.

    «E mi raccomando, bambini, fate i bravi!», proseguì la tata rivolgendosi ai piccoli con un’occhiata di benevole raccomandazione, destandomi dalle mie riflessioni.

    Loro annuirono, salutandola e mandandole tanti bacini con le dita. Lei si agitò nel tentativo di prenderli e, una volta "catturati", se li pose sul cuore. Sorrisi intenerita e la salutai con cenno del capo.

    Non appena chiuse la porta, la lezione iniziò.

    Come da retorica mi avvicinai al tavolo, posai la borsa pesantissima su questo e mi rivolsi ai bambini con un sorriso complice. Loro mi scrutarono con sereno interesse.

    «Ciao Paris, ciao Prince».

    «Buongiorno signorina Morris».

    «Ah no, eh», dissi in tono simpatico. Mi puntarono stupiti. «Non voglio sentire nessun “Buongiorno signorina Morris” – mi fa sentire vecchia, in effetti...» risero divertiti. «Chiamatemi semplicemente Sarah, al massimo “signorina Sarah”, ok? Va bene che sono la vostra insegnante, ma non esageriamo!»

    Forse per la mia espressione simpatica ed infantile, o forse per il mio tono decisamente amichevole, entrambi si sciolsero un po'.

    Mi sedetti a capotavola, aprii la valigetta e presi un’agenda che mi sarebbe servita da “Registro di classe”, più un quaderno vuoto e un astuccio contenente più penne colorate di quante ne potesse avere un bambino comune. Inspirai a fondo e arricciai le labbra in un cipiglio pensoso.

    «Siccome non so dove siete arrivati con il programma di quest’anno, ho bisogno che mi diate una mano... non possiamo partire con le lezioni, non subito almeno, senza sapere che cosa devo fare per voi. Ce la prenderemo un po’ easy per oggi», e feci l’occhiolino.

    I bambini mi guardarono e annuirono.

    «Bene. Chi vuole iniziare a parlarmi un po’ di ciò che ha fatto fino ad ora? Non importa se non ricordate proprio tutto».

    Ovviamente non avrei considerato soltanto le loro parole; avrei di sicuro chiesto al signor Jackson maggiori informazioni su quella che era stata l'attività scolastica fino ad allora, oltre che i risultati che avevano raggiunto. Il mio era un modo come un altro per creare un clima pacifico e rassicurante.

    Paris alzò la manina per prima, perciò le detti il permesso di parlare.

    «Io ho cinque anni, faccio la prima...», disse con voce lieve. «Il maestro mi ha insegnato un po' l’alfabeto... mi ha insegnato a scrivere, ma poco... a leggere, leggeva parecchio per noi... i nomi e le cose, poi abbiamo fatto i numeri, qualche piccolo problema, mmh... gli animali... e mi faceva giocare, qualche volta…! I giocattoli sono tutti dentro là, in quel cassetto!», e indicò l’armadio dall’altra parte della stanza.

    «Ok, piccola. Quella delle storie non è affatto una brutta idea. Sono sicura che sarai un’alunna di primo grado veramente avanti col programma!»1

    Sorrise eccitata. Capii subito che non vedeva l’ora di imparare e in fretta, perciò presi appunti sul mio quaderno. In seguito scoccai un’occhiata incuriosita al fratello.

    «Tu e il maestro invece cosa avete fatto, Prince?», chiesi in tono cortese.

    Lui mi fissò, per poi chinare lo sguardo sul quaderno.

    «Abbiamo fatto alcune frasi... soggetto e... predicato, mi sembra. Poi abbiamo iniziato le addizioni e le sottrazioni un po’ difficili, e mi faceva scrivere...», mi guardò di nuovo.

    Alzai i lembi della bocca in una smorfia compiaciuta. «Ok, ho capito. Non ti dispiace se oggi mi porto a casa i tuoi quaderni per darci una piccola occhiata? Anzi, vorrei prendere quelli di entrambi. Così domani possiamo partire subito con la prima e vera lezione, vi va?».

    Annuirono e sorrisero.

    Drizzai la schiena, scoccai la lingua al palato e assunsi un’aria buffa e pensosa, tanto da fare sghignazzare i due.

    «Allora, penso che oggi sia importante decidere il da farsi... di sicuro non faremo mai lezioni troppo pesanti e noiose – non voglio che per voi la scuola diventi un centro di sonnellini», risero ancora, «perciò con me imparerete non solo l’abc, ma anche molte altre cose importanti che hanno a che fare con la vita al di fuori della scuola. Perché non mi parlate un po’ di voi e di cosa vi piace (o non vi piace)?».

    Mi fecero vedere i loro quaderni e mi raccontarono delle loro materie preferite – che erano tutte, quasi. Mi raccontarono dei loro hobby e passatempi, dei giochi e dei cartoni che amavano di più. Passammo qualche ora così, mentre la loro timidezza si scioglieva. E anch’io parlai di me, per non farli sentire sotto interrogatorio. Per me era essenziale creare un rapporto di confidenza e fiducia e mi piaceva che mi considerassero una loro pari, piuttosto che una rigida signorina Rottermeier.

    Spiegai loro come avrei suddiviso le lezioni e le materie, anche in base ai diversi programmi scolastici. In mattinata mi sarei dedicata con Prince all'inglese e alla storia, mentre nel pomeriggio alla matematica, alla scienza e alla geografia. Viceversa con Paris. In più avrei dato loro qualche ora di disegno libero (ma sempre legato a ciò che facevamo) fra una materia e un’altra. Avremo di sicuro dedicato una mezz’ora o un’ora al giorno alla lettura, con relativa discussione e domande. Inoltre, detti loro la possibilità di scegliere in quali giorni avremo trattato l’argomento musica e sport, soprattutto se in mattinata o nel pomeriggio.

    Non appena dissi loro che avremmo suonato qualche canzoncina insieme, gli occhi di entrambi si illuminarono. Con le loro vocine mi chiesero: «Davvero suoneremo qualcosa? Che cosa?», e io risposi loro che avremmo suonato tutto ciò che desideravano.

    Non solo avevamo un pianoforte, ma anche molti altri strumenti come tamburelli, triangoli, maracas, xilofoni e addirittura piccoli cembali.

    «Suoneremo le canzoni di papà?», chiese Prince vivacemente.

    Bella domanda.

    Se solo avessi saputo qualche sua canzone a memoria avrei provato volentieri. Ma come facevo a dire loro che di Michael Jackson – il loro papà – non conoscevo una canzone veramente bene? Dopotutto, pensai, era meglio dire la verità piuttosto che una bugia.

    Incapace di rispondere prontamente, Paris mi batté sul tempo.

    «Potremo suonare The lost children, vero? E dopo la faremo sentire a papà!»

    «In realtà non la conosco molto bene...». Arrossii non appena i bambini mi puntarono sconvolti. «Però potete farmela sentire, la imparerò, la insegnerò a voi e dopo ci esibiremo davanti al signor Jackson, vostro padre, che ne dite?».

    L’idea di suonare davanti a Michael Jackson una sua creazione, senza che io fossi particolarmente fan, mi faceva sentire un po’ scema... forse sarebbe stato meglio rimanermene zitta.

    «Non conosci The lost children?», chiese Prince ad alta voce. Aveva gli occhi sgranati.

    «Davvero?», anche Paris credeva che le stessi mentendo. «Non è possibile... il nostro papà ha fatto le canzoni più belle del mondo!»

    Ora anche i bambini mi credono una pazza.

    Erano molto dolci e teneri nei confronti del loro papà.

    «Chi è che ha creato le canzoni più belle del mondo?», intervenne una voce dall’altra parte della stanza, accompagnato da un risolino divertito.

    Tutti e tre volgemmo lo sguardo verso la figura che se ne stava presso l’uscio della porta, che senza bussare era entrato e aveva udito – sperai non molto – della nostra accesa discussione.

    Evvaaai.

    Quando Michael Jackson aveva smosso la porta con un rapido movimento di polso lo avevo scoperto fermo, in piedi, mentre fissava me e i suoi bambini con particolare interesse.

    «Papà!».

    Scesero di foga dalle loro sedie e corsero ad abbracciare il padre. Quest'ultimo si chinò sulle ginocchia per farsi stringere da loro, schiudendo le palpebre non appena le loro braccia sottili si legarono attorno al suo collo.

    «Papà!», continuò Paris con cipiglio stranito. «La signorina Sarah non conosce The lost children! Ha detto che non conosce la tua musica!», e così dicendo gli occhi di tutti furono sulla sottoscritta.

    Le mie guance si pitturarono di un color rosso fuoco. Mi sentii così imbarazzata che desiderai scomparire da lì con un colpo di bacchetta magica.

    «Davvero?», disse lui fissandomi con palpebre spalancate e iridi brillanti, a causa di quello che definii un “silenzioso divertimento”. Mi fece un rapido check-up e non smise di osservare il mio volto. Ancora.

    «Sì! Non sa le tue canzoni... non conosce quella canzone...», sussurrò Prince.

    Se avessero insistito ancora un po’, avrei promesso a me stessa che mi sarei alzata e sarei scappata di corsa da quella stanza.

    «Mmh... male, male...», brontolò lui, umettandosi il labbro inferiore e alzandosi in piedi. «Allora mi sa che dovremo fargliela conoscere al più presto».

    «Sì, papà! Gliela canti?» disse Prince entusiasta, prendendogli la mano. In confronto alla sua quella del padre era quattro volte più grande.

    «Per favore! Ce la suoni?» Paris arricciò le labbra con sprizzante allegria.

    Il signor Jackson li esaminò in silenzio, guardò me – lo specchio di un fantasma – e tra un sospiro e un sorriso rispose: «Perché no?»

    I bambini esplosero in cori di felicità.

    Accompagnarono il padre al pianoforte e soltanto allora mi accorsi di una cosa che non avevo notato prima: il signor Jackson si atteggiava come se fosse molto stanco, appesantito, e il suo sguardo diveniva vacuo non appena i suoi figli distoglievano lo sguardo da lui. C’era qualcosa che non andava – lo si vedeva chiaramente, o almeno io lo vedevo molto bene – ma siccome non erano fatti miei cercai di trattenermi e non domandarmi altro.

    Questo si lasciò trascinare. Poi, con aria affaticata, pur celata agli occhi di Paris e Prince, si sedette sullo sgabello e lasciò un posticino a ciascuno dei suoi bimbi, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra.

    Mi alzai in piedi e mi avvicinai al pianoforte, pur mantenendomi a distanza. Michael Jackson mi scoccò un’occhiata obliqua, attraversandomi con lo sguardo fin dentro le mie interiora, e stranamente non feci nulla per distogliere il mio. Mi analizzò da capo a piedi e, dopo aver posizionato le dita sui tasti bianchi e neri, inspirando forte, per la gioia dei bambini suonò.

    Note soffuse risuonarono dal piano dando vita ad una dolce ma scandita melodia. Subito venni immersa da un profondo senso di pace e le mie orecchie, sempre ben attente, si lasciarono trasportare dalla musica, in attesa che la voce di Jackson fuoriuscisse dalle sue labbra e si elevasse nell'ambiente circostante.

    «We pray for our fathers, pray for our mothers, wishing our families well... we sing songs for the wishing, of those who are kissing, but not for the missing... so this one’s for all the lost children».

    Le sue parole, chiare e limpide come l’acqua, inondarono la stanza e il petto. Me ne stavo in piedi, a braccia conserte, silenziosa ma interessata. Colsi la tenerezza della sua voce, una soavità che non credevo di aver mai udito prima d’allora. Mi venne la pelle d’oca.

    Al ritornello i suoi bambini si aggiunsero in coro, dando ancora più grazia alla canzone, più di quanto non lo fosse già di per sé. Stetti ad ammirare Jackson e i figli cantare in completa sintonia, immersi nel mistico incanto che era il loro legame.

    Michael Jackson guardava i suoi bambini con amore innaturale, dimostrandosi uno dei padri più dolci e affettuosi che avessi mai visto. Prince e Paris guardavano insistentemente le mani del loro papà, alcune volte sorridendo e altre adagiando la testolina sulle sue braccia.

    «Home with their fathers, snug close and warm, loving their mothers... I see the door simply wide open... but no one can find thee...»

    Quando cantò quella strofa i brividi si fecero ancora più intensi. Dalla parte più bassa della schiena fino al capo. La voce di Jackson, dapprima morbida e vellutata, divenne più dolorosa e sentita... quasi roca. Sentii i miei occhi farsi lucidi e non solo per l’immenso amore che regnava tra padre e figli. Il magone che Michael Jackson aveva trasmesso, aggiunto al significato solidale e al contempo triste della canzone, mi strinse il cuore.

    E di nuovo il ritornello.

    Michael Jackson, che fino a quel momento era rimasto concentrato sui suoi bambini, sul pianoforte e sulla melodia, sollevò il mento in mia direzione. Non mi accorsi subito che mi stava fissando, perché i miei occhi erano puntati sulle sue grandi mani e sui tasti dove si poggiavano. Mi sentivo svuotata, incapace di pensare a qualcosa di concreto.

    Quando mi accorsi dei suoi occhi su di me gli sorrisi lievemente, incrinando le labbra in una felicità stirata, e lui ricambiò allo stesso modo, arrossendo un po’ sulle pallide guance. Grazie al cielo non ero l’unica che soffriva di attacchi di timidezza acuta.

    Poco dopo la melodia si spense con leggerezza, cullando la mia mente nel nulla. Non un “nulla” triste, ma un “nulla” pacifico. Mi ritrovai ad essere io la bambina sperduta della canzone, smarrita in una musica senza tempo. Davanti a me vi era un padre che abbracciava forte i suoi figli, con gli occhi scuri velati da lacrime invisibili.




    1 Diversamente dall’Italia, i bambini americani iniziano la scuola elementare un anno prima degli alunni delle nostre scuole. Così ho letto :P



    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:10
     
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    Capitolo Quattro: L'Eterno Bambino

    Quella era famiglia. Il concetto ideale di famiglia, genitori e figli legati da uno dei più fantastici doni che la vita potesse regalare: l'amore. Quello di una purezza e innocenza inestimabile, un semplice sguardo che vale più di ogni singolo discorso o parola enunciata. Esattamente quell'amore che non tutti sono fortunati di ricevere.

    Lui era un pedofilo? Michael Jackson, che abbracciava i suoi figli in modo tan sentito, la star che era e che non avevo mai avuto la possibilità di conoscere, che io in quel momento avevo la fortuna di osservare in un intimo rapporto familiare? Lui era un molestatore di bambini? Lui, che accarezzava con dolcezza infinita le teste dei bimbi, lui era un pedofilo?

    Qualcosa mi diceva: “chi crede che sia un molestatore non ha mai provato veramente a conoscerlo”. Forse avevano ragione, forse ero una sciocca, o forse il loro era un pregiudizio guidato dalla cattiveria.

    Se Michael Jackson possedeva anche solo un minimo di quella tenerezza con tutte le persone del mondo, allora era tutto sbagliato. Se la sua bontà era reale e sincera, allora Michael Jackson era stato condannato in modo crudele da una popolazione che non sapeva più distinguere cosa fosse il buono e il cattivo.

    «Ora è meglio che continuiate la lezione, che ne dite?», sussurrò ai piccoli dopo averli baciati sulle tempie uno alla volta.

    Mi osservò scusandosi con lo sguardo. Adocchiai Paris e Prince, che mi stavano pregando con gli occhi per finire la lezione immediatamente. Guardai l’orologio a muro. Mancava meno di dieci minuti alla pausa pranzo. Per una volta avrei fatto un’eccezione.

    «Oh, non si preoccupi», dissi con espressione eloquente, «abbiamo finito per questa mattina... e abbiamo parlato molto. Si sono comportati da bambini molto educati».

    Feci loro l’occhiolino, storcendo le labbra in un sorriso furbesco. Prince e Paris ricambiarono con rigorosa complicità.

    Il signor Jackson alternava sguardi scuri e meditabondi, dedicati alla sottoscritta, a spasmi di risata per le continue suppliche dei figli, che gli chiedevano se potessero andare. Prima che questi si volatilizzassero si girarono, mi salutarono con beneducata cortesia e corsero via. Sia io che Jackson li guardammo scomparire da oltre la porta.

    Il signor Jackson, che prima non aveva mostrato minimo accenno di spossatezza fisica, si stiracchiò sul posto. Scorsi una lieve difficoltà nel compiere quel atto, ma l’uomo nascose il dolore socchiudendo le palpebre e serrando le labbra per soffocare il respiro.

    Lo studiai con apprensione. Non era un uomo anziano... anzi, dal fisico sembrava in forma per avere... uhm... di sicuro non più di quarant'anni. O quarantacinque, al massimo.

    «Mi dispiace non averla accolta, stamattina, ma avevo un impegno importante», mi esaminò con le sue grandi iridi scure.

    Si mise una mano sulla spalla, massaggiandosela, avvicinandosi un passetto alla volta.

    «Non si preoccupi».

    Ed era meglio che fosse arrivato tardi, mi dissi, così almeno avevo evitato una figuraccia.

    Capii subito che quel giorno aveva la mente altrove. Il suo sguardo vacillava da me alle varie parti della stanza ambiguamente. La schiena era fin troppo rigida. Intuii che il punto in cui teneva la mano fosse quello che gli provocasse molto dolore, ma non volli iniziare il discorso per non essere indiscreta.

    Solo allora mi concentrai sullo smoking elegante che indossava, completamente nero con camicia viola sotto. Aveva un profumo di fresco addosso.

    «Oh», disse ad un certo punto, interrompendo il silenzio sempre più palpabile, «mi sono dimenticato il contratto... mi dispiace...», si scusò.

    All’inizio non risposi, troppo persa nell’osservazione del suo volto. Aveva qualcosa di particolare che nemmeno io sapevo definire. C’era qualcosa in lui che mi dava una strana sensazione nel cuore: un misto fra incanto e malinconia. I suoi occhi erano vigili, ma vuoti. Sembrava che, quando non veniva distratto da emozioni forti come l’amore per i suoi bimbi, la luce che possedeva gli si spegnesse in un istante. Cercavo insistentemente di capire cosa provasse.

    «Non importa» risposi abbozzando un sorriso, «dico davvero. Per questi giorni posso anche insegnare senza averlo firmato nulla. Così potrà decidere se vado bene o meno per questo ruolo. È meglio così, piuttosto che firmare un contratto per bruciarlo qualche giorno dopo».

    Come ogni normale lavoratore era ovvio che volessi firmare quel documento al più presto. Ma decisi di volermi fidare e concedergli tempo. Non sembrava che stesse inventando scuse.

    «Oh no, io ho già scelto!» rispose in fretta e furia. Spalancò le palpebre, stupefatto dalle mie parole. «E tu sei perfetta per questo lavoro».

    Issai gli angoli delle labbra con imbarazzo, curvando lo sguardo verso il basso. Sussurrai un «Grazie» così leggero che temetti di non essermi fatta sentire. Mi diressi verso il tavolo e iniziai a raccogliere tutte le mie cose.

    «Uhm...» mormorò lui. Non si mosse di una virgola, ma si massaggiò la fossetta sul mento con la punta del pollice. «Come ti sembrano i miei figli?»

    «Molto teneri», risposi senza indugio, sorridendo e sistemando i quaderni nella valigetta. Percepivo le sue occhiate cariche di curiosità, ma non ricambiai. «Li trovo molto attenti e di sicuro non manca loro la voglia di imparare. Per quel che ho potuto capire di Paris, beh, è molto tenace. Sa quello che vuole ed è testarda. Quando vuole imparare una cosa mi sa tanto che non la ferma più nessuno»

    Michael Jackson annuì, ridacchiando e chinando il capo. «Oh sì, Paris è molto determinata. Ha una natura curiosa».

    «Prince invece tende a essere pacato e silenzioso. Così su due piedi sembra molto più… mmh... insicuro rispetto alla sorella, ma non per questo manca di scaltrezza. È un acuto osservatore», continuai fissando il quaderno di Prince che tenevo fra le mani.

    Il signor Jackson non disse nulla per qualche istante, ma percepii che mi stava scrutando ancora. Poco dopo parlò: «Sì, è vero. Prince è più introverso, ma anche lui è molto giocherellone e solare. Ha solo bisogno di entrare in confidenza con chi ha davanti».

    Improvvisamente si incupì, corrugò la fronte e mi puntò dritto in faccia.

    «Posso chiamarti Sarah?»

    Con quella frase mi sentii cadere dalle nuvole. Lo puntai immediatamente. Mi sembrava di avere gli occhi tre volte più grandi del solito, più di quanto già non li avessi di natura, a causa della meraviglia suscitata da quella domanda.

    «Come preferisce, sì!» esclamai annuendo e farfugliando assieme.

    Sorrise tenendo il mento abbassato, mirandomi da sotto le ciglia lunghe e scure. Per un attimo lo trovai molto affascinante.

    «E tu» sottolineò con vigore, inebetendomi un istante, «mi chiami Michael?»

    Un attimo di confusione. Poi sghignazzai imbarazzata. «Preferirei...»

    Alzò un sopracciglio, aspettando che continuassi.

    Voleva una conferma, non un rifiuto.

    Sospirai e scostai l'attenzione dal suo viso. «Ci posso provare... anche se non approvo tutto questo».

    «Perché no?», chiese increspando nuovamente la fronte, braccia incrociate dietro la schiena, avvicinandosi di più.

    Risposi dicendo che chiamare il mio capo con il suo nome di battesimo mi pareva una mancanza di rispetto. E lui non era una persona qualunque. Non sapevo che Michael fosse una persona molto più semplice e gioviale di quanto appariva.

    «Non è una mancanza di rispetto se mi chiami Michael... almeno, a me non importa se può sembrare così. “Signor Jackson” mi fa sentire anziano. E non mi piace sentirmi vecchio».

    «Preferirebbe rimanere giovane per sempre?», gli sorrisi divertita.

    Lui mi squadrò e si lasciò andare ad una risata delicatissima. Con le orecchie ben tese mi godetti quel risolino fino a quando non scomparve; calò gli occhi sul pavimento e quando smise di ridere mi osservò a testa alta con innocente fierezza.

    «Io sarò sempre giovane dentro. Io sono Peter Pan. E Peter Pan non invecchia mai».

    Lo adocchiai incredula, la bocca schiusa e le sue estremità incurvate verso l’alto. Era davvero stupefacente. Non sapevo perché, ma quella frase continuò a risuonare nella mente e nel cuore per tutto il resto della giornata, come fa ancora oggi.

    Michael Jackson, una star che diceva di essere Peter Pan, l’eterno bambino che vive nella sua Neverland assieme agli altri “bambini sperduti”. Un bagliore di lucidità e solo allora trovai il collegamento con tutto ciò che prima non aveva senso: The Lost Children, la canzone... Neverland Ranch, il posto in cui abitava... e ora il riferimento a Peter Pan, egli stesso.

    «È un pensiero molto bello» sussurrai ancora basita. Sollevai le sopracciglia e mi sbilanciai in un sorriso emozionato. «Le auguro davvero di non perdere mai la purezza e la capacità di sognare. Senza queste Peter Pan non esiste, e così tutti i bambini sperduti e Neverland».

    L’allegria se ne andò dalle sue iridi scintillanti mutando sfumatura e sentimento.

    «Non è facile», si bagnò le labbra con lentezza, ammirando al di fuori della finestra, «non in questo mondo».

    Non proseguì il discorso, ma rimase con il respiro bloccato in gola e lo sguardo perso nel vuoto.

    “Per la stampa sono un pedofilo”.

    «Non molli la presa».

    Si voltò.

    Lo guardai dolcemente. «“Tieni stretti i tuoi pensieri felici”, così diceva Trilli. Sono quelli che ci salvano. Loro e le persone che ci rendono la vita felice, gioiosa… in pratica, degna di essere vissuta. Non è così?».

    Potevo leggere disorientamento in quei tratti marcati del viso.

    Il silenzio piombò sulla stanza. Esaminai il tavolo, controllai di aver preso ogni cosa e mi voltai di nuovo verso Jackson. Credevo che non avrei mai avuto il coraggio di chiamarlo solamente Michael.

    Lo fissai e, con serenità forzata, mi feci coraggio. «È meglio che vada. Direi di cominciare la vera e propria routine scolastica da domani. Prima devo studiare bene il programma di Prince e Paris, decidere cosa far loro fare in base alle conoscenze attuali e ciò che ancora non hanno compreso. Va bene?»

    «Oh...», si riprese dal fitto scorrere di pensieri accigliandosi. Si strofinò le mani e le ripose nelle tasche dei pantaloni. «Va benissimo, mi fido».

    Mi studiava così tanto intensamente che era difficile ignorarlo.

    Dopo aver risposto con un deciso «Ok, grazie», mi diressi verso la porta mezza spalancata della camera, in direzione dell’uscita.

    «No, aspetta, ti accompagno».

    Quando mi reclinai a tre quarti scoprii che mi era già vicino. Era un po’ arrossito in volto, ma non era per niente esitante. Io, invece, da ottima codarda, piuttosto che rimanere a guardare avevo preferito concentrarmi sulla grande mano che teneva la porta e mi invitava ad uscire.

    Proseguendo per il corridoio che portava alle scale studiai l’arredamento della casa. Ero rapita da quell’ambiente magico ed elegante – dai tappeti pregiati ai comodini di legno di qualità, dai vari quadretti appesi alle mura bianche ai lampadari sfarzosi ed elaborati. Era una villa davvero spettacolare e, se quella era solo parte della casa, non volevo immaginare le altre sorprese che poteva riservarmi.

    «Ti piace?», chiese Jackson, il quale aveva notato il mio evidente interesse.

    Sorrideva con gli occhi.

    «Oh, sì, è davvero bella!» cercai di placare il mio entusiasmo stringendomi nelle spalle, «è molto… uhm, fiabesca, se così si può dire».

    «E ti piacerebbe vivere qui?».

    Lo osservai ammutolita.

    Mi bloccai a metà della rampa di scale. Quand'egli mi superò di qualche gradino si girò all'indietro. La sua espressione era neutrale; me lo aveva chiesto con nonchalance, eppure le iridi erano scintillanti. Fui diffidente perché - detto in quel modo - sembrava che volesse provarci. Un flirt così su due piedi mi risultava un po’ strano da parte sua, soprattutto nei miei confronti, dato che non ero mai stata una di quelle “conquista uomini” al primo sguardo. Inoltre, cosa importantissima da non dimenticare, ero l’insegnante dei suoi figli.

    Si accigliò, sbarrò le palpebre e stette zitto per qualche secondo, formando una ‘o’ con le labbra; successivamente arrossì e ridacchiò, sussurrando: «Oh... oh...».

    Pareva che avesse inteso quello che la mia mente aveva elaborato poco prima. Con molta probabilità il mio volto era stato lo specchio dei miei sentimenti; delle volte era un po’ troppo eloquente, per così dire.

    «Oh, non pensare che l’abbia detto in quel senso, no!», scosse la testa, grattandosi un punto dietro la nuca. Per un attimo mi sembrò timido quanto un bambino. «No, no... la maggior parte dei miei dipendenti vive qua, nel residence accanto. L’educatore e la tata dei bambini, invece, possono vivere tranquillamente in questa casa».

    Sorrisi. «La ringrazio per il pensiero, ma ho già trovato una casa nelle vicinanze. Ancora prima del colloquio», esclamai facendo spallucce. «È un affitto, in realtà. Giusto sabato ho finito di traslocare. Prima me ne stavo dalla parte opposta di Los Angeles. I proprietari di questa casa ora abitano in Florida».

    «Dove si trova di preciso?» chiese nel frattempo che riprendevamo a scendere le scale.

    «Los Olivos. Non molto distante da qui, perciò il tragitto non sarebbe più lungo di venti minuti. È decisamente più comodo che farsi ore e ore in macchina».

    «Mmh-mmh», annuì pensoso. Ci stavamo approssimando alla porta d’entrata; sia lui che io rallentammo il passo. «Sei stata fortunata».

    «Grazie a Dio! Altro che occhiaie, altrimenti», sbuffai.

    Il modo in cui lo dissi lo fece ridere a bassa voce. Mi aprì la porta da vero gentleman.

    «Arrivederci, a domani» sorrisi e presi la mia giacchetta dall'appendiabiti.

    Il signor Jackson ricambiò il cenno, scoccandomi un’ultima e penetrante squadrata, e mi rivolse le stesse parole. Stavo per uscire quando una voce mi spinse a voltarmi nuovamente. Non mi ero mai sentita tanto osservata in vita mia.

    «Domani avrò un altro impegno di lavoro, non so ancora quando tornerò a casa. Ci terrei a farti firmare il contratto. Potresti rimanere dopo le lezioni del pomeriggio con i miei figli, in attesa che io ritorni?».

    Lo guardai e acconsentii veemente.

    Michael Jackson mi salutò con la mano. Aspettò che scomparissi oltre il vialetto prima di abbandonare la posizione in cui era. Immobile, con quegli occhi scuri puntati su ogni mio minimo movimento.

    *

    Bene. E ora diamoci dentro.

    Ero nel salottino della mia nuova casa, con indosso un pigiama leggero, le gambe a farfalla, seduta sul tappeto con... un Cd di Michael Jackson in una mano e un buonissimo succo di frutta nell’altra.

    Una volta finito di lavorare - con la mente ancora sull'Isola che non c'è - ebbi l'istinto irrefrenabile di visitare un negozio di dischi. In realtà avrei preferito una biblioteca, ma non era di strada.

    Los Olivos era un centro mediamente popolato, poiché la maggior parte delle persone se ne stava nei grandi centri urbani come Santa Barbara, Beverly Hills e Hollywood. Tuttavia quel negozio di musica aveva catturato subito il mio interesse: non era grande, ma era bello. Costruito in legno bianco e con grandi vetrate trasparenti, l’insegna blu diceva: “Joe’s Groove”.

    Non appena vi entrai un uomo di statura medio/alta, mezza età, folti baffetti e cortissimi capelli scuri m’osservò da oltre il bancone. Salutò con un «Salve» poco allegro e tornò alla lettura del suo giornale, che teneva appoggiato su un banco altrettanto bianco. Le mille e mille collezioni di Cd rallegravano l’ambiente con le loro cover colorate risaltando su tutto quel pallore.

    Ero tentata di domandare se avesse album di Michael Jackson, ma la voce si bloccò immediatamente. Non mi vergognavo all'idea di chiedere di lui, ma sembrava che – pronunciando il suo nome – tutti avrebbero scoperto che lo conoscevo. Una paura assolutamente irrazionale, la mia, ma non riuscivo a scacciarla dalla testa.

    Cercai e cercai ma non trovai nulla. Alla fine mi arresi.

    «Mi scusi» esclamai attirando l’attenzione del cassiere, «avete qualche album di Michael Jackson?»

    Il cassiere aggrottò le sopracciglia, richiuse il giornale e rispose dopo averci pensato su.

    «Sì, purtroppo... e sarebbe meglio che un giorno di questi li bruciassi tutti».

    Rimasi sbigottita ma non risposi. Il signore mi squadrò, sbuffò e si diresse verso uno degli scaffali più nascosti del locale. Lo seguii.

    «Eccoli qua, tutti per Lei», tuonò a dir poco sarcastico, incamminandosi verso il bancone senza degnarmi di uno sguardo. «Li prenda pure tutti... tanto nessuno acquisterà mai più un disco di quel pedofilo».

    Lo fulminai con un’occhiata. Quando si accorse che lo fissavo mi dedicò un’espressione stizzita, per poi tornare al suo giornale borbottando fra sé e sé altre parole cariche di insulti rivolte al mio capo.

    Era così crudele che, sebbene non fossi affezionata in alcun modo a Jackson, ebbi l’istinto di dirgli di farsi gli affari suoi. Ma dopotutto, pensai, l'assoluta verità non la conoscevo nemmeno io.

    Anche se quell'uomo credeva che Michael Jackson fosse un pedofilo, sicuramente non avrei rinunciato a prendere un suo Cd soltanto per rimediare all'opinione che il cassiere aveva di me.

    Osservai le varie copertine. C’era pure Bad, l’unico album di cui avevo veramente sentito parlare (e ascoltato) da adolescente. E anche Thriller, il cui titolo mi ricordò improvvisamente alcune canzoni molto famose. Ed infine ce n’era un altro che attirò particolarmente la mia attenzione, con una copertina grigio metallizzato sulla quale potevo distinguere appena i tratti del viso del signor Jackson. Il titolo era Invincible. Mai sentito prima.

    Presi quello, inizialmente. Poi però, mentre stavo per dirigermi alla cassa, sentii una forza magnetica riportarmi indietro.

