The Wish

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    Capitolo Quarantuno: La Sua Canzone


    Michael masticò un altro boccone del dolce che avevo preparato per quell’occasione: un semplice dessert con morbida consistenza al pan di spagna e cocco, ricoperta di panna e frutta fresca; se la stava gustando volentieri, e io con lui.

    Mi guardò con sopracciglia inarcate. «Perché ogni cosa che cucini è buonissima?»

    Arricciai la bocca in un sorriso furbino e gli diedi un buffetto sulla spalla.

    «Adulatore».

    Incrociai una gamba sopra l’altra, lasciandomi cadere sullo schienale del dondolo; nel terrazzo l’aria era fresca ed un improvviso colpo di vento mi fece rabbrividire, penetrando al di sotto dei pantaloni a gamba larga in raso nero e del top a motivi floreali nero, arancione e giallo che indossavo. Michael mi accarezzò i ciuffi ribelli fuoriusciti dalla morbida acconciatura che tenevo dietro la nuca. Davanti a noi c’era un piccolo tavolino con vari piatti sporchi, due bicchieri riempiti a metà e una bottiglia di vino bianco.

    Era la sera del 28 agosto: il giorno prima del compleanno di Michael.

    Era venuto a trovarmi sotto esplicita richiesta della sottoscritta. Mi ci era voluto quasi un mese per pensare a che regalo fargli senza cadere nel banale; sarebbe stato meglio donarglielo il dì successivo, ma avrebbe avuto una cena con suoi famigliari. Fortunatamente aveva la possibilità di restare a dormire da me senza destare troppi sospetti, purché se ne andasse poco prima dell’alba.

    Non volevo regalargli un semplice oggetto che si trovava nei negozi di Malibu o del resto del pianeta, volevo fargli qualcosa che non si sarebbe dimenticato per il resto della vita; qualcosa che gli ricordasse chi era davvero, la bella persona che era, che trasmettesse l’importanza di ciò che Michael (e non Michael Jackson) era per me. Meritava qualcosa di speciale.

    Non mi ci era voluto molto per scoprire quale fosse la cosa migliore da fargli.

    Inclinai la testa verso quel viso rasserenato. Mi scrutò sorridendo e l’incontro coi suoi occhi mi fece salire per la milionesima volta il cuore in gola. Erano così belli e pieni di emozioni contraddistinte che potevo perdermi ogni qualvolta mi imbattessi in loro. Erano la sua essenza. A quelli mi ero ispirata per il dono, fra le tante altre cose...

    «Vai avanti con il tuo discorso...» dissi mentre mi portavo un altro pezzo di torta in bocca. Michael mi ripulì le labbra con un rapido movimento di polpastrelli, ridacchiando. «Tuo padre ha scritto un libro?»

    Si accigliò impercettibilmente e fissò il mare, cinico come non mai.

    «Sì. Sinceramente non sono intenzionato a leggerlo. Posso solo immaginare che cosa abbia scritto».

    «Brutte cose?»

    Gli sistemai un ciuffo di capelli da davanti gli occhi. Al mio imprevisto segno d’affetto un lembo di quelle labbra si alzò, anche se per poco. Parlare della sua famiglia non gli dava fastidio, solo che facendolo in automatico si impensieriva. Rifletteva molto.

    «No, anzi. È solo che tutto quello che dice non rispecchia quasi mai la verità dei fatti», sentenziò con durezza. «Ci sono cose che sottolinea sempre –“Ho creato io i Jackson 5” – e altre cose che sembra voler eliminare completamente dalla sua memoria e quella degli altri. Ma nessuno dimentica, non io perlomeno. Sono sicuro che sarà mooolto diverso rispetto a quello che scrisse La Toya anni fa...»

    Mi aveva raccontato di La Toya e della situazione che, in un periodo di circa dieci anni prima, aveva raffreddato notevolmente il loro rapporto. Non che l’avesse mai sopportata, a dirla tutta.

    «Pensi che tuo padre lo abbia scritto per un motivo in particolare? Magari per il processo?»

    Mi concesse un’occhiata serena. Fece spallucce.

    «Non lo so e non voglio saperlo. È in vendita solo in Germania, penso che sia molto meglio così per ora...». Espirò piano e con due dita mi massaggiò la guancia destra. «Domani ci sarà quella cena e fingerò di non saperne nulla».

    «Dai che magari non andrà così male...»

    Mi osservò intensamente. Capii subito dove voleva andare a parare.

    «Preferirei mille volte che ci fossi anche tu. La serata sarebbe sicuramente meno noiosa...», intrecciò l’indice in un mio ciuffo rossiccio e lo tirò con dolcezza, «ma - anche potendo farlo senza destare sospetti e inutili gossip - dubito che affronteresti la mia famiglia una seconda volta...»

    Roteai gli occhi al cielo.

    «Ti prego, lo sai che...», gemetti.

    Si atteggiò da finto deluso sapendo che poteva intenerirmi.

    In realtà Michael era una persona decisamente privata. Preferiva tenere distante le sue relazioni amorose dai suoi parenti e, così facendo, dalle voci e dagli occhi del pubblico. A me stava bene. Sapevo che, se Michael fosse stata una persona normale e per niente popolare, non avrebbe esitato a farmi diventare parte della sua famiglia. Tuttavia si divertiva a prendere in giro la mia ansia all’idea di doverli incontrare nuovamente.

    «Quella volta in cui incontrerai i miei genitori potrò partecipare a tutte le cene o incontri che vuoi!»

    Il suo sorriso scemò immediatamente.

    «Dici sul serio?»

    Annuii con un’espressione beffarda in volto. «A-ha».

    «E quando potrò incontrarli?»

    Non li incontrerai mai, rise una voce malvagia all'interno del mio cervello.

    «Chiamo qualcuno che li mandi a prendere con un aereo privato? Potrei farlo subito, lo sai», sorrise perfidamente. «Avanti...», mi intimò ad alzarmi scuotendomi il braccio. «Vai a prendere quel telefono e chiama subito!»

    Gli lanciai uno sguardo obliquo.

    «Non verranno mai in America».

    «Potrebbe essere la buona volta per riuscire a convincerli a venire qui», mi dette un pizzicotto sulla guancia e rise della mia smorfia imbronciata. «Potrebbero passare una meravigliosa giornata a Neverland; qualunque visitatore si sente a casa quando arriva lì…», il sorriso si congelò appena. «Anche se non ti porto dalla mia famiglia voglio seriamente incontrare la tua, non scherzo» sussurrò a bassa voce. «Se fosse per me vorrei che mi seguissi ovunque vada. Domani non è un’eccezione…»

    Emisi un borbottio disperato e tenni gli occhi puntati sull'oceano.

    «Lo so, lo so... ma onestamente mi sento meglio all’idea di mantenere la privacy su queste cose, esattamente come te. Non voglio che la mia famiglia sappia, non ancora. Forse un giorno, quando le acque si calmeranno. E mio padre ha troppa paura di viaggiare per venire qui, lo sai. Ad ogni modo stiamo festeggiando io e te adesso, no? Lo stiamo facendo per quello che verrà fra qualche ora... e poi ho una sorpresa per te, qualcosa che volevo potessi godere lontano dagli sguardi altrui…».

    Michael corrugò le sopracciglia e sorrise stranito. Forse, con quella frase, il piano di cambiare argomento e lasciare quel discorso sospeso nel nulla avrebbe funzionato.

    «In che senso farmi “ho una sorpresa per te”?», sottolineò curioso. Portò un ginocchio sopra i morbidi cuscini del dondolo e mi esaminò vividamente interessato: le iridi brillavano come quelle di un allegro bambino. «Dimmi tutto».

    Abbozzai un sorrisino dispettoso e incrociai le braccia al petto.

    «Assolutamente no, devi resistere!», gli feci la linguaccia. «Non è niente di straordinariamente grandioso, ma l’ho fatto con amore», alzai le spalle e abbassai lo sguardo arrossendo.

    Restò in silenzio a meditare; poco dopo rise delicatamente. Chinò la testa verso di me e si avvicinò alla mia bocca; le sue labbra mi regalarono una soffice e rassicurante carezza.

    «Non mi diresti cos’è… se ti chiedessi di farmelo vedere subito... vero...?», bisbigliò rocamente.

    Gli occhi guizzarono nei suoi e Michael mi pregò in silenzio, sogghignando beato.

    Sentendo quel tiepido calore sulle gote farsi più vivido e indiscreto iniziai ad agitarmi; l’ansia di fargli udire ciò che avevo preparato per lui mi rendeva la ragazzina di otto anni che aveva affrontato il suo primo saggio di pianoforte.

    Perché quello che avevo preparato per Michael era un brano, uno spartito senza parole. La mia canzone per lui.

    «Sì», risposi issandomi con un balzo. «Non te lo direi...!».

    Michael mi prese le mani per trattenermi da una fuga a gambe levate. Mi inchiodò al posto con uno di quegli sguardi che solitamente usava quando voleva ottenere qualcosa senza aspettare oltre. Le labbra erano inclinate all’insù con sfrontatezza assurda.

    «Neanche se ti tentassi?»

    Alzò un sopracciglio e mi spinse verso di sé; aprì le gambe per farmi accostare al suo petto, mollò la presa delle mani per agganciarsi ai miei glutei. Ridacchiai.

    «Noooo...»

    «Mmh...», storse la bocca e strofinò il naso contro il tessuto del top floreale, sulla parte vicina all’ombelico. «Sei sempre così difficile... mi potrei stancare di questo, prima o poi... lo sai che potrei...»

    Provai ad allontanarlo per vedere la sua faccia e lo colsi ridacchiare; mi abbracciò ancora più energicamente di quanto non facesse già. Mi baciò presso la scollatura sul seno.

    «Non riesco a resisterti in nessun modo...», soffiò contrariato.

    Una morsa allo stomaco e mi parve di sentir cedere le gambe.

    «Lascia che vada a mettere a posto i piatti in cucina...», mi bagnai la bocca e cercai di scollarmi dalla sua stretta.

    Le labbra salirono fino alla conca in mezzo ai due seni e lì rimasero. «Puoi farlo dopo, no?» rantolò con voce fioca. Alzò lo sguardo percependo i muscoli del mio addome indurirsi, a causa dello sforzo che facevo per sopportare quel dolore al ventre. Gli occhi erano vispi ed affamati. «Almeno fammi quest’altro tipo di regalo mentre aspettiamo il 29...»

    Per un attimo volli accettare la sua proposta.

    Oh, se volevo farlo.

    Espirai con accondiscendenza. Alla fine gliela diedi vinta.

    «Vieni, ti mostro subito il regalo per te...»

    Non lo guardai in faccia quando si scostò dal mio seno. Col cuore che martellava come impazzito gli afferrai una mano, aspettai che si alzasse in piedi e lo portai verso la mia camera da letto, affrettando il passo man mano che ci avvicinavamo alla stanza.

    Lì vi era la tastiera pesata che portavo con me ad ogni mio trasferimento, sistemata vicino alla finestra scorrevole. L’ambiente era buio, illuminato appena dalla luce della Luna, e decisi di accendere la piccola lampada del comodino. Mentre facevo tutto questo con velocità sorprendente, sistemandomi nervosamente i capelli dietro le orecchie, Michael rimase imbambolato sullo stipite della porta.

    Mi incamminai verso il piccolo pianoforte e, prima di sedermi sulla sedia di fronte, osservai Michael. Arrossii per la sua espressione sorpresa ed emozionata.

    «Ti prego, non mi guardare così...», lo pregai sorridendo agitata, portando una massa di capelli all’indietro.

    Gli andai incontro e si lasciò guidare fino al punto del letto in cui desideravo che si sedesse: da quella posizione non sarebbe stato in grado di vedermi la faccia, ma avrebbe potuto osservare accuratamente le dita che si appoggiavano sulla tastiera.

    Michael non riusciva a parlare mentre io sì, a vanvera.

    «Chiudi gli occhi se vuoi, mettiti comodo... rilassati soltanto, ok?», lo intimai mostrandogli i palmi delle mani e indietreggiando.

    In realtà ero più tesa di lui, ma poco importava.

    Michael rise piano con le iridi accese di gioia e trepidazione. Unì le mani scrollando le spalle per sciogliere ogni particella di ansia ed attese, aprendo e chiudendo le ginocchia e battendo spasmodicamente i piedi a terra. Una parte di me sorrise intenerita per il bambino che era.

    Presi la sedia accanto al pianoforte e mi lasciai cadere sopra inspirando a pieni polmoni.

    Feci mente locale per ricordarmi l’accordo di inizio e le dita si sistemarono sopra i tasti in un nanosecondo: un flash di luce e ricordai tutto, non fui preoccupata all’idea di sbagliare.

    Mi arrestai ancora prima di suonare le prime note.

    Mi voltai verso Michael con le gote che scottavano.

    «Come ho detto prima non è granché... ci ho messo quasi un mese per scriverla, cancellando e riscrivendo lo spartito... questo è ciò che penso di te, il modo in cui ti vedo e ti percepisco, perciò...», smisi di gesticolare a vuoto e alzai le spalle.

    La voce tremò ma non feci tempo a finire.

    «Suona, ti prego».

    Lo guardai. Michael mi osservava amorevolmente e mi stava regalando un sorriso rassicurante. Le sue ossidiane scure brillavano di contentezza. Il suo torace si alzò per il profondo respiro che fece.

    «Suona per me, Sarah...».

    Quella frase e quel tono furono come velluto sulla pelle, come una carezza inaspettata sulla guancia e un sottile richiamo che induceva tutte le mie preoccupazioni a placarsi; perciò annuii, gli detti le spalle e fronteggiai la tastiera.

    Il suono dei battiti cardiaci rimbombava nelle orecchie al posto del silenzio.

    Inspirai a pieni polmoni.

    Non appena le dita scorsero sui tasti autonomamente come facevano da giorni, dopo prove e prove per arrivare a suonare quella melodia in maniera perfetta, i miei occhi si chiusero. Lasciai che la tensione si liberasse dal corpo non appena il dolce suono del piano s’elevò in aria. Nel sangue fluì l’amore che provavo per Michael; lasciai che quella luce che mi avvolgeva il cuore si estendesse oltre i confini della pelle. Rilassai la schiena, inclinando il capo da un lato, rasserenando le pieghe della fronte.

    Ci era voluto tempo per arrivare al risultato che volevo. Ogni volta che tentavo di scrivere qualcosa che mi ricordasse Michael non veniva fuori niente che mi piacesse... ed effettivamente sbagliavo. Nel momento in cui non avevo pensato a inventare una canzone, nell’attimo di quotidianità più normale che potessi vivere, l’ispirazione era piombata su di me come un fulmine a ciel sereno.

    Accadde quando percepii un suo “Ti amo” al telefono, subito dopo avergli detto che mi venivano i brividi quando lo vedevo sorridere ai suoi figli o anche quando generalmente parlavamo dei bambini del mondo. In quell’istante, inventando una scusa che non stava né in cielo né in terra, avevo chiuso la conversazione ed ero corsa al pianoforte, prendendo il primo foglio di carta per buttare giù lo spartito: avevo serrato le palpebre e tutto era venuto da sé.

    In quella melodia vedevo Michael. Anche lì, con lui vicino, riuscivo a percepirlo nel cuore. Michael era effettivamente parte della mia anima – dentro la mia anima – ed era un pezzo di me che non se ne sarebbe mai andato lontano; qualunque cosa sarebbe accaduto, qualsiasi cosa sarebbe successa fra noi, quella parte di me lo avrebbe amato per sempre. Quella parte di lui, che pervadeva angoli remoti del mio corpo e del mio spirito, mi avrebbe sempre indotto a rimembrare l’amore che eravamo.

    Suonando quella canzone potevo vedere il suo sorriso e i suoi occhi di una beltà incommensurabile. Vedevo il suo viso illuminato da una luce che non faceva male agli occhi; lo vedevo giocare con i bambini e poco dopo sedersi su un prato fiorito e ammirare il cielo stellato, con la camicia sbottonata e il fiatone, indicandomi quali fossero le stelle e quali fossero i pianeti; potevo visualizzare le sue lacrime di felicità e di tristezza, i momenti bui e quelli felici, solo attraverso qualche accordo messo assieme. Potevo sentire il suo odore di sandalo e borotalco, di dopobarba e di pulito che indossava ogni santo giorno, ogni santa ora che spendevo con lui; potevo percepire una sua mano sulla spalla, sulla guancia o sulla testa tramite una debole folata di venticello fresco; potevo percepire le sue labbra morbide posarsi sulle mie e subito dopo un fremito lungo tutta la schiena. E non importava se Michael fosse con me per davvero, perché lo sentivo abbracciarmi anche a metri o chilometri di distanza. Potevo sentire la sua voce chiamarmi.

    Lui era e sempre sarebbe stato un uomo e un bambino fuso in una cosa sola. A volte torbido e insidioso, altre volte limpido e trasparente. Sarebbe stato la bellezza di una risata – a volte acuta e a volte roca; sarebbe stato il malinconico splendore di un pianto colmo di tristezza e vulnerabilità, talvolta anche di divertimento e allegria. Semplicemente Michael, con il suo carattere colmo di sfaccettature diverse... ma soprattutto sarebbe stato amore.

    Una lacrima mi sfuggì dagli occhi scendendo rapidamente per la guancia destra quando finii di suonare... non riuscii a trattenerla e non lottai per farlo. Con le mani che tremavano mi separai dai tasti bianchi e neri premuti per ultimi, mi asciugai la guancia bagnata ed inspirai riprendendo un po’ di fermezza. Solo allora ascoltai attentamente il suono del silenzio.

    Mi girai verso Michael, incuriosita e al contempo intimidita per la reazione che pensavo di avergli causato.

    Teneva gli occhi chiusi e il capo alzato verso l’alto come se si trovasse in un profondo stato di estasi. Le ginocchia e i piedi erano immobili rispetto a quando avevo iniziato a suonare, le mani erano ancora allacciate fra loro e penzolavano nel vuoto in mezzo alle gambe. Il suo cipiglio mostrava chiaramente l’interesse posto nell’ascoltare quella melodia, in particolar modo quelle labbra serrate e le sopracciglia appena sollevate.

    Sbattei le palpebre per la sorpresa.

    Avevo immaginato che a fine canzone mi avrebbe guardato con uno sguardo tranquillo e sorridendo mi avrebbe detto un semplice “Grazie, piccola”; ed invece no, anche dopo un minuto abbondante da quando avevo smesso di suonare non ostentava muoversi.

    Tentai di dire qualcosa per risvegliarlo da quello stato di trance, ma non mi uscì nulla.

    Improvvisamente mi guardò.

    Un sorriso commosso gli sollevò le estremità delle labbra, mentre la lingua scivolava più e più volte su queste. Abbassò lo sguardo percependo la mia confusione e scosse energicamente il capo, ridacchiando. La fronte si corrugò quando una lacrima scivolò visibilmente sulla sua guancia.

    Il cuore si fermò e Michael si alzò in piedi venendomi rapidamente incontro. Alzai il mento in sua direzione e subito dopo vidi buio. La mia faccia si scontrò con la sua camicia e le sue grandi mani che, tremolando, affondarono nei miei capelli.

    Mi baciò sulla nuca e in seguito si chinò a terra, puntando alla mia bocca; fu appassionatamente, dolcemente e quasi angosciosamente bello. Di sfuggita potei vederlo piangere.