    E va bene, li prendo tutti e tre.

    Non controllai nemmeno le tracce che aveva: li presi e basta.

    *

    Sorseggiai un altro po’ di succo all’ananas mentre contemplavo Invincible.

    Forse ero solo un’ingenua credulona, è vero, ma volevo capire chi fosse Michael Jackson per davvero, ascoltando l’unica cosa che poteva darmi una visione più ravvicinata della sua anima: la musica. Troppe domande echeggiavano in testa e mi rimproveravano, dicendomi che non potevo essere sicura di nulla, tantomeno di lui. Volevo cancellare ogni dubbio – sì, soprattutto quelli sulla pedofilia.

    Qualcosa dentro di me diceva che Jackson non era una cattiva persona e che le sue canzoni mi avrebbero aiutato a capirlo. The Lost Children ne era una prova. Ero così attratta dall’insensata idea di conoscerlo che non mi importava dell’opinione di nessuno. Volevo solo scoprire chi fosse l’uomo allo specchio.

    Mi alzai da terra e inserii il Cd nel lettore. Cliccai “Play” e aspettai.

    Un rumore di strani marchingegni mi lasciò perplessa. Questi vennero eclissati di botto da un connubio di suoni elettronici che, nel complesso, formavano una melodia interessante. Non avevo mai udito una canzone del genere e non capivo se mi piacesse o meno. Mentre Unbreakable iniziava e la voce di Jackson risuonava per tutta la stanza mi sedetti sul divano, estrassi il libretto con le canzoni e seguii le parole.

    La sua voce era senz’altro più bella dal vivo. Neanche da paragonare.

    Passò la prima traccia, la seconda e poi la terza. Tutto sommato mi piacquero, sebbene non mi facessero impazzire. In particolare mi interessavano le parole. Già da quei testi potevo percepire che Jackson fosse una persona determinata, forte, onesta. E di sicuro gli piacevano le donne. In particolare quelle irraggiungibili e un po' stronze.

    Risi fra me e me.

    All’inizio della quarta canzone, Break of dawn, il telefono squillò da sopra il poggiolo del divano. Afferrai il cellulare e me lo portai all’orecchio, non prima di aver messo in pausa il lettore Cd. Prima che potessi leggere il numero sullo schermo sollevai la cornetta.

    «Pronto?».

    Rimasi in attesa. Sembrò essere passato un secolo quando la voce di Michael Jackson raggiunse le mie orecchie, penetrandomi con il basso e delicato suono della sua voce.

    «Sarah? Ciao, sono Michael».

    Per poco non rischiai di far scivolare il telefono dalle mani.




    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:15
     
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    Capitolo Cinque: I Due Stranieri

    Sono Michael, aveva detto.

    L'idea che mi avesse cercato mi donò un senso di piacevole adrenalina, lo ammetto, nonostante mi ripetessi più e più volte di mantenermi coi piedi per terra.

    «Oh...».

    Cos'altro avrei dovuto dirgli? "Ciao Michael, come va? Mi fa piacere che tu mi abbia chiamato"?

    Con la cornetta fra l'orecchio e la spalla, inclinai appena il capo a destra per guardare l'orologio sopra la porta del salotto. Erano le 22.20, abbastanza tardi per chiamarmi per una semplicemente questione lavorativa.

    Rispose con un lieve spasmo di risata. «In teoria dovresti rispondere adesso. Anche un "Ciao Michael", o un "Buonasera"».

    Mi scossi.

    Michael Jackson mi stava canzonando.

    Arrossii.

    Ero fortunata che non mi stesse di fronte: avrebbe riso più del necessario ed io e la mia timidezza saremmo svaniti dalla faccia della terra con un sonoro e rapido puff.

    «Sì, ha ragione, mi scusi» delineai un sorriso.

    Mi aveva disorientata. Non sapevo come ribattere.

    Mi accaldai maggiormente ricordando la frase che mi aveva detto due giorni prima: "Sei un po' permalosa, vero?". Più che essere permalosa – e ammetto che lo ero – mi prendeva sempre in contropiede. Solitamente ero una persona diretta e schietta, pur cercando di mantenere una buona dose di tatto e rispetto. Ma ogni volta che Jackson mi parlava mi stupiva e mi lasciava senza fiato. Mi faceva sentire stupida agli occhi di me stessa.

    «La mia testa non è qui al momento», dissi ridacchiando. Un momento di pausa e poi ne venni fuori con un sonoro e determinato (e quasi buffo) «Buonasera!»

    Il signor Jackson restò in silenzio. Per un tot di tempo credetti di averlo perso per colpa della linea. Invece, qualche secondo più tardi, lo sentii emettere quello che definii un risolino molto soffocato e dopodiché un «Mmh...» piuttosto scettico. Poi, ancora, un lieve risata.

    «Buonasera... e dov'è che avresti la testa?», chiese facendo il finto tonto.

    Si divertiva a stuzzicarmi.

    «Ovviamente sul lavoro».

    Ridacchiò. «Sul lavoro?»

    «Certo. Sono una brava insegnante e mi sto preparando per domani», mentii con finta pomposità, gattonando e sedendomi sul divano bianco.

    «Uhm...» rispose con il tono di chi la sa lunga. Rifletté per qualche secondo. «Non ne dubito, ma non credo che il lavoro faccia sempre bene. Devi distrarti un po', non credi?»

    Immagino che stiate pensando la stessa cosa che dedussi anch'io in quel momento: questo qui ci sta provando. Ci sta provando spudoratamente.

    Difatti, alla risposta data, avevo assunto un'espressione visibilmente stordita. Innanzitutto, quel "non ne dubito" era stato pronunciato con troppo candore... e, seconda cosa, anche quel "devi distrarti un po'" non era molto convincente. Anche quel pomeriggio pareva avesse flirtato, ma quando aveva capito dov'era fuggito il mio pensiero si era imbarazzato da morire; perciò ero arrivata alla conclusione che dicesse quelle cose con ingenuità, piuttosto che con tono volutamente malizioso. Poteva anche darsi che volesse soltanto parlare, o capire se la persona che avrebbe educato i suoi figli fosse una facile o una seria e devota al suo lavoro e basta. Questa seconda teoria mi risultò più logica. Tuttavia...

    «Certo, non c'è miglior riposo che leggere un buon libro. O guardare un film, ascoltare della musica...», mi distesi in posizione supina. «Ma il lavoro non è nemmeno iniziato, non quello duro almeno».

    Jackson meditò. «Sono le cose che ti piacciono fare di più? Guardare un film, leggere...?»

    «Sì, non amo troppo la vita sociale», risposi senza peli sulla lingua, ridendo.

    Era vero. Non ero particolarmente socievole, ancor meno avevo una compagnia con cui passare il tempo. L'avevo avuta, al college, mi ero fatta degli amici con cui mi sentivo ancora a distanza, ma con il lavoro molti contatti si erano affievoliti. Mi rimanevano solo quelle due o tre persone che, dopo tutto quel tempo passato, ci tenevano a me e non mi avevano mai dimenticato. E io non avevo dimenticato loro. Mi bastavano poche ma buone persone. Tuttavia, trasferendomi a Los Angeles, le cose si erano rivoluzionate totalmente.

    Per di più non ero una ragazza che amava uscire sempre – sebbene fossi una patita della serie tv Friends, questo non significava che volessi vivere come i protagonisti di quel telefilm. Non amavo passare sempre il mio tempo fuori casa. Non era nel mio carattere desiderare di stare con tanta gente. Ero introversa. Amavo la mia quiete sebbene qualche volta la solitudine si facesse sentire, soprattutto a LA.

    «Oh», replicò Jackson con uno strano tono. «E non hai amici? Sei sola?»

    Avrei voluto vedere la sua faccia. Credevo che, intelligente com'era, provasse una certa diffidenza verso di me; io la sentivo per lui, perciò non mi sarei affatto stupita se per Jackson fosse stato lo stesso. Ciò nonostante mi disse quelle parole in maniera molto dolce. Mi voleva analizzare e scoprire. Pareva interessato alla mia persona e proprio non riuscivo a capire perché – se lo era, dato che la mia era solo un'impressione.

    «Beh», sospirai. «Sì, uhm, per ora sì. Al college avevo una cerchia di amicizie piuttosto carina, fra studio e lavori part time avevo trovato con chi passare il tempo. Ma i veri amici li conti sulle dita di una mano e questi vivono tutti molto lontano da me adesso. Qualche volta li sento ancora, ma è normale che con la lontananza tutto si affievolisca. Però sì, dai, posso confermare che qui a LA non ho ancora nessun amico».

    «Non ti piace stare in compagnia?»

    «No, non è esattamente quello... è che sono selettiva. Mea culpa, lo ammetto. Non mi piace stare con chiunque. Voglio essere libera di scegliere con chi stare e chi mi sta vicino deve farmi sentire bene, non male. Questa è una cosa che ho imparato con l'esperienza. Meglio da sola che con tutti», dissi fissando il soffitto e arrotolandomi una ciocca di capelli tra le dita. «Mi piacerebbe stare in mezzo a tanta gente, dico davvero, ma sono un tipo difficile».

    La sua unica risposta fu un semplice «Capisco». Scommisi che Jackson aveva sicuramente degli amici o che almeno ne avesse avuti (soprattutto prima delle accuse). Dopotutto era una star di grande importanza. Io, invece, ero tutto fuorché un animale sociale. Per di più non ero mai stata veramente fortunata con le amicizie, anche se questa cosa non gliel'avevo ancora detta. Ci credevo veramente, per me era un valore di fondamentale importanza, ma non era facile trovare qualcuno con cui sentirmi veramente legata.

    Non tutti possono andare d'accordo con te e il tuo carattere. È una dura verità, ma bisogna accettarla. Non puoi essere amato da chiunque e non tutti ti capiranno mai veramente. Lo stesso lo proveranno gli altri nei tuoi confronti. Questo non significa che non esiste qualcuno che, prima o poi, entrerà nella tua vita e ti farà sentire davvero amato e considerato.

    Le delusioni mi avevano sicuramente reso sola come un'eremita, ma ero conscia che non era sempre stata colpa degli altri.

    «Ti comprendo, davvero» continuò notando il mio tacere, «so cosa si prova. Ti ritrovi a preferire il silenzio piuttosto che le persone. Perciò ti isoli, per non rischiare che qualcuno fraintenda ancora e ancora. Nonostante tutto, al contrario delle apparenze, stai continuando a cercare qualcuno che ti ami per quello che sei». Pausa. «È triste...».

    Era chiaro che stesse parlando di se stesso più che di me, ma capii il suo bisogno di parlarne.

    «Sì...», ribadii amareggiata, «anche quello è vero».

    Restammo zitti per un altro po'. Era un silenzio carico di pensieri e sensazioni, ma stavo bene anche così. Non sentivo il bisogno di parlare, che la mia bocca si spalancasse e la voce fuoriuscisse forzatamente dalla gola.

    Era la prima volta che mi succedeva con una persona che conoscevo soltanto da poco, soprattutto se costei era una star mondiale e mio "superiore": sentirmi a mio agio anche in silenzio. Ma in quella conversazione nessuno pareva "superiore" a nessuno: eravamo due anime eguali, normali. Mi sentivo bene, molto serena e non più tesa come lo ero stata fin dal giorno in cui lo avevo conosciuto.

    «I was wandering in the rain, mask of life feeling insane... swift and sudden fall from grace, sunny days seem far away...», lo udii dall'altro capo della cornetta.

    All'inizio pensai che stesse parlando con me, ma quando mi accorsi che la voce di Jackson era guidata da un'inudibile melodia, capii che stava cantando. Mi sembrò bizzarro che si mettesse a cantare di punto in bianco, ma ne fui rapita – immediatamente rapita. Tra una frase e l'altra riflettevo, aspettando con ansia il continuo.

    «How does it feel? When you're alone and you're cold inside?»

    Percepii una lieve stretta allo stomaco.

    Smise di cantare.

    «Scommetto che non sai che canzone è».

    Nonostante il tono sardonico scommisi che voleva mettermi alla prova.

    «In realtà no», ammisi con uno spasmo di risata. «Come si chiama?»

    «Human Nature».

    «Oh», continuai incuriosita, arricciando la fronte. Quel nome mi diceva qualcosa. «E chi è il cantante?».

    Che domanda cretina.

    «Io».

    Pausa.

    «Oh».

    Aveva detto quel "io" in maniera secca e decisa, così tanto che avevo pensato di averlo offeso. Delle volte sembravo veramente matura, altre volte apparivo proprio una sempliciotta.

    «Mi scusi...», pigolai dispiaciuta.

    A quel punto lo udii ridere rumorosamente. Si scatenò una risata acuta che mi attraversò da un orecchio all'altro, facendomi fare un 'salto' dallo spavento.

    Mi chiesi se ai suoi occhi apparissi davvero tanto ridicola, o piuttosto un caso patologico incurabile. Soltanto con lui facevo queste figure.

    «Davvero, non immaginavo che non sapessi nulla di me», sogghignò. Da come pronunciò la frase sembrava sinceramente meravigliato. «La canzone si chiama Stranger in Moscow, non Human Nature», lo percepii sorridere.

    «Quando dico una cosa sono sincerissima», borbottai tingendomi di rosso cremisi, «ad ogni modo, è molto carina».

    «Beh» disse con soffocando una risatina, «è una delle canzoni più autobiografiche che abbia mai scritto». Fece una pausa. «L'ho scritta tanti anni fa, a Mosca, nel periodo in cui mi accusarono per la prima volta di pedofilia... era il 1993, in tour».

    «Capisco...», mormorai piegando lo sguardo sui miei capelli, accarezzandoli con cura. «Perciò... non è la prima volta che viene accusato?».

    Sapevo che non era la prima, me l'aveva già detto, ma volevo sapere di più. Mi morsi la lingua e mi pentii nell'immediato: fu una cosa che non riuscii a controllare. Anch'io volevo metterlo alla prova. Anch'io volevo scoprire chi fosse per davvero.

    Trattenne il fiato.

    «No, non è la prima. Sono già stato accusato ma non ho mai affrontato un processo... il padre del bambino è stato pagato affinché tutto si risolvesse in fretta, sotto consiglio dei miei manager. Non è stato un atto coraggioso. Allora credevo che tutto potesse risolversi, concludersi e non ripetersi mai più. Invece le cose sono perdurate per molto, fino ad ora». Fece una pausa. Inspirò a bocca aperta. «Ho aspettato troppo a lungo e ho fatto degli errori che avrei potuto evitare... avrei dovuto essere più forte e compiere le mie decisioni seguendo l'istinto, non la paura, e ora mi ritrovo ad essere deluso da me stesso e dalla situazione in cui mi trovo».

    L'inclinazione della sua voce rispecchiava il dolore che provava dentro. Avvertivo la sua fragilità e il modo in cui si sentiva piccolo, debole, come se temesse di non riuscire a sopportare una situazione del genere – di per sé grave e terrificante per qualsiasi essere umano realmente innocente.

    «Vede... forse non sono la persona più giusta per far prediche e morali agli altri. Non so cosa stia provando – non lo so minimamente – ma posso dirle ciò che ho imparato dalla vita. Si può cercare di sfuggire alle proprie paure, si può cacciarle lontano e si può cercare di soffocarle fingendo di star bene. Ma tutti, prima o poi, dobbiamo buttarci in battaglia. Dobbiamo affrontarle se vogliamo stare meglio.

    Alcune di queste paure saranno i nostri fantasmi per tutta la vita e saranno cicatrici che ci porteremo dentro per sempre. La vita è fatta così. Bisogna accettare di avere paura e non reprimere. Va bene sentirsi deboli. Va bene sentirsi fragili e incapaci di risalire in superficie. Sei umano, puoi permettertelo. Anche se un tempo ha cercato di ignorare questo problema e allontanarlo col denaro e ora è tornato con tutte le complicanze del caso, non significa niente. Ha fatto un errore, come tutti. Deve cercare di perdonarsi. Deve volersi abbastanza bene da dirsi che, anche se adesso sembra tutta una merda (perdoni il termine), questa non è la fine. Perché non lo è. Se lei sa di essere innocente non deve temere niente. Le persone giuste resteranno al suo fianco e la proteggeranno.

    Si faccia forza, mi raccomando, e non pensi mai di abbandonare la lotta prima ancora di essere sceso in campo. Ho visto come la guardano i suoi figli. Pensi a loro. Pensi a tutte le persone che le sono vicino. Pensi a se stesso. E se vincerà, se riuscirà a venire fuori da tutto questo schifo e la gente comunque non vorrà credere alla verità, allora vuol dire che non hanno nemmeno provato a conoscerla. E le assicuro che non ci avrà perso niente».

    Feci un respiro profondo e mi placai.

    Dissi tutte quelle cose senza neanche accorgermene. Avevo detto e fatto tutto quel discorso alzandomi e camminando avanti e indietro per la stanza, infervorata.

    Per tutto il tempo in cui avevo parlato era rimasto muto come un pesce; non aveva emesso nemmeno una sillaba, non sembrava neanche stesse respirando. Forse aveva attaccato la cornetta, pensai, o forse aveva avuto una crisi di pianto. Forse era troppo meravigliato dalle parole di una ventottenne svalvolata che cercava di atteggiarsi come una donna molto più matura della sua età, che in fondo aveva ancora molto da imparare dalla vita. Eppure, nonostante la stranezza di tutta quella situazione, percepivo la sua attenzione.

    Il silenzio si fece sempre più palpabile e mi chiesi se avessi fatto bene a dire la mia.

    «Tutto ciò che hai detto è incantevole, ragazza...», sussurrò. «Le tue parole hanno la bellezza di un cristallo, lo sai?»

    «Cosa?»

    «Sì, un cristallo...», ripeté tutto preso dai suoi pensieri, mentre io lo ascoltavo basita. «Proprio nel momento in cui tu mi parlavi e io rimanevo ad ascoltarti, nella mia mente è comparsa l'immagine di un cristallo».

    Mi sa che lo svalvolato è lui.

    Restai con le orecchie tese senza dire una parola, immobile al centro del salotto, interrompendo la mia camminata impettita e senza senso. Sapevo che era un complimento di cui essere fieri – essere definita un cristallo –, ma non credevo che me lo stesse dicendo sul serio. Sembrava quasi mi stesse prendendo in giro.

    «So che questo discorso può sembrarti un po' strano, ma ciò che hai detto è stato così puro che mi ha trasmesso pace. Le tue parole sono cariche di calore. È come se mi avessi donato una parte di te», sussurrò facendo un'altra lunga pausa.

    Arrossii. Con la testa china in direzione del tappeto m'incamminai verso il divano lungo e bianco. Ridacchiai impacciata, cercando qualcosa di appropriato con cui rispondere.

    «La ringrazio molto... sul serio, è un bel complimento».

    «Non è un complimento infatti», disse uccidendo la mia felicità per un attimo, «è la verità».

    Sorrisi.

    «Be', ad ogni modo... grazie».

    Nessuno dei due riprese il discorso. Mi torturai una ciocca di capelli rimanendo in piedi, con i polpacci che toccavano il bordo del divano.

    Non ero mai stata una persona di molte parole. Un po' matta, questo è vero, ma non una chiacchierona – se non, appunto, quando cercavo di tirare su il morale a qualcuno. Avevo sempre paura di annoiare gli altri con i miei silenzi. Tuttavia con Jackson non era affatto un disturbo. Anzi, era piacevole stare in sua compagnia anche così. Molto, molto piacevole.

    «Domani sarò via per quell'impegno di lavoro, ma soltanto in mattinata», disse improvvisamente autoritario. Affilai l'udito. «Gli orari di lavoro sono dalle 8.30 alle 16.30. Prince e Paris fanno paura merenda alle 10.30 per una mezz'ora. Il pranzo è dalle 12.00 alle 13.30. Domani sarò a casa prima di mezzogiorno, così da farti firmare il contratto. Ok?».

    La sua dolcezza era svanita per dare un tono più serio alla conversazione. Non era arrogante, tantomeno aggressivo, ma nella sua voce calma e inaspettatamente profonda avvertivo una serietà degna di un uomo di quasi mezz'età, un padre e un business man di un certo calibro.

    «Sì, nessun problema».

    «Mmh?».

    «Sì», corrugai la fronte, chiedendomi se stesse facendo finta di non capirmi o se fossi stata io a non essermi spiegata bene. «Gli orari sono perfetti. L'aspetterò prima di tornare a casa per la pausa pranzo».

    «Oh, non preoccuparti per quello, pranzerai qui, a Neverland» esclamò gentile. «Non ci sarà bisogno di andartene. Sarebbe una scomodo e maleducato».

    «Scommetto che sarebbe più maleducato se restassi ed approfittassi di voi, sign...». Mi bloccai prima di enunciare "Signor Jackson". «Restare non mi sembra appropriato».

    Ero molto testarda quando mi puntavo, niente mi faceva cambiare idea. Eppure un qualche soffocato istinto dentro di me urlava «Resta! Resta!» e scalciava scalpitante. Gioivo del fatto che potessi godere del lusso di stare in quella casa, soprattutto di conoscere meglio gli inquilini che ci abitavano; però la mia dignità e la mia voglia di fare bella figura e non essere sfacciata riusciva a placare quel desiderio, anche quando udivo il signor Jackson sbuffare dall'altro capo del telefono.

    «Insisto. Non c'è bisogno che tu te ne vada. Non sei maleducata in alcun modo, sono io che ti invito a restare. Lo saresti se rifiutassi la mia proposta, risultando anche un po' ingrata».

    Ingrata? Ora sì che mi offendevo.

    Era bravo a rigirare la frittata (dovevo concedergli quest'abilità).

    «E io insisto a dire di no, mi dispiace», continuai sorridendo, mostrandomi irremovibile. «Non è così che sono stata educata a lavorare. Sono una testa dura».

    «Si vede», schioccò la lingua al palato.

    Gli angoli delle labbra si piegarono maggiormente all'insù.

    Rimase qualche secondo a riflettere – alla ricerca di una scusa per farmi restare, pensai –, ma per mia sorpresa non lo fece.

    «Ora devo proprio lasciarti».

    Mi lasciai cadere sul divano con un piccolo tonfo.

    Il signor Jackson – per quanto fosse buono e amichevole – non era di certo stupido, di questo ne ero certa. Anzi, lo trovavo molto acuto e perspicace.

    «Sì, anche io», lanciai un'occhiata torva alle scatole del trasloco, quelle che non avevo ancora sistemato e smistato.

    «Ti piace la tua nuova casa?».

    Spalancai gli occhi allontanando l'orecchio dal ricevitore. Per un attimo credetti che mi avesse letto nel pensiero.

    «Sì, è molto confortevole. È traslocare che non mi piace», borbottai mordicchiando le pellicine del pollice. Lo udii ridacchiare di rimando. «Non ho una casa fissa dove stare. Non posso vivere con questa certezza, con il lavoro che faccio. Di per sé non è brutto il trasloco – amo cambiare aria di tanto in tanto, viaggiare –, la vera noia è fare e disfare i bagagli». Un secondo di silenzio, per poi sbrigarmi a chiudere la conversazione in fretta. «A domani. Chiedo scusa se mi congedo così, ma non ho nemmeno cenato...».

    In effetti era vero, non lo avevo ancora fatto.

    Espirai a fondo, picchiettando le dita sulla coscia e fissando il soffitto.

    «La ringrazio per la chiamata».

    «Grazie a te, Sarah» disse lievemente. «Oh, a proposito. Non serve più quel tono formale, non con me».

    Fui basita per la sua pacata schiettezza. Non ero soltanto io ad aver notato la mia freddezza costante.

    «Ok».

    «E come mi devi chiamare?» cantilenò con fare bambinesco.

    Sbuffai e sibilai la parola «Michael...» avvampando.

    «Brava... pian piano imparerai, vedrai. Dovrò insistere molto per fartelo entrare in testa».

    Dubitavo fortemente che si facesse chiamare semplicemente "Michael" da tutti i suoi dipendenti. Ok, forse la tata era un'eccezione, ma lei era una questione diversa.

    «Insistere?», sghignazzai sollevando un sopracciglio, spostando il peso del torace in avanti. Ressi il capo sulla mano libera, il cui gomito puntava al ginocchio. «Un giorno si renderà conto che sono un caso perso e allora deciderà di arrendersi».

    Lo udii ridere. «Sono un bravo maestro, credimi», disse abbassando la voce di un'ottava, ritornando serio ma sorridente. «Sarai tu ad arrenderti a me, prima o poi».

    Arrossi imponendomi di ignorare il doppio senso. «Lo vedremo. Io sono una tipa tosta!», risposi fingendomi una dura. Mi accorsi – con mio enorme stupore – che era la prima volta che stavo parlando senza usare alcuna formalità.

    «Mmh, sono paziente per tua sfortuna. E mi piacciono le questioni difficili da risolvere. Ho vinto ogni battaglia. Tu non sarai un'eccezione alla regola».

    Sorrisi fra me e me, stupefatta, ma non risposi.

    «Well», ridacchiò. «Credo proprio di dover andare».

    Trovai il coraggio per esprimere i miei sentimenti senza fare scena muta.

    «Anch'io. Mi ha fatto molto piacere parlare con... al telefono...».

    Che sforzo enorme.

    «Stavi per rivolgerti a me con formalità, non è vero?», era stranamente allegro.

    «Colpevole, sì», replicai stringendomi nelle spalle, storcendo la bocca in una smorfia sbarazzina.

    Sogghignò dall'altra parte del ricevitore.

    «Comunque, anche per me è stato un piacere», respirò piano attraverso la bocca socchiusa. «È stato davvero molto illuminante ciò che hai detto... perciò, grazie. Grazie davvero, con tutto il cuore. Ti voglio bene davvero».

    Percepii una strana sensazione, un misto fra incredulità e felicità. Da una parte percepivo una sorta di "disagio" per quei complimenti – che credevo di non meritare affatto – e per quelle parole cariche di affetto; d'altra parte, però, gli ero molto riconoscente. Come se il mio cuore si fosse alleggerito dal peso di un mattone.

    Era abbastanza stravagante come tipo, ma... non sapevo come spiegarmelo. Tutto ciò che faceva sembrava così naturale e sincero che non riuscivo a non credergli. Percepivo la profondità di quelle parole, di quel "Ti voglio bene davvero" rivolto praticamente a un'estranea. Non mi conosceva ancora per ciò che ero, eppure sembrava fidarsi. Era una cosa del tutto irragionevole, ma credevo di provare lo stesso per lui.

    «Grazie» sussurrai pettinando i capelli con le dita.

    Non riuscii a ricambiare le sue parole, ma sperai che potesse percepirlo dal mio tono di voce. Fin da piccola non ero stata per niente abituata a esprimere apertamente le mie emozioni.

    «A domani».

    «Buonanotte... a domani, Sarah».

    Accennai un sorriso. Chiusi la conversazione con un 'click' del polpastrello.

    Così ci congedammo, intorpiditi da quella strana chiacchierata che – almeno me – aveva travolto come l'alta marea. Solo più avanti nel tempo mi sarei accorta degli effetti che Jackson era in grado di scatenare nei cuori delle persone: una volta che lo si faceva entrare nella propria vita non c'era più modo di liberarsene.

    Avrebbe sempre trovato l'assurda maniera di conquistarmi.



    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:22
     
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    Capitolo Sei: Gli Accordi

    «Maestra Sarah, come le sembra questo disegno?», chiese Paris richiamando la mia attenzione.

    Mi sporsi su di lei armata di pastelli colorati. In quel foglio c'era disegnato un grande prato fiorito, con delle montagne sullo sfondo e un sole al tramonto; sparsi sul prato vi erano tantissimi fiorellini colorati e un piccolo laghetto ancora non del tutto dipinto.

    «Bellissimo!» esclamai mostrando entusiasmo. Sorrise alla mia espressione attenta. «Continua così, con un po' di colore in più il tuo lavoro sarà ancora più bello!»

    «Mi piacerebbe fare anche qualche animale...», sussurrò fissando attentamente la sua opera.

    «Be', perché no? Non importa se non li fai uguali alla realtà, lasciati andare!»

    Lei ridacchiò imbarazzata e riprese a colorare. Mi diressi verso Prince, che nel frattempo era intento a colorare una cartina geografica. Stava tutto chino sul suo quaderno con lo sguardo attento e rapito dal monotono movimento della mano.

    «Come va, Prince?»

    Mi scrutò spaesato. «Oh, bene...»

    Erano più o meno le 11.45 e da qualche ora era iniziata la mia prima, vera e propria giornata lavorativa. I bambini non vedevano l'ora di imparare. Desideravano mettersi alla prova.

    Prince era silenzioso, ma ascoltava ogni parola che dicevo studiandomi accuratamente; non parlava molto, esattamente come avevo constatato il giorno prima, ma non peccava di disattenzione: un sorriso sbarazzino abbelliva i tratti del suo volto non appena lo gratificavo. Paris era uguale, solo più spontanea ed eccitata; dalla luce nei suoi occhi si intuiva lontano un miglio quanto godesse dei complimenti fatti. Al contrario del fratello, il quale agli sbagli mostrava un cipiglio crucciato, ad ogni errore raddrizzava le spalle e si intestardiva nel correggersi.

    Erano bambini obbedienti e svegli, educati e posati.

    E, come annunciato al telefono, il signor Jackson – o meglio Michael – non si fece vedere per tutta la mattina.

    La conversazione della sera prima mi aveva fatto riflettere parecchio. Stranamente ricordavo ogni singola parola da lui pronunciata. La sua voce ronzava continuamente nelle orecchie, non c'era modo di scamparvi. L'idea di vederlo mi agitava.

    Quando arrivai a casa Jackson qualche ora prima, Grace mi aveva aperto la porta e come la mattina precedente mi aveva rivolto un sorriso gentile. Mi aveva fatto entrare, appendere il giacchino sull'apposito appendiabiti e posto quelle domande retoriche che si fanno normalmente: "Come sta?", "I bambini sono emozionati e non vedono l'ora di imparare", ecc. Poi, quando avevo cercato in lungo e in largo con lo sguardo, Grace aveva capito al volo i miei pensieri.

    «Il signor Jackson è dovuto uscire molto presto e non può accoglierla. Si scusa per l'assenza, ma promette di esserci verso mezzogiorno per farle firmare i documenti».

    Come programmato.

    In quell'ultimo quarto d'ora di lezione disegnai con Paris e Prince. Pensavo che così facendo avrei avuto l'opportunità di consolidare il nostro rapporto e comprendere meglio il loro carattere. Se mostravo di divertirmi in loro compagnia avrei permesso loro di sciogliersi un pochino.

    Poco dopo qualcuno bussò alla porta.

    «Avanti!».

    La porta si aprì e il mio cuore fece un balzo nel petto: eccolo lì, Jackson, con la testa fra la porta e lo stipite, che scrutava all'interno con aria incuriosita.

    «Disturbo?», chiese con voce tenue, scostando la porta. Rimase fermo sull'entrata, in posa eretta, facendo sì che potessi scoccargli un'occhiata fugace. Fissò i suoi bambini con un sorriso e, in ultimo, con più riguardo, la sottoscritta. «Spero di non aver interrotto qualcosa di importante».

    Quel giorno portava pantaloni neri e una camicia pesante color verde smeraldo. Non stava affatto male, anzi, era davvero molto elegante. Teneva i capelli lisci e neri, niente occhiali da sole e mocassini neri dai quali si potevano scorgere calzini di due colori diversi, uno rosso e uno giallo. Era un abbinamento particolare, ma non mi dispiaceva. Era buffo.

    Se ai figli mostrò un'espressione amorevole, a me ne riservò una piuttosto enigmatica. Non riuscivo a capire quello che pensava, ma dedussi che rifletteva sul giorno prima esattamente come facevo anch'io. E probabilmente si pentiva di ciò che aveva detto.

    Interdetta e presa in contro piede esaminai i miei alunni. Mi scrutavano eloquentemente. Dopodiché adocchiai l'orologio a muro: cinque minuti e sarebbe iniziata la pausa pranzo.

    «Uhm, no, non ha interrotto niente», mirai il signor Jackson e poi Prince e Paris. «Potete andare, finiremo domani mattina».

    «Grazie signorina maestra!», urlarono in coro scendendo dalle loro sedie in fretta e furia, andando ad abbracciare il loro papà.

    Sembrava che quando lo vedevano non capissero più niente. Loro padre era speciale, lo amavano profondamente.

    Mentre raccoglievo i disegni ascoltai involontariamente le loro conversazioni. Tutti e due, uno alla volta, parlarono eccitati di ciò che avevano fatto, anche dei più piccoli dettagli: il signor Jackson li ascoltava con devozione, accucciato sulle ginocchia con le braccia attorno ai loro fianchi e sembrava che esistessero soltanto loro. Sorrisi più volte fra me e me, cercando di non mostrarmi interessata a quello scambio di opinioni concitate; mestamente smistai i fogli nelle apposite cartelline colorate.

    «Non dovete finire di mettere a posto la vostra roba?», disse Jackson.

    Sollevai l'attenzione percependo i suoi occhi puntati sulla mia figura. Arrossii ma non parve notarlo: quando il calore avvampò sulle mie guance, osservava di nuovo i suoi bambini.

    «Non potete lasciare che sistemi la maestra per voi, dovete essere responsabili. Dopo che avrete finito andremo tutti a mangiare».

    Tutti?

    Guardai Jackson con un sopracciglio alzato. Il volto esibì una smorfia piuttosto contrariata, visto che la sera prima avevo ribadito che non sarei rimasta. Quest'ultimo mi cacciò un'occhiata di sbieco, ma non sembrò avere il coraggio di mantenerla per la prima volta da quanto ci conoscevamo.

    Così, con una velocità pazzesca, misi libri e quaderni nella borsa a tracolla e accorsi verso la porta: proprio mentre passavo di fianco di Jackson una scia del suo profumo mi attraversò l'olfatto. Irrigidita, guardai i bimbi e ignorai loro padre.

    «Ci vediamo più tardi, bambini... signor Jackson... buon pranzo a tutti».

    Fuggii di corsa ma qualcosa mi bloccò neanche un secondo più tardi.

    Grace, la tata, ci stava venendo incontro. In braccio teneva un bambino molto più piccolo di Prince e Paris: aveva la carnagione più scura degl'altri due, capelli neri e corti, occhi grandi e scuri. Aveva sì e no due anni, probabilmente anche meno, e qualcosa nei suoi lineamenti mi ricordava molto Jackson. Solo quando Grace mi fu accanto e sorrise il bambino mi notò. Era l'altro figlio di Michael.

    Mi osservava silenzioso, labbra strette in un'espressione che gli faceva risaltare le guanciotte morbide. Era un bambino bellissimo, con tratti veramente raffinati, e non riuscivo a trattenere la voglia di sgranocchiarlo.

    Sentii una voce maschile alle mie spalle. Mi voltai.

    «Lui è Blanket, il mio terzo figlio...».

    Jackson mi squadrò intensamente.

    La mia curiosità verso quel piccolo bignè di dolcezza era implacabile. Blanket non la smetteva di fissarni. Non capivo se gli stessi simpatica o meno, ma ignorando quel dilemma mi sporsi per accarezzargli la testina e i morbidi capelli di velluto.

    Quando allontanai la mano dalla sua testolina, cominciò a sgambettare. Stese le gambe, dandosi una spinta come se volesse alzarsi in piedi. Stupita da quel gesto la tata mi si avvicinò. Il piccolo allungò una manina verso di me, aggrottando le sopracciglia ed emettendo soavi borbottii di parole incomprensibili.

    «Vuoi andare in braccio alla signorina Morris?», sussurrò Grace con un sorriso complice.

    La tata mi porse delicatamente il piccino ed io lo presi in braccio ignorando la presenza del padre. Lo tenni saldamente fra le braccia, poggiando una mano sulla schiena e una un po' più sotto, per farlo sentire protetto e al sicuro. Cominciò a toccarmi il viso per poi sentirsi magicamente attratto dai miei capelli. Con una manina prese una ciocca e tirò.

    «Nooo! I capelli no!», intervenne Grace.

    «No, Blanket! Non si fa!», disse Jackson in tono severo, celando un sorriso di divertimento e sorpresa. Mi scrutò per decifrare la mia reazione, un po' preoccupato, ma io non facevo altro che ridere e lasciarlo fare.

    «Non mi sta facendo male, non c'è problema».

    Gli feci una carezza sulla schiena.

    Prince e Paris comparvero sulla porta. Si avvicinarono al loro papà e quando videro quello che loro fratello stava facendo rimasero sorpresi.

    «Perché Blanket vuole mangiare i capelli della maestra?»

    «Perché sono appetitosi, Prince», sogghignò.

    In quel momento ruotava tutto intorno a me e a Blanket. Gli sguardi dei presenti erano rapiti da noi e dall'immediato feeling che io e quella piccola creatura avevamo provato l'uno per l'altra. Per un attimo riuscì a farmi dimenticare la timidezza, quella che provavo quando venivo fissata da tutti. Soprattutto da Michael Jackson.

    Non che lui mi facesse paura, anzi, ma la profondità del suo sguardo mi rendeva minuscola per la maggior parte delle volte.

    In poco meno di un minuto mi ritrovai a dare qualche bacino amorevole alla fronte del piccolo. Lo facevo senza rendermene conto. Mi veniva sorprendentemente naturale.

    «Be'... penso che Blanket abbia un profondo interesse per te e per i tuoi capelli», esclamò Grace. Arrossii. «Hai fatto proprio colpo».

    «Da anni non mi capitava una cosa del genere», affermai con sincerità.

    Solo a quel punto mi ricordai della presenza di Jackson. Lo mirai di sfuggita. Osservava me e il figlio in silenzio, muto come un pesce. Con una mano si reggeva il mento - niente fronte aggrottata o sbalordimento visibile, solo un cipiglio intenso e meditabondo.

    Quando si accorse del mio interesse si ridestò. Lasciò che un enorme sorriso gli si formasse in volto.

    «Non credo che ti lascerà più andare ora che ti sei proposta di tenerlo fra le braccia», arcuò le sopracciglia.

    La sua espressione fu molto eloquente e un sorrisetto compiaciuto mi fece intuire che non avevo alcuna via di fuga. Sarei dovuta rimanere a pranzo, volente o nolente.

    Jackson si umettò le labbra. cercando l'approvazione di Prince e Paris. «Voi volete che la maestra Sarah rimanga a pranzo?»

    Perfetto, mi dissi, ora chiama anche i bambini a raccolta.

    Non volevo farlo, ma non vedevo l'ora di passare un po' di tempo con quella famiglia. Mi faceva stare bene, vivendo un calore che non sentivo più da moltissimo tempo. Il mio orgoglio si dimenava ferocemente. Chiunque sano di mente avrebbe accettato alla prima occasione, ma io ero testona. E orgogliosa.

    E lui era veramente cocciuto, forse anche più della sottoscritta.

    «Io non credo di poterlo fare...».

    Benché le mie parole sembrassero confermare la mia decisione, sapevo che la mia voce esprimeva tutto il contrario: non ero più così decisa e risoluta come la sera precedente.

    «Perché?» disse Prince con una nota di dispiacere. «Non ti piace stare qui con noi?»

    Il cuore si sbriciolò. «No! Neanche per sogno! Non è per quello, ma non sono gli accordi che ho preso con il vostro papà...», fulminai Jackson con due parole.

    Tiè.

    «Papà, perché non può rimanere?»

    Paris era imbronciata e ignorava lo sbigottimento di Jackson, il quale – dopo la mia frase ad effetto – rimase qualche secondo abbondante a pensare.

    Mi fissò, schiuse gli occhi e ostentò un sorriso sornione. «In realtà, uh...» emise uno spasmo di risata, «io ho insistito molto, ma la vostra maestra è davvero testarda e non si lascia convincere».

    Forse vorrai dire che non si lascia concedere facilmente, mi dissi.

    Sorrisi esterrefatta.

    La sua insistenza mi faceva divertire. Era una scena davvero buffa se vista dall'esterno: eravamo come due bambini che si strattonavano un giocattolo urlando "Ho ragione io, è mio!".

    «Comunque non vi preoccupate, resterà», mi osservò con due occhi illuminati da una luce poco convincente. «Resterà a pranzo con noi e, per farsi perdonare, anche a cena, non è vero?»

    Sbarrai gli occhi.

    Mi aveva fregato. Letteralmente fregato.

    Iniziai a provare un sentimento nuovo per lui: la forte brama di strozzarlo con le mie stesse mani.

    Feci una strana smorfia, arresa, e scuotendo la testa alzai gli occhi al cielo. Sospirai e annuii, accettando la proposta perchè non avevo altra scelta.

    In fondo ero contenta, ma avevo anche paura. Avevo timore all'idea di affezionarmi troppo a quella famiglia, o che loro si affezionassero troppo a me – e magari non sarei durata più di tanto. Non volevo illudere quei tre bambini che, da quel che avevo potuto intuire, non avevano altra figura femminile nella loro vita ad eccezione di Grace.

    «Allora possiamo andare a mangiare! Prince, Paris, andate con Grace. Io e la maestra vi raggiungiamo tra poco... Grace, forse è meglio che Blanket venga giù con noi, non credo che voglia staccarsi da Sarah».

    Presa da parte, mentre gli altri tre si dirigevano in bagno a lavarsi le mani, fui scortata altrove. Con un cenno del capo Jackson mi invitò a seguirlo e io feci ciò che mi aveva ordinato senza obiettare. Entrambi rimanemmo silenziosi per tutto il tragitto, tranne per Blanket, che continuava a parlottare con me.

    Arrivammo allo "studio" di Michael in un battibaleno. Era una stanza grande ed elegante. La prima cosa che mi saltò all'occhio furono la scrivania, altrettanto enorme e spaziosa. Sul tavolo di legno scuro e pregiato vi erano fogli sparsi, fascicoli, una lampada con gradevoli decorazioni barocche e perfino alcuni oggetti in stile Disney - tra cui un portapenne di Buzz Lightyear, un fermacarte di Pinocchio, alcuni giocattoli di Biancaneve e l'immancabile Peter Pan. Dinanzi alla scrivania vi erano due poltrone rosse; dietro, invece, due finestre che davano sul giardino. Al lato destro della stanza era situata una libreria a muro; alla sinistra, invece, scorsi un caminetto spento, con una mensola sulla quale vi erano posti diversi candelabri e, sul muro, un quadro che ritraeva Michael Jackson circondato da angeli.

    «Vieni...», mi invitò cordialmente, aspettando che oltrepassassi la porta per richiuderla con delicatezza. «Siediti pure, ma non penso che ci staremo molto».

    Feci come mi aveva detto e mi si sedette di fronte. Si chinò verso un cassetto alla sua destra, lo aprì e nel silenzio tirò fuori vari documenti. Riconobbi il mio curriculum e fra questi anche il contratto di lavoro.

    Sorrise imbarazzato. «Di solito sono i miei manager ad occuparsi di queste faccende burocratiche. Ma i miei figli sono i miei figli. Voglio sapere con chi avranno a che fare, perciò me ne occupo io».

    Mi lanciò un'occhiata penetrante e lessi fra le righe. Ripensai alla conversazione della sera prima, alle sue parole riguardo le accuse del '93.

    Sorrisi altrettanto dolcemente ponendomi Blanket sulle ginocchia. Quest'ultimo non si voleva proprio staccare; se ne stava con la testolina appoggiata al mio seno e senza protestare.

    Jackson mi tese i documenti.

    «Questo è il contratto, puoi prenderti tutto il tempo che vuoi per leggerlo» tenne gli occhi chinati sui fogli. «Non è molto lungo».

    No, dissi fra me e me, solo una ventina di pagine, non è lungo, ma gli detti ascolto.

    Gran parte del contratto illustrava le condizioni di lavoro, le norme che accettavo firmando – fra cui la normativa della privacy, che riguardava esplicitamente il mio rapporto con la star e il resto del mondo – e ciò che avrei dovuto fare con Prince e Paris lungo il periodo di insegnamento. Ad un certo punto, sfogliando le ultime pagine, notai che veniva accennato un cambio di residenza da parte mia in casa Jackson verso la prima metà di febbraio. Aggrottai le sopracciglia e rilessi per ben due volte. Lo esaminai con fare meditabondo.

    «Che cosa intende con "Trasferimento presso l'abitazione di famiglia entro febbraio 2004"?», chiesi sperando che non intendesse ciò che intendevo io.

    Restò qualche secondo in silenzio, prese il foglio e - tenendolo un po' lontano dal volto - lesse le righe che gli avevo indicato strizzando le palpebre. La sua faccia era indubbiamente neutrale e si stava comportando come se non sapesse cosa ci fosse scritto. Continuando a studiare il documento mi parlò.

    «Significa che dovrai trasferirti, sì. Qui o in qualsiasi altra abitazione in cui si troverà questa famiglia».

    «Non erano questi gli accordi», dissi schiettamente, mantenendo un tono gentile ma fermo.

    Mi osservò inflessibile. «Lo so, ma Neverland non sarà per sempre».

    Non capii il senso di quella frase. Jackson notò il mio stupore e, umettandosi il labbro inferiore, proseguì allacciando le dita delle mani sopra la scrivania.

    «Non credo che resteremo qua per molto... purtroppo non credo che avrò più una dimora fissa. Prima vieni a vivere con la famiglia, prima sarai abituata agli spostamenti continui».

    Non ribattei. Non comprendevo ancora perché volesse andarsene, tuttavia non mi sentii di chiederglielo. Contrassi le labbra in un'espressione stirata e ripresi il foglio che Jackson aveva letto.

    Continuai a leggere senza dire una parola, capendo che Jackson non si sarebbe aperto riguardo alla faccenda. Erano cose che voleva tenere per sé, ma sarebbe stato meglio se avessi saputo il perché dei traslochi, visto che da quel giorno la mia vita avrebbe ruotato attorno a lui e ai suoi figli.

    Quando terminai di leggere sollevai il viso in direzione di Jackson, pronta a chiedergli una penna. Solo allora lo scoprii guardarmi: mi studiava intensamente, probabilmente concentrato sulle cose che aveva detto poco prima, con le mani allacciate davanti alla bocca. Arrossii.

    «Posso una penna?».

    Me ne consegnò una e rimase a vedermi firmare, mentre un Blanket curioso cercava di afferrare ciò che tenevo fra i polpastrelli. Sentivo il peso dei suoi occhi su di me.

    Firmai le carte, le sistemai in una pila unica – tenendo la mia copia – e gliele riconsegnai. Mise tutto nel cassetto.

    Dopodiché si appoggiò allo schienale della poltrona, dondolando sovrappensiero. Fece vagare le iridi scure da me a suo figlio – che giocherellava con i miei capelli – e viceversa.

    Jackson mi sorrise malizioso. «Alla fine ho vinto io».

    Capii esattamente a cosa si stesse riferendo.

    Sbuffai allegra. «Solo per questa volta. L'ho fatto per non deludere i bambini. Ha vinto la battaglia, ma non la guerra».

    Ridacchiò ponendosi le mani sulla pancia.

    «Sì, ho capito che sei tenace...», mi scoccò un cipiglio indecifrabile.

    Mi imbarazzai, ma feci finta di niente. Lasciò cadere il silenzio e mirò il figlio.

    «Gli piaci molto... come piaci molto a Paris e Prince...»

    «Sì...», sussurrai timidamente. «Verso pochi bambini mi sono sentita così attratta –».

    «Evidentemente avete un feeling particolare», sottolineò Jackson. Notai che in quella frase c'era una scintilla di curiosità e stupore sincero. «I bambini, soprattutto quelli più piccoli, sono capaci di vedere e percepire l'anima di una persona, la parte più divina e pura. Ho sempre creduto a questa teoria... se hai questo effetto su Blanket, anzi, su tutti e tre, allora devi essere davvero speciale».

    Sogghignai negando con il capo. «Non penso che si possa comprendere se una persona è speciale o meno attraverso la prima impressione. Molte persone sbagliano, perché si legano a gente sbagliata per colpa di emozioni derivate da un primo impatto. Non tendo a credere a questo genere di cose...»

    «Ti legavi a persone sbagliate?», domandò centrando il punto della situazione, dedicandomi uno sguardo profondo.

    Annuii, mantenendo l'attenzione sul piccino. «Quasi sempre».

    Michael fece cadere il discorso come se non avesse più voglia di entrare nella mia anima.

    Fissai Blanket, il quale sorrideva al suo papà. Jackson ricambiò i sorrisi e, ad un certo punto, fece delle strane smorfie al piccolo. Blanket rise ed io con lui. Michael mi adocchiò di sfuggita.

    Michael Jackson era davvero un padre amorevole. Amava i suoi figli e questo affetto era ricambiato con altrettanta devozione. Era un papà dolce e affettuoso. Sebbene non lo conoscessi da molto, ci mettevo la mano sul fuoco che avrebbe fatto di tutto per loro: avrebbe sacrificato ogni cosa. Nei suoi occhi, ogni qualvolta li guardasse, compariva una lucentezza che in altre occasioni – anche quando parlava con me – non veniva mai fuori. Da una parte invidiavo quei bambini, perché ricevevano l'amore incondizionato di una persona apparentemente magnifica; era l'affetto che, un giorno, speravo anch'io di trovare e donare a qualcuno. Prima o poi, forse.

    Erano dei bambini davvero fortunati, ma me ne sarei resa conto soltanto con il tempo. Quando avrei appreso a pieno la grandezza del cuore di Jackson, sarei riuscita a rendermi conto che il suo amore era una benedizione per tutti coloro che gli stavano vicino.

    Dopo un paio di minuti alle prese con le sue strambe espressioni, Blanket si sporse verso il papà. Sia io che Michael ci alzammo e colsi l'occasione per porgerglielo. Jackson, come una mamma, lo prese in braccio e lo strinse amorevolmente; lo baciò più volte, accarezzandogli la nuca e chiudendo gli occhi ogni qualvolta le sue labbra entrassero in contatto con le guance del bimbo.

    Rimasi incantata da quella scena, tant'è che non riuscii a muovermi di un millimetro.

    «Ora è meglio andare», Michael sorrise timidamente. «Altrimenti si preoccuperanno, non credi?».

    Annuii e lasciammo lo studio.

    In silenzio realizzai una cosa importantissima: Michael Jackson era una persona che avrebbe richiesto del tempo per essere scoperta. Non era un soggetto semplice da analizzare e la volontà di conoscerlo aumentava sempre più, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Era un uomo che, per quanto misterioso apparisse, aveva il magico potere di attirarti a lui senza volerlo. Era indecifrabile, eppure credevo di conoscerlo da una vita. Era criptico, eppure credevo di avere in mano la soluzione prima ancora di averla scoperta. Credevo di essere impazzita, ma soltanto nei mesi a venire avrei compreso che Michael era molto più di quanto la mia immaginazione avesse fantasticato.

    Tutto ciò che sentivo per lui era strano. Non capivo che era soltanto l'inizio di un nuovo viaggio... un mix di emozioni, belle e brutte, che ancora oggi non mi pento di aver provato.



    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:28
     
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    Ciao, sono Martina, avrò letto The wish almeno 20 volte, tanto da sapere le battute a memoria, è una delle poche fan fiction che mi sembrano rispecchiare il vero Michael: hai deciso di riscriverla? 😱 con delle novità?
     
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    CITAZIONE (Martina D'Amico @ 5/3/2019, 11:02) 
    Ciao, sono Martina, avrò letto The wish almeno 20 volte, tanto da sapere le battute a memoria, è una delle poche fan fiction che mi sembrano rispecchiare il vero Michael: hai deciso di riscriverla? 😱 con delle novità?

    Ciao Martina :3
    Oddio, ti ringrazio blush Mi fa molto piacere saperlo blush Davvero, è un onore e una soddisfazione sentirselo dire!

    Ci saranno alcune modifiche essenziali original Tre o quattro capitoli (forse anche di più) verranno tolti o riscritti. Ad esempio, il finale rimarrà lo stesso. Verranno cambiati/aggiunti dei dettagli, e punterò a modifiche riguardo il carattere di Sarah (che già si intravedono in questi capitoli :P ).
    La mia intenzione è continuare "The Rebirth." il più presto possibile (qualcosa sto già buttando giù e ho in mente tutta la storia, più o meno), ma per le idee che mi sono venute mi tocca riscrivere alcune parti di "The Wish." :P

    Edited by Everlasting ~ - 6/3/2019, 17:29
     
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    Capitolo Sette: Il Carosello

    «Eccovi! Stavamo per mangiare senza di voi!», rise Grace seduta comodamente a tavola con Prince e Paris. Ci guardavano e avevano un'aria davvero affamata.

    La sala da pranzo era incantevole come tutte le altre stanze della casa. Era enorme, con il parquet scuro e le pareti bianche; due enormi vetrate davano – come per l’ufficio di Jackson – la visuale sul giardino. Vi erano due tavoli dove pranzare: il primo, quello occupato dalla tata e i bambini, era piccolo e a forma circolare; il secondo, invece, rettangolare e ospitava un minimo di otto persone. C’erano due grandi lampadari di oro appesi al soffitto – uno sopra ogni tavolo –, un caminetto, svariate mensole con posate e bicchieri sicuramente costosi e un comò con una strana scultura in legno rossiccio sopra. Due quadri ornavano la stanza: uno ritraeva una mamma con tre figli, seduti su una panchina circondati da siepi verdissime, e un altro ritraeva lo stesso Michael Jackson in compagnia di bambini di tutte le razze, passeggiando felici per un sentiero in mezzo alla natura.

    Mi sentivo un’intrusa in quel mondo fatto di magia ed eleganza.

    Mentre ci dirigevamo al tavolo scorsi un sorriso enigmatico sul viso di Michael Jackson, ma finsi indifferenza.

    Mi sedetti accanto a Grace – poiché ero sicura che fra Prince e Paris si sarebbe messo il loro papà. E così fece, tenendo Blanket sulle gambe per tutto il tempo.

    Quando vidi tutto quel ben di Dio pensai che, se avessi mai vissuto con Michael Jackson, avrei ripreso tutti i chili persi in quegli anni. Il menù era più o meno questo: petti di pollo, purè di patate con sugo, insalata di lattuga e pomodori, pannocchie e focaccine con marmellata e burro.

    Non essere ingorda, mi raccomando, Sarah.

    «Be’, buon appetito!», Jackson sorrise.

    Ringraziai per la mia parte e ricambiai con fare imbarazzato. Da parecchio tempo non mangiavo a casa di estranei – nemmeno con Liza Burton era mai accaduto.

    «Cosa gradisci da bere? Una Diet Coke?», chiese la tata.

    In realtà preferivo l’acqua, ma prima che commentassi Grace mi sussurrò all’orecchio per non farsi udire dai bambini: «Solitamente il signor Jackson nella sua Diet Coke ci mette del vino bianco... ma per gli ospiti abbiamo sempre Coca Cola normali. Cosa preferisci?»

    Puntai Michael, che a sua volta piegò lo sguardo sulle bevande arrossendo vivamente sulle guance. Storsi le labbra in un sorriso trattenuto. Chissà perché, mi chiesi, Jackson nascondeva ai suoi bambini di bere un po' di vino.

    «Prendo solo acqua, grazie».

    Michael mi rivolse un’altra occhiata enigmatica.

    «Daddy, cosa facciamo finita la lezione con Ms. Sarah?», chiese Prince con voce delicata.

    Il padre mi cercò con gli occhi ed io feci lo stesso.

    «Potremmo guardare un cartone», disse Paris addentando una focaccina.

    «Non credo che la maestra sia molto interessata ai cartoni...»,

    «Oh no! A me piacciono da morire!», esclamai con tono più alto del solito, con un’aria a dir poco eccitata. Tutti gli sguardi furono su di me. Mi strinsi nelle spalle. «Sul serio, li adoro... mi farebbe davvero piacere!»

    Jackson mi fissò con palpebre sbarrate, arcuando il sopracciglio destro. Prince e Paris mi rivolsero due ghigni soddisfatti. Blanket, invece, fissava tutti noi con fare spaesato. La tata ridacchiò per quel mio inaspettato exploit.

    Non mentivo, io amavo i cartoni. Mia madre, con il passare degli anni, non faceva che dirmi che non ero mai cresciuta e che li guardavo con la stessa espressione concentrata e presa di quando avevo cinque anni.

    «Magari potremo fare un giro per il parco, visto che la maestra Sarah non l’ha mai visto», propose Grace. Vidi Michael abbozzare un sì con il capo, mentre la sua mente veniva rapita da riflessioni incomprensibili. La donna mi guardò. «Ci sono tante cose da vedere».

    «Sì! C’è lo zoo!».

    «E un teatro!», continuò Paris.

    «E tantissime giostre!»

    «Avete tutto questo?», domandai con sincero stupore.

    I bambini annuirono e mi spiegarono che con un trenino avremmo fatto il giro di tutta quella che loro chiamavano semplicemente casa. Io, piuttosto, l’avrei chiamata “residenza dei sogni”.

    «Penso che sia un’ottima idea, Grace!», proruppe Michael facendo voltare tutti. Sorrideva. «È deciso».

    «Potremmo farle da guida, papà?»

    «Potrete fare tutto ciò che vorrete, se Sarah vi darà il suo permesso», mi diresse uno sguardo inquisitore.

    Assentii. «Certo che potete, mi farebbe molto piacere! Non vedo l’ora».

    *

    Quel pomeriggio andare avanti con le lezioni fu davvero difficile. Io, in alcuni casi più dei bambini, ero emozionata al solo pensiero di ciò che avremo fatto dopo. Non stavo più nella pelle.

    Poco dopo il termine del pranzo Michael decise di fare una particolare ma straordinaria concessione ai suoi figli e a me (cosa che, da quel che avevo capito, non succedeva mai): finire le lezioni alle 15.00, a patto che il sabato mattina si sarebbero recuperate le ore perdute. Era un padre rigidissimo quando si parlava di educazione.

    Ogni quarto d’ora – forse anche di più – non facevo che girarmi verso l’orologio appeso al muro sopra la porta. Mi distrassi dedicandomi alla preistoria con Prince, ai semplici giochi in scatola di matematica con Paris e, nell’ultima parte della lezione – quella dedicata alla lettura –, chiesi ai bambini che tipo di racconto volessero ascoltare: con un sorriso complice concordarono per “Peter Pan”.

    Sorrisi di rimando, arresa.

    Alle 15 precise detti ordine di sistemare ognuno le proprie cose negli appositi scaffali, segnati con un’etichetta col proprio nome in maiuscolo e caratteri colorati, e ci dirigemmo verso l’uscita della residenza. Per la prima volta Paris mi prese la mano. Anche Prince mi stava attaccato, al lato opposto della sorella, pur senza cercare contatto fisico.

    Mi chiesi se sentissero la mancanza di una mamma.

    Davanti all’ingresso c’erano Jackson, Grace e Blanket. Grace era una presenza silenziosa e Blanket non aveva voglia di separarsi dalle sue braccia. Michael, invece, era un po’ distratto. Non mi ignorava, ma nemmeno mi guardava. Era raccolto nei suoi pensieri, protetto da un ombrello nero dal quale piovevano riflessioni torbide e indefinibili.

    La visita si svolse nel migliore dei modi. Ci incamminammo verso quella che i bambini chiamavano "stazione del trenino". Sarebbe stata una lunga passeggiata, perciò proseguimmo con calma chiacchierando del più e del meno. I piccoli, soprattutto, si lasciarono andare ad una conversazione con il proprio papà su cosa e come avessero fatto lezione quel pomeriggio. Quando Paris e Prince gli dissero della nostra lettura di Peter Pan e commentarono dicendo che io non fossi brava quanto lui arrossii violentemente, guardando dritta davanti a me e cercando di non sentirmi osservata da Jackson. Improbabile cosa, visto che poco dopo emise ridacchiando: «Sono sicuro che è molto brava anche lei».

    La stazione era una delle cose più belle che avessi mai visto in vita mia. Era un grande edificio di mattoni rossi con due grande orologi: uno sul punto più alto della costruzione, un altro sul terreno. La scritta a caratteri cubitali gialli – “Neverland” – regnava su tutto. Delle scalinate laterali portavano all’interno della struttura. Rimasi con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca schiusa ad ammirare devotamente i dettagli fino a quando non dovemmo prendere il treno, scortati da un uomo con la divisa blu molto gentile ed educato.

    Sul trenino presi posto vicino a Grace, ancora, e all'inseparabile Blanket; di fronte c'erano Jackson e gli altri due bimbi.

    Nel silenzio la mente si lasciò trasportare dalle riflessioni, perdendosi oltre le colline del ranch. Mi accorsi che Jackson mi stava fissando solo quando arrivammo a destinazione; in realtà non ne ero sicura, visti gli occhiali da sole che indossava, eppure lo percepivo. Non arrossii e non distolsi lo sguardo: gli rivolsi un lieve sorriso e scesi senza rimanere ad aspettare la reazione.

    Visitammo lo zoo, quello di cui mi avevano parlato Paris e Prince durante la pausa pranzo. Con un senso di bambinesca meraviglia li seguii ovunque mi portarono: mi lasciai guidare verso la gabbia degli orangutanghi, delle tigri, degli orsi e delle più belle creature dell'Africa. Rimasi incantata dalla grandezza degli elefanti e dagli occhioni dolci ed espressivi delle giraffe. Ridevamo e scherzavamo fra noi come se anche io, come loro, non avessi mai abbandonato l'infanzia, coinvolgendo perfino la tata e Blanket.

    Jackson invece non disse una parola, limitandosi a sorridere e ad annuire ai discorsi dei figli. Sapevano ogni cosa di Neverland, perciò li lasciò raccontare senza intervenire. Che lo avesse fatto perché aveva preoccupazioni più grandi o perché voleva dar loro la soddisfazione di parlare a qualcuno di estraneo, questo non lo sapevo. Pensai che fosse per entrambe le cose, ma pareva comunque troppo ‘distante’ da quel posto. Era uno straniero nel suo stesso ranch.

    Prima di fare un altro mini viaggetto in trenino mi fecero visitare il serpentario e il recinto dei coccodrilli. Inutile dire che il mio entusiasmo venne ucciso non appena vidi quelle creature. I serpenti mi terrorizzavano e i coccodrilli avevano uno sguardo che mi raggelava.

    Sarei rimasta volentieri con le giraffe e gli elefanti e di questo Michael se ne accorse. Mi propose di prendere in mano un serpente, ma alla vista del mio pallore aveva cambiato idea: mi aveva guardato stupito e in seguito era scoppiato a ridere, seguito a ruota da Grace e dalle facce dubbiose dei piccoli Jackson. Io, detta tutta, non trovavo la questione affatto divertente. Me la stavo facendo sotto.

    «Sicura di non volerlo fare? Guarda che non fa nulla!», aveva insistito con un sorriso pieno di divertimento. Reggeva un serpente lunghissimo fra le dita.

    «No, no! Sinceramente non mi va proprio», avevo sussurrato con un ché di risoluzione che aveva fatto apparire il mio tono più buffo e simpatico.

    Michael rise, ma se ne fece una ragione: una mia occhiata torva e cupa lo trattenne quando provò a stuzzicarmi avvicinando l'essere spietato.

    Continuammo il nostro viaggio in treno e quella volta i bimbi mi si sedettero vicino. Erano e desideravano essere delle perfette guide turistiche. Seguì ogni loro spiegazione, ogni indicazione, stupefatta e convinta che quel posto fosse veramente una favola. Mi credevo una bambina e rispondevo alla loro gioia con altrettanta gioia, facendo ridere di gusto Grace e, di tanto in tanto, anche Michael.

    Quando scendemmo i miei occhi scintillarono. Mi calò letteralmente la mascella, perché di fronte a noi vi era un immenso parco giochi. Tutto brillava dei colori dell'arcobaleno. L'atmosfera era rallegrata dalla musica da carosello che echeggiava in ogni angolo del parco... per non parlare delle favolose bancarelle dei dolciumi!

    I bambini accorsero verso la prima giostra all'orizzonte: il percorso con le macchinine. C'erano due inservienti proprio accanto alle piccole automobili; parlavano fra loro come se niente fosse, ma quando videro l'allegra combriccola avvicinarsi drizzarono subito la schiena attendendo ordini.

    Prince e Paris mi chiesero se volessi fare un giro, ma preferii rinunciare. Non ero mai stata brava in quel tipo di gioco. Nei casi migliori andavo fuori strada; in quelli peggiori, invece, rischiavo di ribaltarmi e fare il giro della morte su me stessa. Io e automobile compresa.

    Chiesero al loro papà. Risvegliatosi da un silenzioso torpore accettò con un riso delicato; si lasciò trascinare dai suoi bambini e, con un lieve sussurro, mi chiese di tenergli l'ombrello che usava per ripararsi dal Sole. Mi donò l'ennesimo impenetrabile sguardo.

    Aveva notato come lo osservavo.

    Ero preoccupata. Qualcosa nel suo atteggiamento non mi convinceva e il fatto che evitasse di comunicare con tutti il più possibile ne era una prova.