    «Sarah…», mi chiamò emozionato. «Perdonami se non riesco a dirti cosa provo, perdonami...» Sorrise e mi baciò una seconda e una terza volta senza lasciarmi ribattere. Aprì gli occhi e mi abbracciò con una sola occhiata. «Io ti amo in modo folle».

    Affondai il viso nell’incavo del suo collo. Odorai il suo profumo e le dita si afferrarono alla sua schiena; con un respiro mozzato dalla felicità mi lasciai andare ad un lungo attimo di silenzio. Avrei voluto ricambiare il suo amore a parole.

    «Andiamo...», mormorai e gli diedi un bacio delicato sulla gota, «devo farti vedere ancora una cosa...»

    Mi guardò sorpreso, accecato dalla commozione.

    Gli sorrisi.

    *

    <div style="text-align: justify;">«Ta-dan!», portai le braccia in alto in segno di euforia e in seguito mi strinsi nelle spalle, allacciando le mani dietro la schiena.

    Michael si guardò a destra e a sinistra, davanti e indietro come se non avesse mai visto delle candele sulla spiaggia. La luce evanescente delle fiammelle ravvivava debolmente la zona, donando all’atmosfera tiepido calore e soffuso erotismo. Le onde del mare sussurravano al vento bisbigli dolcissimi, il profumo di salsedine era pungente.

    Non ero mai stata una donna sdolcinata. Nonostante questo, per Michael le avrei fatte anche mille volte di seguito. Tra i due era lui quello delle manifestazioni romantiche.

    «Tu sei matta, ragazza...», mormorò scrutando la coperta che, adagiata a terra, seguiva le piccole dune presenti. Vicino vi era anche una piccola borsa frigo semirigida nel quale avevo sistemato una bottiglia di champagne e due calici di vetro. Sorrise e mi guardò sbigottito, massaggiandosi il mento con due dita. «Ma come...?»

    Feci spallucce. «Volevo che questa serata fosse perfetta. Ho organizzato tutto in modo abbastanza carino, vero?», assunsi una smorfia soddisfatta e analizzai il tutto con le guance arrossate.

    Avrei voluto disporre le candele seguendo un disegno predefinito, ma poi avevo cambiato idea e le avevo messe a casaccio. Non era male neanche così.

    «Be’...?», lo adocchiai incuriosita e gli andai vicino. «Ti piace?»

    Michael si torturò il labbro inferiore. «Non so che dire».

    «Non te lo aspettavi?»

    Mi esaminò sorridendo, un po’ intimidito dalla situazione ma per nulla scontento. Era molto più felice di quanto desse a vedere, disse una vocina nel cuore...

    Mi penetrò con uno sguardo. «No, per nulla»

    Sorrisi.

    «Ne sono felice», rilassai le spalle.

    Gli occhi di Michael scivolarono verso i miei fianchi dopo un rapido check-up; una mano si pose leggera su quello destro e mi attirò a sé inclinando il capo di lato. Socchiuse gli occhi avvicinandomi pian pianino a lui e si bagnò le labbra.

    «Grazie, principessa».

    I formicolii irruppero nella mia zona più intima.

    «Ho dello champagne per brindare...» bisbigliai quando le sue dita s’infilarono sotto il mio top e mi accarezzarono la schiena.

    Faticavo a rimanere lucida se contemplavo di continuo la sua espressione seria e passionale, perciò mi puntai sulla sua camicia nera; ma così non facevo altro che delirare più di quanto non stessi già facendo, soprattutto se quelle morbide carezze si arrampicavano verso il seno. Bastava quello e la terra tremava sotto i piedi.

    «E ho portato anche il cellulare per controllare l’ora, non si sa mai...», infilai la mano nella tasca sinistra dei pantaloni e Michael arrestò momentaneamente i suoi tocchi. «Adesso sono le... 23:51. Siamo un po’ in anticipo...»

    «Mi fai respirare...»

    Lo osservai impacciata e perplessa. «Uh?»

    Sorrise ancora.

    «Ho detto...» mi prese il telefono dalla mano e lo gettò sul plaid, «che mi fai respirare. Con te vicino le mie funzioni vitali riprendono a lavorare come in un essere umano qualunque». Feci per rispondere ma continuò con un sorriso decisamente più ampio e sognante. «Non capisco perché e come...»

    Storsi le labbra. «Non è che dici questo solo perché mi vuoi, eh?»

    «Mmh...» guardò in alto e assunse una smorfia fintamente meditabonda. Scoccò la lingua al palato. «Anche...», mi fissò.

    Mi baciò infilando le dita nella carne, ancora con le mani al di sotto del mio top, corrugando di poco la fronte. Lo stomaco si chiuse e scoppiettii di gioia infinita partirono dal cuore di entrambi verso l’oscurità sopra di noi. Ricambiai afferrandomi alla sua camicia.

    «Ti amo», ansimai. Mi separai da quella bocca con espressione contrariata. «Anche quando dici queste cose e non so come rispondere...»

    Sogghignò a voce roca. Le labbra passarono in rassegna del collo e delle scapole, scendendo verso l’apertura del top floreale, scivolando sulla pelle come gocce di acqua piovana rasentano lo splendido piumaggio di un cigno senza scalfirlo.

    «Direi di preparare da bere, intanto che aspettiamo...»

    Con un abile scatto sfuggii dalla presa di Michael, scivolando lontano dalle sue braccia, e mi diressi verso la borsa ghiaccio. Evitai di salire sulla coperta per non sporcarla di sabbia; mi inchinai a terra, aprii il borsone e ne estrassi lo champagne e i calici. Alzata in piedi lo vidi uccidermi con un’occhiata indispettita e maliziosa.

    «La smetti di filartela sempre?», potei udire la sua irrequietezza nascosta sotto un tono di velata affabilità.

    Assunsi una faccia da poker assurda.

    «Io?»

    Alzò un sopracciglio.

    «Dai, siediti...», lo incitai attraverso un cenno del mento, ridacchiando, «io preparo qui intanto...»

    Sbuffò. A piccoli passi si portò verso il centro della coperta e si sedette; si sbottonò tranquillamente la camicia e la lasciò aperta fino all’ombelico.

    Lo adocchiai di soppiatto con finta nonchalance, cercando di nascondere il mio disorientamento per quei suoi atteggiamenti tremendamente eloquenti. Riempii i calici senza dire nulla. Detti un cenno del capo per mandare via una ciocca di capelli dagli occhi e mi sedetti sul plaid, tenendo d’occhio i calici per non rovesciarne il contenuto.

    Le iridi scure di Michael non facevano che studiarmi ed io evitai di dirgli “Smettila di fissarmi così, mi fai scottare le guance dall’imbarazzo”. Allungò una mano e gli consegnai il suo bicchiere; nel momento in cui lo feci mi accarezzò il dorso della mano. Lo osservai. Mi sorrise.

    «Quegl’occhi mi uccideranno», proruppe gentilmente. «Amo quella tua buffa smorfia di stupore e quelle palpebre un po’ sbarrate quando faccio qualcosa che non ti aspetti... piccola incosciente...»

    Storsi la bocca. «“Piccola incosciente” è ormai il mio soprannome appurato. Non lo cambierai mai, vero?»

    Rise e chinò la testa.

    «No, ti dona perfettamente». Due stelle apparvero al posto di due occhi perfettamente neri. «Come io sono ancora il tuo vecchietto occhialuto, d’altronde...»

    Arricciai il naso per trattenere un risolino.

    «Mi tieni un momento anche il mio?», chiesi porgendogli il calice, «Devo prendere il cellulare...»

    Annuì. Strisciai verso il telefono gattonando e controllai l’ora: erano le 23:57.

    «Mancano tre minuti di numero», sospirai. «Ancora un po’ di pazienza»

    Mi girai e lo scoprii ispezionare il mio fondoschiena con fare pensieroso; notò che lo stavo fissando e allora mi lanciò un’occhiata perforante, passandosi lentamente la lingua fra le labbra. In un secondo Michael sembrò avvolto dalle fiamme.

    Mi afferrò un piede con le dita che bruciavano, salendo e scendendo dal collo fino alla caviglia. Mi trascinai un po’ verso di lui in assoluto silenzio, sedendomi, e mi passò nuovamente il bicchiere. Tutt'e due rimanemmo in silenzio, ma potemmo ben percepire le vibrazioni che ci avvolgevano.

    «Sono felice di essere qui», disse apparentemente tranquillo. Il suo petto fu scosso da un tremore improvviso. Socchiuse le labbra per dire qualcosa, si interruppe e poi continuò. «Io con te... non sono solo...»

    La voce mi si smorzò in gola. «Io neppure...»

    Guardò rapidamente lo schermo del cellulare accanto a me e serrò la bocca mandando giù la saliva.

    «Io non mento quando dico che ti desidero...», bisbigliò, «e non intendo solo fisicamente. Desidero tutto di te, amarti... e ogni giorno che passa mi rendo conto che mi è impossibile non farlo». Mi guardò emozionato. «Mi hai stregato».

    «Anche tu... corpo e anima, come dice Mr. Darcy nel film Orgoglio e Pregiudizio», sogghignai e alzai il calice in aria. Ma la risata scomparve presto. Lo puntai dritto negli occhi. «Io ti amo davvero...», mormorai.

    Sorrise e piccolissime lacrime brillarono come cristalli sotto il Sole. Anche il silenzio, per un attimo, parve fare rumore. Un rumore sordo, che vibrava e scorreva nelle vene a velocità della luce; una melodia confusa, che non esiste in nessun luogo o tempo se non in quei secondi in cui tutto si fa nullo, in cui ogni cosa assume un aspetto irreale, dove le anime si scontrano ma non si fanno del male.

    La suoneria della sveglia che avevo impostato a mezzanotte ci destò ognuno dai nostri pensieri. Presi il telefono fra le mani e spensi l’allarme con un solo “click”.

    «Be’, Michael...», lo adocchiai amorevolmente, «buon compleanno!».

    Ringraziò sorridendo. Facemmo suonare i calici uno contro l’altro con un adorabile tintinnio, bevvi un sorso alla volta e, terminato quel breve brindisi, risistemai al loro posto bicchieri e bottiglia. Quando mi risedetti una mia mano venne inglobata nella sua.

    L'anima fu scossa da un forte sussulto.

    Mi accostò a sé.

    «Tu sei il mio regalo più bello, stasera». Mi baciò la guancia e sussurrò gentile al mio orecchio, «Lasciami ammirarti...»

    Il fiato si spezzò in gola.

    Capii cosa voleva che facessi.

    Indietreggiai fino al centro della coperta e senza interrompere il contatto visivo mi sedetti distendendo le gambe sul plaid. Michael si mise a cavalcioni sopra i miei piedi per potermi togliere i pantaloni e slip. Lo lasciai fare issandomi appena sul posto, in uno stato di esaltazione pura, con lui che li faceva scendere lungo le cosce e poi li sfilava con delicatezza. Mi regalò uno sguardo intenso e meravigliato, avanzò di qualche passo verso il bacino e mi invitò ad alzare le braccia in alto per togliermi il top floreale. Non avevo reggiseno.

    Mi sentii privata di ogni difesa, ogni barriera, ogni muro, ogni via di fuga, ogni possibile scappatoia.

    Indietreggiò. Mi agguantò i piedi ed il sangue fluì nelle tempie; coccolò le caviglie con squisiti e mansueti baci, salendo verso i polpacci e le ginocchia prima di una gamba e poi dell’altra. Gemetti poco prima che, languidamente cordiale, mi invitasse a distendermi sotto di lui. Lo feci e si lasciò cadere a seguire, a pancia in giù, reggendosi sui gomiti.

    Desideravo osservare a lungo quella scintilla di passione che soffocava la sua lucidità, vederlo vaneggiare quando mi aveva vicino, ed invece rimase lucido. Fu tremante di emozione – di prezioso e intimo affetto – ma non perse il controllo.

    Fletté la testa di lato. Mi contemplò con un sorriso fra le labbra e una luce in viso che abbagliava il mondo intero, me per prima.

    Sembrava ammattito, incantato oltre ogni limite... ed era pazzo. Un adorabile pazzo.

    Avvampai e piegai il viso verso il mio seno, per poter esaminare il viaggio che tre dita – quelle della mano sinistra – avevano intrapreso verso il basso, tracciando curve e strane forme geometriche; mi accarezzarono ovunque – sulla conca fra i due seni, presso la zona ombelicale e tutt’intorno, per poi avviarsi sulle cosce e tornare rapidamente su; gli addominali si contraevano ogni qualvolta mi sfiorasse l’intimità.

    Studiai ogni dettaglio della sua faccia, ogni lineamento a me caro, come se non lo facessi da molto tempo; i suoi occhi con il loro colore scuro e il taglio che li rendeva grandi e pieni d’emozioni; le labbra rosee e vellutate che nascondevano un sorriso stupendo e devastante, le guance marcato e il naso all’insù; i capelli corvini, il collo, ogni cosa che passava sotto la mia attenzione, dalla più minuscola alla più marcata. Non vi vedevo difetto alcuno. Anche io ero persa per lui.

    Nell’attimo in cui riuscii a percepire quanto desiderio gli stessi procurando – anche senza essere dentro di me – serrai le palpebre come se fossi avvolta da una scarica d’elettricità, che pizzicava la spina dorsale e si diramava verso ogni arto.

    La voce che uscì dalla sua bocca fu bassa e premurosa. «Ti piace?»

    Stavo respirando a fatica.

    «Sto tremando...», bofonchiai.

    Michael sorrise. Con i polpastrelli che aveva utilizzato poco prima mi sfiorò le labbra. Lo guardai con uno sprazzo di illogico delirio in volto, la bocca si socchiuse autonomamente sotto le sue amorevolezze; si chinò con un’occhiata struggente e mi baciò le labbra seguendo ritmi dolci ma appassionati, scanditi come il ticchettio di un orologio a pendolo; dopodiché i suoi baci percorsero tutto il tragitto eseguito qualche minuto prima con la mano, rasentando ogni zona toccata, aiutato talvolta anche dalla lingua, respirando contro la mia carne.

    Espirai tutta quell’impazienza che mi irrigidiva: la sensazione inebriante che mi donava non riusciva a farmi star ferma. Mugolai impercettibilmente e le palpebre si chiusero da sole.

    Quando arrivò al ventre, la mia femminilità sussultò atterrita e serrai le gambe.

    «Shhh», con due dita mi invitò a rilassarmi.

    Vedevo offuscato. Più sentivo che si stava avvicinando alla mia intimità, più quella ribelle emozione si dimenava tra le mie membra. La bocca di Michael si posò sulla mia collina ed emisi un gemito strozzato, stringendo la coperta tra i pugni e inarcando la schiena; scese verso le labbra gradualmente - torturate da onde di lussurioso piacere - e donò gentili ed umide lusinghe al mio grilletto. Con l’indice salì il sentiero verticale che proteggeva la mia carne senza infilarsi in essa.

    «Michael...», boccheggiai.

    Un ultimo bacio al monte di Venere e lì vi rimase per dieci secondi abbondanti, ad occhi chiusi, senza separarsene. Depose la fronte sul ventre ed inspirò pesantemente, massaggiandomi le cosce. Di punto in bianco lo udii sghignazzare.

    «Scusami... ma se continuo così delirerò».

    Tu...?!

    Ritornò alla posizione iniziale e portò il peso sugli avambracci. Mi guardò nascondendo l’improvviso smarrimento attraverso una maschera di pacata serietà. Lo scrutai senza fiato.

    Gli chiesi di lasciarmi spazio per mettermi a sedere: lo fece e nel mentre analizzò ogni mia mossa, esattamente come prima. Mi morsi la lingua e sorrisi con guance che scottavano dall’emozione.

    «Hai mai fatto un bagno in mare di notte?»

    Michael si accigliò.

    Ritornai in piedi con uno sbuffo affaticato, gli detti le spalle e avanzai solitaria verso il punto in cui l’acqua rendeva la sabbia una deformabile consistenza, a qualche metro di lontananza da dove avevo lasciato Michael. Mi volsi in direzione della coperta ed ebbi un forte batticuore nel vedere Michael togliersi i vestiti e la biancheria intima.

    Ammirai la vasta distesa d’acqua che si confondeva con l’oscurità del cielo e il riflesso della Luna sulla superficie quasi immobile. Inspirai portando tutti i capelli sulla spalla destra.

    Consapevole di non dover aspettare molto tempo, due braccia mi circondarono. Il corpo premette contro il mio, il sesso retto in tutto il suo vigore mi sfiorò appena il fondoschiena. Sciolse la stretta dopo avermi baciato la scapola e mi tenne la mano, distendendola lungo il fianco.

    La sua presenza fisica mi tolse la capacità di parlare e guardandolo un'ulteriore volta negli occhi il cuore esplose in un trionfo di gioia e amore divino, così ultraterreno e puro che subito le mie braccia ricercarono il suo abbraccio.

    Michael mi strinse a sé senza esitazione alcuna.

    Se quello fosse l'Amore nella sua forma più vera, non ero sicura di saperlo... e, in realtà, credevo di non aver mai saputo niente di concreto o assoluto riguardo a quel sentimento in tutta la mia vita. Solo parole al vento fino a quando non avevo incontrato Michael. Allora quell'anima confusa aveva scelto di vivere l’attimo e di provare a respirare di quel sentimento. Così, semplicemente per quello che era.
     
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    Capitolo Quarantadue: L'Inevitabile


    Umettandomi le labbra feci oscillare la penna rossa fra l’indice e il pollice. Un mezzo sospiro e corressi un numero sbagliato nella verifica di matematica di Paris; non era un errore gravissimo, solo una svista... ma l’avrei avvisata di stare sempre attenta ad ogni passaggio.

    Mi strofinai gli occhi dalla stanchezza e decisi che avrei riflettuto sul voto da darle l’indomani, prima di iniziare un altro giorno di scuola, segnando da subito l’ipotetico giudizio in matita per non rischiare di dimenticarmene. Mi alzai dalla sedia con uno sbuffo assonnato, sistemai ogni foglio nelle apposite cartelline e le penne nel mio astuccio. Dopodiché sgattaiolai in camera per farmi una doccia prima di andare a cena.

    Tornare alla vecchia vita, quello non era facile.

    Oltre al fatto di dovermi abituare alla routine di tre mesi prima – cosa che non era poi tanto male – era complicato fingere di essere soltanto un’insegnante e basta; stare coi bambini e tenere all’oscuro l’amore che provavo per loro padre, fingere che quando lo avessi di fronte il nostro rapporto fosse soltanto professionale o da buoni amici... mi costava un po’ di fatica. La “zia” Sarah doveva trattenere la sua gioia non appena Michael entrava nella stessa stanza in cui si trovava anch’ella, doveva recitare il suo ruolo. È come un gioco, mi dicevo, soltanto un po’ più complicato. Tutto sommato credevo di poter reggere quella situazione, ma c’erano momenti in cui avrei voluto abbracciarlo e non potevo farlo. Me l’ero andata a cercare da sola dopotutto, no?

    Entrai in camera e sistemai le cose di scuola sul letto. Era passato solo un mese dal compleanno di Michael e di nuovo mi ero abituata alla grandezza di quella stanza, dell’enorme letto a baldacchino con morbide coperte bianco panna. Le finestre puntavano la lontana e caotica Beverly Hills e il Sole tramontava e colorava di arancione le pareti e ogni mobile presente.

    Mi spogliai, tirai fuori dall’armadio il cambio per quando avrei finito di fare un doccia calda e mi chiusi nel bagno. Stancamente mi lasciai massaggiare la schiena e la nuca dal fiotto d’acqua pensando e ripensando a quando Michael sarebbe tornato a casa.