    Dopo un paio di giri attorno alla pista ci avviamo verso la giostra a seggiolini. Mi sentii morire dentro non appena mi chiesero di provarla. Non ero mai salita su una di quelle perché ero terrorizzata dall’altezza. Sia Michael che i bambini insistettero nel dire che non era pericolosa. Alla fine accettai.

    Le gambe e le dita tremavano come ramoscelli al vento, ma con l’aiuto di un inserviente mi allacciai stretta stretta alla seggiola. Credevo di essere spacciata, destinata a schiantarmi al suolo. Ridevo, certo, ma sembravo in preda ad una crisi di nervi.

    Un attacco d’ansia misto ad una potente scarica di adrenalina assalì il corpo e cercai supporto da Prince e Paris, che se ne stavano proprio davanti; mi sorrisero pieni di eccitazione e mi guardai indietro, alla ricerca di Grace e Michael che avevano deciso di non salire e rimanere in disparte.

    Se avessi conosciuto meglio Jackson probabilmente avrei capito che non era da lui rifiutare.

    Restai qualche secondo ad osservare Michael mentre diceva qualcosa all’orecchio della tata, mirando l’orizzonte e racchiudendola sotto la cupola dell'ombrello. Lei annuiva e lo scrutava con una strana luce negli occhi. Probabilmente quei due, sotto sotto, nascondevano una storia.

    La giostra partì. Mi strinsi affannosamente alle catene che mi sostenevano.

    Forse sarebbe stato meglio rifiutare, pensai all’inizio. Prevedevo già il mio schianto a terra, ma poi, quando iniziai a lasciarmi andare e a divertirmi sul serio, cambiai idea. Scaricai tutta la tensione ridendo assieme ai bambini, soprattutto a causa di Prince che fingeva di essere in Star Wars e urlava nomi di personaggi a caso, scalciando con forza, tanto da farmi venire le lacrime agli occhi.

    Ne era valsa la pena accettare. Ero euforica come non mai.

    Feci cadere la testa all’indietro alzando le gambe come se fossi in altalena e chiusi gli occhi. Assaporai il calore del Sole, la freschezza del vento sulla pelle, i capelli selvaggi e indomiti che si scuotevano in cielo.

    In quel momento, mi sentii libera.

    *

    «Andiamo sul carosello, papà?», Paris gli strinse la mano.

    Prince, Paris ed io avevamo provato altre giostre, fra cui la ruota panoramica. Tutte ad eccezione dello “Zipper”, una specie di ‘ragno’ con i tentacoli: bisognava sedersi in una cabina aperta e questa si alzava, si abbassava e ti sbatteva a destra e a sinistra fino a farti venire il voltastomaco.

    Con in braccio il piccolo Blanket mi voltai verso Jackson, il quale valutò la situazione umettandosi le labbra.

    «D’accordo», disse dopo un breve silenzio. «E dopo ci prendiamo un gelato, ok?».

    Prince e Paris mirarono a due cavallini, uno bianco e uno nocciola, e li conquistarono prima che qualcuno glieli potesse rubare correndo di foga. Grace si sedette su un cavallino dietro di loro, sghignazzando. Io scelsi la carrozza e con mio grande stupore Michael chiese se potesse farmi compagnia.

    Annuii e captai dalla lentezza dei suoi movimenti che era molto stanco. Qualcosa non andava di certo.

    Si lasciò sedere con un sospiro e io ripresi a giocare con Blanket, che voleva assolutamente attirare l'attenzione toccandomi capelli e faccia. Sentii lo sguardo di Jackson su di me e sul figlio per tutto il tempo.

    Le casse del carosello fecero partire una canzone Disney. Senza accorgermene mimai le parole senza far uscire un suono. Era Reflection di Mulan, uno dei miei cartoni preferiti.

    «Ti piace?»

    Lo puntai e scorsi un sorrisetto enigmatico, occhi ancora celati dagli occhiali da sole. Sorrisi e assentii continuando a intonarla a bocca chiusa.

    «Perché non canti ad alta voce? Se ti piace non devi trattenerti».

    Le guance si scaldarono. «Io non ho una bella voce, è meglio che mi cimenti nel mio perfetto playback», ridacchiai curvando gli occhi sul piccolo Blanket.

    «Sbagli, sai?», continuò con aria più addolcita. Inclinò la testa da un lato. «Se ami fare una cosa non devi preoccuparti se non è perfetta. Nella tua imperfezione sembrerà tutto perfetto, perché agisci ascoltando il tuo cuore. Potrai sempre migliorarti nel tempo».

    Concordai fingendo serenità, ma avevo il cuore che batteva come un pazzo per la dolcezza delle sue parole e per il modo in cui le aveva pronunciate. Avevo i brividi sulla nuca.

    «Sì, lo so. Cantare mi piace, è solo che la mia voce non è poi così interessante. Anzi, per niente. E poi mi sembra di stonare sempre. Senza una voce in sottofondo che mi infonde coraggio è ancora più impossibile che canti», borbottai senza guardarlo.

    Per un po’ non dicemmo altro. Mi chiesi cosa sarebbe successo se Michael si fosse messo a cantare all'improvviso, apposta per udire la mia voce. Lasciandomi sbigottita fu proprio ciò che fece qualche secondo più tardi.

    «Who is that girl I see... staring straight, back at me? Why is my reflection someone I don't know? Somehow I cannot hide… who I am, though I've tried…».

    Lo ammirai stupita. Si era tolto gli occhiali da sole e li aveva appesi fra i bottoni della camicia smeraldina. Teneva la testa sul morbido sedile di velluto e canticchiava con una voce limpida e chiara, ombrello chiuso sempre al suo fianco. Sembrava il canto di un usignolo, per non parlare del falsetto. I brividi si diramarono dalla testa alla spina dorsale, serpeggiando con un lento fluire verso le gambe e le braccia.

    Mi adocchiò continuando ad intonare la melodia, sollevando un sopracciglio e attendendo che mi unissi. Scoppiai a ridere e non potei far altro che arrossire e scuotere la testa.

    «Nooo! Non credo proprio!», con l’indice enfatizzai la mia decisione.

    Non l’avrei mai fatto.

    Si bloccò all'istante. La bocca formò una piccola ‘o’ e falsificò uno shock che non provava, per poi incresparla in un riso contorto. Incrociò le braccia al petto e sorrise: «Non mi avevi detto che ti serviva una voce di supporto? Ora potresti anche farlo, ci sono io!»

    «Ma non di fronte a te!», esclamai ridendo a voce più alta. «Tu sei Michael Jackson, sei un cantante famoso! Hai una bellissima voce. Se mi unissi a te sarebbe come mettere insieme... che ne so, il gabbiano Scuttle con Ariel! Pensa te che scempio!»

    Esplose in una candida risata, coprendosi le labbra con una mano nel tentativo di contenersi. Osservai le sfumature che il viso di Michael assumeva secondo dopo secondo. Mi studiò sorridente e sbalordito, mentre negli occhi si accendeva una luce sempre più viva.

    «Questa è davvero bella! Sei grande, davvero», scosse il capo. Nella mia testa, intanto, risuonava il complimento "Sei grande" come un eco. «Scommetto che menti e che in fondo sai di essere brava. E sai che ti dico? Mi hai messo curiosità. Non mollo fino a quando non mi fai sentire la tua voce», incrociò una gamba sull'altra, fronteggiandomi.

    «No ti prego!» risi agitandomi al sol pensiero.

    Michael Jackson in ospedale: timpani brutalmente perforati e lacerati. Questo avrebbero scritto i giornali il giorno dopo. Scherzi a parte, non pensavo di avere una voce orribile, ma per niente paragonabile alla sua. E non avevo mai fatto un corso di canto.

    Mi scrutò seriamente. Ci fissammo. Ognuno convinto della propria opinione, irremovibili. Contorsi la bocca per non ridergli in faccia, cosa che fu difficile. Michael issò un sopracciglio a mo' di sfida. Feci lo stesso alzandoli entrambi. Si appoggiò con un gomito sulla gamba che teneva incrociata sull'altra sporgendosi incautamente in avanti. Trattenni uno spasmo divertito, ma lo provocai mordendomi l'interno guancia e arricciando il naso. Ad un certo punto se ne uscì con una linguaccia. Sbarrai le palpebre. Di risposta gli mostrai la lingua. Assunse una smorfia sbalordita e...

    E ridemmo come matti.

    Andammo avanti per alcuni minuti come due squilibrati, spaventando Blanket, il quale volle tornare immediatamente fra le braccia del padre. Ma anche lì, avvolto dal suo calore, si sentì scosso dalla ridarella acuta di Jackson. Frignò perplesso.

    Pur ridendo non riuscivo a smettere di guardarlo negli occhi. Tenevo una mano davanti alla bocca e vedevo Michael cercare invano di arrestarsi nascondendo il viso a sua volta. Invece di smettere sghignazzava sempre di più; la sua risata divenne acuta e altisonante, tant'è che ebbi paura che entro breve avrebbe avuto un attacco di cuore. Quando anch'io mi lasciai andar alla mia vera risata - un misto fra quella di una strega malvagia e una buffa scimmietta - si scatenò l'inferno.

    Nel momento in cui tutto si calmò il suo petto era ancora scosso dai tremori e gli occhi lucidissimi per le lacrime, mentre io tenevo le mani sullo stomaco maledicendo la mancanza di fiato.

    Michael mi fissò maliziosamente. Piegò un lembo della bocca in un cipiglio compiaciuto.

    «Ti va di scendere e fare un giro?»

    Cercai gli altri con gl'occhi. Prince e Paris se ne erano andati da un bel pezzo, chiedendo a Grace di giocare altrove.

    Annuii lievemente.

    Michael mi fece un rapido check-up, rimanendo puntato sui dettagli del mio viso: sembrava voler andar oltre i “confini”, fin sotto la pelle, come se così facendo avrebbe potuto conoscere la mia vera personalità. Mi imbarazzai così tanto che dovetti piegare la testa dalla parte opposta. Nessuno mi aveva mai fissato con quell’intensità prima d'ora.

    Prima che il secondo giro si concludesse Michael si alzò dalla carrozza e scese con Blanket in braccio, dirigendosi verso la tata. Le disse qualcosa di incomprensibile e le consegnò il piccolo; Grace annuì e basta. Parlottò con il piccolo, voltandoci la schiena.

    Jackson ritornò da me. Afferrò il manico dell'ombrello in una mano e protese l'altra facendomi cenno di seguirlo, ed io feci come mi aveva suggerito, sistemandomi la camicetta rossa sui fianchi non appena mi sollevai in piedi.

    Strinsi le sue dita. Erano tiepide, ma in confronto alle mie sembravano addirittura fredde.

    «Sei bollente! Sicura di stare bene?»

    Quando gli fui accanto si chinò sul mio viso. Era quindici centimetri più alto di me. Lo notai soltanto allora.

    «Non ti preoccupare» annuii ridacchiando. «Le mie mani sono così di natura! Sono sempre calda!», sbottai con accento buffo, alzando le spalle.

    Lui rise. Nel frattempo ripensai al piccolo e sottile doppio senso che avevo detto. Sono sempre calda, ma ero scema?

    «Vieni, cerca di stare attenta...», mi strinse nuovamente le dita per farmi scendere dalla pedana.

    Era un'emozione totalmente insensata quella che mi faceva sussultare il petto. Considerando che non ero affatto una persona che si lasciava andare al contatto fisico, non con gli estranei, era un evento straordinario.

    Michael era tutt’altra cosa. Lui sarebbe sempre stato tutt’altra cosa.




    Edited by fallagain - 8/11/2021, 15:33
     
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    «Vuoi un gelato?»

    Io e Michael ci eravamo allontanati da qualche minuto e avevamo deciso di fermarci in un luogo stupendo: la piccola bancarella dei gelati.

    Storsi le sopracciglia, assottigliando le labbra in una smorfia afflitta.

    «Avrai sulla coscienza me e la mia linea».

    Curvò la bocca all’insù. «Preferisci non mangiarlo?»

    «Ma stai scherzando? Ovvio che sì!», strabuzzai gli occhi.

    Sghignazzò timidamente mentre raggiungevamo il bancone. Esaminai la serie di gusti proposti e mi accorsi che ce n'erano tantissimi, dalle scelte più comuni a quelle più strane, gusti che non avevo mai provato prima. Mi obbligai a contenere la mia euforia.

    «Vado prima io?», chiese notando la mia insicurezza.

    Annuii.

    «Ok, per me vaniglia e... mmh... tiramisù».

    La pronuncia di quel nome tipicamente italiano mi fece sorridere. Michael mi gettò un’occhiata meditabonda.

    «Cono o coppetta?», chiese il gelataio pur sapendo i gusti di Jackson a memoria.

    «Coppetta, grazie!»

    Nel momento in cui il gelataio mi rivolse la parola, con un garbo e una dolcezza tratteggiati nei lineamenti bonari del viso, gli chiesi: «Per me una coppetta con una pallina di fragola e una di, uhm... quello lì», indicai uno che ricordava vaniglia con aggiunta di biscotti.

    L’uomo in carne mi porse la coppetta, senza pagare, e ce ne andammo subito dopo aver ringraziato e salutato. Aggrottai così tanto la fronte che Michael si fermò, notando che non la smettevo di voltarmi indietro.

    «Qualcosa non va?», chiese piegando il capo a sinistra. «Non ti piace il gusto?»

    «No, no...». Lo guardai perplessa. «Devo tornare indietro e pagare».

    Michael sbatté le palpebre distendendo la fronte. Scoppiò a ridere.

    Lo puntai con il cucchiaino a mezz’aria.

    Per non farsi vedere si girò dall’altra parte, ponendosi una mano sul volto come quando i bambini devono cercare di sembrare impassibili di fronte a uno scherzo birichino. Quando si placò mi sorrise, senza parole.

    «Che c’è...?», chiesi sorridendo di rimando. Poi capii il senso della sua espressione. Ammirai la bancarella dei gelati e strabuzzai gli occhi. Osservai Michael con sbigottimento puro. «Vuoi dire che non si paga?»

    Lui confermò rizzando le sopracciglia.

    «Oh...» mormorai. Modellai le labbra in un riso infantile. «È stupendo!»

    Mi chiese se volessi fare una passeggiata fino al lago ed io acconsentii. Ignorai il fatto che ero da sola con Jackson e che non si sarebbe aggiunto nessun altro a noi. Soltanto io e lui, io e il mio datore di lavoro.

    Camminammo senza parlare e la cosa non mi appesantì per nulla. Per un po' ci accompagnarono le melodie dei megafoni, almeno fino a quando anche quelle non si affievolirono trasformandosi in sussurri ed echi distanti.

    Mi stava vicinissimo e cercavo in tutti i modi di non oscillare e cadergli addosso. Mi sembrava quasi di percepire la sua aura e so che è una cosa strana da comprendere, ma io stessa non riuscirei spiegarlo. Se lo avessi toccato credevo che avrei sentito i brividi ogni dove.

    Non ero una ragazza che amava parlare, lo ammetto, e forse per questo apparivo una tipa abbastanza noiosa o apatica; eppure, anche volendo, in quel momento non sarei stata in grado di farlo. Non avevo ancora troppa confidenza con lui – lo consideravo sempre il mio capo – e mi aprivo soltanto se qualcuno mi incitava a farlo, magari con qualche domanda o qualche discorso che poteva riguardare i miei interessi o la mia persona. Se incomprensibilmente si creava del feeling mi lasciavo andare; in caso contrario tra me e l’estraneo regnava sempre un velo di freddezza. Una bolla, per così dire. Ero selettiva. Con gli anni avevo imparato a chiudermi a riccio e scegliere cautamente le persone a cui aprire il cuore.

    Finito di ripulire per bene la coppetta cercai un cestino con lo sguardo. Michael, che camminava a fianco con una mano sull'ombrello nero e un’altra sulla vaschetta vuota, si accorse subito delle mie necessità.

    «Dammi, so dove buttarli», e nonostante la testardaggine nel volerlo portare da sola glielo consegnai.

    Non voleva mai darmela vinta.

    Quando tornò aveva un sorriso raggiante. Non aveva più messo gli occhiali da quando ci eravamo seduti sul carosello, ma potevo constatare che il Sole gli desse parecchio fastidio. L’ombrello era l’unica cosa che lo potesse proteggere dai raggi.

    Riprendemmo la nostra passeggiata.

    «Ora che hai visto quasi tutto di Neverland, cosa ti piace di più?».

    Piegai la testa con fare bambinesco. «Bella domanda. È un posto davvero incantevole e magico, non c’è niente che non sia stupefacente. La mia risposta spontanea sarebbe: “mi piace tutto”», ridacchiai. Un secondo dopo mi incupii. «Aspetta, “quasi tutto”? Significa che c’è altro?»

    Sorrise guardando avanti.

    «In realtà non molto. La maggior parte delle sue meraviglie le hai viste oggi. Questo è il cuore di Neverland, ma puoi sempre trovare un cinema - ».

    «Anche un cinema?».

    «Oh, sì, eccome!», sorrise maggiormente.

    Lo studiai senza dire niente, rapita dalla sua espressione serena. Quando si accorse dei miei occhi su di lui mi osservò interessato. Arrossii e scostai l’attenzione. Stavamo attraversando un vialetto di sassolini giallastri, circondati da aiuole fiorite macchiate di rosso e arancione qua e là.

    «È tutto molto sorprendente... dico davvero. Non vorrei sembrare adulatrice, ma adoro l’idea del parco giochi. Inoltre questo ranch è davvero enorme! È come visitare l’Isola che non c’è per davvero! Credo che poche star del tuo calibro sarebbero interessate ad un posto per bambini nella loro dimora». Inspirai a fondo, appiattendo il tono di voce. «Mi chiedo quanti adulti conoscano ancora l'importanza della gioia infantile».

    Con la coda dell’occhio lo vidi contrarre la fronte.

    «Sembra che tu ne sappia qualcosa».

    «Uhm?».

    «Da come parli e ti comporti sembra che tu sia rimasta ferita dal mondo. Eppure conservi in te un atteggiamento decisamente bambinesco, puro».

    «Sì, sono stata ferita», annuii. Mi puntò con un’occhiata profonda. «Ho sofferto nella mia vita, ma sicuramente il mio dolore non è paragonabile a quello di molti altri. Nella mia sfortuna sono stata fortunata».

    «Cosa ti ha fatto soffrire?»

    Non ne volevo parlare, ma sapevo di non avere altra scelta.

    Inspirai mirando avanti. «Hai presente la sensazione di essere fuori dal mondo? Di non appartenere a niente e a nessuno?»

    Si rabbuiò e asserì passandosi la lingua sulle labbra.

    Feci spallucce. «Mi sono sempre sentita un pesce fuor d’acqua. So che questo tipo di frase sta diventando di moda oggigiorno ma è così, almeno per me. Ho sempre fatto fatica a trovare persone con cui sentirmi davvero a mio agio. Non ho mai avuto una vita sociale. Avevo degli amici, sì, ma la maggior parte di loro non erano veri e propri amici, capisci che intendo? Poi in Italia, pff, là non ne avevo manco uno che potessi considerare neanche lontanamente “amico”. In più sono una persona molto riservata, il che non aiuta molto».

    Mi interruppi per passarmi una mano fra i capelli, tirandoli tutti all’indietro. «Ho sempre pensato di avere aspettative molto alte e in un certo senso è così. Ho degli ideali di amicizia e di amore molto difficili da accontentare. Voglio stare con chi arricchisce la mia anima con serenità, non chi mi fa sentire pesante. I litigi e le incomprensioni ci possono stare, siamo tutti esseri umani e non siamo tutti uguali, ma non voglio rinunciare ad essere me stessa per accontentare chi mi sta intorno.

    Quando mi lego a qualcuno dono un pezzo di me. Magari non sono la persona più affettuosa del mondo, ma la mia lealtà non svanisce mai, nel bene o nel male. Quando scendevo a compromessi pur di non perdere qualcuno venivo sempre presa sotto gamba.

    Penso di aver cominciato a rintanarmi nella mia solitudine per una sorta di meccanismo di difesa e questa è divenuta la mia fedele compagna di vita. Non riuscirei mai a viverne senza, non completamente. A volte la solitudine sa essere un vuoto incolmabile ed è ovvio che anch’io desideri dei legami solidi e stabili nel tempo, ma non ho mai avuto tutta questa fortuna. Ho avuto tanto dalla vita – salute, soldi, una buona istruzione e dei buoni lavori – ma a livello emotivo e sentimentale no.

    Per un periodo ho pensato che fossi io quella esagerata, la vittima. Credevo che ci fosse qualcosa in me che non mi permettesse di creare un rapporto duraturo con nessuno. Sicuramente ho dei difetti insopportabili, ma alla fine il segreto è proprio questo: trovare qualcuno con cui condividere i propri mostri».

    Restò in silenzio a soppesare le mie parole.

    Di colpo l’assenza di risposta divenne insopportabile.

    «Che cosa ne pensi dei giornali?», cambiò discorso scrutandomi intensamente.

    Feci una smorfia contorta. «Le persone mentono per vendere ed è risaputo da vecchia data. Una notizia che fa scandalo fa guadagnare molto di più rispetto a una che mostra la bellezza del mondo. Non mi riferisco alla tua situazione, parlo in generale. È un business. Farne parte non è la mia aspirazione di vita».

    Terminato con i miei infiniti e petulanti monologhi sospirai come se mi fossi tolta un peso dalle spalle.

    Quando lo adocchiai di sfuggita per capire se si stesse annoiando, Michael palesò una strana espressione. Mi scrutava con meraviglia e decisione.

    Ad un certo punto drizzò il viso e non mi rivolse più la parola, pur continuando a camminare imperterrito.

    Non l’ho ferito in qualche modo, no?

    «Davvero non hai mai letto niente di me?», chiese di punto in bianco, aspettando che mi voltassi affinché potesse analizzarmi e valutare la mia onestà.

    Ricambiai senza vacillare. «Sono certa di aver letto qualcosa ma onestamente non ricordo. La tua fama è nota ovunque e sarebbe strano pensare di non aver mai udito o letto nulla. Se delle voci mi avessero colpito in qualche modo te lo avrei detto fin da subito», arrossii.

    Mi esaminò per qualche altro istante, dopodiché rivolse il mento in direzione del sentiero.

    «Capisco...».

    Si posò due dita sulle labbra e giocherellò con quello inferiore, torturandolo con palese nervosismo.

    «Se leggessi che io sono un pedofilo, un nero che non accetta la sua razza e che per questo si è "sbiancato", un pazzo con la mania di Peter Pan che fa cose terribili ai bambini approfittando del suo parco giochi inaccessibile... che cosa diresti? Ci crederesti?»

    Lo squadrai accuratamente.

    La sua voce era specchio della sfumatura che gli affrescava il viso: malinconica e arrabbiata, delusa, rancorosa. Percepivo la sua attesa e la sua palpabile voglia di risposta dalle spalle rigide e dalla mascella contratta.

    «Dipende tutto dalla fonte. Io non ti conosco e al momento mi astengo dal giudicare, ma per quel che ho potuto vedere di te sei tutto fuorché una persona malvagia».

    Michael non rispose e non mi guardò.

    In realtà non sapevo cosa pensare.

    L’istinto mi diceva che Michael Jackson non era un essere ignobile: fin dal primo momento, stando con lui, l’unica cosa di cui ero stata certa era la sensazione di dolcezza e pace che trasmetteva – oltre all'impressionante modo che aveva di osservarmi. Era vero, avevo sbagliato tante volte nella mia vita, ma non pensavo che stessi compiendo un errore tanto madornale.

    «Che cosa hai vissuto per amare la solitudine così tanto?».

    Richiuse l’ombrello e se lo agganciò all’avambraccio sinistro, ponendosi le mani nelle tasche. Rallentammo il passo e lo lasciai ispezionarmi senza pietà. Il suo profumo, debole ma presente, odorava di borotalco.

    Il Sole si stava indebolendo e il freddo si stava approssimando. Il tramonto iniziava ad avvolgere ogni cosa. Eravamo quasi giunti a destinazione, ai pressi della stazione del trenino dove ci aspettavano i bambini e Grace.

    Sorrisi senza divertimento. Era da tempo che nessuno mi faceva domande così intime. Non per cattiveria – non tutti –, ma soltanto perché ero io quella a cui tutti si affidavano, mai colei che si sfogava. Ero sempre una montagna.

    «In realtà niente di così grave».

    «Spiegati», sussurrò.

    Aveva un’espressione viva, interessata. La sua diffidenza aveva lasciato posto ad una nuova emozione: la comprensione.

    «Ti ascolto».

    Emisi uno spasmo di risata ironica. I lineamenti del suo volto si contrassero in una sorta di delicata implorazione.


    Espirando tornai ad ammirare tutto ciò che ci circondava: i fiori minuti e colorati, il cielo cobalto decorato dalle prime passate di rosa e arancione, il vento tra le foglie ingiallite.

    «Sono figlia unica, ma sono sempre stata una bambina felice e spensierata. Ho avuto la fortuna di avere una famiglia che mi voleva bene ma, una volta iniziate le scuole, la mia personalità allegra ha cominciato a spegnersi. Provavo a relazionarmi con gli altri, ma ero molto timida».

    Michael mi osservò senza emettere un fiato, bagnandosi le labbra ogni due per tre.

    «Ricordo che non avevo un amico in nessun tipo di istituto. Giocavo da sola proprio perché faticavo ad integrarmi». Feci una pausa spremendo le meningi per ricordare qualcosa di preciso. «Se mi avvicinavo a un gruppetto di bambine che giocavano allegramente in giardino, mi fissavano e se ne andavano senza attendere un secondo di più, senza dire una parola... sai, le donne possono essere molto stronze», risi senza scusarmi per il termine appena enunciato, «Altre volte mi impedivano di giocare con loro; mi sbarravano la strada dicendomi che non c'era posto per me o qualcosa del genere ed io me la filavo».

    Ad un certo punto ridacchiai, alzando lo sguardo sulle fronde degli alberi. «Ti racconto un aneddoto divertente dell'asilo: un anno trovai tre bambine più piccole con cui feci subito amicizia. Erano simpatiche, ridevo e scherzavo con loro come se nulla fosse. Alla maestra la cosa non andava bene perché diceva che dovevo giocare soltanto con quelli della mia età e basta. Io continuai a fare quello che volevo imperterrita fino a quando questa non decise di mettermi in castigo, aggiungendoci pure uno schiaffo per farmi imparare la lezione».

    «Ti ha dato uno schiaffo e messo in un angolo?», domandò Michael. Era sconcertato, di sicuro non in senso buono. Annuii. Schiuse la bocca arricciando fronte e naso con disapprovazione e disgusto. «Io non lo concepisco...»

    «Lo so», mi strinsi nelle spalle con nonchalance. «Purtroppo molti adulti non capiscono e non capiranno mai come ci si comporta con i bambini. Anche se, a dire il vero, bisogna aggiungere che non tutti i bambini sono dei santi o possiedono un’anima buona... senza offesa». Michael non fu molto felice per ciò che avevo detto. Per lui i bambini erano la purezza in persona. Lo ignorai incurante. «Durante tutta l'infanzia fui vittima di bullismo. Furono degli anni orribili. Non avevo neanche un attimo di respiro. Venivo continuamente isolata, calpestata e offesa dalle mie compagne per la mia eccessiva bontà. Crescendo desiderai così tanto un amico, anche uno solo, che non mi resi immediatamente conto di essere tenuta per comodo per la mia bravura scolastica.

    Sai, sono cose piccole se ci pensi, ma segnano un bambino o un adolescente durante la crescita. Sono fasi molto delicate per la formazione della nostra persona. Oh, e fui vittima dei bulli anche fuori dalla scuola, per colpa del mio peso! Ho provato a fare diversi sport nella mia vita ma, come puoi ben vedere, ho sempre mollato. Scelta da codardi sicuramente, ma ad una certa ho cominciato a curarmi più della mia salute mentale che del mio corpo. E posso assicurare che ero molto più grossa di come mi vedi ora! In confronto adesso sono un fruscello!».

    «Non sei grossa», disse contrariato.

    «Be’, non sono neanche un fringuello di bosco!», puntualizzai sogghignando e guardandolo in faccia. Michael mi puntò imperscrutabile, pur ridendo con gli occhi per la mia battuta. Sorrisi dolcemente. «Ad ogni modo è stato il bullismo ad avermi colpito più di ogni altra cosa. Ho sofferto molto, ma è stato quello che mi ha insegnato a tirare fuori le unghie e non ingoiare mai il rospo. Mi sono fatta una corazza d’acciaio».

    Rilassai lo sguardo. «Comunque, davvero, ripeto: sono stata fortunata in molte cose. Ci sono persone che vivono situazioni peggiori rispetto alla mia. Sono in salute, sono indipendente, e soprattutto sono conscia di quello che sono e di quello che sono sempre stata».

    Lasciai correre il silenzio fino a quando Michael non lo spense.

    «Mi dispiace per il bullismo». Era scuro in volto e mi osservava con un miscuglio di sentimenti contorti stampati in faccia – dal sollievo alla tristezza, dall’irritazione alla tenerezza. «Mi dispiace per tutto».

    Mostrai i denti. «Non c’è niente di cui dispiacersi. Io sono una roccia!».

    Sorrise appena. Il suo torace venne scosso da un respiro pesante. Abbassò le palpebre sulla vista e le riaprì mirando il cielo, ostentando una luce negli occhi che definii malinconia.

    «Da piccolo avrei pagato qualsiasi cosa per passare il mio tempo con gli altri bambini...», bisbigliò senza emozione. «Ho iniziato a lavorare nello show business fin dalla tenera età, a cinque anni. Non mi era concesso giocare, andare fuori in giardino o al parco con i miei coetanei... non mi ero concesso niente a parte cantare, ballare e incidere album.

    Ero quello che si definisce un ‘bambino prodigio’. Ciò che volevo davvero era ridere e divertirmi... essere come tutti gli altri, senza preoccupazioni e ansia di dover crescere in fretta. Sono sempre stato prigioniero della mia fama. Sono fiero di quello che sono, sì, perché amo quello che faccio. Voglio donare qualcosa di buono al mondo e so di riuscirci. Ma darei tanto per tornare indietro nel tempo e vivere un’infanzia normale. Quando ti viene preclusa la possibilità di essere un bambino si forma un vuoto nella tua vita e nel tuo cuore; alcuni riescono a riempirlo, altri invece usano quella mancanza per compiere brutte azioni».

    Lo ascoltai con la stessa attenzione che mi aveva dedicato. «Penso di capirti nel mio piccolo».

    Nonostante le diverse esperienze di vita, la solitudine è sempre solitudine. Entrambi volevamo qualcuno . Era una necessità di spensieratezza con cui poterci sentire liberi e felici. Tanto simili quanto differenti anni luce.

    «Sai perché ho costruito Neverland? Per godere delle cose che non ho mai avuto. Niente visita allo zoo con la famiglia, tenendo per mano mio padre o mia madre; niente sorrisi, niente risate, niente giochi. Tutto ciò che ho perso me lo sono riguadagnato».

    Quando mi osservò nuovamente Michael aveva un sorriso mesto in volto; le iridi scure fiammeggiavano di un'amara tristezza. Parlare di quell’argomento lo commuoveva.

    «Quando ti ho detto che Neverland non sarà per sempre è perché questo luogo ha perso la sua magia. Lo so che a te non sembra, ma è vero.

    Quando la polizia è venuta qui, a perquisirmi per via delle accuse, hanno totalmente sconsacrato quello che è il mio Paradiso. Non riesco a conviverci, non riesco a sopportare che la gente pensi che questo è il posto in cui… in cui faccio del male ai bambini... preferirei tagliarmi le vene piuttosto che toccarli in quel modo, comprendi?

    La gente non ha mai capito chi sono. Vero, ho sempre invitato bambini, molti bambini, ma soprattutto quelli ammalati. La maggior parte di loro avevano il cancro o qualche altra malattia incurabile. Lo facevo per dar loro una speranza e l’ho sempre fatto perché sono convinto che loro siano il futuro di questo mondo. Meritano di godersi l’unica infanzia che hanno. Mi circondavo di bambini anche durante i miei viaggi, ma l’ho sempre fatto perché con loro non avevo bisogno di nascondere chi ero. Erano miei amici e mi vedevano per il bambino che sono rimasto. Mi capiscono ed io capisco loro. Gli adulti mi vedono solo come una macchina dei soldi e nient'altro»

    Scosse la testa sempre più vigorosamente, ridendo con visibile sarcasmo. Gli occhi erano velati di lacrime, la voce malferma. Mi si strinse il cuore e la gola: mi chiesi come riuscisse, con quella apparente fermezza d’animo, a rendere invisibile la sua profonda fragilità.

    Quando dicevo di essere fortunata lo credevo veramente.

    «Se Neverland è stata sconsacrata – se per te non è più la stessa – allora fai bene a separartene. Dovresti cercare un luogo tranquillo, lontano da tutti... guarire potrebbe volerci molto tempo. So che è difficile lasciare andare, però non puoi continuare a soffrire perché tutto questo ti ricorda un incubo a cui non riesci a sfuggire».

    «Lo farò», mi scrutò con aria falsamente compiaciuta, «ma prima dovrò superare quello che sarà uno dei processi più seguiti nella storia».

    Trattenni un sospiro. Abbassai la testa.

    Immaginavo che avrebbe dovuto affrontare un processo, ma quel pensiero divenne reale solo quando me lo disse in faccia.

    Se per me era difficile, non riuscivo a immaginare quanto lo fosse per Michael.

    Evitai di porre ulteriori domande.

    «Sei fortunata, sai?»

    Gli rivolsi uno sguardo confuso. Di tutta risposta Michael mi regalò un’occhiata addolorata, comprensiva e tormentata insieme.

    «Puoi andare dove vuoi, liberamente, senza temere di essere inseguita per ogni cosa che fai. Se ci provo io vengo subito preso di mira dai media e dai tabloid. Trovano sempre un modo per farmi sfigurare, non importa cosa faccio. Non vedono l’ora di rendermi un mostro... lo desiderano più di qualsiasi altra cosa. Mentre tu hai ragione, sei fortunata... nessuno complotta contro di te per farti fuori e seppellirti prima ancora di essere già morto».

    Mi vennero i brividi udendo quelle ultime frasi.

    «Lo so».

    Sollevai la fronte al cielo.

    «Sei imprigionato in questa vita perché non hai potuto sceglierne altre. Sei una persona molto forte, dico sul serio. Ma posso assicurarti che non sei solo. La fama è soltanto la lente di ingrandimento di un'esistenza normale, che ingigantisce ogni situazione ed è in grado di colpire in maniera letale. Quello che hai passato è un vuoto che niente e nessuno potrà mai riempire, ma non sei abbandonato a te stesso. Qualcuno ti amerà e vedrà sempre oltre le apparenze».

    Un minuto di silenzio, forse anche meno, e ripresi a camminare per il sentiero senza aspettare che mi seguisse. Non ero arrabbiata o amareggiata, ero semplicemente pensierosa. Non ero sicura di aver detto cose giuste, affatto, ma non c’era nient'altro che potessi fare per farlo sentire… meno triste. Sperai che non avesse frainteso il tono o il motivo delle mie parole.

    Scorsi lo zoo in lontananza e Prince e Paris che correvano come matti.

    «Mi dispiace...»

    Mi girai. Se ne stava ad un passo da me con smorfia assente. La mascella tesa e la posizione eretta. Una brezza leggera gli accarezzava i capelli neri e mossi.

    «Perché?».

    «Non volevo appesantirti con i miei problemi».

    «No, dispiace a me», ammisi riprendendo il passo, fissandolo intenerita. «Non so come aiutarti per farti stare meglio. Vorrei solo che capissi che ce la puoi fare. Perché ce la farai».

    Quando mi fu vicino abbastanza alzai la mano sinistra verso il suo avambraccio e, sfiorandolo appena, glielo massaggiai. Michael curvò gli occhi sulle mie dita; quando risalirono sul mio viso erano a dir poco sbarrati: per un attimo parve che avesse visto un fantasma.

    Non mi vergognai neanche un po' per ciò che avevo fatto, non ero guidata da malizia o secondi fini. Non era un gesto per provocare o flirtare. Volevo soltanto essere rassicurante.

    Gli dedicai un sorriso triste e allontanai la mano con dolcezza, proseguendo la passeggiata da sola.

    «Non so bene cosa dire perché è una situazione – la tua – che non ho mai vissuto sulla mia pelle... ma hai certamente il mio supporto».

    Mi guardai indietro. Era rimasto esattamente dov’era, paralizzato.

    Non emise un fiato.

    Gli feci la linguaccia.

    Di fronte a quel gesto si scosse. Ridacchiò imbarazzato umettandosi delicatamente il labbro inferiore e mi puntò ancora, di sbieco, sorridendo attraverso le sue iridi scure.

    «Un giorno sarò lieto di ascoltare tutto ciò che riguarda la tua vita. Mi racconterai la tua storia e io la mia, esattamente come due raccontafavole... se ti farà piacere», mormorò. Mi venne incontro.

    Lo vidi tremendamente dolce nel pronunciare le ultime parole, ma per niente affatto insicuro.

    Avevo il cuore in fiamme.

    Forse qualcosa di buono ero riuscita a farlo, quel giorno.

    Sorrisi. «Ne sarei felicissima».

    Udimmo le voci di Prince e Paris farsi più vicine. Correvano verso di noi e Grace dietro di loro con il piccolo Blanket fra le braccia. Ci chiesero dove fossimo stati per tutto quel tempo. Michael spiegò loro che mi aveva fatto vedere il boschetto di Neverland e i fiori, poiché gli avevo confidato che mi piacevano molto. Era una bugia bell’e buona, ma non ci aveva visto male: che i fiori mi piacevano sul serio.

    Non dimenticherò mai Grace e i suoi occhi neri come pece, mentre squadrava me e Michael con un sentimento indecifrabile che non riusciva a mascherare.

    *

    «Tanto sono meglio di te!»

    «Non credo proprio! Io sono più veloce, sono meglio di un fulmine!»

    «Non significa niente, non è la velocità che conta! Non hai abbastanza esperienza!»

    «Perché, tu sì?», rispose la piccola inarcando un sopracciglio.

    «Ho fatto il supereroe più volte di te, papà te lo può confermare! Sei peggio di una tartaruga. I tuoi riflessi sono bleeeah. Vero papà? Io so fare un... un bravo supereroe e ho più esperienza, vero?!», chiese Prince afferrando un lembo della manica del padre. La sorella lo congelò con un'occhiataccia.

    Provai più e più volte a non ridere, ma era impossibile.

    Da quando eravamo scesi in stazione centrale, Prince e Paris si erano messi a discutere animatamente della loro eroica missione avvenuta durante l’assenza mia e del padre. Avevano giocato a fare i supereroi e a salvare Grace – la damigella in pericolo – e loro fratello Blanket – l’animaletto di compagnia della povera donzella – dalla ferocia del ragno gigante... che in realtà era lo Zipper. Battibeccavano su chi fosse il più bravo a coprire quel ruolo e visto che Grace si era astenuta dal giudicare avevano insistito per conoscere il Giudizio Supremo del padre.

    Sapevo che, se non avessero ottenuto niente, avrebbero chiesto anche alla sottoscritta.

    «Sì, Prince, tu hai molta esperienza», Michael soffocò uno spasmo allegro. Notai che, da quando eravamo tornati, era molto più sereno rispetto a quando eravamo partiti. «Però anche tua sorella è brava, ha talento. Magari potresti insegnarle come si fa».

    Prince e Paris palesarono un cipiglio imbronciato. Quando mi cercarono con gli occhi li bloccai sul nascere.

    «Concordo con l’idea di vostro padre!», alzai le mani in segno di arresa.

    Aggrottarono la fronte.

    Michael sogghignò. «Ora andate a lavarvi. Chi arriva per primo deciderà cosa fare più tardi, subito dopo aver mangiato. Pronti... partenza... via

    E i due corsero come bestie feroci verso il residence, il quale oramai distava pochissimi metri. Anche Grace si congedò per dar da mangiare a Blanket e metterlo a letto al più presto, visto che crollava dal sonno. Se ne andò solo dopo che Michael ebbe baciato il figlio sulla nuca. Io e Jackson rimanemmo nuovamente soli.

    Il cielo stava perdendo i colori del tramonto e si tinteggiava di pennellate bluastre. Entrambi rimanemmo incantati da quello splendido connubio di luci e venature calde e fredde: le nuvole, ancora infiammate, stavano per essere inghiottite dal nero della notte.

    «Ti piace il tramonto?», chiese Michael con un bisbiglio sottile.

    Assentii mirando l’orizzonte. «Sì, lo amo profondamente. Mi strega».

    Allacciò le braccia dietro alla schiena. «Il tramonto è un regalo meraviglioso. Le sue sfaccettature rapiscono gli sguardi di tutti. Quando ammiri il tramonto non riesci a pensare ad altro se non a quanto sia bella la vita...», sussurrò con occhi lucidi. «In casi come questi mi viene da pensare quanto sia splendido esistere. La Natura ci serve spettacoli che la maggior parte degli esseri viventi sembra ignorare.

    Ci sono giorni in cui guardo il tramonto e mi sento semplicemente grato. Grato alla Natura e a Dio, perché mi fanno capire che non sono solo. Sono sicuro che mi vogliono dire che la vita è degna di essere vissuta, che il Divino è presente in ogni cosa. Basta solo guardare con attenzione. Non importa il dolore che provo: questo scompare quando comprendo che Dio mi sta mandando dei segnali».

    Lo ascoltai con gli occhi sommersi nei suoi. Era una freccia, scoccata con bravura e precisione, che aveva centrato il punto giusto al primo tentativo. Avevo dimenticato cosa significasse sentirsi purificati dalla presenza di qualcuno. Anzi, mai nella vita ero stata benedetta da tale grazia. Tutto quello che diceva, faceva o sentiva lo percepiva dal profondo del cuore.

    In quell’istante riuscii a percepire Dio, qualunque cosa egli/ella fosse e qualunque forma egli/ella prendesse. E capii che lo vedeva anche Michael, scambiandoci un'occhiata che andava ben oltre le parole.

    Piegai le labbra in un sorriso che lui ricambiò.

    Improvvisamente, mentre dirigevo lo sguardo verso il basso, notai qualcosa che mi lasciò senza fiato: una piuma, piccolissima e bianca, se ne stava comodamente distesa su una margherita. Era incastrata fra i suoi petali e si lasciava cullare dolcemente dalla brezza serale. La osservai incantata, mentre una valanga di ricordi mi offuscava le iridi chiare. Quella era molto più di una semplice coincidenza.

    «Che succede?», Jackson mi richiamò.

    Lo scrutai con fare smarrito. Poi sorrisi e ridacchiai imbarazzata, arrossendo sulle gote. Michael aggrottò la fronte. Bagnò la bocca e si pose le mani nelle tasche, accostandomisi.

    «Oh, è una piuma... è...».

    Cercò la piuma con gli occhi e quando la vide tra i fili d'erba mi adocchiò con aria interrogativa. Scrollai le spalle arricciando naso e labbra con espressione bambinesca.

    «Quando vedo una piuma su un fiore mi viene in mente una storia dedicatami da mia nonna quando ero piccola. La “leggenda” dice che se trovi una piuma fra i petali di un fiore è un segno del destino. Tutto ciò che devi fare è prenderla, puntarla al cielo ed esprimere un desiderio soffiandola via, lasciando che l’aria la culli lontano. Più questa volerà distante, più il tuo desiderio sarà sincero e si manifesterà con successo... può sembrare una cosa ridicola, ma... ci ho sempre creduto. Dovrei avere quella storia scritta su un quaderno per appunti, se la memoria non mi inganna».

    In silenzio, dopo avermi rivolto un cipiglio stranito, si chinò verso il fiore. Afferrò la minuscola piuma e si raddrizzò con un sospiro leggero.

    La studiò con evidente curiosità e rivoltandosela fra le dita. Prima a destra e poi a sinistra, ostentando un sorriso compiaciuto. Le mie parole dovevano aver fatto colpo.

    «Perciò se miro al cielo e la soffio lontano, esprimendo un desiderio, questo si dovrebbe avverare?», chiese con tono soffice e vellutato.

    Mi esaminò ancora più profondamente del solito, con la mente rivolta a qualche strano pensiero che non avrei potuto comprendere. Sembrava che non riuscisse a staccarmi gli occhi di dosso.

    «Sì», sogghignai stringendomi nelle spalle, «o almeno così diceva mia nonna».

    Mi fissò. Dopodiché ammirò la piuma che teneva fra i polpastrelli.

    Si umettò le labbra e piegò il viso e la piuma all’insù. Con lo sguardo rivolto al crepuscolo soffiò quest’ultima ed ella prese il volo. La piuma si perse nella corrente incrociando la dolce luce del giorno che rimaneva.

    La perdemmo di vista poco più tardi.

    «Tentare non nuoce mai. E se il desiderio si avverasse sarebbe di certo una benedizione». Mi scrutò con intensità travolgente: perfino i suoi occhi riflettevano il fuoco del tramonto. «Sono certo che non mi pentirò mai di ciò che ho desiderato».

    *

    «L</>avoro qui da parecchio, in effetti», disse Grace osservando distrattamente i bambini. «Ho iniziato a lavorare per il signor Jackson nel 1991, ma sono stata ufficialmente assunta come tata a partire dal 1997, quando nacque il piccolo Prince. Da quell'anno non mi sono più separata da loro. Sono diventata un membro della famiglia anch'io. Il signor Jackson è una persona gentile».

    Grace ed io eravamo sedute in salotto, con Prince e Paris sul tappeto che si svagavano con i loro giocattoli ignorandoci del tutto. Un po' di riposo prima che Jackson si fosse preparato e ci avesse raggiunto per dirigerci in sala da pranzo. Blanket dormiva nella sua cameretta, ma Grace portava sempre un walkie talkie con lei per monitorarlo.

    Mi raccontò la sua storia - il suo arrivo a Neverland, gli anni che aveva dedicato ai figli di Michael, le impressioni sul suo datore di lavoro... ma sempre con discrezione. Non si era mai lasciata andare veramente. Capivo che non amasse parlare con le persone di questo argomento, soprattutto guardandole direttamente in faccia. Non mi osservava per più di un minuto consecutivo.

    Era intelligente. In più non si fidava degli altri. Se si considerava la storia di Michael e le indiscrezioni sul suo conto, Grace aveva più che ragione.

    Ad ogni modo coltivavo il sospetto che fra i due ci fosse qualcosa. Non che avessero avuto grandi gesti di interesse o affetto reciproco, ma di sicuro non si sarebbero mai fatti vedere apertamente nella loro intimità.

    «E i bambini?», chiesi in un sussurro. «Che tipo di carattere hanno?»

    Grace mi lanciò un'occhiata fulminea; guardammo Prince e Paris, i quali ricambiarono donandoci un sorriso spontaneo e tornando immediatamente a giocare. Grace parlò con gli occhi fissi sui movimenti dei piccoli.

    «Sono bambini teneri, docili, e non c'è bisogno di sgridarli troppo se fanno qualcosa di sbagliato. Capiscono i loro errori e se fanno i capricci basta usare un tono maturo e sicuro. Prince può sembrare schivo e chiuso, ma con le persone giuste è un gran chiacchierone. Paris invece è tenace, forte, non ha paura di niente. Sa cosa vuole. È anche tanto sensibile e proprio come Prince non sopporta vedere il dolore negli altri. Sono dei bambini meravigliosi... unici...»

    Sorrisi impercettibilmente fissando i giocattoli che stavano usando. Erano totalmente immersi in un mondo di fantasia e sogni.

    Una cosa bella dell'essere bambini è che tutto appare semplice. Il mondo è perfetto così com’è. Nulla è importante se non la voglia di condividere la propria felicità con altri. Si amano le piccole cose, le minuscole scoperte. Gli occhi di un bambino sono aperti al mondo, curiosi e affascinati.

    Ho incontrato persone che, in tenera età, ostentavano sempre un sorriso in volto. Una volta adulti questi non sapevano più cosa significasse possedere la spensieratezza di un bimbo; non erano più in grado di giocare, di valutare le più "irrilevanti" conquiste con candida gioia e spontaneità. La magia era svanita. La vita li aveva cambiati.

    Proprio nel mentre di quelle riflessioni arrivò Jackson. Entrò con il passo di un felino aggraziato e rimase a scrutarci dalla soglia del salotto. Indossava una camicia di flanella a quadri - bianca, rossa e nera - e morbidi pantaloni di tuta nera.

    Volsi la testa non appena lo percepii entrare. Lo colsi adocchiarmi e in un secondo spostò la testa in direzione dei figli, sorridendo, i quali si erano subito alzati in piedi ed erano corsi verso di lui.

    «Perché non mi avete aspettato a tavola? Scommetto che state morendo di fame», accarezzò loro la testa.

    Ci scoccò uno sguardo benevolmente inquisitorio e, mostrando i denti, io e la tata ci alzammo dal divano.

    *

    «Daddy, possiamo vedere un film più tardi?», Paris sporse i gomiti in avanti indirizzando gli occhi preganti verso la figura del padre.

    Nonostante l'orgoglio e la voglia di tornare a casa per cena, in quel momento dimenticai completamente quali fossero le condizioni che mi ero imposta quando avevo accettato di lavorare lì. Non riuscivo a pensare ad altro se non alla serenità dell'ambiente circostante, che penetrante ma delicata soffiava sul mio cuore come una piacevole brezza.

    Michael sollevò gli occhi dalla cena.

    «Potremmo guardare un film d'azione, pieno di combattimenti e scontri! O un western. Con le pistole e gli indiani!», disse Prince enfaticamente, sfoderando la forchetta con il boccone non ancora mangiato.

    Fissai Michael nello stesso momento in cui mi guardò. Sorrisi. Lui fece lo stesso.

    «Direi che non sarebbe una brutta idea, ma non penso che sia adatto in presenza di una signorina...» - eccolo lì, con un'altra frase che mi dava tanto l'idea di flirt - «Potremmo darle un'impressione sbagliata», issò visibilmente un sopracciglio.

    Arrossii ma non chinai la testa. «Per me non c'è problema. Mi va bene qualsiasi cosa».

    Qualcosa nella mia faccia non lo convinse perché il sorriso si allargò con stile enigmatico e divertito. La prese come una bugia... cosa che, effettivamente, era. Le gote si tinsero più vistosamente.

    Non mi piacevano i film di guerra o azione a meno che non fossero storici. Soprattutto ero attratta dal romanticismo, dalle commedie, dalla magia. Qualche volta dalla fantascienza, ma non sempre. A vedermi non sembravo proprio tipo da violenza e carneficine: non perché fossi altezzosa o alla moda - non lo ero - ma perché ero così tranquilla e silenziosa che nessuno avrebbe osato presupporre che fossi un maschiaccio.

    «Potremmo guardare un cartone, no? Così faremo felice la nostra ospite».

    I due bimbi si guardarono e annuirono senza fare una piega o mostrare segno di insoddisfazione.

    Michael mi scrutò. «Toy Story andrebbe bene?»

    Alzai le spalle. «Sì, non l'ho mai visto».

    Quattro paia di occhi si piantarono sulla mia figura come spilli.

    «Non l'hai mai visto?». Michael sbatté velocemente le palpebre e curvò i lembi delle labbra all'insù, allibito. «Una fan dei cartoni animati non può non conoscere Toy Story! È una cosa inaudita!»

    Considerai l'idea di lasciarmi scivolare sotto il tavolo; se lo avessi fatto velocemente, forse, nessuno mi avrebbe notato e nessuno avrebbe studiato il rossore sulle mie guance sempre più evidente.

    Michael guardò i figli e Grace. «D'accordo, allora! Guarderemo quello!»

    Tirai un sospiro di sollievo, lieta che non avesse proseguito con la sua allegra presa in giro.

    *

    «Siete pronti?»

    Prince e Paris annuirono eccitati. Successivamente Michael si rivolse a me con espressione cordiale ma eloquente. Ricambiai assentendo.

    Erano quasi le 20.00 di sera - piuttosto presto in effetti, ma sapevo che Michael aveva scelto quell'orario affinché potessimo finire il film ad un orario accettabile. L'indomani avremmo avuto lezione.

    Per tutto il tragitto dal residence al cinema i due bambini mi avevano raccontato la trama del cartone facendo anche qualche "spoiler" su alcune scene del film. Io avevo sorriso e ascoltato, evitando di mostrare che non ci stavo capendo nulla. Michael aveva sudato sette camicie per far comprendere ai figli, con delicatezza, che non era giusto farmi tutte quelle anticipazioni. E io me ne ero stata zitta, ridendo sotto i baffi.

    La sala era immensa, fin troppo per contenere solo quattro persone - difatti Grace aveva deciso di non unirsi a noi per rimanere a badare al sonno del piccolo Blanket.

    Eravamo seduti al centro della sala su quattro poltrone in stoffa rossa. La sala era illuminata da luci bianco caldo, le quali risaltavano il parquet chiaro e le lunghe pareti bianche. Dinanzi a noi vi era uno schermo cinematografico gigantesco, nero come la pece. Ero seduta accanto a Prince e oltre lui si trovavano in ordine Michael e Paris.

    «Papà, quand'è che inizia il film? Mi sto annoiando», la piccola alzò il mento verso il padre.

    Quest'ultimo, sorridendo appena, si alzò dalla poltrona scarlatta.

    «Vado subito a controllare».

    Così dicendo si alzò e seguì lo stretto passaggio fra le gambe di Prince e i sedili della fila successiva. Quando fu obbligato a superare anche me cercai in tutti i modi di raggomitolarmi sul posto; strinsi i polpacci verso l'interno della poltrona, puntando le punte dei piedi sul legno quel tanto da dargli più spazio per scavalcarmi.

    Durò pochi secondi, ma fu in grado di farmi tremare un istante; sfiorò le mie ginocchia con le sue, cercando di non inciampare, ed entrambi ci scusammo lievemente come due perfetti estranei al cinema, in tono così basso da sembrare inudibile.

    Perché rabbrividii? Non lo sapevo e non lo so ancora.

    Tutti coloro che avevano incontrato Jackson almeno una volta nella vita avevano potuto percepire una strana magia in lui. Non riuscivi mai a capire come facesse o che cosa avesse di così particolare per riuscirci; l'effetto che provocava non era mai legato al suo aspetto fisico o alle sue maniere d'atteggiarsi: era la sua essenza che ti attraeva non appena gli stavi accanto. E se ti sfiorava, be’, quella era una sensazione diversa da tutte.

    Svanì nell'ombra delle mie riflessioni.

    Lo attesi muta come una tomba. Fu come se mi fosse andato in tilt il cervello. Quando Michael riapparve da una porta di servizio, dalla parte opposta a quella da cui era uscito circa dieci minuti prima, gli scoccai un'occhiata di sottecchi.

    «Preparatevi, ora inizia il film», sussurrò emozionato.

    Cacciò una fugace sbirciatina alla sottoscritta, proprio mentre l’oscurità calava sulla sala. Con un sorriso furbetto stampato in faccia non ricambiai.

    *

    «Un film molto carino!».

    Paris mi dedicò un'espressione allegra.

    «Dici davvero, signorina Sarah? Ti è piaciuto?»

    «Certo! Quasi quasi mi pento di non averlo mai visto prima», arcuai il sopracciglio sinistro, arricciando il naso. Mentivo, in realtà non mi era piaciuto per niente.

    Michael rise sotto i baffi.

    Eravamo a due passi dalla salita che portava al residence principale. Ci fermammo sul posto e Michael si rivolse ai suoi bambini ordinando loro di proseguire da soli e di andare subito a coricarsi, dichiarando che sarebbe arrivato il più presto possibile per il bacio della buonanotte. Annuirono senza discutere.

    Mi presero le mani, prima Paris e successivamente Prince, ed io mi chinai sulle ginocchia cercando di non perdere l'equilibrio e al contempo capire cosa stesse succedendo.

    «Grazie per aver passato questo pomeriggio con noi, signorina Sarah», sussurrò Paris con un mormorio dolcissimo, arrossendo lievemente.

    «Ci siamo divertiti molto, siamo felici di averti come nostra insegnante. Ti vogliamo bene», proseguì Prince, svoltando gli occhi verso qualche direzione ignota per non farsi vedere imbarazzato.

    «Oh...».

    Ci abbracciammo.

    Assaporai quella stretta in silenzio, accuratamente, abbassando le palpebre sui miei occhi carichi di gratitudine.

    Mi separai con un sorriso. «Ed io ringrazio voi. È un sentimento ricambiato».

    Accarezzai le loro guance e mi sollevai. Con passo veloce accorsero in casa e si congedarono sventolando le manine. Io e Michael li tenemmo d'occhio fino a quando oltrepassarono la porta d'entrata.

    «Ti accompagno alla macchina, ok?», Jackson mi adocchiò intensamente.

    Lo studiai con cipiglio stranito come se fossi appena caduta dalle nuvole. Acconsentii. Continuò a esaminarmi insistentemente fino a quando non mi mossi e non lo superai di qualche passo, sentendomi di nuovo a disagio.

    Ripensai all'abbraccio, alla tenerezza di Prince e Paris e a quello che era successo poco prima al cinema; ripensai a Prince, con le labbra socchiuse e gli occhi accesi di interesse - con la schiena inclinata verso le proprie ginocchia - e a Paris, con la sua buffa espressione da bambina sveglia, lo sguardo vigile e attento e quelle piccole dita strette a quelle del padre.

    Era così bello vedere le persone felici.

    Tra padre e figli il clima era di assoluto amore. Non c'erano tensioni, rabbie o dispiaceri. C'era affetto, serenità e divertimento. I bambini non erano capricciosi, viziati o quant'altro, ma indescrivibilmente pacifici e gioiosi di vivere la loro infanzia senza preoccuparsi del futuro.

    Per un attimo mi ero sentita parte della loro famiglia. Era stata un’emozione indescrivibile.

    Mi sentivo fortunata.

    Quando arrivammo al parcheggio Michael si bloccò prima che potessimo raggiungere l'auto. Mi osservò estrarre le chiavi dalla borsa e aggrottare la fronte alla ricerca di quella giusta. Egli non disse niente, standosene con le mani nelle tasche e dondolando sulle punte dei mocassini.

    Trovai la chiave.

    «Grazie mille per la splendida giornata. Chiedo scusa se ho disturbato in qualche modo», lo adocchiai timidamente.

    Con espressione impassibile mi si avvicinò. «Grazie a te. Non hai disturbato nessuno, tantomeno me, in nessun modo».

    Fu allora che spalancò le braccia e mi avvolse. Le sue mani grandi si adagiarono sulla mia schiena cingendomi con dolcezza innata, sfiorandomi i capelli. La pressione si fece man mano più avvolgente.

    Sentii mancare il fiato.

    «Ti ringrazio per quello che fai per me e per i miei figli. Ti voglio bene, non dimenticarlo. Sono felice di averti qui».

    La sua voce era un sussurro, un roco ed emozionato bisbiglio che mi regalava la pelle d'oca. Lo sentii entrare fin sotto la pelle come il vento estivo scivola tra le finestre socchiuse di una camera da letto, dove il Sole non smette di brillare in cielo e la brezza scosta le tende bianche, avvolgendo l'intera stanza con un delicato profumo di pulito.

    La nuca fu colta da pulsazioni interminabili. Ogni punto sul quale aveva poggiato le mani pareva bruciare. La sua vicinanza eclissava ogni pensiero.

    «Anche... anche io», sorrisi spaesata.

    Si separò ed indietreggiò. Gli detti le spalle impacciata, senza guardarlo, ed infilai la chiave per aprire la portiera. Lo salutai con una mano prima di salire in auto e senza attendere la sua risposta. Mi sedetti, misi in moto e partii... il tutto senza pensare a ciò che stavo facendo.

    Solo quando oltrepassai i cancelli di Neverland - grazie al freddo notturno che pioveva dai finestrini abbassati - fui nuovamente in grado di respirare.

    *

    Il telefono squillò.

    Mi ci volle un po' per realizzare che ore fossero e che diavolo stesse succedendo.

    All'inizio credetti di star sognando, perciò non mi mossi. Ma quando gli squilli non accennarono a smettere mi alzai di soprassalto - gli occhi semi chiusi e la bocca tutta impastata. Con l'agilità di una gazzella inebetita mi alzai e accorsi verso il corridoio. Avevo messo il telefono a caricare sopra un mobiletto isolato, pensando che nessuno mi avrebbe cercato a quell’ora.

    Erano le 2.37.

    Afferrai il cellulare e risposi di getto.

    «Pronto

    Parlai italiano. Ero sicura che soltanto mia madre avrebbe potuto chiamarmi ad un simile orario.

    Pensai al peggio, ovviamente.

    Pochi secondi e qualcun altro chiamò il mio nome.

    «Sarah?»

    «Sì...?», risposi in inglese.

    Riconobbi la voce.

    «Scusa, stavi dormendo?»

    «Uhm...», dissi stropicciandomi gli occhi con le dita.

    «Sì, certo che stavi dormendo... che stupido a chiedertelo... vero?»

    «Un po’...», emisi un risolino piuttosto gracchiante. Michael sogghignò di rimando. Mi feci seria. «C'è qualcosa che non va? È successo qualcosa a Paris o a Prince? A Blanket?»

    «No, io... volevo soltanto sentirti...», biascicò fingendo tranquillità. «Non riuscivo a dormire. Non sapevo con chi altro avrei potuto parlare, e così... be', non so perché ho deciso di chiamare proprio te... forse sono uno stupido, ma... ne sento il bisogno».

    «Oh».




    Edited by fallagain - 8/11/2021, 23:25
     
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    Ti ringrazio di cuore, spero di non deluderti con i "cambiamenti" effettuati e il seguito hug
     
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    Capitolo Nove: La Chiamata

    Ero a bocca aperta.

    Ormai si è capito quanto fossi facilmente propensa ad arrossire, anche per la minima cosa. Guarda caso con Michael ero una figuraccia continua. Più le mie guance si coloravano di rosso, più il suo sorriso si faceva ampio e disarmante.

    Avrei tanto voluto sparire dalla faccia della Terra.

    Lui – non chiedetemi perché proprio lui – mi faceva sentire molto più maldestra rispetto a qualsiasi altra persona che avessi mai conosciuto; nel senso che mi faceva imbarazzare con un nonnulla! Se Michael mi osservava, arrossivo; se Michael rideva per qualcosa che dicevo o facevo, arrossivo. Dopotutto era una persona di un certo calibro e riguardo, pensai fosse quella la ragione.

    Vederlo riapparire così mi fece dimenticare tutto quello che era successo dopo la telefonata.

    Ero arrivata alla conclusione di essere un po' irragionevolmente arrabbiata con lui; in realtà non ero soltanto preoccupata per la sua salute, ma anche triste perché non si era più fatto sentire. Temevo che non gli importasse più tanto della mia presenza, visto che avevo svolto e finito il mio lavoro da "consulente". Era un pensiero stupido, egocentrico a dir poco, ma non riuscivo a evitarlo.

    I bambini – grazie a Dio – trovarono il modo di sciogliere quell'intreccio di sguardi tra me e il padre correndogli incontro, includendolo nei loro innocenti discorsi. La mia attenzione ritornò alla televisione nel tentativo di dimenticare la figuraccia appena fatta.

    Respirai a fondo.

    Bastava non guardarlo negli occhi e tutto tornava come prima.

    Più o meno.

    Michael dette un bacio ai figli e si avviò verso il divano tenendoli per mano. Mi adocchiò con occhi vivaci e curiosi. Lo ignorai.

    «Posso unirmi anche io? Sempre che alla signorina Sarah non disturbi la mia presenza...», disse passandomi davanti e assumendo un'aria di chi la sapeva lunga.

    Dissentii col capo come risposta alla sua domanda. Prince e Paris lo fecero accomodare e gli si accalcarono sopra. Mi lasciai scivolare pian pianino verso un angolo estremo del sofà, ancora tiepida in volto.

    Malgrado ciò... qualcosa non andava. Non sapevo bene cosa, ma d'istinto credetti che dovesse essere accaduto un non so che a Michael: il suo volto era un incavato dai segni della stanchezza, lo sguardo esitante.

    E c'era un altro problema, che però riguardava me stessa. Sentivo che averlo lì, accanto, mi rendeva tesa.

    Doveva rimanere il mio datore di lavoro, mi dicevo, non un amico. Anche se mi diceva "Ti voglio bene", anche se io ero disposta a stargli vicino e a chiamarlo "Michael".

    Dovevo tenermi lontana e basta.

    *

    «Papààà...». Paris scese dal divano e si pose dinanzi al padre, appoggiando le piccole manine sulle sue ginocchia. S'imbronciò. «Andiamo a mangiare? Ho fame...»