    Quel giorno, per esempio, non lo avevo visto dalla mattina presto. Aveva fatto velocemente colazione e poi se ne era andato, vestito con un elegante completo bianco; aveva in programma un’udienza preliminare e non avevo fatto altro che preoccuparmi per il suo stato emotivo e psicologico; per fortuna c’era la famiglia che lo accompagnava... si era mostrato sicuro di sé, ma avevo dubbi che fosse sereno veramente. Sapevo che avrebbe avuto bisogno di sostegno; potevo solo sperare di farlo sentire meglio quando nessuno avrebbe sospettato di nulla, di notte, come avevamo sempre fatto da quando ci conoscevamo, anche se non corrergli incontro appena tornato a casa sarebbe stato arduo.

    Dopo quell’udienza era chiaro che il processo sarebbe iniziato a gennaio.

    Per un essere umano comune, esterno alla situazione e dal caso in questione, un processo per accuse di pedofilia sarebbe stato un problema come un altro, un’ingiustizia che col tempo avrebbe perso il suo valore… i giornali e la TV avrebbero parlato della situazione per qualche mese e poi fine, tutto sarebbe finito nel dimenticatoio. Ma per Michael non era così. Lui era Michael Jackson. Il mondo lo voleva etichettare come qualcosa che non era e sarebbe stato marchiato a vita.

    Superare tutto questo per Michael era come cercare di sconfiggere la fame nel mondo; in questo ambito si tenta sempre di fare quel che si può per abbattere questo male, ma ogni tentativo sembra non avere mai successo. E così era il suo dolore: una difficoltà che appariva insuperabile e mai vinta completamente.

    Avevo compreso da tempo che lui era un’anima bellissima, con un cuore pieno d’amore e una sensibilità paragonabile a pochi, seppur rimanesse un essere umano come tutti gli altri. A dir la verità, di persone come Michael non ne avevo mai incontrate prima... sapevo che esistevano, ma non avevo mai avuto la possibilità di conoscerle prima d’allora, prima di lui...

    Ed era proprio per la sua spiccata emotività che quelle accuse lo ferivano fin dentro le interiora, lo sconvolgevano a tal punto da condurlo verso l’orlo del baratro. Essere incolpato per un reato simile per lui significava un tradimento, un’accoltellata a tutto l’amore che provava per quei bambini ai quali, fino ad un anno prima, aveva donato affetto senza chiedere nulla in cambio.

    Uscii dalla doccia circondandomi con un asciugamano che sapeva di vaniglia. Lo portai sotto il naso e mi chiesi se anche quelli di Michael odorassero dello stesso profumo; dopodiché mi asciugai e indossai la biancheria intima.

    Una cosa positiva – nel tornare a vivere nella stessa casa con lui – era poter nuovamente inspirare la sua essenza nell’aria e nelle cose che gli appartenevano. Quello mi era mancato di più durante l'estate. Ovunque andasse lasciava sempre un alone, una traccia del suo passaggio; un profumo, un tocco, o semplicemente minuscole cellule dell’anima che si separavano dal suo corpo e si incollavano agli oggetti che aveva intorno.

    Dopo essermi asciugata i capelli con un altro piccolo asciugamano li lasciai umidicci e leggermente ondulati lungo le spalle. Aprii la porta del bagno per prendere il cambio di vestiti e indossai una maglietta a maniche corte e un paio di pantaloni di tuta da ginnastica neri.

    Qualcuno bussò.

    Guardando verso la porta alzai la voce: «È aperto!»

    Questa si dischiuse lentamente. Sorrisi rallegrata nell'istante in cui vidi Michael – ancora vestito di bianco e con gli occhiali da sole indosso – entrare nella stanza.

    «Ciao, Moony...», appena fece girare la chiave nella serratura – una volta entrato in stanza – gli angoli della bocca si alzarono.

    Gli andai incontro e gli misi le braccia al collo. Respirai quel profumo che gli dava un’aria estremamente elegante e mi separai quel tanto che bastava per potergli sfilare gli occhiali da sole e agganciarli alla sua giacca. Ridacchiando mi donò un dolce schiocco sulle labbra, premendomi il viso fra i palmi delle mani.

    Nonostante quel momento di perfetta beatitudine non potei ignorare lo sguardo angosciato che per un millesimo di secondo ero riuscita a scoprire, un’espressione che i suoi occhi non riuscirono a nascondermi.

    «Come stai?», sussurrai fissandolo umettarsi la bocca.

    «Bene, ora che sono qua...», mi prese i fianchi e accostò il mio bacino al suo. «Ora che sono da te e dai miei figli, tutto va meglio...»

    Lo guardai preoccupata. «Sicuro...?»

    «Sì», fece spallucce e ricambiò l’occhiata con una faccia strana. «Perché non dovrei?»

    Conoscevo bene quella smorfia: sorrideva ma i suoi occhi erano tristi, mentiva con un tono così pacato e in un certo senso ironico che comprendevo subito che stesse celando i suoi veri sentimenti. In più quella domanda giustificò ogni mia intuizione.

    «Com’è andata l’udienza?»

    Il suo sorriso si spense quando realizzò che avevo inteso ogni cosa. Portò lo sguardo sulle enormi finestre della camera, debolmente illuminate dal Sol calante, e si passò la lingua fra le labbra.

    Mi parlò con un fil di voce. «Ci sediamo, che ne dici?»

    Annuii.

    Mi offrì la mano osservando il modo in cui intrecciavo le mie dita alle sue, come le stringevo affettuosamente e come le legavo in una solida stretta mentre ci avviavamo verso il bordo del letto; neanche quando ci sedemmo con un leggero tonfo volle mollare la presa. Era chiaro come l’acqua che la situazione fosse tutto fuorché tranquilla.

    «Raccontami, dai...», gli detti un buffetto simpatico con il gomito.

    Sospirò fissando un punto vacuo davanti a sé. «Oggi all’udienza ho incontrato Janet...»

    «Janet...?»

    «Janet Arvizo, anche se in realtà ama farsi chiamare Janet “Jackson”», soffiò con sottile rancore. Le iridi si velarono di uno strato di rabbia irrequieta che cercò di contenere. «Ci siamo a malapena guardati. Non so come abbia fatto a controllarmi...», strinse i pugni. «Ha avuto il coraggio di mostrarsi arrabbiata, in collera...!»

    Mi portai la sua mano alla bocca e la baciai; in seguito, con l’arto libero, gli massaggiai una spalla rigida per l’oppressione psicologica a cui era sottoposto; chiuse le palpebre increspando la fronte.

    «Quella donna è cattiva...», gli si spezzò la voce mentre ingoiava a fatica, «è molto cattiva...»

    Poggiai le labbra su un punto della sua mascella crudelmente serrata. Col naso sfiorai la guancia e la strofinai appena. Michael rabbrividì.

    «Lo so, vuole farti ancora più male di quanto non te ne abbia già fatto... sa benissimo l’effetto che ha su di te. Anche la sua sola presenza può mandarti fuori di testa e lei ci gode».

    Il suo fiato tremò.

    «Mi ami, Sarah?»

    Lo scrutai con premurosa apprensione. Infilai le dita tra i suoi capelli neri e li sistemai lontano dalla faccia, piegando un po’ il capo di lato. Non ostentava ad aprire gli occhi e ora la bocca descriveva un’espressione agonica.

    «Ti amo immensamente»

    Aumentò la presa sulla mano. «Davvero?»

    «Certo che sì, piccolo incosciente...!», borbottai imitando la sua voce e riuscendo a farlo sorridere, anche se tristemente. «E credo in te, nella tua forza d’animo e nella verità… tempo al tempo...»

    Espirò piano. «Sono... sono molto stanco...»

    Con un gemito sofferente fece cadere la testa sul mio seno, affondando la nuca nella conca fra gola e scapola. Gli accarezzai i capelli ciocca per ciocca.

    «Ora sei a casa», bisbigliai. «Andrà tutto bene».

    Sentirlo così amareggiato faceva sanguinare anche me con lui. Ma ero forte, potevo farcela. L’importante era che Michael si sentisse bene, anche per un fulgido istante, fra le mie braccia. Percepii i nervi del suo corpo rilassarsi man mano che le carezze sulla sua testa aumentavano.

    «Ti prego, rimaniamo ancora un po’ così...», mormorò nascondendo tutta la faccia sul tessuto della mia maglietta. «Voglio sentire il tuo cuore battere... il tuo respiro... soltanto per un po’...»

    Mi fece sussultare silenziosamente.

    «Certamente, tesoro».

    Se molti mi avessero visto, probabilmente mi avrebbero dato della pazzoide esattamente come credevano che Michael fosse; mi avrebbero guardato dall’alto in basso aggredendomi con frasi del tipo: “Ma perché con Michael Jackson, il pedofilo?” ecc. fino a farmi venire la nausea. Mi avrebbero chiesto perché lo credessi innocente, e io con sguardo fiero e deciso avrei spiegato loro che un uomo come lui non poteva essere l’incarnazione di un mostro. Mi avrebbero dato della pazza e io non ci avrei dato retta perché sapevo qual era la realtà, e soprattutto ero orgogliosa di provare un sentimento tanto forte per lui.

    A me non importavano le loro voci. A me importava amarlo, perché sapevo fin dal principio che Michael non era colpevole. Sentivo questa verità scorrere nel sangue, nelle vene, e fluire per tutto il corpo così come ero certa di amarlo. Non avevo ragioni per pensarlo colpevole, soprattutto quando avevo avuto la possibilità di stargli vicino e capire che sotto quel suo finto “sto bene”, talvolta, non c’era niente di vero, perché soffriva più di quanto non desse a vedere.

    A dire il vero, non sapevo come sarei riuscita ad aiutarlo del tutto…

    Io ero capace di essere forte, è vero, lo avevo dimostrato a me stessa in molti momenti ed ero sicura lo avrei dimostrato anche in futuro, nei momenti peggiori, ma forse non ne ero abbastanza capace di amare. Forse quella cosa avrebbe logorato anche me con lui… ma di certo non mi sarei allontanata da Michael fino a quando non mi avrebbe cacciato via.

    E frattanto che il suo cuore straziato piangeva lacrime di sangue e rimpianto, la mia mente gridava contro l’ingiustizia e arrabbiata chiedeva al vento impalpabili preghiere di aiuto. Dio solo sapeva quanto desiderassi una bacchetta magica per cancellare tutto quello strazio dalla sua anima.

    «Qui non ti possono fare del male...», sussurrai dolcemente. Gli scoccai un bacio tra i capelli. «Ti va di andare a mangiare qualcosa? Scendiamo giù per cena così puoi stare un po’ con i tuoi bambini...»

    Inclinai il capo per poter vedere i suoi occhi aperti, le palpebre che sbatteva lentamente e il cipiglio terribilmente assente che aveva assunto. Quell’espressione mi riduceva in pezzi. Ciò nonostante, Michael annuì piano ed io sorrisi mestamente.

    Si separò dal mio petto con un impercettibile movimento del corpo e raddrizzò la schiena; gli presi le mani e le tenni al caldo fra le mie. Istintivamente desiderai che quel calore potesse inglobare anche il suo spirito.

    Un debole mormorio scivolò al di fuori di quelle labbra sorprendendomi.

    «Grazie, Sarah...».

    Nell’istante in cui mi guardò, le sue iridi si ravvivarono dal bagliore di lacrime salate. Mi abbracciò senza alcun tentennamento, facendomi oscillare a destra e a sinistra. Alzandomi in piedi, abbassando lo sguardo in un momento in cui non mi avrebbe visto, chiusi gli occhi e smisi di pensare.

    *

    «Riproviamo, ti prego!», mi incitò Paris con uno sguardo acceso dalla determinazione.

    Sorrisi. Mi passai una mano tra i capelli, portandoli tutti all’indietro, e mi bagnai le labbra.

    Con la coda dell’occhio guardai Michael, Prince e Blanket. Erano seduti su una coperta a quadri nera e rossa, circondati dall’erba appena tagliata all’ombra di un albero poco distante. Blanket cercava di correre da solo, parlottando con il fratello maggiore, il quale lo teneva per una manina e lo bloccava quando questo velocizzava il passo nel tentativo di sfuggire alle sue attenzioni. Blanket era vivace, molto più di quanto desse a vedere. E mentre Prince sbuffava e lo rimproverava, Michael ci fissava con un sorriso smagliante. Teneva gli occhiali da sole – nonostante fosse quasi il tramonto – e appoggiava il peso sugli avambracci, con le gambe distese e a pancia in su.

    Trattenni un sorriso complice.

    «Voglio fare una verticale perfetta! E la ruota senza mano!».

    Quel giorno avevo rivelato a Paris di essere in grado di fare la ruota con una mano e la rovesciata all’indietro. Quando mi aveva visto fare quest’ultima i suoi occhi avevano luccicato in una maniera incredibile, abbagliati dal desiderio di farlo altrettanto.

    Anche Michael e Prince erano rimasti basiti… in particolare Michael, il quale sguardo si era dipinto di una sorta di ammirazione misto a desiderio.

    «Va bene, Paris… ma mi raccomando», la ammonii mentre le andavo vicino, «la schiena deve sempre rimanere dritta, così come la gamba su cui butti il peso, altrimenti ti fai male. Guarda, così…».

    Rifeci ogni step passo per passo, lentamente, e compii un’ennesima verticale in aria con entrambe le mani. Prima di insegnarle a fare una ruota come si deve avevo pensato che fosse meglio spiegarle come si facesse la verticale. Per sua fortuna era portata per la ginnastica artistica e aveva avuto un equilibrio e una scioltezza da far paura.

    «Vieni, riproviamo», le feci cenno con la testa, ansimando appena. «Di nuovo ti tengo le gambe e poi le lascio. Io sono qui e ti afferro nel caso in cui fossi sul punto di cadere».

    Paris annuì diligentemente. Aveva proprio il portamento da ginnasta.

    Facemmo qualche altro tentativo e poco dopo riuscì a fare una verticale senza bisogno del mio aiuto. Rimase con le gambe sospese nell’aria per dieci secondi abbondanti, per poi rischiare di cadere di lato; riuscii a prenderla in tempo e da sola ritornò in posizione iniziale.

    «Ancora».

    Sorrisi. «Possiamo continuare domani, se sei stanca».

    Era madida di sudore ma tenace. Il suo sguardo serio e composto non dava segno di volersi arrendere fino a quando non lo avrebbe deciso da sé.

    «No, voglio provare da sola un’ultima volta».

    Poi abbassò lo sguardo e mi venne vicino. Capii che volesse dirmi qualcosa all’orecchio e mi abbassai sulle ginocchia. Paris arrossì appena.

    «Voglio che papà mi veda fare una verticale perfetta e mi faccia i complimenti».

    Sbattei le palpebre dallo stupore, ma un secondo più tardi sorrisi apertamente. Le accarezzai i capelli avvolti in una treccia. Mi scrutò eloquentemente con i suoi occhioni verde-azzurro da cerbiatta.

    «D’accordo, riproviamo!».

    Ritornammo ai nostri posti. Mi fissò intensamente, in posizione eretta e con le braccia alte verso il cielo, e io annuii. Sospirò con il naso, guardò verso suo padre e i suoi fratelli e poi mirò al terreno. Da sola, senza il mio supporto, riuscì a fare una verticale perfetta: rimase sospesa nel vuoto per qualche tornò in posizione iniziale senza mostrare perdita di equilibrio. Per essere così piccola, aveva proprio talento.

    «Sì, Paris, bravissima!», applaudii con visibile eccitazione.

    Mi guardò mostrando un sorriso che pareva andare da un orecchio all’altro, per poi lanciare un’occhiata ancor più emozionata al luogo in cui Michael, Prince e Blanket stavano. Da lì si levò un applauso e quando mi voltai vidi Michael alzarsi in piedi, orgoglioso come non mai. Si era tirato via gli occhiali da sole e ammirava la sua piccola con ammirazione. Anche Prince si era messo ad applaudire, decisamente più pacato del padre, lasciando perdere Blanket che nel frattempo cercava di filarsela a gambe levate.

    Paris corse incontro al suo adorato papà in un battibaleno.

    «Hai visto, daddy? Ce l’ho fatta!».

    Michael la prese in braccio e le scoccò un sonoro bacio sulla guancia. La piccola ridacchiò imbarazzata.

    «Non avevo dubbi, sei stata bravissima».

    Paris era proprio la principessa di papà. Michael stravedeva per lei e Paris ricambiava la sua devozione. Era un rapporto incredibile, il loro. Non avrei detto che fosse “più intimo e intenso” di quello che Michael aveva con Prince e Blanket, perché ognuno di loro aveva un legame profondo e unico con il padre; semplicemente – forse per il fatto di essere l’unica femmina della famiglia, forse per il carattere decisamente guerriero e tenace che li accumunava – Michael e Paris si capivano molto bene. C’era un feeling visibile.

    Michael fece scendere Paris dalle sue braccia, la quale corse appresso a un Prince che rincorreva minacciosamente un Blanket dispettoso. Michael disse loro di non correre sui sassi.

    Anche Prince e Paris condividevano un legame molto speciale, diverso da quello che avevano con il padre, e Paris guardava molto a Prince come la sua guida e il suo mentore... quando non litigavano e non competevano tra loro, ovviamente. In quel caso Michael diventava severo.

    «Non mi hai mai detto che sapevi fare quelle cose…».

    Voltai il capo alla mia destra e percepii il profumo di Michael come un’onda improvvisa. Si era posto al mio fianco più silenziosamente di un felino, mentre io ero rimasta a fissare i tre bambini giocare ad acchiaparello.

    Mi sorrise con uno sguardo malizioso e incuriosito assieme, riponendo particolare attenzione sulle mie labbra. Arrossii e guardai i bambini.

    «In realtà non credevo di ricordarmi più come si facesse, fino a quando Paris non mi ha chiesto di provare».

    Ci incamminammo lentamente verso il percorso in sassolini, non dopo che Michael avesse raggomitolato la coperta a quadri sotto un braccio.

    Era difficile non cedere alla tentazione di abbracciarlo, tenergli la mano o baciarlo. Era come una calamita per i miei istinti: più resistevo, più volevo stargli accanto. Sperai che per Michael fosse lo stesso.

    Quella sensazione mi eccitava più del normale – l’idea di non poterlo toccare così come l’idea di poterlo provocare e percepirlo scosso ogni qualvolta ci fosse uno sfiorarsi di mani o di sguardi… quella sì che era una soddisfazione. Aumentava il mio desiderio di lui e vederlo trattenere il fiato e assumere un’occhiata seria ma eloquente mi faceva impazzire. Solo la sera, quando tutti andavano a dormire e non potevamo essere visti o uditi da nessuno, tornavamo ad essere intimi.

    Oh, eccome se ritornavamo ad esserlo, e ne valeva la pena.

    «Paris è eccezionale. Secondo me questa disciplina sportiva sarebbe perfetta per lei».

    «Dici?».

    Annuii vigorosamente.

    «Hai fatto corsi di ginnastica artistica?».

    «Sì, ma per poco tempo», dissi mentre camminavamo fianco a fianco. Michael non perdeva di vista i suoi bambini e io con lui. «Non sono mai stata portata per gli sport, ma in questo non ero affatto male. Ho sempre avuto una buona elasticità e resistenza».

    «Eccome se ce l’hai…».