    Il film era finito da qualche istante, permettendo ai titoli di coda di darci la forza per sollevarci dall'enorme divano cremino e andare a cenare una volta per tutte. Erano le sei e mezza, sebbene tutti quanti lo nascondessero bene – tutti tranne Paris – l'appetito non mancava.

    L'ansia per l'inaspettato arrivo di Michael si sciolse a causa di Prince: vedendomi ridere per le battute del film si era avvicinato alla sottoscritta per adagiare la testolina bionda sulla mia spalla. Ricordo ancora l'espressione che Jackson mi regalò: mi puntava orgoglioso, mentre io sorridevo come una bimba per il film.

    Michael annuì donandole un tenero buffetto sulla guancia, portandola a inclinare il capo tutto da una parte per la tenerezza. Il padre s'issò in piedi e si avvicinò al registratore, estraendo la cassetta solo nel momento in cui il nastro fu completamente tornato indietro. Nel mentre i bimbi mi accerchiarono con visibile allegria, imitando le scene più belle.

    «E... e... ti è piaciuta la scena dove l'orso balla? Con le cuffie e la musica nelle orecchie?» esclamò Prince con enfasi, riferendosi a Big Foot.

    Mentre Paris si affrettava a raccontarmi un'altra scena divertente, il mio sguardo ricadde (per l'ennesima volta) su Michael, il quale silenziosamente mi scrutava con un sorriso divertito ma attento. Aveva quel cipiglio indefinibile che non riuscivo a capire cosa potesse significare.

    C'era una cosa che io e Michael avevamo in comune: entrambi amavamo osservare. Analizzavamo le azioni del mondo come se ci stessimo godendo una pellicola cinematografica, studiandone le espressioni e i movimenti. Non giudicavamo in malo modo, piuttosto amavamo scoprire in silenzio. Desideravamo entrare in contatto con l'anima altrui nel modo più intimo possibile.

    Tutti e due preferivamo agire indisturbati e un certo "feeling" reciproco impediva a uno di esaminare l'altro senza che questo lo percepisse. Anche se decisamente affascinata dalla sua personalità e dal suo carisma, ero sicura che quella sensazione non fosse derivata dalla sua fama.

    Era bello che condividessimo quella particolare qualità, se così si poteva definire. Ero sicura che fosse arrivato a quella considerazione anche lui.

    Mi alzai dal divano stiracchiandomi. «Credo sia meglio che me ne torni a casa».

    I piccoli mi scrutarono tradendo una nota di delusione.

    «Puoi restare se vuoi...».

    Michael mi adocchiò con fare incerto ed io finsi di non rimanerne colpita. Fu sul punto di emetter parola, ma si trattenne lambendosi la bocca.

    «No, grazie», dissentii tra la felicità e il dispiacere. «È meglio che vada, altrimenti qua prendo un brutto vizio...».

    «Non ami stare con noi?», Prince si rabbuiò.

    Ci risiamo.

    «Certo che no!». Mi chinai in avanti per scompigliargli i capelli biondi provocandogli una leggera risata. «Io sto davvero bene con voi!»

    «E allora perché non vieni ad abitare qui?».

    «Vieni a vivere qua, signorina Sarah...», Paris mi tirò per una manica del maglioncino verde ottanio.

    Fissai Michael smarrita. Quest'ultimo ricambiò ma non fui in grado di capire se fosse soddisfatto o pensieroso per ciò che avevano appena detto i suoi figli. Si umettò il labbro inferiore e distolse lo sguardo dalla mia figura.

    «Bambini, credo che sia meglio che andiate a prepararvi con Blanket e Grace, io vi raggiungo dopo. Se mai non mi vedeste arrivare, iniziate pure senza di me». Accarezzò loro la testa. «Io parlo un momento con la signorina Sarah», mi puntò imperscrutabilmente.

    «Ok, papà...»

    I due si diressero quieti quieti verso la sala da pranzo, non prima di avermi dato un bacino sulle guance.

    Nel momento in cui scomparvero dalla visuale stavo già osservando Michael. Neanche lui ci mise tanto a ricambiare. Chinò il mento portandosi il pollice e l'indice sulla fossetta del mento, sfiorandola con lentezza. Mentre io mi lisciavo le pieghe del maglione con cura, egli ripose le mani nelle tasche dei pantaloni neri.

    «Ti dispiacerebbe seguirmi in ufficio?».

    Aveva due occhi scuri e luminosi.

    Acconsentii.

    Salimmo le scale del primo piano senza emettere una parola; arrivati alla porta mi fece entrare per prima e accomodare sulla stessa sedia in velluto della volta precedente. Quando fummo uno di fronte all'altro calò un silenzio quasi insopportabile.

    Aspettai a braccia conserte.

    Si bagnò le labbra puntando i gomiti sulla scrivania. Con una delicatezza innata intrecciò le dite delle mani e notai, per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, che le unghie erano molto più scure rispetto al suo colore di pelle bianco pallido, spennellata qua e là da minuscole macchie di quella malattia di nome vitiligine.

    Contemplò ogni mio lineamento.

    «Sei ancora decisa a non trasferirti?», chiese con voce morbida e profonda.

    Annuii. «Penso che sia ancora troppo presto. Vorrei avere la tua piena fiducia prima di fare un passo del genere».

    Michael alzò un sopracciglio, meravigliato.

    Arrossi istantaneamente e mi morsi l'interno guancia con forza, sviando l'attenzione sulla statuetta di Buzz Lightyear.

    Lo udii scoccare la lingua al palato.

    «Mi dispiace...»

    Corrugai la fronte. «Cosa?»

    Teneva gli occhi sulle sue mani con fare apparentemente assente.

    «Mi dispiace», sussurrò fissandomi, «di non essermi fatto sentire per tutti questi giorni».

    Colpita e affondata.

    «Oh, non fa niente, davvero», arrossii pur esibendo un finto atteggiamento disinteressato.

    Mi sentivo una bugiarda. Pur avendo la mia completa comprensione, sapevo di averla presa troppo sul personale. Michael non mi doveva assolutamente niente.

    «Però ti ho ferito».

    «Non mi hai ferito».

    «Ma ti ho fatto rimanere male».

    Aprii la bocca per parlare, ma non seppi cosa dire.

    Era il più ostinato e caparbio personaggio che avessi mai conosciuto in vita mia. Il più tenace ma anche il più intuitivo... non mollava la presa, non demordeva fin quando non gli dicevo che aveva ragione. E ce l'aveva eccome.

    Sorrise amaramente. Si accigliò e si lasciò cadere sullo schienale della poltrona, guidando le mani ancora legate proprio sopra la pancia.

    «Non ho scuse per il mio comportamento. Dico seriamente, quella notte sei stata straordinaria. Il giorno dopo mi sono messo subito al lavoro come mi hai consigliato. Sono andato alla ricerca degli avvocati migliori. Voglio trovare una figura che possa difendermi con professionalità e bravura mai vista prima.

    Mi dispiace se hai pensato male, in realtà non volevo disturbarti più di quanto non abbia già fatto. Ho aspettato anche per vedere se tu mi avresti cercato, in realtà», si passò la lingua sulle labbra con aria autoritaria.

    Ebbi un lieve tumulto nel petto.

    «Direi che entrambi abbiamo bisogno di una spinta allora!», borbottai ridacchiando. Mi fissò sorpreso. Tutta la tensione che avevo provato fino a quel momento si sciolse come un ghiacciolo al Sole. «L'importante è che la crisi sia passata».

    Mi puntò a lungo, senza rispondere, ed io non chinai la testa. Si sfregò le mani probabilmente alla ricerca di qualche altra scusa da darmi, ma capendo il suo stato di sincero dispiacere lo tranquillizzai con un'occhiata benevola.

    «È vero, ammetto che ci sono rimasta male. Mi è dispiaciuto molto, pensavo e penso ancora di non aver fatto abbastanza. È normale parlare con qualcuno e non riuscire a sentirsi capiti, vuol dire che non è la persona giusta per noi. Quindi ho pensato che fosse per quello», mi strinsi nelle spalle frattanto che Jackson mi scrutava sempre più sorpreso. «Non è tenuto a raccontarmi ogni cosa e a sentirsi in colpa per questo. E io, a mia volta, dovrei essere più trasparente e meno egocentrica».

    «Tu non sei egocentrica», ribatté.

    «Non mi conosci abbastanza, no?», un'estremità della bocca si alzò in un debole cenno d'intesa.

    Mi esaminò profondamente incupito.

    «Per me non sei egoista, almeno per ora. E ti lasci scoprire con facilità. Il tuo viso ne è una prova».

    Arrossii. «E io che per anni ho creduto il contrario!», sogghignai ammirando il caminetto acceso con imbarazzo.

    Michael annuì delicatamente. Soppesò le mie parole.

    «Vorrei che ti trasferissi qui a Neverland, con me e i miei figli».

    Lo guardai basita. Attendeva una mia risposta immobile come una statua. La voce autorevole e composta, però, veniva ingannata da due pietre stracolme di curiosità.

    «Mi fido di te, anche se so che ci vorrebbe molto più tempo per conoscerti e valutarti. I miei figli si stanno affezionando, piaci molto a tutti. Credo che sarebbero felici di avere una persona così buona e ben disposta alla loro compagnia. Sempre che a te non dispiaccia...»

    «Oh no, lo giuro!». Mi zittii vergognandomi del mio entusiasmo esagerato, vedendolo sorridere per la mia enfasi incontenibile. Presi fiato. «Ci devo pensare su. Anche se non credo di poter dire di no...».

    Michael sogghignò a fronte bassa. Dopodiché mi scrutò con una punta di divertimento. «Grazie».

    Increspai le labbra in una smorfia ingenuamente riconoscente.

    Feci dondolare il piede della gamba accavallata ammirandomi le scarpe. Andai avanti così per un po', fino a quando non mi richiamò con un bisbiglio.

    «Sarah...»

    «Mmh?».

    «Cosa ne pensi di Dio?»

    Increspai le sopracciglia. «Eh?»

    «Credi in Dio? Cioè...», deviò lo sguardo verso il basso e poi verso destra, serrando le labbra e bagnandosele successivamente. Sospirò. «Com'è Dio per te? Chi è?»

    L'osservai spaesata. Di certo non mi sarei immaginata una domanda del genere, di punto in bianco e senza il benché minimo preavviso. Era un argomento piuttosto difficile da trattare, ma credetti di aver capito il perché.

    Esibii una smorfia pensosa. Michael non distolse gli occhi dai miei nemmeno quando sorrisi leggermente e mi prestai a dire:

    «La mia opinione su Dio... è... particolare. C'è stato un libro, che lessi ancora quando ero adolescente, che rappresenta la mia opinione su di lui. O su di lei, qualunque cosa si voglia credere. Per me Dio è un'energia. Non ha la forma di una persona, non è neanche un'entità suprema di qualche tipo. La gente può dipingerlo come un vecchio dalla pelle bianca, capelli bianchi e tutto il resto, ma non deve essere per forza una verità universale. Per me Dio non ha forme. Vive negli alberi, nel vento. È un energia che sta dentro di noi e ovunque.

    Come dice un personaggio importante di questo libro, Dio vuole soltanto essere amato e far sentire a noi l'amore. Ci sono persone che smettono di avere fede perché dicono: "Che cosa ha fatto Lui, per la gente e per me?". Il nostro problema è che gli diamo le colpe per qualsiasi cosa, soprattutto quando succedono cose brutte. È la natura umana. Ma non è Dio il cattivo, è la vita che è cattiva. La vita accade, semplicemente. Non penso che qualcuno si diverta – da lassù o da dove si voglia credere che sia – a vederci stare male o bene. "I peccatori si divertono più degli altri perché non si preoccupano sempre di Dio", che non sono altro se non coloro che si divertono e vivono la loro vita per quella che è. "Se ci sentiamo amati da Dio, facciamo del nostro meglio per farlo contento con le cose che ci piacciono". Dio ci ama anche se non siamo mai andati in chiesa. Dio ama se fai le cose con il cuore, perché lui stesso dovrebbe rappresentare quell'energia. "Dio si arrabbia solo se passiamo davanti a qualcosa creato da lui apposta per noi senza ammirarlo, come ad esempio un campo colorato da..."»

    «Il colore viola...», sussurrò con lo sguardo perso nel vuoto.

    «Sì!», m'illuminai sorridendo.

    Smisi di gesticolare e parlare ininterrottamente. Michael, d'altro canto, non riuscii a non fissare qualcosa che non fosse la scrivania.

    Lasciai cadere la schiena sulla poltrona con un abbozzo di sorriso. «Io non credo che sia Dio a governare le nostre vite e l'andamento di questo pazzo mondo...».

    Il silenzio regnò sovrano. Michael mi squadrò per un lungo istante ed io feci lo stesso. Poco dopo inclinò lo sguardo, si piegò verso un cassetto della scrivania, lo aprì e ne tirò fuori un fazzoletto di seta. Si asciugò gli occhi. Non si soffiò nemmeno il naso. Lo puntai tra lo stupito e il rattristato, intuendo che si fosse commosso.

    Ripose il panno in una tasca dei pantaloni.

    «Scusa», la voce era leggermente incrinata. «Trovo affascinante conoscere le opinioni altrui riguardo un concetto così vasto e incognito». Evitò di andare dritto al punto sperando che fossi io a tirar fuori l'argomento. «Si vede che sei molto devota al tuo concetto di "Dio"».

    Distesi la fronte. «Diciamo che gli voglio bene per quello che penso che sia», sorrisi.

    Michael pitturò la dolcezza nei suoi tratti marcati. «Il tuo sembra un credo davvero stupendo».

    Arrossii ancora.

    Mi puntai le ginocchia. Analizzai le scarpe nere con un filo di tacco, le rifiniture del legno, il piacevole tepore che invadeva la stanza, non facendo caso al silenzio che ci cingeva in un abbraccio disumano.

    «Pensi che io meriti di conoscere la tua personalità?».

    M'osservò senza palesare emozione.

    Spalancai di poco la bocca, senza ribattere.

    «Perché ti fidi di me?», si chinò con i gomiti sulla scrivania.

    «Perché non ti vedo cattivo».

    Lo sussurrai con ingenua sincerità. Mi fissò.

    «Pensi che io non sia cattivo?»

    Continuai ad arrossire sempre di più.

    «No».

    «Perché?»

    Guardai le sue mani; i polpastrelli tamburellavano nervosamente contro il legno freddo. Rilassai i lineamenti del viso e respirai a fondo, prendendomi tutto il tempo che necessitavo per rispondere.

    «Perché i tuoi occhi non diventano tristi per nulla. Vedo il tuo sguardo farsi vacuo, soprattutto quando i tuoi figli non sono lì a guardarti. Non perché non possiedi un'anima, ma perché c'è una sofferenza quasi tagliente che ti perseguita. Si vede... e solo una persona veramente buona può avere dentro tutta questa... angoscia», mossi le mani in aria. «Una persona cattiva o ipocrita non si fa tutti questi esami di coscienza, mi spiego? Non ci sta così male. La tua non è una scenata, senti davvero questo malessere. E poi perché dovresti fingerlo con me? Non sono un giornalista o una giuria. Sono soltanto un'insegnante».

    Si tirò indietro piegando la testa verso destra, ammirando la libreria e torturandosi le labbra con la lingua. Le due ossidiane che aveva al posto degli occhi brillarono; ma non di gioia, bensì di lacrime.

    Ingoiò la saliva rumorosamente e mi guardò smarrito. Il cuore si spezzò nel attimo in cui mi perforò l'anima con tutta la sua rassegnazione.

    «Come fai a vedere tutto questo?», domandò con tono quasi pregante.

    Non sapevo se il fatto che potessi capirlo così facilmente lo infastidisse o lo consolasse, oppure se silenziosamente pregava affinché gli indicassi una via di fuga da se stesso.

    Serrò le palpebre corrugando la fronte.

    «Vuoi dirmi cosa ti fa star male?», mormorai dolcemente.

    «Io, non...»

    Gli occhi rimasero ancora chiusi.

    Il volto si contrasse in un cipiglio agonizzante. Si portò le mani sulla faccia e si chinò lentamente sulle ginocchia.

    Non gridò. Non scoppiò rumorosamente. Non esalò neppure un gemito. Anche se era chiaro che stesse piangendo, Michael non si mosse nemmeno di un centimetro.

    Le mie gambe si irrigidirono e tutti i muscoli del corpo si tesero. Ben presto mi trovai sollevata dalla sedia. Mi posi al suo fianco con passi inudibili, indecisa se accarezzargli o meno la schiena – almeno per dargli un senso di confronto.

    «Non ho speranze, Sarah...», biascicò con le dita che lo nascondevano dal mio sguardo. «Ci provo ma fa male... è tutto così difficile, non riesco a dare una svolta alla mia vita. Ogni tanto vorrei solo scomparire... non sentire più nulla... vivere senza questo peso che non mi permette di essere mai veramente felice».

    Appoggiai il peso sulle ginocchia e mi piegai a terra. Gli massaggiai la schiena con pressioni leggere. I polpastrelli lasciarono la presa sugli occhi annebbiati dal pianto, ammirando il nulla con espressione vitrea: la pelle era completamente bagnata da gocce salate, la vista offuscata da un velo di lucida disperazione.

    «Sono i miei figli che mi permettono di restare vivo. Non ho controllo della mia vita, non ho un attimo di pace, vado avanti a tentoni... non ho mai avuto nessuno che potesse aiutarmi a capire cosa dovessi fare della mia esistenza nel modo più saggio. Mi fido sempre e soltanto delle persone sbagliate...».

    Gesticolò per tutto il tempo, piangendo senza il minimo spasmo. Ogni volta che una lacrima scivolava lungo la sua guancia mi affrettavo a raccoglierla: le dita tremavano mentre cercavo di essere più delicata possibile per l'ingiustificato timore di fargli male. Mi sembrava di avere a che fare con una bambola di ceramica.

    «Si fiderà di te chi ha cercato di capirti davvero, senza nessun pregiudizio o remore. Vedrai che qualcuno ci sarà, che la tua innocenza verrà comprovata. Lo so che è difficile, ma hai già fatto un passo avanti! Non vedi? Hai cercato gli avvocati per il processo e questo è già un primo traguardo! Dovresti essere contento, sei riuscito a fare qualcosa per te... so che non è molto, ma è molto più consistente del nulla. Vedrai che troverai chi ti saprà difendere a dovere e non dovrai fare tutto da solo. Oh sì che lo farà, spaccherà il culo al procuratore e a tutti coloro che si metteranno contro».

    Anche se con gli occhi umidi di paura riuscì a sorridere. «Non dire quelle parole, Sarah...»

    «Che parole?», ammisi scioccata. Arrossii. «Be', non importa! Quando ci vogliono, ci vogliono, no? E se vuoi te lo ripeto: spaccherete il culo!».

    Rise come un bambino, nascondendosi il viso fra i palmi.

    Sorrisi. «Sono felice che tu abbia fatto qualcosa per te. E dovresti esserlo anche tu. Non sei solo, lo sai. È solo la paura che ti fa sentire così...». Il mio sguardo s'allontanò dalle sue iridi nere e improvvisamente attente. «Sei coraggioso, perché ci sono persone che si lascerebbero morire nonostante la presenza di figli accanto. Ma questo non è il tuo momento di andartene».

    Lo scorsi rabbrividire. Riprese il fazzoletto dalla tasca e si asciugò il viso. Mi sollevai in piedi e indietreggiai incrociando le braccia dietro la schiena.

    «Ti credo...»

    «Hai qualcosa per cui vale la pena vivere, Michael. Non sei perduto fino a quando non perdi questo "qualcosa". E non lo perderai mai. I tuoi figli aspettano soltanto che il padre si faccia valere, così un giorno urleranno al mondo quanto sono orgogliosi di lui, più di quanto non facciano già adesso. Ti vorranno bene per sempre. Sei il loro supereroe preferito».

    Michael lasciò cadere un'ultima lacrima dai suoi occhi profondi.

    «Grazie. Davvero, grazie...», mi puntò intensamente.

    Feci spallucce. «Non faccio nulla di che», mugugnai. «Penso che tu, come ogni persona buona, meriti un sostegno».

    Michael si alzò con lentezza, lisciandosi la camicia e osservando il parquet distrattamente. Mi scrutò con amabilità disarmante, con due labbra incurvate all'insù tipiche di un ragazzino sconsolato. Le sue spalle ampie si alzarono quando i polmoni si riempirono di ossigeno.

    «Posso abbracciarti?»

    Gli sorrisi maggiormente. «Certo che puoi!».

    Spalancai le braccia ma la sua stretta arrivò prima che potessi prepararmi. Colsi un'essenza profumata a cui prima non avevo fatto minimamente caso: sandalo. Quella nota speziata ed esotica, mista all'essenza del borotalco, fu in grado di annebbiare le facoltà motorie per un istante.

    Mi cinse con forza ed io lo sentii inspirare. Gli enormi palmi mi avvolgevano perfettamente la schiena.

    Arrossii con un'espressione di beatitudine che si fondeva con l'amarezza, mentre permettevo alla spina dorsale di tremare di fronte a un contatto così dolce quanto strano. I miei occhi si inumidirono, il naso pizzicò.

    Quando si separò dal mio petto, teneramente, Michael mi guardava ancora. Da vicino il suo sguardo riusciva a intimidirmi più di quanto non facesse già a distanza. Notai le sue mascelle leggermente squadrate, il mento marcato, le sopracciglia perfette e soprattutto gli occhi, profondi come l'obbiettivo di una macchina fotografica che punta il soggetto fin troppo nitidamente.

    Rispetto al primo incontro avevo cambiato idea su di lui. Sapeva essere un uomo affascinante.

    Arrossii curvando le iridi in un'altra direzione, verso la finestra a muro alla mia sinistra.

    Lui ridacchiò. «Ti ho imbarazzato?»

    «Un po'», sorrisi spontaneamente e Jackson fece lo stesso, concentrato solo su di me. «Tutta questa vicinanza mi ricorda tanto un tentativo di flirt», proruppi con incurante schiettezza.

    Michael mi ignorò chinandosi sulla mia guancia destra. La baciò delicatamente e sussurrò: «Potresti anche avere ragione. Ma per il momento è meglio rimanere solo buoni amici, che ne dici?»

    Rabbrividii da capo a piedi. Il cuore si fermò nello stesso istante in cui la sua voce mi penetrò l'udito. Lo fissai nell'immediato e con le palpebre sbarrate dallo shock.

    Cosa?

    «Allora? Che ne pensi?».

    Mi mancò la capacità di formulare una frase di senso compiuto. Solo quando sollevò entrambe le sopracciglia, come a volermi chiedere "Allora? Che mi rispondi?", mi ridestai dal mio stato quasi catatonico.

    «Oh... sì, nessun dubbio».

    In realtà non capivo a cosa si stesse riferendo, se al trasferimento o al rimanere solo buoni amici. Perciò borbottai in tono divertente, lasciando la sua presa attorno al mio corpo ed indietreggiando di un passo.

    Sogghignò fra sé e sé, leccandosi il labbro inferiore e ponendo le nocche sui fianchi.

    «Ora è meglio andare, altrimenti non riuscirai a sistemare le tue...»

    Lasciò la frase a mezz'aria e incompiuta. Gli lanciai quel mezzo sorriso di chi aveva già capito dove volesse andare a parare. Aveva un cipiglio così apparentemente tranquillo da renderlo una faccia tosta.

    «Per il trasferimento ci vorrà un po' di tempo. Sia per disdire il contratto d'affitto, sia per tutti i bagagli da rifare e la ditta del trasloco da contattare», dissi accigliandomi e torturandomi i polpastrelli con insistenza.

    «Oh, non ti preoccupare. Farò mandare alcuni dei miei dipendenti per i bagagli. E per qualsiasi altro problema con il tuo contratto d'affitto posso sicuramente darti una mano», disse. Sorrideva così tanto che ebbi la tentazione di girarmi dall'altra parte, per evitare di rimanere abbagliata dalla luce che emanava quella gioia a dir poco folgorante.

    «Be'...», lo studiai di soppiatto. «Grazie... sorriso ultra-bright».

    Michael issò un sopracciglio rispetto a un altro. Schiuse la bocca per la meraviglia e un secondo più tardi esplose in una sonora e pazza risata, congiungendo le mani davanti alla bocca. Nell'attimo in cui gli spasmi terminarono mi squadrò con fare malizioso e la lingua che scivolava continuamente sulle labbra.

    «Che cosa? "Sorriso ultra-bright"?», sorrise.

    «Certo», arrossii ma senza mostrare insicurezza. «Perché hai un sorriso che illumina perfino il Sole», alzai le spalle.

    Le iridi erano luccicanti. Sghignazzò imbarazzato con le nocche pinzate sui fianchi.

    «A me piace dare nomignoli simpatici alla gente a cui voglio bene, non dovrai mai dimenticarlo! Se questo non ti piace ne posso trovare di più originali», incrociai le braccia al petto.

    «Oh, be', per me questo è stupendo», fece spallucce e mi puntò allegramente.

    Guardò in basso e si avvicinò alla mia fronte con una sola falcata: mi diede un bacio sulla tempia destra e il fiato incespicò su se stesso.

    «Scusa se non ti accompagno al parcheggio, i miei figli hanno bisogno di me questa sera».

    «Oh sì, scusa!», dissi balzando sul posto. «Scusa, vado subito! Arrivederci!», e così feci retrofronte per accorrere alla porta, pronta a scendere per recuperare borsa a tracolla e valigetta da insegnante.

    Mi sentii afferrare per un braccio.

    Mi voltai.

    Mi scrutava con una severità mozzafiato.

    «Ti voglio bene, ricordalo».

    Poi un angolo della bocca si piegò all'insù. Con un dito mi punzecchiò la guancia e, sghignazzando a voce roca, osservò il colore delle gote cambiare da un bel rosato ad un rosso perfettamente acceso.

    Si divertiva parecchio a imbarazzarmi.

    «Sì, be', anche io...», bofonchiai senza dirgli un "Ti voglio bene" diretto.

    Non ero brava a dire alle persone quanto le amavo - non ero abituata a quelle manifestazioni di affetto così esplicite - ma con lui pensavo che prima o poi ci avrei fatto l'abitudine. Sotto quell'aspetto sembrava tutto il contrario della sottoscritta.

    Dette un secondo buffetto affettuoso alla guancia e mi lasciò uscire. Lo salutai rapidamente, dirigendomi impettita verso il piano inferiore. In un batter d'occhio – senza nemmeno accorgermi – mi ritrovai sul viale in direzione del parcheggio, e successivamente in macchina, destinazione "casa". Le situazioni che avevo vissuto fino a pochi momenti prima erano come flash di luce che a scatti mi accecavano la vista.

    Pensavo al futuro, alla voglia di rifare nuovamente i bagagli e di trasferirmi all'Isola che non c'è una volta per tutte.



    1 Riporto le informazioni sul processo di Michael: “Il 20 novembre 2003 fu emanato un mandato di arresto per Jackson. Il cantante era a Las Vegas, Nevada, e stava registrando un video musicale per il suo più recente singolo One More Chance del suo album greatest hits Number Ones: l'artista volò su un jet affittato al Santa Barbara Municipal Airport e si costituì alla polizia californiana. Fu portato al carcere di Santa Barbara County e uscì dal veicolo delle forze dell'ordine in manette. Jackson pagò 3.000.000$ di cauzione, dopo aver richiesto una riduzione della somma, alla quale l'accusa si oppose”.



    Edited by fallagain - 8/11/2021, 23:46
     
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    Ero a bocca aperta.

    Ormai si è capito quanto fossi facilmente propensa ad arrossire, anche per la minima cosa. Guarda caso con Michael ero una figuraccia continua. Più le mie guance si coloravano di rosso, più il suo sorriso si faceva ampio e disarmante.

    Avrei tanto voluto sparire dalla faccia della Terra.

    Lui – non chiedetemi perché proprio lui – mi faceva sentire molto più maldestra rispetto a qualsiasi altra persona che avessi mai conosciuto; nel senso che mi faceva imbarazzare con un nonnulla! Se Michael mi osservava, arrossivo; se Michael rideva per qualcosa che dicevo o facevo, arrossivo. Dopotutto era una persona di un certo calibro e riguardo, pensai fosse quella la ragione.

    Vederlo riapparire così mi fece dimenticare tutto quello che era successo dopo la telefonata.

    Ero arrivata alla conclusione di essere un po' irragionevolmente arrabbiata con lui; in realtà non ero soltanto preoccupata per la sua salute, ma anche triste perché non si era più fatto sentire. Temevo che non gli importasse più tanto della mia presenza, visto che avevo svolto e finito il mio lavoro da "consulente". Era un pensiero stupido, egocentrico a dir poco, ma non riuscivo a evitarlo.

    I bambini – grazie a Dio – trovarono il modo di sciogliere quell'intreccio di sguardi tra me e il padre correndogli incontro, includendolo nei loro innocenti discorsi. La mia attenzione ritornò alla televisione nel tentativo di dimenticare la figuraccia appena fatta.

    Respirai a fondo.

    Bastava non guardarlo negli occhi e tutto tornava come prima.

    Più o meno.

    Michael dette un bacio ai figli e si avviò verso il divano tenendoli per mano. Mi adocchiò con occhi vivaci e curiosi. Lo ignorai.

    «Posso unirmi anche io? Sempre che alla signorina Sarah non disturbi la mia presenza...», disse passandomi davanti e assumendo un'aria di chi la sapeva lunga.

    Dissentii col capo come risposta alla sua domanda. Prince e Paris lo fecero accomodare e gli si accalcarono sopra. Mi lasciai scivolare pian pianino verso un angolo estremo del sofà, ancora tiepida in volto.

    Malgrado ciò... qualcosa non andava. Non sapevo bene cosa, ma d'istinto credetti che dovesse essere accaduto un non so che a Michael: il suo volto era un incavato dai segni della stanchezza, lo sguardo esitante.

    E c'era un altro problema, che però riguardava me stessa. Sentivo che averlo lì, accanto, mi rendeva tesa.

    Doveva rimanere il mio datore di lavoro, mi dicevo, non un amico. Anche se mi diceva "Ti voglio bene", anche se io ero disposta a stargli vicino e a chiamarlo "Michael".

    Dovevo tenermi lontana e basta.

    *

    «Papààà...». Paris scese dal divano e si pose dinanzi al padre, appoggiando le piccole manine sulle sue ginocchia. S'imbronciò. «Andiamo a mangiare? Ho fame...»

    Il film era finito da qualche istante, permettendo ai titoli di coda di darci la forza per sollevarci dall'enorme divano cremino e andare a cenare una volta per tutte. Erano le sei e mezza, sebbene tutti quanti lo nascondessero bene – tutti tranne Paris – l'appetito non mancava.

    L'ansia per l'inaspettato arrivo di Michael si sciolse a causa di Prince: vedendomi ridere per le battute del film si era avvicinato alla sottoscritta per adagiare la testolina bionda sulla mia spalla. Ricordo ancora l'espressione che Jackson mi regalò: mi puntava orgoglioso, mentre io sorridevo come una bimba per il film.

    Michael annuì donandole un tenero buffetto sulla guancia, portandola a inclinare il capo tutto da una parte per la tenerezza. Il padre s'issò in piedi e si avvicinò al registratore, estraendo la cassetta solo nel momento in cui il nastro fu completamente tornato indietro. Nel mentre i bimbi mi accerchiarono con visibile allegria, imitando le scene più belle.

    «E... e... ti è piaciuta la scena dove l'orso balla? Con le cuffie e la musica nelle orecchie?» esclamò Prince con enfasi, riferendosi a Big Foot.

    Mentre Paris si affrettava a raccontarmi un'altra scena divertente, il mio sguardo ricadde (per l'ennesima volta) su Michael, il quale silenziosamente mi scrutava con un sorriso divertito ma attento. Aveva quel cipiglio indefinibile che non riuscivo a capire cosa potesse significare.

    C'era una cosa che io e Michael avevamo in comune: entrambi amavamo osservare. Analizzavamo le azioni del mondo come se ci stessimo godendo una pellicola cinematografica, studiandone le espressioni e i movimenti. Non giudicavamo in malo modo, piuttosto amavamo scoprire in silenzio. Desideravamo entrare in contatto con l'anima altrui nel modo più intimo possibile.

    Tutti e due preferivamo agire indisturbati e un certo "feeling" reciproco impediva a uno di esaminare l'altro senza che questo lo percepisse. Anche se decisamente affascinata dalla sua personalità e dal suo carisma, ero sicura che quella sensazione non fosse derivata dalla sua fama.

    Era bello che condividessimo quella particolare qualità, se così si poteva definire. Ero sicura che fosse arrivato a quella considerazione anche lui.

    Mi alzai dal divano stiracchiandomi. «Credo sia meglio che me ne torni a casa».

    I piccoli mi scrutarono tradendo una nota di delusione.

    «Puoi restare se vuoi...».

    Michael mi adocchiò con fare incerto ed io finsi di non rimanerne colpita. Fu sul punto di emetter parola, ma si trattenne lambendosi la bocca.

    «No, grazie», dissentii tra la felicità e il dispiacere. «È meglio che vada, altrimenti qua prendo un brutto vizio...».

    «Non ami stare con noi?», Prince si rabbuiò.

    Ci risiamo.

    «Certo che no!». Mi chinai in avanti per scompigliargli i capelli biondi provocandogli una leggera risata. «Io sto davvero bene con voi!»

    «E allora perché non vieni ad abitare qui?».

    «Vieni a vivere qua, signorina Sarah...», Paris mi tirò per una manica del maglioncino verde ottanio.

    Fissai Michael smarrita. Quest'ultimo ricambiò ma non fui in grado di capire se fosse soddisfatto o pensieroso per ciò che avevano appena detto i suoi figli. Si umettò il labbro inferiore e distolse lo sguardo dalla mia figura.

    «Bambini, credo che sia meglio che andiate a prepararvi con Blanket e Grace, io vi raggiungo dopo. Se mai non mi vedeste arrivare, iniziate pure senza di me». Accarezzò loro la testa. «Io parlo un momento con la signorina Sarah», mi puntò imperscrutabilmente.

    «Ok, papà...»

    I due si diressero quieti quieti verso la sala da pranzo, non prima di avermi dato un bacino sulle guance.

    Nel momento in cui scomparvero dalla visuale stavo già osservando Michael. Neanche lui ci mise tanto a ricambiare. Chinò il mento portandosi il pollice e l'indice sulla fossetta del mento, sfiorandola con lentezza. Mentre io mi lisciavo le pieghe del maglione con cura, egli ripose le mani nelle tasche dei pantaloni neri.

    «Ti dispiacerebbe seguirmi in ufficio?».

    Aveva due occhi scuri e luminosi.

    Acconsentii.

    Salimmo le scale del primo piano senza emettere una parola; arrivati alla porta mi fece entrare per prima e accomodare sulla stessa sedia in velluto della volta precedente. Quando fummo uno di fronte all'altro calò un silenzio quasi insopportabile.

    Aspettai a braccia conserte.

    Si bagnò le labbra puntando i gomiti sulla scrivania. Con una delicatezza innata intrecciò le dite delle mani e notai, per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, che le unghie erano molto più scure rispetto al suo colore di pelle bianco pallido, spennellata qua e là da minuscole macchie di quella malattia di nome vitiligine.

    Contemplò ogni mio lineamento.

    «Sei ancora decisa a non trasferirti?», chiese con voce morbida e profonda.

    Annuii. «Penso che sia ancora troppo presto. Vorrei avere la tua piena fiducia prima di fare un passo del genere».

    Michael alzò un sopracciglio, meravigliato.

    Arrossi istantaneamente e mi morsi l'interno guancia con forza, sviando l'attenzione sulla statuetta di Buzz Lightyear.

    Lo udii scoccare la lingua al palato.

    «Mi dispiace...»

    Corrugai la fronte. «Cosa?»

    Teneva gli occhi sulle sue mani con fare apparentemente assente.

    «Mi dispiace», sussurrò fissandomi, «di non essermi fatto sentire per tutti questi giorni».

    Colpita e affondata.

    «Oh, non fa niente, davvero», arrossii pur esibendo un finto atteggiamento disinteressato.

    Mi sentivo una bugiarda. Pur avendo la mia completa comprensione, sapevo di averla presa troppo sul personale. Michael non mi doveva assolutamente niente.

    «Però ti ho ferito».

    «Non mi hai ferito».

    «Ma ti ho fatto rimanere male».

    Aprii la bocca per parlare, ma non seppi cosa dire.

    Era il più ostinato e caparbio personaggio che avessi mai conosciuto in vita mia. Il più tenace ma anche il più intuitivo... non mollava la presa, non demordeva fin quando non gli dicevo che aveva ragione. E ce l'aveva eccome.

    Sorrise amaramente. Si accigliò e si lasciò cadere sullo schienale della poltrona, guidando le mani ancora legate proprio sopra la pancia.

    «Non ho scuse per il mio comportamento. Dico seriamente, quella notte sei stata straordinaria. Il giorno dopo mi sono messo subito al lavoro come mi hai consigliato. Sono andato alla ricerca degli avvocati migliori. Voglio trovare una figura che possa difendermi con professionalità e bravura mai vista prima.

    Mi dispiace se hai pensato male, in realtà non volevo disturbarti più di quanto non abbia già fatto. Ho aspettato anche per vedere se tu mi avresti cercato, in realtà», si passò la lingua sulle labbra con aria autoritaria.

    Ebbi un lieve tumulto nel petto.

    «Direi che entrambi abbiamo bisogno di una spinta allora!», borbottai ridacchiando. Mi fissò sorpreso. Tutta la tensione che avevo provato fino a quel momento si sciolse come un ghiacciolo al Sole. «L'importante è che la crisi sia passata».

    Mi puntò a lungo, senza rispondere, ed io non chinai la testa. Si sfregò le mani probabilmente alla ricerca di qualche altra scusa da darmi, ma capendo il suo stato di sincero dispiacere lo tranquillizzai con un'occhiata benevola.

    «È vero, ammetto che ci sono rimasta male. Mi è dispiaciuto molto, pensavo e penso ancora di non aver fatto abbastanza. È normale parlare con qualcuno e non riuscire a sentirsi capiti, vuol dire che non è la persona giusta per noi. Quindi ho pensato che fosse per quello», mi strinsi nelle spalle frattanto che Jackson mi scrutava sempre più sorpreso. «Non è tenuto a raccontarmi ogni cosa e a sentirsi in colpa per questo. E io, a mia volta, dovrei essere più trasparente e meno egocentrica».

    «Tu non sei egocentrica», ribatté.

    «Non mi conosci abbastanza, no?», un'estremità della bocca si alzò in un debole cenno d'intesa.

    Mi esaminò profondamente incupito.

    «Per me non sei egoista, almeno per ora. E ti lasci scoprire con facilità. Il tuo viso ne è una prova».

    Arrossii. «E io che per anni ho creduto il contrario!», sogghignai ammirando il caminetto acceso con imbarazzo.

    Michael annuì delicatamente. Soppesò le mie parole.

    «Vorrei che ti trasferissi qui a Neverland, con me e i miei figli».

    Lo guardai basita. Attendeva una mia risposta immobile come una statua. La voce autorevole e composta, però, veniva ingannata da due pietre stracolme di curiosità.

    «Mi fido di te, anche se so che ci vorrebbe molto più tempo per conoscerti e valutarti. I miei figli si stanno affezionando, piaci molto a tutti. Credo che sarebbero felici di avere una persona così buona e ben disposta alla loro compagnia. Sempre che a te non dispiaccia...»

    «Oh no, lo giuro!». Mi zittii vergognandomi del mio entusiasmo esagerato, vedendolo sorridere per la mia enfasi incontenibile. Presi fiato. «Ci devo pensare su. Anche se non credo di poter dire di no...».

    Michael sogghignò a fronte bassa. Dopodiché mi scrutò con una punta di divertimento. «Grazie».

    Increspai le labbra in una smorfia ingenuamente riconoscente.

    Feci dondolare il piede della gamba accavallata ammirandomi le scarpe. Andai avanti così per un po', fino a quando non mi richiamò con un bisbiglio.

    «Sarah...»

    «Mmh?».

    «Cosa ne pensi di Dio?»

    Increspai le sopracciglia. «Eh?»

    «Credi in Dio? Cioè...», deviò lo sguardo verso il basso e poi verso destra, serrando le labbra e bagnandosele successivamente. Sospirò. «Com'è Dio per te? Chi è?»

    L'osservai spaesata. Di certo non mi sarei immaginata una domanda del genere, di punto in bianco e senza il benché minimo preavviso. Era un argomento piuttosto difficile da trattare, ma credetti di aver capito il perché.

    Esibii una smorfia pensosa. Michael non distolse gli occhi dai miei nemmeno quando sorrisi leggermente e mi prestai a dire:

    «La mia opinione su Dio... è... particolare. C'è stato un libro, che lessi ancora quando ero adolescente, che rappresenta la mia opinione su di lui. O su di lei, qualunque cosa si voglia credere. Per me Dio è un'energia. Non ha la forma di una persona, non è neanche un'entità suprema di qualche tipo. La gente può dipingerlo come un vecchio dalla pelle bianca, capelli bianchi e tutto il resto, ma non deve essere per forza una verità universale. Per me Dio non ha forme. Vive negli alberi, nel vento. È un energia che sta dentro di noi e ovunque.

    Come dice un personaggio importante di questo libro, Dio vuole soltanto essere amato e far sentire a noi l'amore. Ci sono persone che smettono di avere fede perché dicono: "Che cosa ha fatto Lui, per la gente e per me?". Il nostro problema è che gli diamo le colpe per qualsiasi cosa, soprattutto quando succedono cose brutte. È la natura umana. Ma non è Dio il cattivo, è la vita che è cattiva. La vita accade, semplicemente. Non penso che qualcuno si diverta – da lassù o da dove si voglia credere che sia – a vederci stare male o bene. "I peccatori si divertono più degli altri perché non si preoccupano sempre di Dio", che non sono altro se non coloro che si divertono e vivono la loro vita per quella che è. "Se ci sentiamo amati da Dio, facciamo del nostro meglio per farlo contento con le cose che ci piacciono". Dio ci ama anche se non siamo mai andati in chiesa. Dio ama se fai le cose con il cuore, perché lui stesso dovrebbe rappresentare quell'energia. "Dio si arrabbia solo se passiamo davanti a qualcosa creato da lui apposta per noi senza ammirarlo, come ad esempio un campo colorato da..."»

    «Il colore viola...», sussurrò con lo sguardo perso nel vuoto.

    «Sì!», m'illuminai sorridendo.

    Smisi di gesticolare e parlare ininterrottamente. Michael, d'altro canto, non riuscii a non fissare qualcosa che non fosse la scrivania.

    Lasciai cadere la schiena sulla poltrona con un abbozzo di sorriso. «Io non credo che sia Dio a governare le nostre vite e l'andamento di questo pazzo mondo...».

    Il silenzio regnò sovrano. Michael mi squadrò per un lungo istante ed io feci lo stesso. Poco dopo inclinò lo sguardo, si piegò verso un cassetto della scrivania, lo aprì e ne tirò fuori un fazzoletto di seta. Si asciugò gli occhi. Non si soffiò nemmeno il naso. Lo puntai tra lo stupito e il rattristato, intuendo che si fosse commosso.

    Ripose il panno in una tasca dei pantaloni.

    «Scusa», la voce era leggermente incrinata. «Trovo affascinante conoscere le opinioni altrui riguardo un concetto così vasto e incognito». Evitò di andare dritto al punto sperando che fossi io a tirar fuori l'argomento. «Si vede che sei molto devota al tuo concetto di "Dio"».

    Distesi la fronte. «Diciamo che gli voglio bene per quello che penso che sia», sorrisi.

    Michael pitturò la dolcezza nei suoi tratti marcati. «Il tuo sembra un credo davvero stupendo».

    Arrossii ancora.

    Mi puntai le ginocchia. Analizzai le scarpe nere con un filo di tacco, le rifiniture del legno, il piacevole tepore che invadeva la stanza, non facendo caso al silenzio che ci cingeva in un abbraccio disumano.

    «Pensi che io meriti di conoscere la tua personalità?».

    M'osservò senza palesare emozione.

    Spalancai di poco la bocca, senza ribattere.

    «Perché ti fidi di me?», si chinò con i gomiti sulla scrivania.

    «Perché non ti vedo cattivo».

    Lo sussurrai con ingenua sincerità. Mi fissò.

    «Pensi che io non sia cattivo?»

    Continuai ad arrossire sempre di più.

    «No».

    «Perché?»

    Guardai le sue mani; i polpastrelli tamburellavano nervosamente contro il legno freddo. Rilassai i lineamenti del viso e respirai a fondo, prendendomi tutto il tempo che necessitavo per rispondere.

    «Perché i tuoi occhi non diventano tristi per nulla. Vedo il tuo sguardo farsi vacuo, soprattutto quando i tuoi figli non sono lì a guardarti. Non perché non possiedi un'anima, ma perché c'è una sofferenza quasi tagliente che ti perseguita. Si vede... e solo una persona veramente buona può avere dentro tutta questa... angoscia», mossi le mani in aria. «Una persona cattiva o ipocrita non si fa tutti questi esami di coscienza, mi spiego? Non ci sta così male. La tua non è una scenata, senti davvero questo malessere. E poi perché dovresti fingerlo con me? Non sono un giornalista o una giuria. Sono soltanto un'insegnante».

    Si tirò indietro piegando la testa verso destra, ammirando la libreria e torturandosi le labbra con la lingua. Le due ossidiane che aveva al posto degli occhi brillarono; ma non di gioia, bensì di lacrime.

    Ingoiò la saliva rumorosamente e mi guardò smarrito. Il cuore si spezzò nel attimo in cui mi perforò l'anima con tutta la sua rassegnazione.

    «Come fai a vedere tutto questo?», domandò con tono quasi pregante.

    Non sapevo se il fatto che potessi capirlo così facilmente lo infastidisse o lo consolasse, oppure se silenziosamente pregava affinché gli indicassi una via di fuga da se stesso.

    Serrò le palpebre corrugando la fronte.

    «Vuoi dirmi cosa ti fa star male?», mormorai dolcemente.

    «Io, non...»

    Gli occhi rimasero ancora chiusi.

    Il volto si contrasse in un cipiglio agonizzante. Si portò le mani sulla faccia e si chinò lentamente sulle ginocchia.

    Non gridò. Non scoppiò rumorosamente. Non esalò neppure un gemito. Anche se era chiaro che stesse piangendo, Michael non si mosse nemmeno di un centimetro.

    Le mie gambe si irrigidirono e tutti i muscoli del corpo si tesero. Ben presto mi trovai sollevata dalla sedia. Mi posi al suo fianco con passi inudibili, indecisa se accarezzargli o meno la schiena – almeno per dargli un senso di confronto.

    «Non ho speranze, Sarah...», biascicò con le dita che lo nascondevano dal mio sguardo. «Ci provo ma fa male... è tutto così difficile, non riesco a dare una svolta alla mia vita. Ogni tanto vorrei solo scomparire... non sentire più nulla... vivere senza questo peso che non mi permette di essere mai veramente felice».

    Appoggiai il peso sulle ginocchia e mi piegai a terra. Gli massaggiai la schiena con pressioni leggere. I polpastrelli lasciarono la presa sugli occhi annebbiati dal pianto, ammirando il nulla con espressione vitrea: la pelle era completamente bagnata da gocce salate, la vista offuscata da un velo di lucida disperazione.

    «Sono i miei figli che mi permettono di restare vivo. Non ho controllo della mia vita, non ho un attimo di pace, vado avanti a tentoni... non ho mai avuto nessuno che potesse aiutarmi a capire cosa dovessi fare della mia esistenza nel modo più saggio. Mi fido sempre e soltanto delle persone sbagliate...».

    Gesticolò per tutto il tempo, piangendo senza il minimo spasmo. Ogni volta che una lacrima scivolava lungo la sua guancia mi affrettavo a raccoglierla: le dita tremavano mentre cercavo di essere più delicata possibile per l'ingiustificato timore di fargli male. Mi sembrava di avere a che fare con una bambola di ceramica.

    «Si fiderà di te chi ha cercato di capirti davvero, senza nessun pregiudizio o remore. Vedrai che qualcuno ci sarà, che la tua innocenza verrà comprovata. Lo so che è difficile, ma hai già fatto un passo avanti! Non vedi? Hai cercato gli avvocati per il processo e questo è già un primo traguardo! Dovresti essere contento, sei riuscito a fare qualcosa per te... so che non è molto, ma è molto più consistente del nulla. Vedrai che troverai chi ti saprà difendere a dovere e non dovrai fare tutto da solo. Oh sì che lo farà, spaccherà il culo al procuratore e a tutti coloro che si metteranno contro».

    Anche se con gli occhi umidi di paura riuscì a sorridere. «Non dire quelle parole, Sarah...»

    «Che parole?», ammisi scioccata. Arrossii. «Be', non importa! Quando ci vogliono, ci vogliono, no? E se vuoi te lo ripeto: spaccherete il culo!».

    Rise come un bambino, nascondendosi il viso fra i palmi.

    Sorrisi. «Sono felice che tu abbia fatto qualcosa per te. E dovresti esserlo anche tu. Non sei solo, lo sai. È solo la paura che ti fa sentire così...». Il mio sguardo s'allontanò dalle sue iridi nere e improvvisamente attente. «Sei coraggioso, perché ci sono persone che si lascerebbero morire nonostante la presenza di figli accanto. Ma questo non è il tuo momento di andartene».

    Lo scorsi rabbrividire. Riprese il fazzoletto dalla tasca e si asciugò il viso. Mi sollevai in piedi e indietreggiai incrociando le braccia dietro la schiena.

    «Ti credo...»

    «Hai qualcosa per cui vale la pena vivere, Michael. Non sei perduto fino a quando non perdi questo "qualcosa". E non lo perderai mai. I tuoi figli aspettano soltanto che il padre si faccia valere, così un giorno urleranno al mondo quanto sono orgogliosi di lui, più di quanto non facciano già adesso. Ti vorranno bene per sempre. Sei il loro supereroe preferito».

    Michael lasciò cadere un'ultima lacrima dai suoi occhi profondi.

    «Grazie. Davvero, grazie...», mi puntò intensamente.

    Feci spallucce. «Non faccio nulla di che», mugugnai. «Penso che tu, come ogni persona buona, meriti un sostegno».

    Michael si alzò con lentezza, lisciandosi la camicia e osservando il parquet distrattamente. Mi scrutò con amabilità disarmante, con due labbra incurvate all'insù tipiche di un ragazzino sconsolato. Le sue spalle ampie si alzarono quando i polmoni si riempirono di ossigeno.

    «Posso abbracciarti?»

    Gli sorrisi maggiormente. «Certo che puoi!».

    Spalancai le braccia ma la sua stretta arrivò prima che potessi prepararmi. Colsi un'essenza profumata a cui prima non avevo fatto minimamente caso: sandalo. Quella nota speziata ed esotica, mista all'essenza del borotalco, fu in grado di annebbiare le facoltà motorie per un istante.

    Mi cinse con forza ed io lo sentii inspirare. Gli enormi palmi mi avvolgevano perfettamente la schiena.

    Arrossii con un'espressione di beatitudine che si fondeva con l'amarezza, mentre permettevo alla spina dorsale di tremare di fronte a un contatto così dolce quanto strano. I miei occhi si inumidirono, il naso pizzicò.

    Quando si separò dal mio petto, teneramente, Michael mi guardava ancora. Da vicino il suo sguardo riusciva a intimidirmi più di quanto non facesse già a distanza. Notai le sue mascelle leggermente squadrate, il mento marcato, le sopracciglia perfette e soprattutto gli occhi, profondi come l'obbiettivo di una macchina fotografica che punta il soggetto fin troppo nitidamente.

    Rispetto al primo incontro avevo cambiato idea su di lui. Sapeva essere un uomo affascinante.

    Arrossii curvando le iridi in un'altra direzione, verso la finestra a muro alla mia sinistra.

    Lui ridacchiò. «Ti ho imbarazzato?»

    «Un po'», sorrisi spontaneamente e Jackson fece lo stesso, concentrato solo su di me. «Tutta questa vicinanza mi ricorda tanto un tentativo di flirt», proruppi con incurante schiettezza.

    Michael mi ignorò chinandosi sulla mia guancia destra. La baciò delicatamente e sussurrò: «Potresti anche avere ragione. Ma per il momento è meglio rimanere solo buoni amici, che ne dici?»

    Rabbrividii da capo a piedi. Il cuore si fermò nello stesso istante in cui la sua voce mi penetrò l'udito. Lo fissai nell'immediato e con le palpebre sbarrate dallo shock.

    Cosa?

    «Allora? Che ne pensi?».

    Mi mancò la capacità di formulare una frase di senso compiuto. Solo quando sollevò entrambe le sopracciglia, come a volermi chiedere "Allora? Che mi rispondi?", mi ridestai dal mio stato quasi catatonico.

    «Oh... sì, nessun dubbio».

    In realtà non capivo a cosa si stesse riferendo, se al trasferimento o al rimanere solo buoni amici. Perciò borbottai in tono divertente, lasciando la sua presa attorno al mio corpo ed indietreggiando di un passo.

    Sogghignò fra sé e sé, leccandosi il labbro inferiore e ponendo le nocche sui fianchi.

    «Ora è meglio andare, altrimenti non riuscirai a sistemare le tue...»

    Lasciò la frase a mezz'aria e incompiuta. Gli lanciai quel mezzo sorriso di chi aveva già capito dove volesse andare a parare. Aveva un cipiglio così apparentemente tranquillo da renderlo una faccia tosta.

    «Per il trasferimento ci vorrà un po' di tempo. Sia per disdire il contratto d'affitto, sia per tutti i bagagli da rifare e la ditta del trasloco da contattare», dissi accigliandomi e torturandomi i polpastrelli con insistenza.

    «Oh, non ti preoccupare. Farò mandare alcuni dei miei dipendenti per i bagagli. E per qualsiasi altro problema con il tuo contratto d'affitto posso sicuramente darti una mano», disse. Sorrideva così tanto che ebbi la tentazione di girarmi dall'altra parte, per evitare di rimanere abbagliata dalla luce che emanava quella gioia a dir poco folgorante.

    «Be'...», lo studiai di soppiatto. «Grazie... sorriso ultra-bright».

    Michael issò un sopracciglio rispetto a un altro. Schiuse la bocca per la meraviglia e un secondo più tardi esplose in una sonora e pazza risata, congiungendo le mani davanti alla bocca. Nell'attimo in cui gli spasmi terminarono mi squadrò con fare malizioso e la lingua che scivolava continuamente sulle labbra.

    «Che cosa? "Sorriso ultra-bright"?», sorrise.

    «Certo», arrossii ma senza mostrare insicurezza. «Perché hai un sorriso che illumina perfino il Sole», alzai le spalle.

    Le iridi erano luccicanti. Sghignazzò imbarazzato con le nocche pinzate sui fianchi.

    «A me piace dare nomignoli simpatici alla gente a cui voglio bene, non dovrai mai dimenticarlo! Se questo non ti piace ne posso trovare di più originali», incrociai le braccia al petto.

    «Oh, be', per me questo è stupendo», fece spallucce e mi puntò allegramente.

    Guardò in basso e si avvicinò alla mia fronte con una sola falcata: mi diede un bacio sulla tempia destra e il fiato incespicò su se stesso.

    «Scusa se non ti accompagno al parcheggio, i miei figli hanno bisogno di me questa sera».

    «Oh sì, scusa!», dissi balzando sul posto. «Scusa, vado subito! Arrivederci!», e così feci retrofronte per accorrere alla porta, pronta a scendere per recuperare borsa a tracolla e valigetta da insegnante.

    Mi sentii afferrare per un braccio.

    Mi voltai.

    Mi scrutava con una severità mozzafiato.

    «Ti voglio bene, ricordalo».

    Poi un angolo della bocca si piegò all'insù. Con un dito mi punzecchiò la guancia e, sghignazzando a voce roca, osservò il colore delle gote cambiare da un bel rosato ad un rosso perfettamente acceso.

    Si divertiva parecchio a imbarazzarmi.

    «Sì, be', anche io...», bofonchiai senza dirgli un "Ti voglio bene" diretto.

    Non ero brava a dire alle persone quanto le amavo - non ero abituata a quelle manifestazioni di affetto così esplicite - ma con lui pensavo che prima o poi ci avrei fatto l'abitudine. Sotto quell'aspetto sembrava tutto il contrario della sottoscritta.

    Dette un secondo buffetto affettuoso alla guancia e mi lasciò uscire. Lo salutai rapidamente, dirigendomi impettita verso il piano inferiore. In un batter d'occhio – senza nemmeno accorgermi – mi ritrovai sul viale in direzione del parcheggio, e successivamente in macchina, destinazione "casa". Le situazioni che avevo vissuto fino a pochi momenti prima erano come flash di luce che a scatti mi accecavano la vista.

    Pensavo al futuro, alla voglia di rifare nuovamente i bagagli e di trasferirmi all'Isola che non c'è una volta per tutte.



    Edited by fallagain - 31/12/2020, 16:20
     
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    Capitolo Undici: L'Assoluto Amore

    Mi svegliai che era quasi l'alba. Non sapevo quando sarebbero venuti gli addetti al trasloco, perciò approfittai dell'occasione per alzarmi molto presto.

    Alla fine, dopo qualche giorno di caos e maledizioni da parte dei proprietari della casa, avevo disdetto il contratto d'affitto. Dovetti pagarli di più, ma riuscii a scamparmela senza troppe difficoltà, e presto sarebbero arrivate delle persone per conto di Jackson.

    Mi ero fatta una doccia veloce, avevo fatto colazione guardando la televisione distrattamente e avevo controllato di non aver dimenticato niente in giro.

    Era una domenica, perciò niente lezioni.

    Alle 8:33 l'immenso camion bianco dei traslochi arrivò. Non ci misero molto a prendersi tutte le valigie e caricarle sul mezzo, tant'è che quando chiusi casa e cancello – dando le chiavi a una vicina come mi era stato detto di fare – era passata solo una ventina di minuti. Seguii il camion con la mia auto verso il Neverland Ranch, con il Cd True Blue di Madonna nello stereo e i finestrini leggermente abbassati per far entrare un po' d’aria mattutina.

    Non lo davo a vedere, ma non stavo nella pelle. Quando arrivai al ranch mi sembrò di non aver mai guidato così a lungo in vita mia.

    Non posso negare quanto fossi ammaliata dalla personalità di Michael – da quell'incomprensibile e palpabile aura che emanava anche a chilometri di distanza – e comprendevo che il motivo per cui volevo stargli accanto non era soltanto per il desiderio di aiutarlo nei momenti di difficoltà. Desideravo la sua presenza perché, nel momento in cui era con me, anche se mi imbarazzavo o mi irrigidivo per l'attenzione che mi rivolgeva, mi sentivo bene. Non avevo bisogno di altro, soltanto capire che tipo di persona fosse – quale fosse la sua vera anima e il suo carattere. Ero curiosa, insomma, di poter scavare più a fondo, invece che saziarmi dell'immagine che mi riproponeva dinanzi ogni volta che lo incontravo.

    So di averlo già detto, ma credo che tutti quelli che lo hanno conosciuto sarebbero d'accordo con me nel dire che, in sua vicinanza, ti sentivi in un'altra dimensione. Era una sensazione che non si poteva descrivere: metaforicamente parlando, emanava delle vibrazioni così forti che sembrava abbracciarti con uno sguardo. Più gli stavi vicino, più percepivi la sua energia invaderti e agganciarsi all'anima.

    Arrivata al parcheggio del residence principale scesi dall'auto e percorsi la salita fino al villino; mi rifiutai categoricamente di far portare tutte le mie valigie agli addetti al trasloco. Feci la mia parte e mi diressi oltre la salita con due grandi trolley nero e grigio, a piccoli passi, augurandomi di non inciampare nei sassi come era mio solito fare.

    Giunta all'apice distolsi lo sguardo dai miei piedi e guardai avanti, come se fossi stata richiamata da qualcuno: Michael e i suoi figli mi attendevano di fronte alla villa. Tutti e tre erano vestiti bene – anche più del solito -, ma quello che risaltò maggiormente fu, come al solito, il padre dei bambini.

    Vestiva molto bene, sempre con innata classe; quel giorno portava eleganti pantaloni neri, una camicia rossa e una giacca nera al di sopra. Schiena dritta, mani nelle tasche. Portamento eretto e dignitoso, degno dell’uomo di mezz’età qual era.

    I suoi occhiali da sole non mi permisero di scorgere gli occhi.

    Abbassai la testa, portai una ciocca di capelli dietro l'orecchio e arrivata a due passi dal gruppetto mi sorrisero. Ricambiai con il respiro pesante per la camminata veloce appena fatta.

    Michael incrociò le braccia al petto, aprendo e chiudendo i pugni con gesti secchi e scattanti, muovendo i piedi come se stesse tenendo il ritmo di una canzone movimentata. Il mio interesse scivolò sui bambini vestiti di tutto punto: Paris indossava un bel vestitino con gonna a cerchio, il tutto color rosa candido, e Prince con pantaloni e camicia nera.

    «Ciao signorina Morris!».

    A Paris brillavano gli occhi dalla frenesia; Prince sorrideva così tanto che sembrava non riuscisse a far altro.

    «Alla fine ce l'avete fatta», disse il padre dei bambini umettandosi il labbro inferiore.

    Lo scrutai come se mi avesse parlato in arabo. Non smise di sorridere.

    «Allora andiamo, ti facciamo vedere la tua nuova casa».

    *

    «E questa è la tua camera!», esclamò Prince aprendomi la porta, scalpitando come un cavallino felice.

    Per tutto il tempo i due bimbi mi avevano fatto da guida esattamente come il giorno al parco giochi, mostrandomi per filo e per segno ogni angolo della casa; avevano corso su e giù come pazzi chiamandomi a destra e a manca per farmi vedere questo e quello, aspettandosi una mia reazione meravigliata. Io, come mi veniva naturale fare, reagii al loro entusiasmo con occhi che luccicavano di curiosità. Michael, invece, mi spiegava la storia di ogni oggetto che reputavo interessante. Non mi avevano fatto vedere tutte le stanze; la camera di Michael e un'altra erano state tralasciate come se non esistessero. Privacy, giustamente.

    «Ma è bellissima!», sbarrai le palpebre provocando la risata di Michael (che mi stava percettibilmente a fianco). La stanza si trovava al piano di sopra, lontano da quella dei bambini e poco distante dall'ufficio di Jackson.

    Era una camera stupenda. La prima cosa che attirò la mia attenzione fu l’immensa finestra scorrevole (che faceva da terrazza) sulla parete sinistra e l’armadio gigantesco al suo fianco; la visuale dava sul giardino sul retro della villa e le finestre erano abbellite con graziose tende di seta. Il letto matrimoniale, posto di fronte alla porta, era attorniato da comodini di legno antico. C'era un comò sulla parete destra, con uno specchio a grandezza naturale, una lussuosa scrivania in tiglio e una porticina che conduceva a quello che sarebbe stato il mio bagno privato.

    In confronto alle altre stanze questa era una delle più semplici che avevo visto. Si addiceva molto alla mia personalità, non ero fatta per le cose esagerate o eccentriche. Ciò nonostante mi sentivo una principessa.

    «Ti piace, Sarah?», Paris non stava più nella pelle e sgambettava al mio fianco.

    Ormai i bambini mi chiamavano "Sarah", non più "signorina". Il padre li aveva ripresi la prima volta che si erano rivolti a me così informalmente, ma lo avevo rassicurato dicendo che andava più che bene.

    «Wow...». Mostrai i denti con una smorfia di esaltazione. Li guardai. «Non so che dire».

    «Di' che ti piace!», disse Prince sorridendo.

    Michael, che nel frattempo si era agganciato gli occhiali alla camicia come era solito fare, gli gettò un'occhiata eloquente.

    Mi chinai verso Prince. «Non mi piace… la amo

    Michael lasciò trasparire una lieve soddisfazione sul viso. Sorrisi di ricambio, ma non feci tempo a guardarlo attentamente che Paris e Prince mi presero per mano per trascinarmi verso il lettone.

    «Guarda! Guarda che bello!», disse Paris saltellando.

    «Oh... è così grande...».

    «Toccalo, avanti! Siediti! È morbido!»

    Feci come mi dissero e si sedettero con me. Guardammo Michael che ci osservava a braccia conserte e con un'espressione così spensierata da sembrare irreale.

    «Prova a saltellarci un po'!», disse Michael con un cenno del capo.

    «Vi va di saltare e disfare il letto?», guardai i bimbi con fare furbesco.

    Sbarrarono gli occhi. Non se lo fecero ripetere due volte.

    Ci tirammo via scarpe e salimmo ridendo e traballando. Avevo paura che il letto non reggesse il peso di tutti e tre, ma ero così emozionata che non ci volli neanche riflettere a lungo.

    Puntai Michael e lo invitai con una mano. «Avanti, sali!».