    Lo adocchiai fintamente stupefatta. Fece lo stesso, alzando un sopracciglio e un lembo delle labbra con fare furbetto. Compresi immediatamente a cosa si stesse riferendo. Mi scontrai con il suo braccio e gli feci la linguaccia.

    «Mi stai prendendo in giro?».

    «Assolutamente no», si accigliò. «Ti sto proponendo di darmene prova più tardi».

    Ridacchiai e arrossii. Scossi il capo e mi portai un ciuffo di capelli ribelli dietro l’orecchio.

    Questi sarebbero stati i momenti che mi sarebbero mancati di più nei mesi del processo. La tempesta era alle porte, sempre più visibile all’orizzonte, eppure continuavamo a comportarci come se niente fosse. Mentivamo al mondo – nascondendo la nostra relazione – e mentivamo a noi stessi – cercando di rinviare preoccupazioni e tensioni inevitabili. Era la cosa più semplice da fare per entrambi. Vivere il momento e non pensare al dopo, ai “se” e ai “ma”, ai “tieni duro” e ai “non crollare, per favore”.

    I suoi figli giocavano beati, in direzione del carosello.

    Era un sabato di fine settembre ed eravamo tornati come di consueto al Neverland Ranch.

    Con la mano libera Michael mi afferrò due dita. Cercai le sue e le stringemmo in un abbraccio silenzioso, che comunicava più di quanto le parole o gli occhi potessero permettersi di fare, sfruttando la distrazione dei suoi figli.

    Avevamo le mani legate, due cuori incatenati l’uno all’altro, nel disperato bisogno di respirare quell’aria settembrina che sapeva di ultimi istanti di spensieratezza e libertà.

    *

    Battei un piede a terra fissando la porta con un cipiglio indefinito.

    Anche se mi fossi imposta di parlargli, sarei riuscita a dirgli quello che pensavo?

    Sentivo le domande – e le automatiche risposte – delle mie programmate (e fantasticate) conversazioni perforarmi la testa, il cuore agitato e rinvigorito da un fuoco ben diverso dall’amore. Una parte di me non vedeva l’ora di chiarire le cose tra me e Michael, mentre un’altra mi invitava a rinunciare.

    Ero sicura che fosse nello studio di registrazione. Non sapevo dove altro potesse essere da due giorni a quella parte.

    Accostai un orecchio alla porta nera davanti a me per sentire se provenissero dei rumori ovattati dalla stanza.

    Da qualche giorno Michael mi aveva evitato senza apparente motivo e senza darmi una ragione sensata; più gli chiedevo indirettamente cosa gli prendesse, più mi ignorava con un silenzio tombale; ad un certo punto – alla mia domanda diretta – si era arrabbiato perché sosteneva che dicessi stupidaggini e che non mi fidassi abbastanza di lui, gesticolando irritato come non mai. Era in modalità “vittimismo sfrontato” e seppur io potessi sopportare quell’atteggiamento per un po’ di tempo – diciamo 24 ore come minimo, nei giorni in cui ero più comprensiva – in quella terza sera di mancata comunicazione tra noi avevo raggiunto un limite.

    Mi decisi a uscire dalla mia camera dopo essermi mordicchiata tutte le pellicine in parte alle unghie. Sentivo lo stomaco sotto sopra e il battito del cuore veloce come se avessi appena terminato una maratona.

    La verità era che mi dispiaceva che mi escludesse dalla sua vita e dai suoi pensieri con un taglio netto e non motivato. Avevo provato a pensare e ripensare continuamente a cosa potessi aver fatto di male, ma non ne venivo a capo.

    Voleva allontanarsi come aveva fatto molti mesi prima, per paura di continuare la nostra relazione e non riuscire a mantenerla durante il processo? Oppure era di malumore per qualcosa che non ero io e non se la sentiva di parlarne? In ogni caso, poteva essere sincero e andare dritto al punto. Avrei cercato di capirlo nei migliori dei modi, dico davvero. Ma non me ne dava l’occasione. Come al solito, faceva tutto da sé.

    Mentre cercavo di capire se fosse presente nella sala registrazione o meno, osservai l’intero corridoio addobbato per i festeggiamenti di Halloween.

    Era la terza settimana di ottobre. Nonostante il fatto che la famiglia Jackson non abitasse più in quel meraviglioso posto, Michael aveva espressamente richiesto che tutto venisse addobbato per la felicità dei suoi figli. Avevano già programmato la festa di Halloween (tra i quattro membri della famiglia) che si sarebbe fatta proprio al ranch. I bambini erano entusiasti e non facevano altro che pensare ai loro possibili travestimenti e alle leccornie che avrebbero gustato.

    Se non fosse stato per il mio litigio con Michael, anch’io non sarei stata nella pelle. Le settimane erano passate, le foglie erano ingiallite e cadute una dopo l’altra, il Sole si era addolcito e aveva smesso di ardere la terra con il suo rovente calore.

    A breve sarebbe stato un anno da quando ero arrivata lì, dai Jackson, come insegnante. Era una ricorrenza che avrei voluto ricordare con gioia, non con la preoccupazione che tutto potesse andare a farsi maledire.

    La notte era calata da un pezzo, la casa era silenziosa.

    Non ce la facevo più a stare zitta. Ero pronta a discutere pur sapendo che quel mio atteggiamento avrebbe potuto costare un litigio tremendo. La mia salute psicologica e fisica non reggeva un clima di oppressione e rancore a lungo.

    Mi staccai dalla porta con un leggero sbuffo. Per un attimo tentennai di nuovo e fui persuasa a non bussare; mi ripetei mentalmente per circa la milionesima volta ciò che avevo da dirgli e, alla fine, colpii tre volte con il pugno.

    Nulla.

    Riadagiai l’orecchio una seconda volta per sentire un qualche suono dall’interno della stanza, ma non udii neanche una melodia soffusa.

    Forse mi sbagliavo.

    Grugnii insoddisfatta, sistemando tutti i capelli su una spalla.

    Tornai al primo piano con la testa bassa. I miei occhi erano inchiodati sul pavimento, mentre pensavo e ripensavo dove potesse trovarsi; mi presentai e bussai anche alla sua camera da letto, ma non ebbi risposta. Aspettai un suo segnale per circa due minuti abbondanti e, alla fine, passai all’ultima stanza – l’unica – in cui avrei potuto trovarlo: l’ufficio.

    Prima di battere alla porta accostai l’orecchio proprio come avevo fatto per le altre stanze; lo sguardo s’illuminò e il cuore riprese a scalpitare. All’interno vi era un sottile bisbigliare, abbastanza distinguibile da poter affermare che fosse la voce di Michael.

    Mi presi dieci secondi per tranquillizzarmi.

    Inspirai concentrandomi su ciò che avrei dovuto dirgli e bussai pianissimo, in modo che però riuscisse a udirmi. Ero sicura che fosse solo – al telefono – visto che percepivo la sua voce e lunghe pause di silenzio.

    Sempre appoggiata al legno lo sentii interrompere il discorso che stava portando avanti con chissà chi. Il tono non era uno dei più allegri, lo riconobbi fin da subito... e cominciai a pensare che molto probabilmente avevo fatto la guastafeste nel bel mezzo di una conversazione con qualcuno di importante.

    Di colpo udii lo scatto della chiave che girava nella serratura e feci appena in tempo a separarmi dalla porta prima che questa si aprisse.

    Ahia...

    Con un’espressione che non saprei definire mi allontanai di un passo per poter scrutare meglio Michael negli occhi; subito mi pentii di quello che avevo fatto... perché l’occhiata che mi stava rivolgendo era seria e distaccata, senza quel calore che normalmente lo illuminava quando mi guardava.

    Vidi che teneva il telefono cellulare in una mano e con l’altra copriva la cornetta.

    Ingoiai la saliva.

    «Ho bisogno di parlarti», bisbigliai a fior di labbra.

    Poggiai il peso del corpo su una gamba sistemando una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

    C’era qualcosa di strano.

    Il viso rimane scolpito in una smorfia impenetrabile.

    «Più tardi, Sarah...», la voce era bassa ma non calda come l’avevo sentita più volte. «Ora sono occupato...»

    Smettila di trattarmi così, come se non esistessi... come se fossi un’estranea appiccicosa...

    «Ok», notai che era vestito in jeans scuri e camicia nera. «Fra quanto posso passare?»

    Abbassò lo sguardo stringendo la mascella, umettandosi la bocca.

    «Non lo so», rispose in tono tetro, bagnandosi il labbro inferiore e martellando la punta del piede a terra. «Non ho idea di quanto tempo mi prenderà questa cosa...»

    «Allora cercami tu, così non rischio di disturbarti», mormorai falsificando un sorriso rasserenato. «Appena hai finito ti aspetto in camera mia. Ti va?»

    Annuì appena, senza guardarmi.

    «Adesso scusami...», si congedò.

    Non attese una risposta e mi chiuse la porta in faccia, seppur piano, lasciandomi in silenzio come uno stoccafisso. Non riuscii neanche ad assumere una qualsiasi faccia sconvolta o contrariata: chiusi gli occhi e alzai un sopracciglio provando a reprimere un moto di delusione.

    Feci retromarcia e mi avviai di corsa verso la mia stanza. Quando arrivai e mi chiusi al suo interno, mi gettai a letto frenando un mugugno esasperato. Ciò nonostante, la mia speranza non morì. Decisi di attenderlo veramente, pensando che fosse semplicemente nervoso per la telefonata che stava portando avanti. Probabilmente era quella a renderlo nervoso, non io.

    Affondai la testa sul cuscino.

    Stavo ricadendo negli stessi sbagli compiuti in passato, errori che avevo compiuto con persone che avevo amato per le quali avevo sofferto molto. Cercare di aiutare mettendo al secondo posto me stessa, anche se per il momento in forma abbastanza lieve, non era la cosa giusta da fare.

    Se lui non voleva parlare, lo avrei dovuto lasciare nel silenzio? Mi sarei dovuta mettere da parte? Probabilmente sì.

    Michael doveva agire così per un motivo preciso e molto grave. Non sapevo quale fosse la ragione, ma di certo ciò che gli era accaduto influiva sul nostro rapporto. Il mio istinto mi diceva che c’entrasse il processo o quel fattaccio avvenuto qualche settimana prima riguardante un video di Eminem. Il solo pensarci mi faceva salire il ribrezzo, che c’entrasse l’uno o l’altro fatto.

    Quando Michael non voleva parlare ti ignorava o faceva cadere il discorso con frasi così idiote da far perdere la pazienza anche all’uomo spiritualmente più equilibrato del pianeta. Era testardo, si chiudeva in se stesso e se aveva davvero la giornata “no” riusciva a essere scostante in una maniera allucinante. Ma cercavo di stargli accanto nonostante tutto.

    Per quello avevo deciso di aspettarlo, quella notte.

    Alle 23 mi ero messa a leggere un libro, perché Michael non era ancora arrivato.

    A mezzanotte e mezza avevo smesso, preferendo scrivere una parte di un nuovo racconto molto abbozzato e senza trama, perché Michael non era ancora arrivato.

    All’una e mezza di notte avevo deciso di andare a dormire, ma ci misi un’altra ora e mezza per riuscire ad addormentarmi.

    Alle tre di notte, sfinita dal pensar troppo, mi addormentai.

    Michael non sarebbe mai arrivato.
     
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    Capitolo Quarantatre: La Lama A Doppio Taglio


    «Prince, mi passeresti la scatola vuota della panna?»

    Il bimbo, comodamente seduto su uno sgabello, mi annuì e si allungò verso l’oggetto richiesto. Me lo porse con un sorriso furbesco. Paris, nel frattempo, dopo aver frullato le more e i mirtilli assieme al succo di limone, zucchero e panna, si apprestava a ripulire il tutto come una vera donnina di casa; teneva la punta della lingua stretta tra i denti appena scoperti, gesto che faceva inconsciamente quando era molto devota al lavoro che stava compiendo.

    «Grazieee».

    Dopo aver buttato la scatola nella spazzatura iniziai a riempire una bacinella con l’acqua e il detersivo per i piatti. Nel frattempo indossai i guanti da cucina ed estrassi dal forno il vassoio con tutti i muffin al cioccolato appena cotti. Prince poggiò le ginocchia sullo sgabello e si sporse in avanti, in mia direzione, incuriosito e goloso. Non appena cominciai a sistemare tutti i muffin a cerchio su un enorme piatto azzurrino, adocchiai Prince e Paris con divertimento. Entrambi erano rigidi e fissavano i dolcetti senza battere ciglio.

    Trattenni un sorriso. «Volete assaggiarne uno con me?»

    Sorrisero sornioni e i loro sguardi si illuminarono come se avessero visto il Sole.

    Presi un muffin intiepidito e ci soffiai sopra. Con delicatezza lo divisi in quattro pezzi aiutandomi con un coltello. Per fortuna – prima di estrarre il vassoio dal forno – avevo lasciato raffreddare i dolci quanto bastava per non scottarmi le dita o la lingua. Sapevo che mi avrebbero chiesto un assaggio, ero stata perspicace.

    Sia Prince che Paris presero il loro pezzettino di muffin tra le dita e se lo portarono alla bocca. Prince arricciò il naso con evidente allegria e soddisfazione, mentre Paris sembrò sciogliersi sul posto assieme al boccone appena gustato.

    Avevamo fatto il disastro in quella cucina. Farina ovunque, residui di gusci d’uovo sul tavolo, zucchero sparso e posate sporche come non mai. I nostri grembiuli da cucina erano inguardabili. Avevamo appena finito di montare la panna (rigorosamente viola) per ultimare la decorazione dei muffin e mi stavano aiutato a ripulire per quanto possibile.

    Mancava un giorno ad Halloween e i bambini erano entusiasti. Era da una settimana che io, Prince e Paris pensavamo al tipo di torta da fare per quella festività: alla fine avevamo optato per semplici muffin ricoperti di panna montata viola (colore ottenuto frullando le more e i mirtilli al resto). Una volta che la panna si sarebbe un po’ raffreddata, ci avremmo fatto qualche piccola decorazione sopra a mo’ di ragnatela (anzi, l’avrebbero fatta loro).

    Blanket sbattè le mani sul suo seggiolone per protesta. Mugugnò delle frasette confuse e irritate. Con un mezzo sorriso mi diressi verso di lui, lo sollevai e lo tenni in braccio. Le sue labbra e le sue sopracciglia corrugate si distesero immediatamente non appena gli diedi il piccolo pezzo di muffin che avevo tagliato per lui.

    «Pensi che a papà piacerà, zia Sarah?», Paris osservò la panna montata viola con labbra increspate dal dubbio e dalla trepidazione.

    Nascosi un’espressione di cinico sarcasmo.

    «Assolutamente».

    Non parlavo con Michael da una settimana. L’ultima volta che ci avevo parlato mi aveva guardato freddamente, tenendo il suo telefono portatile stretto in una mano, e mi aveva liquidato davanti alla porta del suo ufficio con una bugia da quattro soldi. Ci ero rimasta male, avevo sperato che lui volesse parlare con me e sistemare il silenzio tra noi, ma mi aveva trattato come se si potesse permettere ogni cosa. Come se potesse prendermi per il culo e sperare che io non avrei fatto una piega soltanto perché lui era Michael Jackson. Sottovalutava la mia ira e sopravvalutava la mia tolleranza.

    Non ero disposta ad avere a che fare con un uomo a cui piaceva fare i giochi del silenzio. Perciò, dalla mattina a seguire, avevo smesso di rivolgergli la parola. Lo evitavo a colazione, pranzo e cena. Appena finite le lezioni sgattaiolavo in camera o al di fuori dei cancelli di Beverly Hills (quando e se potevo farlo senza creare disordini). La sera mi mettevo a leggere o a scrivere in camera mia e chiudevo la porta a chiave, accompagnata dalla musica nelle cuffiette che tenevo spasmodicamente nelle orecchie come scusa per non sentire bussar di porta.

    Dopo quattro giorni passati ad evitarlo come la peste, impedendomi di incrociarlo anche per sbaglio, cercava di presentarsi a me durante gli orari più impensabili: interrompeva le lezioni, arrivando dieci minuti prima che terminassero, oppure veniva in cucina quando mangiavo in anticipo o in ritardo rispetto alla famiglia Jackson; in quei casi fingevo di essere piena e portavo i miei avanzi in cucina – pur patendo la fame. Michael non cercava di trattenermi; faceva un passo in mia direzione, spalancava la bocca per dire qualcosa e si ammutoliva subito dopo. Oppure si leccava il labbro inferiore e rimaneva fermo immobile dov’era come uno stoccafisso, mentre io gli passavo in parte di corsa.

    Non mi serviva parlare per far capire quando fossi arrabbiata.

    «Avanti, bambini!», cercai l’entusiasmo momentaneamente perso. «Mettiamo la panna in frigo e lasciamo che i muffin si raffreddino ancora un po’. Altrimenti si scioglierà tutto, se decoriamo i muffin ora. E intanto finiamo di ripulire la cucina da tutto questo caos».

    Prince e Paris annuirono. Scattarono subito sull’attenti e sotto le mie indicazioni mi aiutarono a sistemare il tutto – cosa che mi fu difficile fare da sola, con Blanket su tutto il peso di un braccio; in ogni caso sapevo che Michael voleva che i suoi figli fossero il più autosufficienti e responsabili possibili; se non avessero fatto niente di niente avrebbe avuto la scusa per riprendermi e dirmi di non viziarli. Preferivo evitare di parlarci.

    Non soffrivo perché non voleva parlarmi dei suoi problemi, potevo capire che volesse un po’ di privacy e tempo per gestire i suoi sentimenti. Soffrivo perché mi evitava come se fossi la causa del suo malessere; ad un certo punto rischiavo di credere che lo fossi veramente e sapevo che non me lo meritavo. Mi ignorava e mi guardava con freddezza, come se parlare con me lo mettesse di fronte a un altro probabile litigio. Ma quello nervoso in quel periodo era lui; forse sbagliavo a fargli troppe domande, a interessarmi troppo al suo stato d’animo e sul perché stesse così, ma lo amavo e mi preoccupavo per lui. Michael era arrabbiato con il mondo – con i suoi manager, con uomini d’affari di cui preferiva non parlarmi per non coinvolgermi in cose troppo pesanti e ingestibili. Era arrabbiato perché i giorni passavano troppo velocemente e si avvicinava il processo. Era frustrato.

    Ma io non meritavo quel comportamento.

    Non avevo fatto niente per essere trattata in quel modo.

    Ero la sua donna – la sua migliore amica e la sua spalla – o un oggettino da tenere sul soprammobile delle mille e mille persone che fingevano di essere veramente sue amiche?

    «Finito!», esclamò Paris sollevando le braccia in aria e guardandomi con aria trionfante. «Adesso cosa ci manca, zia?».

    «Lasciate fare a me», sorrisi candidamente. «Lavo i piatti e do una pulita per terra mentre voi andate a giocare. Avete praticamente pulito tutto. Prendete vostro fratello Blanket e andate a divertirvi senza problemi».

    «Ma ci divertiamo tanto con te…», mormorò Prince mentre afferrava il fratellino minore e, con un sospiro di fatica, se lo teneva stretto in braccio. «Ti possiamo aspettare per continuare a giocare».

    Mi scioglievano il cuore. Letteralmente. Erano la mia gioia in tutto quel silenzio. Mi volevano bene e mi trattavano come una loro eguale. Erano educati, erano rispettosi, ma soprattutto erano amorevoli in maniera incondizionata. Stare con loro mi faceva capire che non stavo sbagliando proprio tutto nella mia vita. E posso dire con certezza che non fossi molto serena in quel periodo, né con me stessa né con la persona a cui tenevo di più al mondo… forse l’unica a cui avevo tenuto così tanto… una vera e propria lama a doppio taglio.

    Mi ero già messa i guanti e lavato qualche posata quando udii dei passi leggeri dietro di me. Riconoscevo il rumore delle scarpe a contatto con il parquet in legno chiaro: un suono decisamente basso, ma fioco come pioggia sul terreno.

    Per un secondo smisi di strofinare un bicchiere e le spalle mi si irrigidirono. Poco dopo ritornai al mio lavoro cercando di essere impenetrabile… cosa assai difficile. Dentro di me il cuore scalpitava come un ossesso. Di nuovo la tensione ribollì nel mio cervello mandando in pappa qualsiasi possibilità di formulare una frase di senso compiuto.

    Un passo, un altro passo, un terzo e un quarto.

    Pausa.

    Impazienza.

    Di nuovo un passo e un altro ancora, fino a quando non lo percepii dietro di me. Una vibrazione costante, più calorosa del solito. Mi strinse lo stomaco in una morsa terribile.

    «Possiamo parlare?».

    Risentire quella voce bassa e candida mi fece venire i brividi dietro la nuca. Per quanto lo odiassi, era innegabile che mi mancasse e che tutto quel silenzio mi pesasse nel cuore più di quanto volessi dar a vedere. Stargli lontano nonostante tutta quella vicinanza era più difficile che con qualsiasi altra persona sulla faccia della terra.

    Non mi voltai, ma feci spallucce.

    Avrei detto qualcosa molto volentieri, ma la voce si era annodata in gola e non voleva proprio saperne di liberarsi.

    Michael sospirò appena. Un altro passo e mi fu accanto, alla mia sinistra, con il petto che sbatteva contro la mia spalla.

    Trattenni il respiro.

    Aveva un profumo molto più intenso del solito. Sempre il solito, ma decisamente più pungente.

    Rimanemmo così senza dire una parola per un tempo indefinito. Io continuavo a lavare i piatti come un automa e Michael mi fissava senza mollare la presa. Anche se qualche volta mi scivolava un cucchiaio o un pentolino dalle mani, lo recuperavo senza mostrare un risolino divertito a causa del mio imbarazzo. Ciò nonostante, le mie guance erano calde e leggermente colorate di porpora.

    Michael mi afferrò un ciuffo di capelli e me lo pose dietro l’orecchio con delicatezza quasi impalpabile. Mi bloccai un’ennesima volta, con una forchetta e una spazzolina tra le mani, ingoiando il respiro.

    «Mi dispiace».

    Lo guardai.

    Sembrava che non avessi visto il suo viso da mesi.

    La prima cosa che mi saltò all’occhio fu il completo che indossava: smoking scuro con una camicia viola sotto. Gli occhiali da sole erano appesi a un taschino della giacca nero opaco. Le fossette sulle guance erano più marcate del solito. Non indossava un trucco pesante, solo un sottile velo di fondotinta. Le labbra erano strette in un’espressione tesa. Gli occhi, grandi e scuri, avevano la stessa profondità di come quando li avevo lasciati prima del nostro momentaneo distacco: osservatori, intensi, così pieni di sentimenti che sembravano scavare all’interno dei miei con una forza indomabile. Le sopracciglia erano un po’ aggrottate, i capelli più ordinati del solito.

    Era così bello che non credevo fossi in grado di fingere indifferenza.

    Inspirò schiudendo appena la bocca, con occhi improvvisamente scintillanti.

    Per un attimo mi si bagnarono le iridi e dovetti concentrarmi sui piatti da lavare per non lasciarmi andare o cedere alle emozioni. Inghiottii la saliva e mi bagnai le labbra, continuando a strofinare piatto dopo piatto, posata dopo posata.

    «Non volevo farti star male».

    Inarcai appena un sopracciglio.

    «Perché non mi hai più cercato?», domandai a voce bassa e tremante.

    «Perché sono un idiota», proruppe sinceramente. Lo scrutai con leggera sorpresa. Teneva lo sguardo basso sulle mie mani. Gli occhi erano vuoti. «E perché non sto affatto bene».

    Appoggiai piatti e spazzolina nella bacinella di acqua calda e detersivo. Mi tolsi i guanti uno alla volta mentre lo fissavo senza dire una parola. Michael mi lanciò uno sguardo di sottecchi.

    Mi asciugai le mani con uno straccio poco lontano.

    «Anche se mi chiedi scusa sono ancora arrabbiata con te. Mi hai trattato freddamente, e mi hai ignorato senza darmi una ragione. Ti sei scaldato con me per una semplice domanda che ti ho fatto riguardo a come stavi, solo perché ero preoccupata per te. Mi hai tenuta lontano con la falsa promessa di sistemare le cose», dissi straordinariamente seria e pacata. Lo percepii puntarmi per tutto il tempo in cui parlai. «Posso capirti se hai dei momenti in cui non vuoi parlarmi dei tuoi problemi. Se qualche volta non vuoi rendermi partecipe della tua vita, è ok. Va bene così. Ognuno ha i suoi tempi e il bisogno di gestire le sue cose autonomamente. Ma mi hai fatto pensare che fosse tutta colpa mia e del mio preoccuparmi per te – e sappi che lo farò sempre. Ci terrò sempre così tanto a te da sembrare insistente, è inevitabile».

    Appoggiai lo straccio sul bancone in legno e ritornai al lavabo. Mi tenni ad esso con una mano.

    «Non ti voglio sforzare a parlare sempre», mi bagnai il labbro inferiore e Michael, di riflesso, fece lo stesso, abbassando gli occhi e massaggiandosi il collo con una mano. «Quando vuoi sai dove trovarmi».

    «Lo so», chiuse le palpebre e si passò la mano sulla faccia, stropicciandosi gli occhi con pollice e indice. «Il processo si avvicina e c’è sempre un problema nuovo nella mia vita. Non voglio scusarmi, so di essermi comportato male… quello che voglio dire è che tu non sei la causa dei miei malumori… è tutto il resto che sta andando a puttane».

    Trattenni un sorriso quando lo sentii imprecare. Lo trovavo molto sexy quando lo faceva, ma anche buffo; da parte di un uomo pacato ed educato come lui non ci si aspettava mai un certo tipo di parole. Conoscere anche quel lato di Michael mi faceva sentire la donna più fortunata al mondo.

    Non sono le apparenze che ci fanno capire di amare una persona. Sono tutte le piccole cose che conosciamo solo noi, l’uno dell’altro, e che nessuno vedrà mai. Questo rende un amore veramente unico e speciale a modo suo.

    Michael appoggiò la schiena al lavabo, tenendosi con entrambe le mani ad esso. Il suo sguardo era quello di una persona stanca, esaurita, stressata. Guardò dinanzi a sé mentre continuava a parlare.

    «Mi dispiace veramente se ti ho fatto pensare che fossi arrabbiato anche con te. Sono frustrato sotto ogni punto di vista. Sono stato veramente un coglione. Comincio a vedere sempre più nero… sempre e sempre più nero. Ho come una morsa che mi prende qui». Si afferrò la camicia, in direzione del cuore. Mi guardò con una sofferenza che cercava invano di trattenere. «Ma se adesso sono così, come farò tra due o tre mesi?».

    La voce diveniva man mano sempre più bassa e tremante. Gli si irrigidirono le mascelle.

    Per un attimo mandai a quel paese la rabbia dei giorni scorsi. Non avrei sbollito così facilmente, ma cercai di essere comprensiva. Il che non mi venne poi così difficile.

    «Non puoi essere Superman ogni giorno e ogni momento della tua vita», gli appoggiai una mano sulla spalla. Inclinò il viso in mia direzione e mi ammirò con due occhi improvvisamente gentili. «Ricordati che sei amato e che ci sono persone che tengono a te. Non permettere al tuo dolore di annullarti. Quando sei frustrato, ricerca la serenità stando con chi ami. Anche se non vuoi parlare dei tuoi sentimenti, dovresti – ».

    Sorrise candidamente e mi accarezzò le labbra con due dita, impedendomi di continuare oltre. I suoi occhi scuri e intelligenti lasciarono trasparire uno sfavillio a me noto.

    «Ho capito», mormorò con dolcezza. Michael incastrò il viso nell'incavo del mio collo e vi pose le labbra. Sapeva esattamente come farmi delirare. Permisi alla testa di piegarsi verso destra ed espirai forte. «E tu sei una delle persone più meravigliose che conosco».

    Ingoiai il fiato.

    Non ebbi il coraggio di parlare, e non ne ebbi nemmeno la voglia.

    «Mi sei mancata...»

    Col naso tracciò linee e curve che avanzarono fino alle scapole. Il respiro batteva contro la pelle e potevo percepirlo inspirare a fondo e buttare fuori il fiato quasi mugolando. Le dita della sua mano sinistra scivolarono lungo le mie, appoggiate al lavabo, e accarezzarono la pelle con leggere pressioni. Mi diede un bacio sul collo.

    E poi l’imprevisto.

    Mentre contemplavo la dolcezza di quel contatto e i brividi serpeggiavano dalle cosce alla nuca, unì quattro dita assieme e mi schizzò una grande manciata d’acqua verso il mio viso e il mio petto. Strinsi gli occhi e cercai di fare qualche passo indietro, ma fu troppo tardi.

    Michael indietreggiò prontamente prima che i getti bagnassero anche lui.

    «Caz... zo!», sbottai.

    Si spanciò dalle risate.

    Con le palpebre ancora serrate mi accigliai. Mi passai lo straccio usato poco prima lungo le braccia, nei punti bagnati d’acqua, assumendo una smorfia scioccata e fintamente divertita. Aprii gli occhi e lo linciai con un’occhiata dura che Michael ignorò; rimase adagiato al bancone di legno osservando la mia espressione con pazza gioia.

    «Maledetto bugiardo!», sibilai con un sorriso indefinibile.

    Immersi le dita nell’acqua e tentai di schizzarlo.

    Si riparò col braccio sinistro senza smettere di sogghignare, indietreggiando bruscamente, alzando la voce ad ogni spasmo di risata che emetteva ogni qualvolta cercassi di lavarlo. Alla terza volta, comprendendo che non sarei riuscita a ottenere ciò che volevo con quelle misere spruzzate, presi una grande manciata d’acqua unendo le mani a coppa e avvicinandomi di corsa gliela buttai da sotto in pieno viso.

    Michael fece un gran balzo all’indietro e si portò le mani sulla faccia, inspirando a pieni polmoni per la sorpresa. Lo avevo praticamente inzuppato; anche alcune ciocche di capelli e i lembi del colletto della camicia erano bagnati.

    «Oh, no...», mormorò cupamente, cercando di asciugarsi sulla manica dello smoking. Quando i suoi occhi mi puntarono erano malvagiamente divertiti. «Adesso lo sai che mi vendicherò, vero?»

    «No...», sorrisi inquieta ed elettrizzata assieme.

    I piedi si mossero nell’assurdo tentativo di fuggire prima che mi inseguisse. Michael fu scaltro come una gazzella, con soli due passi fu vicino al lavandino e, trovato un bicchiere dentro la vasca colma d’acqua, mirò alla mia schiena. Quando percepii il caldo liquido sulla spina dorsale mi arrestai e mi inclinai in avanti, spalancando le labbra e soffocando un urlo.

    Con una risata nervosa gli corsi incontro, provando a strappargli il bicchiere di mano. Michael non la smise di ridere e io pure; gli urlai di lasciare andare la presa e in tutta risposta strillò dicendo che non l’avrebbe mai fatto.

    «Papà?»

    Ci voltammo in direzione della porta della cucina. Davanti a noi c’erano i tre piccoli Jackson. Paris teneva le labbra serrate per evitare di ridere a crepapelle. Prince ci guardava tra il dubbioso e l’emozionato. Blanket, invece, tenuto per mano da Paris, ci guardava perplesso.

    «Vostro padre sta cercando di difendersi», emise Michael con una vena di falsa innocenza.

    Lo guardai ad occhi e bocca aperta ed egli mi evitò, incapace di nascondere un sorriso che partiva da un orecchio all’altro.

    «Sono stato attaccato ingiust – »

    Splash.

    Nel giro di mezzo secondo ero stata così rapida da prendergli il bicchiere dalla mano – ancora mezzo pieno – e colpirlo sulla pancia, in basso, verso l’ombelico. Trattenne il fiato, contrasse gli addominali e mi fulminò con un pizzico di adrenalinico divertimento nelle iridi.

    Prince, Paris e Blanket scoppiarono a ridere fragorosamente.

    Gli mostrai un sorriso da schiaffi.

    «Così impari!»

    «Ah sì?!», strepitò maliziosamente esaltato, sollevando un sopracciglio e un angolo della bocca.

    Mi voltai subito verso i suoi figli.

    «Tutti contro papà!», urlai.

    Un coro di giubilo si levò dai tre piccoli Jackson, che accorsero veloci verso di noi e recuperarono due bicchieri ciascuno. L’unico che proseguì cautamente – fino a quando non ebbe capito cosa stava succedendo – fu Blanket. Quest’ultimo venne preso in braccio da Michael e usato come sorta di “mezzo per corromperci” e, al contempo, farlo giocare assieme a noi.

    La lotta proseguì fino a quando tutti non fummo fradici fino al midollo. I nostri strilli eccitati risuonarono per tutta la cucina e l’intera casa. Grazie a Dio in quei giorni non c’erano domestici.

    E nel mezzo di questo nostro gioco sconsiderato, tra una risata e un urlo di guerra, incrociai più volte gli occhi luminosi di Michael guardarmi con quell’amore che sembrava riemerso dalle ceneri, quello stesso affetto che mi faceva vibrare il respiro ogni volta.

    Quanto sarebbe durato tutto questo?

    *



    «Dai, promettimi che ci penserai su!»

    Cercai di non sbuffare e mi limitai ad alzare gli occhi verso il soffitto. Mia mamma sapeva essere veramente dura di comprendonio.

    «Ok», bofonchiai in italiano, «ti so dire presto, mamma...»

    Sistemando i capelli tutti sulla spalla sinistra lanciai un’eloquente occhiata a Michael, comodamente steso sul mio letto con un libro sulla pancia e gli occhiali da vista abbassati sulla punta del naso. Mi fissava da quando avevo iniziato la conversazione al telefono, seguendomi con lo sguardo mentre camminavo nervosamente avanti e indietro per la stanza. Sorrideva divertito.

    Non feci subito caso ad un silenzio alquanto sospetto proveniente dall’altra parte della cornetta.

    «Ancora non capisco cosa ti trattiene lì se non amore!» sbottò con quel tono indagatore un po’ da finta tonta. «Tu non mi convinci...»

    Arrossii ancora e spalancai le labbra esasperata, piroettando non solo gli occhi ma anche la testa in direzione di un armadio su cui andare a sbattere per finta. Michael si pose il libro davanti alle labbra per non esplodere in una risata, seppur non sapesse realmente di cosa stessimo parlando io e mia madre.

    «Mamma ora ti devo lasciare, devo andare. Ti chiamo io per darti la risposta. Saluta papà!»

    Cercai di chiudere utilizzando frasi secche e concise, ma lei non cedette. Mi dette il colpo finale.

    «Ma se vieni a Natale qua da noi potresti anche farci conoscere questo uomo misterioso! Se ti amasse veramente lo farebbe».

    Eccola che arrivava con il concetto “Se ti segue ovunque vai, di sicuro ti ama e ti rispetta”. Io non la pensavo uguale. Già immaginavo la sua faccia – e quella di mio padre – se avessi detto loro “Mamma, papà, questo è Michael Jackson! È il mio uomo misterioso”. A volte mi era impossibile credere che io e lui... be’, ci amassimo.

    «Te lo ripeto, mamma, non c’è nessun uomo» gesticolai assumendo una smorfia innervosita. «Ora vado per davvero! Ci sentiamo presto! Buona giornata».

    Non contenta di come mi stessi congedando mi salutò un po’ freddamente, contrariata per non averle raccontato nulla di quello che stavo vivendo con quell’ipotetico – ma in verità fatto di carne ed ossa – amante o fidanzato della sua unica figlia. Conclusi la chiamata, appoggiai il telefono sul comodino e mi sedetti a peso morto sul letto. Mi distesi ed emettendo un grugnito affondai il capo fra il cuscino e la spalla di Michael. Chiuse il libro e voltò la testa in mia direzione.

    «Cosa vi siete dette di così terribile per essere tanto stressata?»

    «Lascia perdere...»

    Michael si raddrizzò a sedere. Alzando un sopracciglio e anche un angolo della bocca capii che non aveva intenzione di accettare una risposta del genere. Voleva sapere tutto.

    Sospirai e mi posi a pancia in su, una mano sullo stomaco e l’altra sotto cuscino. Con la coda dell’occhio notai Michael osservarmi maliziosamente a causa di quell’invitante posizione in cui mi ero posta.

    «Mia mamma vuole che vada da lei, questo Natale...», mormorai. «Dice che è da quasi un anno che non mi vede e che sono una figlia scellerata» feci spallucce.

    Michael corrugò un po’ la fronte e io non proseguii.

    «E perché sei arrossita?»

    Non gli scappava proprio nulla. Storsi le labbra colorando le gote di debole rossore.

    «Perché sa che l’unico motivo che mi trattiene così distante da lei e mio papà sei tu»

    Michael assunse un’espressione confusa.

    «Intendo dire che pensa che io sia innamorata… così cotta del mio “uomo” da non prendere un dannato aereo e volare da loro».

    Forse non avevano sbagliato...

    «Oh...» mormorò annuendo piano. Abbassò lo sguardo e si bagnò il labbro inferiore. «Potremo organizzare qualcosa al riguardo, lo sai?»

    Spalancai le palpebre. Eh?

    Sorrise. «Se li stuzzicassi con l’idea di far conoscere il tuo uomo, verrebbero in America?».

    Mi alzai a sedere anch’io.

    «Potrei provare e proporlo, ma sicuramente mio padre e i suoi attacchi di panico per l’aereo non glielo permetterebbero. E poi, dai… è impossibile… qualcuno sospetterebbe sicuramente di noi, che sia parte del tuo staff o – »

    «Organizzerò un evento a Neverland, per festeggiare questo Natale» disse risoluto, senza far svanire quel sorrisetto dal viso. Lo sguardo però era cambiato. «Ci saranno famiglie – genitori con bambini – che passeranno una giornata al parco. Potrebbero confondersi con la folla».

    In un primo momento pensai mi stesse prendendo in giro. Poi quando vidi che non stava affatto ridendo considerai le sue parole come vere.

    Da quanto tempo stava organizzando quell’evento? Era pericoloso farlo con ciò che stava affrontando, ossia il processo per reati sui minori? Era un atto incosciente? Non lo sapevo. Qualcosa mi faceva temere il peggio. Come una sorta di “brutta impressione”... soprattutto perché la stampa avrebbe evidenziato la parola “bambini” a caratteri cubitali su ogni articolo... non sarebbe passato di certo inosservato.

    «Michael... non penso sia saggio...»

    «Perché no?» alzò le spalle. «Nessuno penserà mai che sono i tuoi genitori, con tutta quella gente!»

    «Non stiamo parlando di quello, lo sai...» mormorai sbattendo le palpebre lentamente. Michael smise di sorridere e mi osservò senza dire nulla. «Hai pensato a cosa potrebbe accadere? Ai pro e contro della situazione?»