    «Sì, papà! Vieni!», disse Prince vedendo la faccia smarrita di Michael.

    Alla fine quest’ultimo acconsentì. Appoggiò gli occhiali da sole sulla scrivania e le scarpe vicino alla porta; potevo vedere da come se le slacciava che non vedeva l'ora di raggiungerci. Prince gli lasciò posto trovandomelo così vicino, a pochi millimetri di distanza, che le nostre braccia rischiarono di sfiorarsi al minimo respiro.

    «Pronti?», chiese Michael con la tipica esultanza di un bambino.

    «Sì!».

    «Ok... uno... due – »

    «No papà, aspetta!», Paris ci ammonì con serietà. «Prendiamoci per mano! Ci potremmo fare male!»

    E così facemmo. Da una parte la ringraziai – almeno non avrei rischiato di cadere giù dal materasso in stile Bridget Jones –, ma d'altra parte mi morsi la lingua; lanciai un'occhiata distratta alla mano di Michael e nonostante l'imbarazzo l’afferrai senza tentennare. Evitò di guardarmi in faccia.

    «Ok, tutti pronti? Tre... due... uno... via!»

    Si scatenò il disastro.

    I bambini cominciarono a saltare come cavallette, seguiti da me e Michael che cercavamo di fare più piano per evitare di spaccare il letto. Non riuscivo a smettere di ridere. Poi, di colpo, quel maledetto genio di nome Michael Jackson lasciò le nostre mani e afferrò due cuscini a bordo del materasso lanciandoceli in faccia.

    La prima a beccare fu me, ovviamente, i quali riflessi erano più fiacchi di una lumaca. Lo squadrai scioccata, calando la mascella. Se la rise come impazzito, seguito dai bimbi che nel frattempo avevano continuato a saltellare allegramente. Presi il cuscino che mi aveva gettato e glielo rilanciai nonostante si fosse prontamente girato dall'altra parte, proteggendosi con un braccio. Anche Prince ebbe la brillante idea di prenderne uno e gettarlo di foga contro il padre, e così fece anche la sorella, rivolta invece contro di me. Ben presto i salti sul letto si trasformarono in una guerra.

    Andammo avanti per un buon quarto d’ora, scendendo e salendo dal letto senza ritegno, scattando avanti e indietro per la stanza e gioendo come pazzi scatenati. Tutti contro tutti, nessuna squadra.

    Paris era davvero bravissima: aveva una mira che faceva paura perfino a quella del padre, non faceva mai cilecca; Prince era bravo a difendersi e riusciva a scampare alle cuscinate della sorella o del padre con abili scatti. Per quanto riguarda me, ogni volta che mi colpivano ricambiavo con altrettanta precisione, ma ero molto più brava ad attaccare da vicino piuttosto che da lontano. Michael, invece, si divertiva un mondo a prendere la gente di sorpresa, beccandoti quando meno te lo aspettavi e scappando agli attacchi ravvicinati con la velocità di una pantera. Era insopportabile quando non lo si beccava e ti guardava con un sorriso da schiaffi in viso, tutto contento e soddisfatto per non essere stato preso... ma se le era beccate pure lui, soprattutto da me.

    Si divertiva a infastidire la sottoscritta piuttosto che i suoi figli. Ogni momento in cui giravo le spalle cercava di attaccarmi da dietro. Scaltramente mi allontanavo ogni qualvolta tentasse di colpirmi.

    «A-HA! Anche stavolta hai fatto cilecca!», balzai sul letto con un'espressione malefica.

    Prince saltò contro me, ma fu subito sbattuto sul letto dalla sorella, con una cuscinata alle spalle che provocò le risa di tutti. Proprio mentre me la ridevo mi ritrovai Michael di fronte, minacciosamente allegro, e mi attaccò senza pietà. Fui sul punto di sobbalzare all'indietro e Michael fu così veloce da prendermi prima che mi ribaltassi e cadessi nel vuoto. Me la sarei vista brutta se non mi avesse afferrato per un braccio, ma fu in quell'attimo di straniamento che potei ricambiare la cuscinata di prima.

    Si scosse, allibito.

    Capii subito, guardandolo, cosa stesse pensando: quel luccichio anticipava una tremenda vendetta. Prima che potesse riattaccarmi scesi dal letto ridendomela nervosamente. Mi corse dietro.

    «No, vai via!», esclamai indietreggiando alla cieca. «Mi fai paura

    «Temimi, ne hai tutte le ragioni!», arcuò la fronte esibendo un ghigno poco convincente.

    Incuteva timore, ma sapevo che il mio cuore non batteva soltanto per l'agitazione del momento. Il suo sguardo era così misterioso quanto intenso che la cosa mi faceva rabbrividire.

    In mia difesa scese Prince, attaccando il papà e inducendolo a letto a son di cuscinate.

    «Tutti contro papà!», esordì Paris con un braccio alto in segno di vittoria.

    «No, vi prego!».

    Aiutai Prince a tenere fermo il padre, appoggiando le mani sul braccio sinistro di Michael e il peso della mia gamba destra sulla sua coscia sinistra. Sembrava una bestia in gabbia, ma ero sicura che stesse usando solo un terzo della forza che possedeva.

    Alla fine Michael fu costretto ad arrendersi.

    «Ok... ok, basta! Ok!», rideva a crepapelle. «Mi arrendo!»

    Ci arrestammo.

    Michael non diede segno di volersi muovere: se ne stette sul letto con gli estremi delle labbra sollevate, i suoi bambini che gli saltavano in braccio aggrappandosi al suo petto. Li osservai dolcemente e Michael ricambiò scoccandomi un sorriso ancora più disarmante. Osservai i bimbi, i quali ancora ansimavano per le corse e i salti fatti, e quando i miei occhi si riappoggiarono sulla figura Michael notai che teneva gli occhi chiusi.

    Mi accorsi, abbassando il mento, che una mia mano era stretta nella sua. Probabilmente l'avevo stretta quando avevo cercato di tenerlo fermo, o forse mi aveva stretto Michael senza che io me ne accorgessi, perché mi avvolgeva il dorso con le dita.

    Arrossii scostando l'attenzione dalla sua figura.

    Invece di lasciarmi andare mi strinse e mi accarezzò con il pollice.

    Era un enigma. In alcune situazioni si comportava come un bimbo innocente, in altre come un uomo consapevole delle sue azioni. E in fondo Michael era così, con due tipi di personalità diverse che convivevano e si alternavano in base all’occasione: la prima era quella di un giovane fanciullo, che vedeva la semplicità in ogni sua forma e aspetto con gli occhi di un bambino innocente e inesperto; la seconda era quella di un uomo maturo, saggio, affascinante e cosciente del suo potenziale con e sugli altri, con un'intelligenza e un intuito fuori dal comune e una mente sveglia come poche.

    Ricambiai la stretta di mano.

    «Papà, andiamo a mangiare adesso?», disse Prince masticando le parole e stiracchiandosi su di lui.

    «Sì, andiamo. Ma non prima di aver sistemato la camera della vostra insegnante», e così dicendo, lasciando le mie dita, aprì gli occhi e si tirò a sedere.


    *

    Il pranzo durò veramente poco.

    Ben presto i maschietti si congedarono, dicendoci di raggiungerli se mai avessimo avuto voglia, rifiutando l'idea di rimanere con noi femminucce a guardare le Cheetah Girls alla tv – soprattutto Prince, che proprio non ce la faceva a guardare "un film per bambine come quello". A me e a Paris invece piaceva da morire.

    Paris guardava le amiche del film ridere, litigare e piangere con un'incredibile luce negli occhi, la stessa che molti anni prima aveva posseduto anche me – quando ancora sognavo di trovare un gruppo di persone con cui poter condividere un sentimento simile. Anche per lei doveva essere un sogno, ma non era sola e questo lo sapeva bene: in un modo o nell'altro era felice lo stesso, perché c'era la sua famiglia con lei.

    «Sono contenta che tu sia qui», sussurrò appoggiandosi al mio braccio, tenendomi per mano. «Tu sei mia amica, vero?»

    «Certo che lo sono. Possiamo formare un gruppo come le Cheetah, se vuoi», sorrisi. «Magari invitiamo anche Grace a farne parte».

    Aveva due cristalli che sfavillavano al posto delle iridi acquamarina. «Potremo anche avere i poteri delle Superchicche?»

    Tentai di non storcere il naso. Non mi piacevano particolarmente, ma non volli deluderla.

    «Be’, perché no?»

    Mi prese le dita fra le sue, se le portò dietro la schiena e si adagiò sul mio seno, stringendomi forte. «Grazie, signorina Sarah... sono felice che tu sia venuta ad aiutarci, Dio ti benedica».

    Disse le stesse identiche parole che avrebbe pronunciato suo padre. Le accarezzai il capo scoccandole un bacio sulla nuca. Rimasi così sconvolta da tutta quella dolcezza che non seppi nemmeno cosa rispondere, ma ero immensamente grata. Davvero grata.

    Durante il resto del film continuammo a cantare e danzare con le Cheetah tentando di imitarle alla perfezione; spostammo il tavolino dinanzi al divano per farci spazio e ci scatenammo. Quando Prince ci vide, mentre attraversava il salotto per prendere i pop-corn in cucina, ci rivolse un'occhiata sconvolta, scuotendo la testa furiosamente e alzando gli occhi al cielo, scatenando la mia risata e una boccaccia da parte della sorella.

    Finito il film andammo in sala giochi. La stanza si raggiungeva salendo una scala a chiocciola e minuscola. Da quest’ultima si diramavano altre tre camere; una era per l'appunto la sala giochi, le altre due erano camere da letto.

    Michael si dimostrò affabile, gioioso e disponibile per tutto il tempo. Mi guardava, eccome se mi guardava.

    Come un bimbo a Disneyland mi invitò a provare tutti i marchingegni presenti. Alla fine perdevo sempre e per un motivo molto semplice: barava. Barava eccome. E se glielo dicevi faceva il fintotonto.

    Poco dopo andammo a fare una passeggiata in giardino, tanto per approfittare di una fredda e soleggiata giornata di dicembre. Venne anche Grace con Blanket, il quale tutto pimpante non aspettava altro se non potermi salire in braccio per giocare con i miei capelli e la collana che portavo al collo. L'avevo ritrovata giorni prima, tra gli scatoloni del trasloco, e avevo deciso di indossarla per quell’occasione speciale.

    Anche Michael la notò e mentre Grace seguiva i bambini per non perderli d'occhio – i quali correvano veloci col rischio di fare un frontale su qualche albero senza badarci troppo – la fissò incuriosito.

    In fin dei conti non ci mancava mai l'occasione per restare da soli e parlare.

    «Conosco quella collana!», disse sporgendo il viso in avanti.

    Non esitò a toccarla: la prese delicatamente fra il pollice e l'indice e la rigirò delicatamente su ogni lato, mostrando un'espressione d'interesse e meraviglia.

    «È la collana di Arwen, de Il Signore degli Anelli», mormorai imbarazzata, ridacchiando. Mi stupii che non l'avesse notata subito, visto come la esibivo con orgoglio.

    «Oh sì, mi piace moltissimo».

    Gli rivolsi un'occhiata stupefatta. «Davvero?»

    Schiuse le labbra per rispondere, dopodiché sorrise ed annuì inarcando un sopracciglio.

    «Anche io! Ricevetti questa collana come regalo di compleanno non molto tempo fa, da parte di alcuni amici dell'università. Fecero i salti mortali per trovarla, così mi dissero. Ti giuro, le mie compagne di corso non ne potevano più di me e de Il Signore degli Anelli. Mi avrebbero voluto uccidere», risi di gusto.

    «E come mai ti piace così tanto?», Michael si scostò dal mio collo e adagiò la collana sulla pelle, nello stesso punto di prima.

    Rabbrividii.

    «Mi piacciono i fantasy, ma penso che Il Signore degli Anelli sia qualcosa di veramente speciale. Tolkien è un genio. Stimo moltissimo la sua creatività e il mondo che è riuscito a tirar fuori dalla sua mente. Vorrei essere come lui. Secondo me ha ridefinito il concetto di “fantastico”», confessai allegramente e senza guardarlo. Passeggiavamo fra i vialetti che circondavano la dimora e che portavano al grande lago. «Ho rotto le scatole a tutti perché non riuscivo a trovare quel ciondolo da nessuna parte. La volevo perché adoravo il rapporto tra Aragorn e Arwen. Il loro amore è qualcosa di vero ed eterno, non credi?

    Se ci pensi la Stella Elfica dona eterna giovinezza a chi la indossa. Non che io l'abbia presa per essere giovane per sempre, questo è chiaro», borbottai. Michael sogghignò appena, grattandosi un angolo della guancia sinistra con un dito. «È che la loro storia appassiona. Arwen dona ad Aragorn la sua immortalità. Praticamente gli dona la vita, pur sapendo che dovrà perdere la sua. Lo ama e non accetta di vivere con il dolore della perdita. Dice: "Preferirei vivere una sola vita con te, che affrontare tutte le ere di questo mondo da sola"», sorrisi.

    Sapevo essere una vera nerd e romantica, oltre che un'eccessiva logorroica, se mi impegnavo.

    «E perciò ti rivedi in lei?», domandò inclinando la testa.

    Formai una linea dritta con le labbra, ammirando il cielo limpido e azzurro sopra le nostre teste. «Direi di sì. mi conosco abbastanza da dire che al suo posto avrei fatto lo stesso. Io non temo la morte, ma temerei la sofferenza di una vita senza la persona che amo di più. Inoltre credo che possa esistere un amore in grado di legare due persone così com’è accaduto a loro. È raro e difficile da trovare, ma per me esiste. Non decidi di rinunciare all'immortalità per un capriccio, ma perché sai che vivere senza quel qualcuno diventerebbe insopportabile e perché desideri che almeno uno dei due possa vivere felice. Arwen dà per scontato che lui starà meglio, un giorno... mentre lei sa già che ne morirebbe».

    Non proferì parola.

    Continuai a guardare avanti con un sorriso stampato sulle labbra. Mi sentivo le guance avvampare, eppure non mi vergognavo per aver detto quello che pensavo.

    «Si può dire che credi nell'assoluto amore».

    Cercai le sue iridi scure e notai che era preso da ogni dettaglio del mio viso.

    «Sì, ci credo moltissimo».

    L'espressione si addolcì. Ammirò il vialetto con le mani nelle tasche dei pantaloni.

    «E tu ci credi?», domandai con un sorrisetto divertito.

    «All'assoluto amore?»

    «Sì».

    Si passò la lingua sul labbro inferiore.

    «Sì, credo di sì. Penso che sia l’unica cosa in grado di liberarti da qualsiasi pena. Non importa chi tu sia, ancor meno il tuo colore di pelle, il tuo genere o il tuo orientamento sessuale. L'amore è universale». Fece una pausa. «Sono stupito del fatto che tu possieda questo ciondolo, non ho mai avuto la possibilità di incontrare qualcuno che lo indossasse».

    Mostrai i denti con gentilezza, pur intuendo che stava volontariamente nascondendo ciò che pensava davvero.

    «Ti dirò la verità, Sarah, è tutta una vita che cerco un amore così. Ho guardato in lungo e in largo per trovare qualcuno che potesse vivere al mio fianco donandomi un sentimento così puro. Molte donne cercano soltanto fama e denaro da me, non mi vedono veramente per quello che sono. È uno dei tanti prezzi del successo. In realtà non credo neanche di sapere come gestire un'emozione così grande. Se guardo al me stesso del presente, non credo di aver capito nulla dell'amore e di come lo si vive. Ci spero ancora, anche se ammetto di averci un po’ rinunciato...», ridacchiò mirando lontano.

    «Posso comprendere». Mi fissò. Sistemai meglio Blanket fra le mie braccia. «Personalmente non mi è mai importato di essere circondata da milioni di amici o amanti. Anzi, tutto il contrario. Mi basterebbe la compagnia di una sola persona purché sia quella giusta. Quella con cui sentirmi a casa, capisci? Il mio unico desiderio è sempre stato quello di trovare la persona perfetta per me. I miei e i suoi difetti che si equilibrano a vicenda. Tutto ruota attorno a quello, alla fine. E chissà, forse un giorno ci sfioreremo e nemmeno ci accorgeremo di esserci passati accanto, o di esserci guardati negli occhi.

    Le mie relazioni amorose non sono mai andate come volevo che andassero, pur avendone vissute pochissime - forse troppo. Con il senno di poi penso che vada bene così. Certe cose non devono andare e basta. E perché mai non potremmo essere fortunati anche io e te, un giorno? Per me ce lo meritiamo», bofonchiai in tono divertente. Blanket adagiò la testolina nell'incavo del collo. Il suo debole respiro accarezzava la pelle. «Non credo che l'amore sia riservato soltanto a qualcuno. Un giorno lo troverai anche tu così come lo troverò anch’io. Delle volte non serve cercare, le cose arrivano quando meno te lo aspetti o le desideri».

    Adocchiai Blanket che borbottava tra sé e sé, strattonando appena la mia collana.

    Mi voltai per cercare gli occhi di Michael. Non mi ero neanche accorta che si era fermato un metro più indietro, impalato, e non muoveva un muscolo. Fissava il vuoto con aria assente, la mano sinistra sulla spalla destra. Era diventato una roccia.

    «Hai male da qualche parte?», mi preoccupai.

    Si risvegliò dalle sue riflessioni battendo le palpebre due o tre volte. Scosse il capo e mi venne incontro. Non osò più guardarmi negli occhi.

    Che avessi detto qualcosa di troppo?

    Con un filo di voce mi chiese se volessi sedermi su una panchina, dicendo che era parecchio stanco. Accettai.

    «Ti piace la tua nuova camera?», si chinò con un gemito e le palpebre abbassate.

    Annuii con forza. «Moltissimo! Anche se dovrò controllare che il letto non si sia rotto da qualche parte», gli scoccai un’occhiata complice.

    Sorrise imbarazzato. «Scusa...»

    «Non dirlo! Ve l'ho chiesto io dopotutto. Non ho mai fatto una cosa simile!».

    «Davvero?», era sbigottito. Al mio cenno d'assenso divenne serio. Diresse lo sguardo verso un punto lontano. «Il mio “scusa” non era soltanto per quello...»

    Aggrottai la fronte con aria interrogativa. Blanket cominciò a dimenarsi furiosamente e a chiedere di stare fra le braccia di papà. Lo allungai verso Michael ed egli lo strinse forte al petto, facendolo sedere sul ginocchio destro.

    «Ti volevo chiedere scusa per il mio comportamento di ieri. Mi sono lasciato prendere dal panico. Non avrei mai... mai voluto farmi vedere in quella condizione. Mi sono comportato da debole...», rispose con un'espressione di pentimento marcato, ammirando gli scalpitanti piedini del figlio più piccolo.

    Sorrisi. Avrei voluto mettergli una mano sulla spalla, ma mi trattenni.

    «Michael, tutti abbiamo dei momenti in cui cadiamo nel più completo sconforto. Non ti giudico. Essere forte non significa che non puoi piangere. Sei in una fase delicata, avere un crollo è più che naturale e comprensibile. Ti faccio un esempio personale: io non piango seriamente da – credo – due o tre anni. Ma non perché non sono mai stata male per tutto questo tempo, tutt’altro! Ho avuto e ho ancora dei crolli, ma evito di affrontarli. A volte tenere duro ed evitare di piangere non ci rende affatto forti».

    Mi scrutò senza emozione. «Tu sei forte, invece. Hai un bel caratterino».

    Risi. «Io forte? Ho un bel caratterino, è vero. Non mi arrendo facilmente e sono cocciuta. E so dare sempre i consigli giusti, da quel che mi è stato detto. Ma ti posso assicurare che quando parto a piangere non mi ferma più nessuno. Quando crollo vaneggio. E vaneggio completamente!».

    Rise delicatamente della mia espressione buffa. Serrò le labbra squadrandomi a fondo. Cominciavo ad abituarmi a quella sua vista da radar.

    Sospirai esaminando le punte dei piedi che oscillavano a destra e a sinistra.

    «Posso cercare di convincermi di stare bene quando sto male, ma so perfettamente che è una bugia. Non ho mai vissuto le tue stesse situazioni o emozioni, perciò l'unico mio "dolore" è causato dalla solitudine o dalla mia scarsa capacità di relazionarmi con le persone. A volte percepisco tutto come un mattone... con il tempo diventa solo più semplice da sopportare.

    Essere soli non significa non aver mai avuto una compagnia di amici. Si può essere soli anche quando sei circondato da tanta gente e nessuno sembra chiedersi davvero come stai. Si è soli quando ci si sente dire "Ma tu sei una roccia, te la stai cavando benissimo", e invece no, non te la stai cavando affatto bene. E se stai soffrendo ma non sai chiedere aiuto è ancora peggio».

    «Ti capisco», mormorò mestamente.

    Sentii il naso pizzicare e gli occhi lucidarsi. Non avevo mai fatto un discorso tanto intimo con qualcuno come con lui. Qualche volta utilizzavo le mie esperienze personali come esempio, ma in quell’istante mi sembrava di aver provato ad aprire una porta che doveva rimanere chiusa.

    Tacque continuando ad esaminarmi profondamente.

    Mi prese la mano e con sorpresa la portò sulla gamba sinistra, quella libera. La tenne stretta e l'accarezzò per qualche secondo senza emettere un fiato, mentre io fissavo quell'intreccio di polpastrelli con disorientamento.

    «Non ti preoccupare, possiamo farci compagnia».

    Lo guardai. Sorrideva.

    Allontanai lo sguardo arrossendo furiosamente. Michael mi dette un pizzicotto sulla guancia. Mi sentii sprofondare dall'imbarazzo, ma mi resi conto di essere felice.

    Per qualche minuto non dicemmo una parola.

    «Papààà! Signorina Saraaah!», una voce in lontananza attirò la nostra attenzione.

    Prince ci stava venendo incontro correndo. Gli mancava il fiato.

    «Paris stava correndo, stavamo giocando a nascondino, è inciampata nel marciapiede ed è caduta! Una caduta incredibile!»

    Michael si alzò di scattò e così anch'io. Mi porse Blanket, il quale protestò contrariato.

    «Tu raggiungici con calma, io seguo Prince», corse dietro al figlio.

    Li seguii con passo veloce fino ad un certo punto, fino a quando non scomparvero dalla mia vista. Udivo voci non molto lontane, perciò proseguii lentamente seguendo l’orecchio. Qualche minuto più tardi vidi Michael con Paris in braccio che mi venivano incontro, seguiti da un ansioso Prince e da una Grace calmissima. Michael era sereno – o almeno così sembrava – e la piccola si guardava impassibilmente il ginocchio.

    «Che è successo?», chiesi titubante.

    «Paris si è solo sbucciata le ginocchia e le mani, niente di grave», disse Michael sorridendo.

    Sospirai sollevata.

    «Sì, infatti, è Prince che è matto!», la piccola si crucciò scoccando un'occhiataccia al fratello.

    «Paris...», Michael sussurrò una nota di rimprovero.

    Prince si offese. «Io

    «Sì! Te lo avevo detto che mi ero solo sbucciata! Anche Grace lo ha detto, ma tu vuoi fare sempre come vuoi! Così hai interrotto papà e Sarah!»

    Mi accaldai e Michael con me. Anzi, lui divenne proprio rosso pomodoro e non guardò né me né la figlia. Non lo avevo mai visto così. Non fu neanche in grado di riprendere i due figli per quel battibecco inutile.

    Grace ci fissò con occhio indagatore. Prince puntò imbronciato la sorella e lei ricambiò mostrando la lingua con fare indispettito.

    «Torniamo in casa, è meglio».

    L'atteggiamento di Michael fu spiccio e sbrigativo, ma le guance erano ancora arrossate.


    *

    Il pasto era appena terminato. Tutti quanti i membri avevano cenato di gusto – anche Michael che, per quella rara occasione in cui l'avevo visto, aveva sempre mangiato come un uccellino. Mi congedai quasi immediatamente, dicendo di dover finire di sistemare le valigie.

    Proprio mentre mi incamminavo verso la mia stanza Michael mi seguì. Quando mi volsi sorrideva.

    «Ogni sera leggo una storia della buonanotte ai miei bambini e vorrei che ci fossi anche tu», disse bagnandosi le labbra. Arcuai le sopracciglia. «E mi piacerebbe leggere la favola di cui mi hai parlato tempo fa, quella di tua nonna», continuò con aria imperscrutabile. «Ti dispiacerebbe?»

    Un moto di timidezza mi avvolse completamente facendomi arrossire, sapendo che quella storia era stata creata e ispiratasi a me in tutto e per tutto. Ma da come Michael mi stava guardando sapevo che non avrei potuto dirgli di no.

    «Certo che no, affatto...», increspai la fronte e ammirai un punto indefinito del corridoio, nel tentativo di rimembrare in quale scatola l’avessi riposta.

    «Se non te la senti possiamo rinunciare».

    Feci finta di non sentirlo. «Avrò bisogno di un po' di tempo per capire dove l’ho messa... sarebbe un problema?».

    «Vuoi che ti aiuti?», si passò la lingua sulle labbra con occhi furbini.

    Lo fissai.

    «Non è una scusa per leggerla prima degli altri, vero?», storsi la bocca in un cenno divertito.

    «Be’, uhm...», roteò gli occhi verso l'alto frenando un sorriso. «Nooo... riesco a resistere».

    Mi accigliai. Rise della mia espressione sbarrando le palpebre e gesticolando per rassicurarmi.

    «Te lo prometto, non leggerò nulla!»

    Scossi la testa incamminandomi verso la "mia camera". Mi inseguì come un cagnolino, pur rimanendo dietro di qualche passo.

    «E se non capissi nulla della tua scrittura? Non posso permettermi di fare troppe pause, perderei l'enfasi. Magari potrei darci una letta veloce».

    Sogghignai di gusto e mi guardai alle spalle. Michael mi scrutava con una faccia da poker indescrivibile. «No, non è un buon motivo per farlo. Ma se riesci a trovarlo prima di me – fra tutti quegli oggetti in disordine – posso darti il lusso di farti leggere il primo paragrafo in anteprima. Ma solo quello!», lo ammonii buffamente con un dito.

    «È una proposta di caccia al tesoro la tua?», chiese rizzando un sopracciglio.

    «Tu che dici?»

    Nel suo viso si accese la sfida.

    Gli diedi la schiena e proseguii salendo le scale. Mi sentivo così osservata che non potevo far altro che camminare peggio di un palo.

    Una domanda alquanto strana e inaspettata mi appannò il cervello: e se mi stesse guardando il fondoschiena?

    Feci spallucce fra me e me convinta che non avesse chissà che da guardare. Dedussi che non ero affatto il suo tipo, pur non conoscendolo bene.

    Non avevo un fisico disgustoso, in realtà. La mia quarta di seno era stata gentilmente concessa dalle donne di famiglia (mia nonna materna e le sue figlie). Avevo un fondoschiena più grande del "normale" – praticamente la sola cosa del mio corpo, a parte il viso, che risaltava sempre all'occhio maschile. Non era sicuramente minuscolo come quello delle modelle in passerella. Tuttavia, anche senza essere un sedere scolpito, avevo compreso negli anni che molti uomini ne erano attratti comunque. Piaceva il fatto che – anche senza essere magra – le mie curve fossero tutte sui punti giusti, enfatizzate da una vita stretta che mi dava una leggera forma a clessidra. Per quello non mi preoccupavo molto per qualche rotolino di pancia in più o per delle gambe più grosse del normale. Certo, non mi sentivo gnocca, detta con il gergo di oggigiorno, ma rispetto a dieci anni prima ero molto più carina. Non una top model, ma carina. Accettabile.

    Magari anche Michael era un ass man. Chi ero io per dire quali fossero i suoi tipi di donna preferiti?

    Mi morsi le labbra per non ridere di quel mio pensiero sconsiderato.

    Arrivati in stanza gli indicai quale fosse la prima valigia da controllare. Era un piccolo trolley blu scuro e conteneva libri e appunti vari; io, invece, mi sarei occupata di altri scatoloni. Michael aveva fatto il saluto militare drizzando la schiena come un vero soldato, provocandomi una forte risata.

    In silenzio tutti e due ci mettemmo al lavoro. Più di una volta Michael interruppe la caccia al tesoro interrogandomi sui libri che portavo in valigia – confessandomi quali avesse letto anche lui, domandandomi soprattutto come mai mi piacessero e perché.

    Più che caccia al tesoro la nostra fu una chiacchierata lunghissima. Ci distraemmo così tante volte che i minuti volarono. Era incuriosito dai miei gusti; mi chiedeva quali fossero i miei film preferiti, i miei artisti musicali preferiti, il perché conservassi una cosa rispetto ad un'altra e la loro storia. Mi sentivo al centro dell'attenzione e per quanto ciò mi lasciasse confusa, mi rese anche genuinamente contenta. Era piacevole sapere che qualcuno potesse sinceramente interessarsi a me, di tanto in tanto.

    Alla fine fu Michael a trovare il racconto.

    «Dov'era?», gli corsi incontro.

    Aveva un libretto verde fra le dita, tenuto delicatamente fra i polpastrelli del pollice e dell’indice onde evitare di rovinare la copertina di fiori e farfalle sbiadite.

    «Era sepolto sotto tutti questi libri. Ho sfogliato e penso di aver indovinato».

    Aprì il libretto sulla terza pagina a righe.

    Per Sarah”.

    Ricordavo di aver trascritto sia la versione italiana, sia quella inglese, contrassegnate da due segnalibri di colori diversi (rispettivamente giallo e rosso).

    «Scrivi molto bene...», sussurrò Michael.

    Annuii... e quando capii il senso della frase lo sgridai.

    «Non devi leggere!».

    Gli presi il quaderno dalle mani e me lo posi sul petto, mentre Michael se la rideva a pieni polmoni.

    «Sei arrivata in ritardo, sai?», sogghignò vedendo che continuavo a guardarlo fintamente sconvolta. «Dai, posso leggerne almeno un pezzo? D'altra parte ho vinto, me lo avevi promesso».

    «Sono sicura che hai letto più di quanto avresti dovuto», gli feci una piccola linguaccia.

    Michael mi squadrò intensamente. Mi regalò un’occhiata furbetta per niente rassicurante.

    «Puoi almeno leggermi qualche riga nella tua lingua?»

    «Eh?».

    «La versione originale è scritta nella tua lingua madre, vero? L'italiano. Se me la leggi non capirò nulla, ma potrò avere la possibilità di sentire un'altra lingua che non sia la mia».

    Ci fu qualche attimo di silenzio. Michael continuò a scrutarmi impassibile e vedendo che io non reagivo in alcun modo – troppo sconcertata per rispondere – sollevò le sopracciglia e sorrise sventolandomi una mano davanti al viso, risvegliandomi dal mio stato catatonico.

    Mossi le ciglia velocemente.

    «Ok», mormorai titubante. Osservai il piccolo quaderno fiorito. «Ma credo che il mio accento sarà piuttosto inglese...»

    Fece spallucce. «Non ti preoccupare, tanto non noterò nulla».

    Era peggio di un mulo quando si metteva.

    Mi sedetti sul letto. Michael mi venne vicino portando il suo viso proprio sopra la copia originale per tentare di leggere assieme a me. Presi un profondo respiro.

    C'era una volta,
    Una principessina bellissima, dalle qualità più pure e amorevoli che si potessero desiderare. Ella non possedeva soltanto un'anima candida, ma anche un aspetto incantevole: lunghi capelli rossi come il fuoco, setosi come stoffa pregiata, le scendevano lungo i fianchi. Aveva due occhi verdi come il mare. Era molto dolce e buona con tutti, allegra e spensierata, sempre con un sorriso sulle labbra...

    Lo guardai interrompendo la lettura. I suoi occhi sguizzavano dal libretto alle mie labbra, affascinato da quelle strane parole dal significato a lui sconosciuto. Aveva un'espressione da bambino, così interessata che faticavo a crederci. Era veramente un uomo di cultura, molto intelligente e con la voglia di imparare ogni cosa.

    «Perché ti sei fermata?», chiese colto alla sprovvista. «Continua!»

    «Ora che te la leggo tutta i tuoi figli si saranno già addormentati», bofonchiai soffocando le risa.

    Sospirò.

    «D'accordo... andiamo allora!», esclamò battendo le mani sulle ginocchia e alzandosi in piedi.

    Quando chiusi la porta della mia nuova camera da letto, mi prese per mano e senza voltarsi indietro mi fece correre con lui a perdifiato verso la stanza dei bambini.



    Edited by fallagain - 31/12/2020, 15:56
     
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