    «Certo che ci ho pensato, non sono uno stupido» disse scandendo parola per parola come se fossi io quella che non comprendeva. «In un modo o nell’altro troveranno sempre qualcosa per farmi del male».

    «Posso essere onesta? Non credo che sia una buona idea…».

    Michael si bagnò la bocca e portò lo sguardo verso il suo libro; lo prese in mano e si stese una seconda volta sul materasso; sfogliò le pagine cercando il punto in cui si era fermato. Questo valeva a dire – per lui – che la discussione era definitivamente chiusa. Avrebbe fatto quello che voleva senza neanche considerare ciò che avevo da dire.

    Odiavo quando si richiudeva in quella dannata “bolla” e non ascoltava nessuno tranne se stesso. Se non gli piaceva cosa dicevi, in automatico ti lasciava fuori. Non voleva che la gente gli dicesse cosa fare, soprattutto quando era convinto di non fare niente di male.

    Lo stavo giudicando troppo crudelmente? Lo pensavo uno sconsiderato?

    Per un attimo tentennai e pensai di averlo offeso. Anche se in fondo credevo che stesse vaneggiando, io non sapevo cosa si provava ad essere nei suoi panni. Non potevo perciò sapere se, fossi stata in lui, sarebbe stato giusto agire diversamente o meno. Ma sicuramente vedeva la mia schietta opinione come un’offesa alla sua intelligenza…

    «Forse non sbagli…» continuai a voce bassa. «Non sono così esperta di legge per sapere se questo potrebbe complicare le cose in udienza... quello che voglio dirti è che devi stare attento, ok?».

    Ripose il libro sul materasso. Stavolta rimase a fissare il soffitto senza guardarmi, con una rabbia nel cuore che si rispecchiava nei suoi grandi occhi neri.

    «Mi stanno privando di ogni cosa, Sarah. I bambini sono l’unica ragione per cui vivo. Sanno che facendo così mi uccideranno. È ovvio che stavolta non sarò così ingenuo da cadere in errore» mi puntò severo. «Dovrei rinunciare a cosa mi fa stare bene a causa loro? Tu lo faresti?»

    “L’unica ragione per cui vivo”.

    Non seppi se essere più amareggiata per il fatto che mi avesse detto in faccia che non credevo abbastanza in lui o se perché, invece, considerava i bambini come il suo unico punto di luce.

    Sì, mi preoccupavo tanto per lui, troppo, e così facendo rischiavo di tappargli le ali senza lasciargli la possibilità di sbagliare… probabilmente per Michael ero una sorta di “mamma chioccia” e lo feriva che lo pensassi un incosciente. Dopo aver fatto affidamento sulle persone sbagliate per tanto tempo, per Michael doveva essere inconcepibile che io mettessi in dubbio la sua maturità scaturita da questo. Ma ascoltare l’istinto lo avrebbe portato a sbagliare ancora? O gli avrebbe dato più rogne di quelle che non aveva già?

    Davvero pensava che i bambini fossero la sua unica fonte di gioia?

    A parte i suoi figli e gli altri bambini del mondo… chi lo rendeva felice? Perché da quel discorso sembrava che io non fossi così importante.

    Di colpo mi rabbuiai. Mi sentii trapassata da parte a parte da una spada invisibile dalla lama incredibilmente affiliata. Fu una sensazione di dolore impalpabile, anche se deprimente.

    «No» enunciai seria. «Non rinunciarci».

    Non mi guardò. «Non lo farò».

    Afferrò il libro e si estraniò ancora una volta dal mondo e da me.

    Non capiva neanche di aver ferito la mia sensibilità. Mi stavo comportando da bambina viziata ed egocentrica? Forse ero troppo suscettibile e prendevo tutto troppo alla lettera. Avrei dovuto essere più comprensiva nei suoi confronti.

    Mi chiesi se pretendessi troppo.

    C’era un mattone nel cuore mi faceva sentire pesante, pesante come un incudine che affonda nelle profondità dell’oceano... un piccolo tonfo nel mare ed eccomi cadere nell’oscurità: all’inizio ero avvolta in un manto d’acqua leggermente freddo, quasi piacevole al contatto, ma col tempo la mancanza di calore si sarebbe fatta sentire e sarei divenuta un blocco di ghiaccio.

    Respirai a fondo.

    «Questo Natale andrò dai miei, in Italia».

    Sì, fu un comportamento da stronza.

    Lo dissi apposta per ferirlo. Lo dissi pur sapendo che sarebbe stato felice sapendo che i miei sarebbero potuti venire a Neverland, se tentati a dovere. Sperai che, così facendo, mi avrebbe detto che era triste all’idea della mia partenza.

    Mi comportai come una bambina che faceva i capricci.

    Lo guardai per cercare un suo accenno di interesse. Mi diede un’occhiata di sfuggita cimentandosi in quello che io definii un sorriso sarcastico, dopodiché tornò al suo libro. Sembrava offeso per ciò che gli avevo detto! Non ci potevo credere!

    «Sarebbe fantastico», sussurrò inarcando le sopracciglia.

    «Già», mormorai. «Si vede»

    Mi alzai di scatto e gli voltai le spalle. Mi diressi verso il bagno senza nascondere la mia irritazione.

    «Sarah».

    Fanculo, Michael.

    Aprii la porta e lo fulminai con un’occhiata terribile. «Niente! Continua a leggere»

    La sbattei, chiusi a chiave nel caso in cui avesse tentato di entrare e mi appoggiai al lavandino con entrambe le mani. Un moto di nausea terribile mi fece rivoltare lo stomaco.

    Che cretina.

    Rimasi in ascolto. Non ci fu nessun rumore.

    Evidentemente continuava a leggere.

    «Sarah?»

    Dio, sono proprio una stronza egocentrica…

    «Esci, per favore...»

    «Se permetti vorrei finire di fare le mie cose. Dammi un minuto», mentii.

    Lui s’ammutolì per qualche secondo.

    «D’accordo, come vuoi».

    Perché ero così stupida? Dovevo parlargli subito, discutere, litigare fino a quando avevo la possibilità di farlo! Perché sprecavo quelle occasioni? Perché, per paura di affrontare la sua indifferenza, mi lasciavo trasportare dal mio stupido orgoglio?

    Andai verso la porta a passo lento e l’aprii piano.

    Michael era immobile davanti a me e i muscoli del viso erano contratti in un’espressione indecifrabile. Quegl’occhi sapevano denudarmi l’anima, sempre. Mi sentii piccola piccola in confronto al suo sguardo penetrante. Non sembrava arrabbiato… quanto piuttosto rattristato e amareggiato assieme.

    Mi accarezzò la gota con il dorso della mano destra. Rabbrividii e chiusi le palpebre. Lasciai cadere il capo sulla sua mano e, spinta da un moto di dolcezza, lo abbracciai allacciando le mani alla sua schiena. Mi accarezzò i capelli.

    «Scusami, non volevo ferirti… cioè sì, ma perché mi sono sentita come se non ti importasse nulla di me… mi dispiace…», pigolai. «E scusa se ti ho pensato un incapace…»

    Mi scoccò un lieve bacio sui capelli.

    «Non ti preoccupare», mormorò e il fiato mi accarezzò la nuca dolcemente. «Forse è giusto che tu vada dai tuoi…»

    Alzai la testa e lo fissai con perplessità. Mi sorrise tristemente.

    «Credo che sia quello che vuoi veramente...»

    «Non voglio partire perché mi vergogno di te», mi strinsi alla sua felpa e lo guardai con uno sguardo inquieto. Ricambiò l’occhiata addolcendosi e rilassando la fronte. Si bagnò le labbra. «Non voglio metterti nei guai. Non voglio che tu sia al centro di ulteriori scandali o gossip, se per caso qualcuno vicino a te scoprisse che abbiamo una relazione. Sicuramente si intuirebbe. È già da un po’ che noto gli altri inservienti fissarmi troppo curiosamente, sento che hanno intuito qualcosa… una volta finito tutto questo – e sono sicura che finirà bene – ti prometto che te li presenterò. Ma ora non voglio essere un ulteriore problema…».

    Mi sorrise mostrando i denti e scuotendo piano la testa, ammirando la mia collanina con la mezza Luna che mi aveva regalato lo scorso gennaio. La indossavo ogni giorno.

    Mi accarezzò la guancia con più ardore. I suoi occhi fiammeggiarono di amore.

    «Lo so, percepisco il tuo senso di protezione», si bagnò le labbra una seconda volta. «Non appena tutto questo sarà finito, io, te e i miei figli andremo in Italia. Sono sicuro che sarà così».

    Ma le sue iridi erano velate di dispiacere. Colsi subito quella scintilla di sottile rammarico che venne rispecchiato nei miei stessi occhi nel medesimo istante. Sorridevamo cercando di mantenere alta la speranza, ma entrambi non sembravamo convinti di quello che stavamo dicendo.

    «Inviterai anche i giornalisti, per Natale?», mormorai fissando i ricami della sua felpa rossa e blu.

    Le sue braccia scivolarono dietro la mia schiena. Scosse il capo. Chiusi gli occhi cullata dal nostro dondolio sul posto, odorando il suo profumo a pieni polmoni. Mi prese il mento fra due dita e mi baciò le labbra.

    Quando sollevai le palpebre, le iridi erano colme di un’ostinata malinconia.

    «Sono le ultime persone che inviterei a casa mia».

    *

    «Dimmi cosa non hai capito...», mi chinai verso Prince con fare comprensivo.

    Lui teneva la fronte così corrugata che faceva paura. Mi disse che non aveva capito un calcolo matematico, e mentre io gli spiegavo un’altra volta il procedimento Paris continuava con i suoi compiti mattutini come se niente fosse.

    Quando Prince capì finalmente il ragionamento proseguì da solo. Distraendosi qualche volta, chiacchierò o ridacchiò con la sorella per poi essere ripreso dalla sottoscritta con tono abbastanza severo.

    Guardai l’orologio a muro, vicino alla porta, e notai che mancava ancora un bel po’ alla fine della prima parte della lezione. Venni rapita dal panorama al di fuori della finestra e da una Neverland piuttosto invernale; il vento sbatteva contro il vetro muovendo piano le rame degli alberi del parco, quest’ultimo illuminato da un pallido sole dicembrino. Potevo percepire quella tenue corrente fresca insinuarsi nella carne come aghi pungenti. Mi strinsi nella felpa e mi sedetti in mezzo a Prince e a Paris.

    In giorni come quelli credevo che stare coi bambini fosse la mia cura perfetta. Così facendo imparavo a non pensare troppo e a non venir colta da una tristezza senza motivazione apparente. Sentivo una sensazione di inquietudine incomprensibile, che non riuscivo ad allontanare in alcuna maniera.

    Capivo perché Michael stesse bene con i bambini – benissimo, divinamente – e quel pensiero mi fece star male.

    Abbassando lo sguardo potevo scorgere nuovamente la figura di Michael nella sua camera, al buio, assieme a quel solito peso nello stomaco che mi pervadeva da fine ottobre.

    Michael non vuole il mio aiuto.

    Era capitato circa quattro giorni prima. Tutto rannicchiato su se stesso come un bambino impaurito, terrificato all’idea di aprire le palpebre soltanto; la voce gli usciva a fatica dalle labbra. Le mie carezze non erano servite a nulla e i suoi baci erano stati come quel vento al di fuori della finestra: deboli e freddi. I miei abbracci erano caldi, ma il suo corpo non assimilava il calore.

    Gli avevo detto che insieme potevamo farcela e Michael era rimasto congelato in un silenzio che non riuscii a decifrare, occhi persi nei lineamenti del mio viso... ma Michael non mi aveva guardato veramente. Aveva guardato oltre.

    Il suo nascondersi e allontanarsi si faceva di giorno in giorno sempre più forte.

    Lo comprendevo e lo amavo alla follia, ma pian piano divenivo sempre più… svuotata. Avevo bisogno di ricaricare le energie. Di non sentirmi una salvatrice, con il bisogno incontrollato di sapere che l’amore che davo veniva ricevuto e apprezzato. Avevo bisogno di essere così forte da non farmi intrappolare nel suo stesso dolore e di non sentirmi un’inetta completa. Avevo bisogno di creare dei confini.

    Non ero d’aiuto.

    Non ero capace di amarlo forse, ma volevo tenergli la mano anche se fossi stata sul punto di sprofondare con lui. Addirittura gli avevo comunicato che non sarei andata in Italia a Natale, contrariamente da quanto concordato, ma aveva negato con insistenza; mi aveva allontanato da sé e non mi aveva guardato negl’occhi: “Non voglio che rinunci, devi andare”. Lo diceva per il mio bene? Pensava che lo stessi facendo perché provavo pena per lui? O assumeva quell’atteggiamento difensivo per farmi intendere che non mi voleva tra i piedi?

    Tutto il mio mondo sembrava confuso.

    «Prince, mi dai i pennarelli?», Paris richiamò l’attenzione del fratello.

    Il mio sollievo era la risata, quella che ancora gli facevo fare quando lo distraevo con le mie mille espressioni diverse, il mio macabro senso dell’umorismo o la mia goffaggine; la speranza era racchiusa in degli abbracci inaspettati, in suoi “Ti amo” che – seppur non sempre sinceri – in un attimo assumevano la stessa sfumatura di quelli detti mesi prima. Sentivo la mancanza del suo sorriso spensierato, dei suoi occhi luminosi, delle conversazioni profonde fino a tarda notte, dei suoi scherzi stupidi, dei momenti a fare gli scemi come due bambini dell’asilo, delle piccole cose che rendevano la mia giornata migliore.

    «Ma servono a me adesso!»

    «Non è vero, non li stai usando!», Paris inclinò il capo a destra con evidente fastidio. «Mi serve l’azzurro...!»

    Prince fece rotolare il pennarello verso la sorella velocemente e lei lo fermò con uno schiocco rumoroso sul legno del grande tavolo. Sobbalzai un po’. Ella rise e lo ripassò all’altro, che di seguito rifece la stessa cosa.

    Mi risvegliai dalle mie riflessioni e con un battito di mani rumoroso posi fine ai loro giochi.

    «Avanti, su!», presi il pennarello che scivolava veloce verso Paris ed entrambi mi guardarono delusi, emanando un “Nooo” pregante. «Ancora mezz’ora e vi lascerò giocare tranquillamente. Non è ancora il momento della pausa»

    Tutt’e due strinsero le labbra in una smorfia avvilita. Tornarono ai loro compiti in silenzio.

    Era venerdì 3 dicembre 2004 e, come di consueto, il weekend lo avremmo passato a Neverland.

    Nessun tempismo fu più sbagliato di quello.

    Quando Paris terminò il suo scritto lo correggemmo assieme e dopodiché gli spiegai alcune cose di grammatica; facemmo qualche esercizio e, nel momento in cui Prince ci interruppe per dirci che aveva concluso la sua esercitazione di matematica, qualcuno bussò alla porta.

    Pensai subito che fosse Michael ed il cuore mi tamburellò in petto; anche i bambini drizzarono subito la schiena. Ma la porta si aprì e nessuno dei tre riconobbe Michael tra quel gruppetto di tre uomini in divisa.

    Il sangue mi si congelò nelle vene e, con esso, anche il luccichio che avevo negli occhi.

    Li guardai uno ad uno e loro ricambiarono. Per niente agitati, scossi o imbarazzati: erano tre poliziotti in abito blu scuro, mediamente alti e con la pelle chiara. Soltanto uno sembrò vacillare quando individuò i due bambini al mio fianco.

    Da sotto il tavolo Paris mi prese la mano. Prince mi guardò e io ricambiai l’occhiata con uno scatto fulmineo.

    «Mi dispiace disturbare, Miss...», disse il poliziotto al centro, avanzando di due passi. Strinsi la mano di Paris e cercai quella del suo fratellino. Prince afferrò le mie dita quasi immediatamente. «Ma dobbiamo dirle di uscire, Lei e i bambini...»

    «Che succede, Sarah?», pigolò Paris.

    Il poliziotto e io ci fissammo senza dire nulla. Gli altri due entrarono nella stanza e cominciarono ad esaminare dapprima i mobili della stanza, dopodiché aprirono alcuni cassetti. Senza alcun rispetto. Senza perlomeno aspettare che fossimo tutti e tre usciti dalla camera.

    «Il signor Jackson non è in casa», dissi risoluta, fulminando l’uomo che non si era ancora mosso dalla sua posizione e mi puntava.

    «Lo sappiamo, ma abbiamo il permesso di entrare».

    Notai soltanto allora che teneva un documento nella mano sinistra. Lo dispiegò e me lo mostrò. Non potevo capire cosa ci fosse scritto da così lontano, ma non mi fu difficile intuire che quello fosse un mandato di perquisizione.

    «Il procuratore distrettuale ci ha ordinato di venire qui».

    Da dietro le sue spalle spuntò Grace, allarmata e affannata. Teneva il piccolo Blanket in braccio e quest’ultimo piangeva disperato, con le guance arrossate dallo sforzo. Ebbi la pelle d'oca e la prima parola che mi venne in mente fu soltanto il suo nome: Michael. Fissai la tata e questa mi indusse con lo sguardo ad uscire da quella stanza senza protestare, nonostante anche lei fosse piuttosto furiosa.

    «Avanti, andiamo...»

    Mi alzai dalla sedia. Paris e Prince si strinsero a me, impauriti.

    «Voglio papà...», mormorò la piccola scendendo dalla sedia e avvinghiandosi alla mia mano e alla mia gamba. «Dov’è papà?»

    «Cosa succede, Sarah?», domandò l’altro mentre ci dirigevamo alla porta.

    Lo stesso poliziotto che mi aveva mostrato il mandato ripiegò il documento senza smettere di osservarmi. Non abbassai lo sguardo. Abbandonammo penne e quaderni sul tavolo e ci incamminammo verso la porta.

    «Non vi preoccupate». Cercai di esibire un tono di voce più calmo, strizzando le loro manine affettuosamente. «Questi uomini sono soltanto venuti a fare dei controlli in casa, per vedere se è tutto apposto».

    Nel passare accanto a quello che dedussi fosse lo sceriffo – un uomo che da vicino sembrava molto più anziano che da lontano – distolsi finalmente lo sguardo dal suo viso e puntai dritto di fronte a me. Egli non reagì e seguì con gli occhi le vane ricerche dei suoi compagni.

    Oltrepassata la porta scoccai un’occhiata eloquente a Grace. Mi invitò a “non far domande”. Paris cercò anche la mano della sua tata e tutti e cinque ci dirigemmo fuori dal residence. Nel passare per i corridoi notammo circa una quarantina di agenti con indosso quel completo scuro; alcuni ci ignorarono, altri ci adocchiarono giusto giusto di sfuggita.

    Uscimmo da quella casa e ci sedemmo su un muretto di pietra non distante, vicino ad aiuole fiorite all’ombra di un albero quasi spoglio. Grace abbottonò meglio il giubbotto di Blanket sul collo e io mi chinai a terra per tirare su la zip della giacchetta di Prince e Paris. Quest’ultima mi pregò con lo sguardo.

    «Perché quegl’uomini sono entrati in casa senza papà?»

    La fissai a lungo. «Perché avevano bisogno di controllare se tutto fosse apposto, e urgentemente. Sono persone impegnate e ci tengono affinché tutti noi siamo al sicuro. In alcuni casi si può fare, purché si abbia un permesso per farlo… e loro ce l’hanno. Non sono cattivi, credetemi».

    Prince annuii abbassando il capo e Paris poggiò la fronte sul mio seno. Li abbracciai forte. Con quelle parole si rilassarono un pochino.

    Non era la verità, lo sapevo bene.

    Immaginavo perfettamente cosa stessero cercando: prove di presunta pedofilia che potessero inchiodare Michael al muro e sbatterlo in prigione una volta per tutte... ma perché? Perché un’altra perquisizione e poco prima del processo? Alla prima – quella di novembre 2003 – non ero ancora l’insegnante di Prince e Paris, eppure ricordavo che Michael era stato portato in prigione fino al pagamento della cauzione. Lo ricordavo per il suo dolore alla spalla, perché gli ero stata accanto, perché lo avevo sentito piangere e confidarsi con me – una perfetta estranea. Avevano già fatto le loro indagini, che cosa cercavano adesso? Perché di fronte ai bambini?

    Michael sapeva che non gli avrebbero dato pace.

    «Che ne dite di andare a fare un giro al nostro solito parco giochi, intanto che aspettiamo il ritorno di vostro padre?» propose la tata con un sorriso confortante. «Magari ci prendiamo anche una buona tazza di cioccolata caldo per scaldarci le ossa»

    Grace non mi guardava.

    Paris accarezzò una gota di Blanket per asciugargli il pianto ormai finito. «Io voglio aspettare che torni papà... non me ne vado senza di lui...», le rivolse uno sguardo triste, «quando torna?».

    Incrociai Grace con la coda dell’occhio.

    «Non lo so, ma non ha senso rimanere qui ad aspettare ore e ore», le accarezzò la testolina.

    Prince si appoggiò alla mia spalla e lo strinsi al mio corpo con un braccio.

    «Grace ha ragione», dissi. «Sono sicura che il vostro papà sarebbe contento di vedervi giocare felici, piuttosto che stare qua a prendere freddo. Non gli accadrà niente. Rimango io qui: quando arriverà, chiamerò Grace e vi avviserò».

    Loro annuirono. Gli occhi di Blanket erano lucidi e scuri, allarmati. Quando mi alzai per stringergli la manina, mi chiese silenziosamente di venire in braccio; lo abbracciai, gli baciai le guance e stette con il capo contro il mio petto per un paio di minuti. Le sue piccola dita s’allacciarono ai miei capelli come di consuetudine.

    Nessuno disse più una parola, nessuno osò piagnucolare o lamentarsi; Prince, soprattutto, sembrava non avere più voce. La tata invitò Prince e Paris a seguirla, le consegnai Blanket tra le braccia e – senza neanche un ultimo sguardo di intesa – fece dietro front e si allontanò da quel luogo con i bambini al seguito.

    *

    Me ne stetti chinata sulle ginocchia su quel muretto per ore, senza dire una parola, puntando il viale in ciottoli con un cipiglio indefinibile. Solo quando sentivo strani rumori all’interno dalla casa, come il vociare concitato dei poliziotti, alzavo il viso; speravo se ne andassero via presto, molto prima che arrivasse Michael.

    Inspirai debolmente e tirai su col naso. Il freddo cominciava a penetrarmi le ossa.

    Avevo lasciato il telefono in camera mia.

    Forse qualcuno lo aveva avvisato. Grace, per esempio.

    Forse Michael aveva saputo di quella perquisizione tramite i media, piuttosto che da qualche suo dipendente.

    Potevo sentire le voci degli altri in maniera molto confusa, ma non potevo rispondere. Non potevo far altro che pensare a Michael e pregare affinché soffrisse il meno possibile. Pregavo Dio con tutta me stessa, chiedendo che quel fatto lo sfiorasse soltanto – cosa assolutamente impossibile.

    Mi ero immaginata sue svariate reazioni, fra le più pazze alle più posate; un Michael fuori di sé che si scatenava contro di me e il suo staff, contro i poliziotti, urlando e imprecando come faceva solo quando era veramente arrabbiato; oppure un Michael disperato, sull’orlo dell’esaurimento nervoso, che piangeva incontrollabilmente; o, ancora peggio, un Michael incapace di manifestare sentimenti.

    Che cosa avrei dovuto fare? Non sapevo neanche cosa provare.

    Quando arrivò a casa ebbi finalmente la possibilità di mettere a tacere le mie domande.

    Fortunatamente i poliziotti se ne andarono via prima del suo arrivo, circa alle cinque e mezza del pomeriggio: li osservai uno ad uno, con un’espressione quasi schifata, come se di fronte a me vedessi le persone più disgustose in questo pianeta. Non appena lo sceriffo comparve sulla porta di casa ci puntammo a vicenda. Un secondo e tornò a parlare con un suo collega, come se niente fosse.

    Una trentina di minuti più tardi, o forse anche di più, un SUV nero di mia conoscenza salì rumorosamente il viale, per arrestarsi ad una decina di metri da me e dal resto dei domestici che, nel frattempo, erano stati obbligati a lasciare la villa.

    Non mi ero nemmeno accorta della loro presenza per tutto quel tempo...

    Raddrizzai la schiena non appena vidi due bodyguards uscire dalla grande macchina e accorrere verso la portiera del sedile posteriore destra, dove evidentemente si trovava il loro capo. Questi non fecero in tempo ad aprirla che una figura vestita in abiti scuri ed eleganti li aveva già preceduti, lasciando la portiera aperta e incamminandosi veloce verso il villino.

    Il cuore era una bomba ad orologeria che in pochi secondi sarebbe esplosa.

    Vidi il suo viso e trattenni il fiato.

    Sfigurato. Non indossava gli occhiali da soli e il colorito era decisamente più pallido del solito. Sembrava aver trascorso le ore più brutte della sua vita; i lineamenti facciali erano tirati, la rabbia pervadeva ancora i contorni del suo viso che sembrava improvvisamente smagrito – come se avesse vissuto una settimana senza mangiare, invece che una sola mattinata. Le iridi erano scure, vitree, e la bocca formava una sottile linea retta.

    I nostri sguardi si incrociarono.

    Michael mi osservò neutrale, inflessibile, e subito dopo tornò a fissare la casa che aveva davanti, profanata una seconda spietata volta.

    Mi si bagnarono gli occhi.

    Le guardie del corpo lo seguirono e si fermarono ad un metro di distanza dalla sua figura, a causa di un suo improvviso gesto di mano che li indusse a non avvicinarsi oltre; i domestici e alcuni addetti al parco – apparsi dal nulla per la preoccupazione o la curiosità – lo fissavano senza dire una parola; le donne erano perlopiù scioccate, una aveva perfino le lacrime agli occhi, e gli uomini erano immobili nelle loro smorfie incomprensibili.

    Michael non sarebbe mai crollato di fronte a loro.

    Osservava tutto ciò che aveva davanti con freddezza, irrigidendo ogni muscolo del corpo. Di punto in bianco si diresse verso la casa con passo veloce e schiena diritta. Non badò a nessuno, e tutti i suoi dipendenti abbassarono il viso non appena lo videro muoversi; pian piano se ne andarono per lasciarlo da solo. Credo che fui soltanto io l’unica ad accorgersi che, per un fulgido istante, l’impassibilità sulla sua faccia era stata corrosa da una patina di acqua salata nelle iridi spente.

    Si fermò davanti all’uscio. Tentennò ad aprire la porta, alzò una mano e notai che tremava paurosamente.

    Volli abbassare le palpebre, ma non ci riuscii.

    Un rumore sordo e brusco.

    Con un movimento di mano abbassò la maniglia, lasciò aperta la porta ed entrò in casa a grandi passi.

    Potei immaginarlo aggirarsi per quelle stanze come se avesse paura che da un momento all’altro i poliziotti lo avrebbero aggredito. E poi ci fu un boato – un tavolo ribaltato a terra, sollevato da terra e ribaltato sul pavimento a causa dell’esaurimento e della rabbia; vetri che si frantumavano, altre cose che venivano distrutte. Fui in grado di immaginarlo mettersi le mani fra i capelli non appena fu di fronte alla sua vecchia camera da letto, inginocchiandosi a terra dopo aver visto il disastro ch’era diventata la sua dimora per la seconda volta.

    Da lontano – separati da spesse pareti di pietra, legno e cemento – lo vidi piegarsi su sé stesso dal dolore e piangere. Senza emettere un suono, nemmeno uno strepitio disperato o un gemito, scivolando nella più sconfortante disperazione.



     
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    Capitolo Quarantaquattro: L'Incudine


    Un passo, due passi, tre passi.

    Il rumore che si sollevò in aria a causa del contatto tra le mie scarpe col tacco e il ciottolato in sassi sembrava fare più rumore di un cannone da battaglia.

    Mi fermai a qualche metro dall’entrata di villa Jackson, la residenza di Beverly Hills. Anche con gli occhiali da sole quella casa era così bianca che sembrava accecare lo sguardo. Il Sole stava tramontando all’orizzonte e il vento non era freddo come quando me ne ero andata due settimane prima.

    Rafforzai la presa sulla valigia e mi sistemai meglio la borsa sulla spalla destra, sospirando pesantemente. Non sapevo se sentirmi sollevata, emozionata o sul punto di vomitare da un momento all’altro.

    Alla fine ero tornata in Italia per le vacanze di Natale. Partii il 19 dicembre e tornai in America qualche giorno dopo il primo dell’anno. I miei genitori fecero i salti di gioia, letteralmente, soprattutto mio padre. Passai con loro la maggior parte del tempo, facendo visita praticamente ad ogni membro della famiglia di mia madre e quel che rimaneva della famiglia di mio padre (visto che la maggior parte viveva all’estero), ad eccezione di… be’, mia nonna paterna.

    Mi erano state fatte domande, troppe domande, e sugli stessi argomenti di sempre: sul mio lavoro attuale, sulle mie esperienze passate, sulla mia gavetta e sui miei studi, sugli amori della mia vita e su un’ipotetica idea di metter su famiglia. Ovviamente quest’ultimo tipo di domande mi veniva fatto dai parenti serpenti, le tipiche persone che se la godono a mettere il dito nella piaga e farmi passare per una zitella – pur avendo quasi e soltanto trent’anni – perché secondo loro era inconcepibile che non avessi ancora trovato l’amore della mia vita. E quando dicevo loro – apposta – che preferivo morire con uno squadrone di gatti e cani al mio fianco piuttosto che con un uomo e dei bambini, questi impallidivano o mi guardavano con malcontento. Adoravo prendere in giro quei parenti che pensavano che fossi ancora la stessa ragazzina di molti anni fa, incapace di reagire o rispondere con un sorriso sarcastico in volto; soprattutto adoravo vedere l’espressione stizzita di mia madre e quella fiera e orgogliosa di mio padre.

    Una leggera brezza mi scompigliò i capelli e mi maledissi per non essermi fatta una coda alta come al solito. Alcuni ciuffi si posarono sul mio rossetto color rosso mattone e, al ricordo di quanto accaduto due settimane prima, il senso di vomito si fece ancora più forte.

    Mi tremarono le gambe.


    *

    Mi guardai allo specchio e sistemai meglio la linea dell’eyeliner sopra gli occhi da entrambe le parti. Sbattei piano le palpebre allontanandomi e le labbra delinearono un sorrisetto forzato. Vedere il mio riflesso non era più bello come una volta, soprattutto in quel periodo... stavo cominciando a gonfiarmi di nuovo, pur mangiando meno di come facessi di solito... lo potevo notare dalle gambe – fasciate da un paio di jeans scuri –, dalla mia pancetta e dalle braccia, fasciate da uno scollato pullover nero.

    O forse era solo una mia impressione.

    Mi allontanai un po’ dallo specchio, abbastanza da riuscire a vedermi pure i fianchi. Li analizzai accuratamente con occhio critico. Li sfiorai con le mani, mi posi di lato.

    Mi sentivo pesante.

    Con un sospiro soffocato guardai il telefono alla mia destra, sul ripiano accanto all’eyeliner e al rossetto: pochi minuti e sarei partita per l’Italia. Precisamente 9 interminabili minuti. Invece che andare da sola con la mia auto, Michael aveva preferito che uno dei suoi bodyguard mi desse un passaggio fino all’aeroporto.

    Il mio sguardo si rivolse alla figura che aveva davanti a sé.

    Quel giorno ero più triste di quanto lo fossi mai stata.

    Quando credi di essere completa, quando senti di essere felice, ad un certo punto immagini che ci sia qualcosa che può rovinare tutto. Be’, quella era la sensazione che mi tormentava da più di tre giorni: non so se fosse la paura della distanza da Michael e se, invece, fosse un mio castello di carta costruito su paranoie e insicurezze che non riuscivo ad esprimere a voce. Era come se temessi che, andandomene anche solo per due settimane, il sentimento svanisse completamente per entrambi. Eppure la scorsa estate non mi ero mai sentita così insicura.

    Sapevo fin troppo bene come ci si sentiva a ricevere una mazzata non appena arrivati al culmine della felicità, e se una parte di me viveva l’amore così com’era, un’altra invece se ne stava in agguato, con una mazza tra le mani pronta a colpire la tristezza prima che mi potesse abbattere definitivamente. Nessuna relazione passata mi aveva portato a credere che un rapporto umano potesse durare per sempre; prima o poi sarebbe potuto cadermi un pianoforte in testa, o sarei potuta andare a sbattere contro un muro di illusioni. Il fatto che quel pensiero potesse divenire la realtà subito dopo la mia partenza mi dava il voltastomaco.

    La cosa peggiore di quei giorni fu la distanza da Michael. Se provavo a dirgli cosa sentissi dentro, evitava il discorso e la buttava sullo scherzo; mi parlava di qualcosa di divertente o bambinesco, manipolando la conversazione su tutt’altro argomento. Se tentavo di avvicinarmi con la scusa di stare con Michael negli ultimi momenti prima della partenza – durante la notte, l’ora migliore per passare inosservati agli occhi dei curiosi – mi accarezzava il viso con un sorriso apparentemente rincuorante e poi evitava il contatto fisico completamente. Era come se, così facendo, evitasse di pensare a cosa sarebbe successo in quelle settimane di allontanamento… o peggio, era come se volesse tenermi distante. Non riuscivo a capire cosa gli passasse per la testa perché non voleva affrontare quella conversazione, e perciò vivevo nell’insicurezza e nel rancore per quel suo categorico silenzio.

    Vedevo che non stava bene dai suoi occhi... ma stavo cominciando a stancarmi di essere sempre lì a chiedergli se volesse parlarne o meno, se volesse un mio gesto affettuoso o meno, se mi volesse accanto o meno.

    Dalla sera precedente ero muta come un pesce e non mi aveva mai chiesto come stessi. Mi aveva sorriso, aveva parlato del più e del meno, mi aveva chiesto se fossi eccitata per il rimpatrio e l’incontro con la mia famiglia... ma percependo una risposta alquanto fredda da parte mia non aveva domandato altro. Aveva abbassato lo sguardo mostrando una smorfia fintamente serena e poco dopo se ne era andato lasciandomi in compagnia di me stessa, a bere una tisana tremendamente amara nel tentativo di dormire ed evitare una notte insonne e occhiaie violacee.

    Si poteva amare e al contempo sentirsi senza amore nel cuore?

    Ero conscia di cosa stesse passando, di quanto fosse teso e bisognoso di distrazioni, ma non lo giustificavo in tutto e per tutto. Non potevo sempre chiudere un occhio e giustificare le sue azioni e i suoi comportamenti perché stava male, pur rendendomi conto che il suo tipo di sofferenza fosse un fardello pesante da reggere. Reprimevo i miei dubbi e le mie paranoie perché, nonostante tutto, sentivo di amare Michael veramente. Mai avrei usato il processo per attaccarlo e farlo sentire incapace di amare, sarebbe stato crudele.

    Ma anch’io ero umana, fatta di carne, sangue e sentimenti.

    Chiedevo troppo? Era quello l’effetto negativo dell’amore? Quello che ci aveva conquistato mesi prima era solo un’infatuazione destinata a scomparire nel tempo, al primo grande ostacolo sul nostro cammino?

    Nel silenzio di quel bagno avevo versato quella che pensavo sarebbe stata la mia prima e ultima lacrima; mi ripromisi che non mi sarei lasciata sopraffare dal pianto fino alla fine di quel stramaledetto processo.

    Un leggero bussare alla porta mi distrasse dalla donna allo specchio. Questa si aprì quasi a metà.

    «Sei pronta?»

    Michael spuntò da oltre la soglia vestito con un completo molto elegante; pantaloni neri e camicia bianca, quest'ultima appena visibile da sopra una giacca nera, decorata con strani motivi giallo oro proprio sopra le spalle; mi osservò un po’ incuriosito, sorridente, felice. Per un attimo un pensiero orribile mi trapassò il cuore, ossia che fosse felice che mi levassi dai piedi.

    La mia faccia rimase assunse un’aria fintamente tranquilla.

    «Sì, grazie».

    Si bagnò le labbra e si strofinò le mani. «Mike sarà qui a momenti. Gli ho comunicato il giorno e l’ora in cui ritornerai. Ti aspetterà proprio davanti al gate di arrivo», si avvicinò di tre passi.

    Annuii piano e senza osservarlo di rimando rimisi apposto i trucchi nella trousse, ad eccezione del rossetto. Con un cenno del capo allontanai un ciuffo di capelli dalla fronte e mi incamminai al di fuori del bagno, passandogli accanto senza dire una parola, in direzione della grande valigiona nera e della mia borsa. Chiusi la prima tirando la zip e mettendo un codice numerico a mo’ di serratura, per poi sistemare l’astuccio dei trucchi nel mio bagaglio a mano. Con la coda dell’occhio lo vidi immobile, teso e attento alla benché minima espressione sul mio volto.

    Presi il rossetto color rosso mattone e me lo passai velocemente sulle labbra.

    «Dovresti sorridere un po’ di più...», sentenziò usando una voce calmissima. «Tra poco rivedrai i tuoi genitori... non sei contenta?»

    Una fiammella d’ira s’impossessò di me e delle mie corde vocali.

    «No, non sono contenta e tu dovresti sapere il perché», misi il tappo al rossetto e lo fulminai con un’occhiata glaciale. La sua faccia quasi schifata mi fece capire che lo avevo offeso. «Se non mi sento di sorridere non lo faccio».

    Fui un serpente a sonagli e sul momento non mi pentii neanche.

    «Spiegami», si mise le mani nelle tasche. Si bagnò la bocca con evidente nervosismo. «Cos’è che non ti rende più felice come una volta? Io? Stare con me non ti rende più felice?»

    Al contrario di me – notai –, Michael stava dimagrendo un sacco. Soprattutto sulle cosce.

    Infilai il rossetto a casaccio nella borsa. Le labbra disegnarono una smorfia incollerita ma trattenuta. Issai la valigia dal letto e la posi a terra con uno schiocco a dir poco rumoroso, per non prendere la sua testa tra le mani e scuoterla ferocemente. Gli scoccai un'occhiata eloquente.

    «Da quando non stai bene quando siamo nella stessa stanza?», sibilai con parole rotte dal nodo che trattenevo in gola. Michael rimase composto e serio senza muoversi di un millimetro, sguardo impassibile e indecifrabile. «Hai colto tutti i segni e li hai ignorati. Non dirmi di sorridere o di essere felice. Gli unici che mi fanno contenta, qui, sono i tuoi figli»

    Fu come se gli avessi dato uno schiaffone in piena guancia.

    Dopo aver spalancato le palpebre con un misto di orrore e tristezza, scosse la testa storcendo appena il naso. Si guardò intorno, in silenzio, con le nocche delle mani sui fianchi. La mascella serrata si irrigidì e mi fissò un sorrisetto sfrontato stampato in faccia.

    «Se pensi che sia così freddo e anaffettivo, non dovresti più spendere il tuo tempo con me», soffiò velenosamente. Indirizzò una mano verso la porta. «Avanti, vai pure dai miei figli!».

    Emisi uno spasmo di risata sardonico. Lo guardai allibita, sempre più arrabbiata dalla sua reazione sconsiderata. Come se fossi io quella a delirare e lui la vittima della situazione.

    Stavo esagerando? Pretendevo troppo?

    «Ascoltati ogni tanto, Michael, perché sei fuori di testa

    Non mi ascoltò nemmeno. Continuò a parlare a vanvera, senza calcolare chi avesse di fronte.

    «Io non so cosa dirti per farti capire che per me è difficile tutto questo! Lo sai che non è facile, lo sai che mi chiudo in me stesso, ma questo non vuol dire che non ti ami! Pretendi che ti dia attenzioni continue, vero? E tu cosa fai per me, per amarmi incondizionatamente?», mi gridò con palpebre spalancate dall’ira.

    I miei occhi si lucidarono immediatamente.

    Se c’era una cosa che poteva fare per ferirmi, era quella di dirmi che non stessi facendo abbastanza per lui e questo lo sapeva bene. Non aveva il diritto di farmi questo, non quando stavo praticamente mettendo al secondo posto me stessa o i miei bisogni pur di non inciampare mai in litigi futili o che lo appesantissero più di quanto già non fosse.

    Si umettò un’altra volta la bocca e scosse il capo a destra e a sinistra in modo convulso. Cominciò a camminare avanti e indietro sullo stesso punto.

    «Non puoi pretendere che non mi preoccupi dei miei figli o del processo, di quello che sarà il mio futuro e di cosa può accadere a Prince, Paris e Blanket nel caso in cui io non ci sia più!», esclamò gesticolando animatamente, senza guardarmi. «Non puoi pretendere che io non mi arrabbi e mi senta terribilmente affranto da quello che mi sta accadendo! Non puoi! Mi sento una merda, ora sei soddisfatta? Sono una merda perché non do abbastanza amore alla donna che mi sta a fianco!». Mi scoccò un’occhiata furente e devastata. «Non avrei mai dovuto prometterti di amarti per sempre, perché evidentemente è un sogno che non si avvererà mai!»

    Silenzio.

    Glaciale silenzio.

    Esattamente come quello che pervade la notte dopo una tempesta di lampi e fulmini spaventosi; lo stesso che si crea quando il tifone si placa e ogni suono si annulla, portando con sé un vuoto quasi paralizzante. Quel silenzio.

    Non sapevo cosa pensare. Non avevo la forza di parlare, di piangere, di arrabbiarmi, di andare su tutte le furie, di gridare, di stare male. Eccolo, dissi fra me e me, quel pianoforte caduto in testa, finalmente... l’incudine tanto attesa.

    Io non sono forte abbastanza per tenere testa a questo peso...

    Chinai il capo.

    Lo sguardo duro di Michael prese una piega che non riuscii a scorgere a causa di quel velo d’acqua salata davanti alle mie iridi. Lo sentii a malapena fare un passo in avanti mentre qualcuno bussava alla porta della mia camera.

    Silenzio.

    Bussarono di nuovo.

    Afferrai la maniglia della valigia con una mano e borsa e giacchetta con l’altra. Gli diedi la schiena, mi incamminai verso la porta e uscii dalla stanza senza guardarmi indietro. Davanti a me una domestica – una donna di mezza età scura di pelle – abbozzò un sorrisetto imbarazzato e mi comunicò che era l’ora di partire.

    *

    A dire il vero in Italia non era andata affatto bene. Il peggior Natale di sempre.

    Gli unici momenti che salvavo di quella “vacanza” erano stati quelli passati a suonare e cantare a squarciagola con mio padre – mangiando le peggiori schifezze e dolciumi –, fare giardinaggio o cucire in compagnia di mia madre, incontrare i miei zii e cugini preferiti passando i pomeriggi a giocare a carte o altri giochi da tavolo assieme; mi era mancata la mia casa e quell’odore che mi ricordava un’infanzia dal retrogusto dolceamaro, un misto di lavanda e crostata alla marmellata di ciliegie – il piatto preferito di mia madre. Mi era mancata tutta quella natura, le strade desolate, le case tutte attaccate, la vita tranquilla di un paese di gente chiacchierona e curiosa.

    Per il resto, ogni cosa sembrava ricordarmi Michael.

    Più i giorni passavano, più lo sentivo distante. Non fisicamente parlando, ma emotivamente. Non ci chiamavamo, non ci inviavamo messaggi. Percepivo come se l’amore si stesse spegnendo – non da parte mia, da parte sua – e di conseguenza mi ritrovavo nel cuore della notte a guardare il soffitto con il fiato strozzato in gola. Stringevo le mani al petto e mi sentivo sovrastare da un’emozione di terrore puro. Non ero in grado di piangere perché mi sentivo ancora in un limbo, eppure la mia mente era un vero e proprio inferno senza via d’uscita. Ero stremata, paranoica e abbattuta.

    Pensavo e ripensavo al nostro ultimo litigio, quello che non avevo avuto la possibilità di chiarire perché avrei rischiato di non arrivare in aeroporto per tempo… ricordavo le sue ultime parole e quell’ultimo sguardo che mi aveva rivolto.

    Avevo immaginato il mio ritorno e le conseguenze di quel lungo silenzio tra noi, ma in realtà le cose erano decisamente diverse da come avevo fantasticato.

    Di fronte all’enorme villa bianca, conscia di non poter tornare indietro, sentivo solo il desiderio di fuggire a gambe levate da una delusione ancora più forte di quella che già covavo dentro. Mi facevano talmente male il petto e la gola che sembrava che qualcuno mi avesse messo un cappio al collo e stringesse ogni secondo più forte. Desideravo tornare là, in Italia, e lasciare tutto in sospeso. Ciò nonostante, il mio cuore lo aveva pensato notte e giorno e pregava affinché non mi avesse dimenticato sul serio. Desideravo sistemare ogni cosa.

    Non ero ancora pronta a perderlo…

    Era giunto il momento di chiarire.

    *

    Restai ferma sul posto per qualche secondo, fissando il mio pugno sospeso in aria davanti alla sua porta, ed espirai a pieni polmoni. Provai a dire qualcosa a me stessa che riuscisse a scuotermi da quello stato di trans.

    Ero una scema. Un'idiota. Una completa rincoglionita.

    Non avevo neanche aspettato che fosse notte fonda per andare a parlargli. Avevo salutato Prince, Paris e Blanket negando loro la possibilità di giocare con me, con la scusa che fossi stanca per il viaggio e che avessi bisogno di dormire. Avevo lanciato un breve saluto a Grace che non ricambiò neanche e – senza che ci fosse bisogno di chiederlo – Paris aveva proposto di andare ad avvisare papà del mio arrivo. Negai con un’ulteriore scusa, consigliando di non andare a disturbarlo per niente. Dopo essermene andata in camera e aver sistemato borsa e valigia sopra il letto, ero corsa immediatamente fuori dalla stanza in direzione dell’ufficio di Michael.

    Mentre attraversavo il corridoio perfino la nausea sembrava essere scomparsa, non solo la capacità di formulare un pensiero logico e chiaro.

    Non avevo fatto altro che pensare a lui, lo ammetto. Non avevo smesso nemmeno per un secondo, neanche a diecimila chilometri di distanza.

    Niente incertezze, vai da lui – sussurrava l’istinto – parlagli, digli ciò che provi, raccontagli tutto quello che senti come tanti mesi fa, lasciati andare... e magari lo farà anche lui. Non aspettare, cercalo una volta ancora e lascia perdere l’orgoglio.

    Alzai gli occhi al soffitto ed imprecai. «Maledizione...»

    Lo stomaco protestò per quell’illogica decisione.

    Coraggio...

    Non feci tempo a battere la nocca della mano destra sul legno scuro che la porta si aprì da sola. M’irrigidii immediatamente e spalancai le palpebre dallo shock. Divenni di ghiaccio. La bocca s'inaridì come dopo una maratona nel deserto.

    Michael apparve con sguardo basso e distratto da oltre la soglia; non si accorse di me fin quando notò di avere davanti a lui uno stoccafisso. Mi puntò stupito e confuso, sobbalzando appena per lo spavento; tutt’e due avremmo riso di quel suo saltello se entrambi non fossimo stati privi della capacità per parlare.

    Mi esaminò da capo a piedi, focalizzandosi infine sul mio viso contratto dalla tensione. Potei scorgere le sue iridi illuminarsi improvvisamente a causa di uno scintillio di sbalordimento puro; il suo petto si sollevò appena e gli ci volle qualche secondo per potersi riabbassare completamente, segno che stava trattenendo il respiro.

    «Ciao», bisbigliai.

    Rilassò appena le spalle e la sua espressione si fece più conciliante. Sembrava più sereno di come lo avessi lasciato… quasi la stessa persona di quattro mesi prima.

    «Ciao...»

    Ingoiai la saliva. «Possiamo parlare?»

    Michael si umettò le labbra. Con una mano si teneva sullo stipite della porta e con l’altra sulla maniglia. Lo sguardo calò sulle piastrelle bianche sotto di noi ed infine annuii. Mi osservò con un cipiglio così docile e gentile che mi fu difficile credere fosse reale.

    Si scostò dall’uscio e mi fece entrare. Scivolai nel suo ufficio immensamente spazioso e semibuio, disordinato ma pulito come al solito – rischiarato soltanto da una debole lampada a comodino. Quando il suo profumo di sandalo m’invase l’olfatto mi sentii sul punto di piangere. Chiuse a chiave dopo aver controllato che nessuno si fosse accorto della mia presenza in quella camera.

    «Accomodati...»

    Voltai la testa in sua direzione. Affondò le mani nelle tasche di morbidi pantaloni in velluto nero con un’occhiata apparentemente tranquilla. Non indossava abiti formali, quanto piuttosto una camicia a quadri rossa un po’ stropicciata; i suoi capelli erano più spettinati del solito e non aveva un filo di trucco in volto.

    Guardai la scrivania alla mia sinistra e mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

    «No, grazie... dovevo solo dirti due cose...».

    Si avvicinò con camminata impercettibile. I suoi occhi si accesero per quella che definii attesa e preoccupazione assieme. Perlomeno non era irritato all’idea di avermi nella stessa stanza…

    «Dimmi».

    Mi strofinai il naso ed evitai di incrociare il suo sguardo per tutto in tempo che passai in silenzio alla ricerca delle parole giuste da dire. Ero stata troppo impulsiva; prima di andare da lui avrei dovuto pensarci su...

    Qualcosa dentro di me, delicato e fragile come un cristallo, si scagliò a terra e si frantumò in mille pezzi. Da quell’esplosione inaspettata le mie paure si trasformarono in sabbia finissima; questa non esitò, s’infilzò nei miei occhi e si tramutò in lacrime.

    «Hai sbagliato a farmi entrare...».

    «Cosa?»

    Roteai gli occhi verso l’alto sbuffando. Presi un profondo respiro e dondolai nervosa sul posto. Le mani si sistemarono sui fianchi mentre cominciavo a vedere tutto appannato.

    «Ti sei sbagliato, Michael... mi dispiace, davvero... ma hai fatto un errore con me. Non dovevi lasciarmi entrare nella tua vita… io non sono la persona meravigliosa e dolce che hai sempre creduto che fossi. Io sono complicata, sono problematica, appiccicosa, brusca... scema...»

    La voce tremò.

    Incrociai le braccia al petto. Arricciai fronte, labbra e naso per fermare il pianto imminente, ma senza successo; dapprima si elevò in aria in modo impercettibile, poi sempre più rumorosamente e così dovetti mettermi una mano davanti alla bocca.

    Fece un passo in mia direzione ma lo ammonii con una mano di aspettare e, per non farmi vedere fragile, gli diedi le spalle.

    Mi maledetti per quel crollo non programmato.

    Udii Michael venirmi incontro a passo veloce non appena mi vide sprofondare in quel momento di debolezza, ma non mi toccò. La sua vicinanza mi provocava un dolore e una gioia indescrivibile.

    Emisi uno spasmo di risata per niente affatto allegro.

    «I-io... mi sono sentita sola…», un’altra lacrima scese veloce sulla guancia sinistra e la cancellai subito con il dorso di una mano. «Perché mi sento persa... s-senza di te...?»

    Michael mi prese per le spalle e mi guidò con il busto in sua direzione. Obbedii controvoglia e lo vidi corrugare le sopracciglia con una smorfia di dolore; le due immensità che aveva al posto degli occhi luccicarono nella semioscurità di quella stanza e mi abbracciò senza darmi il tempo per contemplarli come volevo. Quei palmi che adoravo sentire sulla pelle nuda avanzarono tremolanti sulla nuca, mi strinsero a sé, posero il mio viso nell’incavo del suo collo. Freneticamente l’altra mano mi agguantò la schiena, salì verso la spalla, scese verso la spina dorsale... le sue labbra mi sfiorarono i capelli con il timore che potessi sfuggirgli dalle dita.

    «Mi dispiace...» bisbigliò a voce rotta. «Sono stato solo anch’io...».

    Cercò le mie gote e asciugò con i suoi baci l’acqua salata che mi incorniciava in viso.

    «Mi... mi sei mancato…», lo dissi ammirando le sue labbra.

    «Shhh...», m’issò il viso con i palmi delle mani. I suoi occhi tristi e passionali assieme mi sorrisero debolmente. «Non torturarti, e smettila di dire stupidaggini...». Mi baciò sulle labbra. «Siamo proprio due imbecilli».

    *

    «Sai, Paris mi ha detto che tua madre ti ha insegnato la coreografia di Proud Mary di Tina Turner». Michael ridacchiò arricciandomi una ciocca di capelli attorno alle dita della sua mano destra. «Lo sai che dovrai farmela vedere prima o poi!», mi ammonì inarcando un sopracciglio.

    «Le avevo detto di non dirtelo...!» pigolai col capo adagiato sul suo braccio, disteso sotto di me.

    Assunsi una smorfia imbronciata e lui sogghignò a bassa voce.

    «Pensa… è stato un caso più unico che raro. Mia madre è sempre stata una donna molto seriosa e posata» borbottai. Giocherellai distrattamente con un bottone della sua camicia da notte rosso scuro e allacciai una gamba alle sue. Sorrisi. «Mio padre è sempre stato il vero pazzo di famiglia. Era il più giocherellone, oltre che il più ingenuo… così ingenuo da far venire l’esaurimento!»

    Lo guardai di sfuggita. Il viso era vagamento illuminato dalla piccola lampadina in ceramica sul mio comodino. Mi fece voltare lentamente a pancia in su e le sue labbra, leggermente curvate in un sorriso sereno, ricercarono le mie. Gli occhi erano carichi di amorevolezza, così luccicanti come non li vedevo da tanto.

    «Dimmi di più» mi sfiorò la guancia con due dita ed io rabbrividii. «Parlami di loro»

    Ammirai il soffitto e strinsi labbra e palpebre in un’espressione pensosa.

    «Mmh… ma sai quasi tutto di me e dei miei, ormai!»

    «Tu non ti preoccupare», ridacchiò tirandomi indietro alcuni capelli sparsi sulla fronte. «Non mi annoia risentire la stessa storia più e più volte»

    «Mmh…», arrossii. «E va bene, allora… io e mio padre abbiamo un rapporto assolutamente amichevole. Ci prendiamo in giro a vicenda e facciamo i bambini ogni qualvolta ne abbiamo l’occasione, facendo arrabbiare mia madre per le nostre risate che lei definisce “poco dignitose”», soffocai uno spasmo di risata. «È matto da legare. Se io sono rimasta sempre molto infantile sotto questo punto di vista lo devo a lui. Ciò nonostante non abbiamo mai parlato di cose propriamente intime: abbiamo un senso di rispetto e privacy reciproci che non ci permette di dirci ogni cosa, soprattutto i nostri sentimenti più profondi. Quando e se mi vedeva piangere – da bambina, intendo – faceva finta di niente: piuttosto che chiedermi come stessi, mi faceva qualche regalo di nascosto e me lo lasciava nei posti più impensabili. Solo in questi ultimi cinque anni si è lasciato andare e cerca di conoscermi meglio… probabilmente è l’effetto della lontananza. Questo Natale era super gioioso ed entusiasta. Ho passato davvero dei bei momenti con lui, tra la musica e le nostre battute idiote.

    Mia madre è sempre la stessa donna elegante e raffinata di quando ero bambina. Parla un sacco, veramente tanto, e se io facessi scena muta per tutto il giorno sono sicura che ventiquattro ore dopo sarebbe ancora lì a parlare a macchinetta! Per quanto austera sia – e per quanto mi sia sempre mancato il suo appoggio e il suo affetto più di quello di chiunque altro – cerca sempre di accontentarmi in ogni cosa. Se ho ancora fame, rinuncia al suo pasto per me; se ho voglia di piantare un ulivo piuttosto che un rosaio, pur borbottando e protestando alla fine ascolta il mio suggerimento. Sono la sua unica figlia. Credo che il problema tra me e lei sia il fatto che ha sempre preteso che io avessi una vita migliore della sua, fatto di rinunce e rimpianti; così facendo mi ha pressato molto e questo ci ha portato a litigare tre volte su quattro, quando stavamo assieme…». Sbuffai. «Ma la mamma è una soltanto, dopotutto…»

    Mi scossi e scrutai distrattamente il collo di Michael. Con un dito passai sulla sua giugulare, prima su e poi giù, prima a destra e poi a sinistra, per finire con una leggera carezza del mento.

    Fu Michael a tremare, allora.

    «Soltanto quando peccavo di immaturità o irritabilità diventavano un padre e una madre molto severi. Al contrario, io diventavo ribelle quando mi veniva imposto di fare una cosa che non volevo fare assolutamente… o quando mi si trattava come un’irresponsabile cronica, senza neanche avermi dato la possibilità di provare. Mi hanno sempre tappato un po’ le ali e la voce, fino a quando non sono venuta qui. Per quanto mi siano mancati e mi manchino ancora, non tornerei indietro: verrei in America anche se dovessi tornare indietro nel tempo mille altre volte».

    «Ti hanno cresciuto bene. Sei una donna con la testa sulle spalle e determinata. Sei coraggiosa e ambiziosa. Sono stati severi ma senza toglierti l’innocenza», sorrise. In seguito mi rivolse un’occhiata a mo’ di leggero rimprovero; mi pizzicò il naso con il pollice e il medio. «Tu, poi, hai un carattere indomabile... io che sono padre capisco cosa significhi avere dei figli monelli...»

    Misi il broncio ancora di più ma sorrisi impercettibilmente. Mi sentii attraversare da una piacevole e stranissima sensazione che non seppi definire; lui era un padre, un meraviglioso padre, ed io avevo quasi vent’anni meno di lui... non che l’età importasse granché, ma qualche volta mi capitava di rifletterci sopra. E l’immagine di Michael, papà amorevole e uomo di quarantasei anni, me lo faceva amare ancora di più.

    Gli scoccai una finta occhiataccia.

    «Be’, non mi è mai piaciuto che – quando volevano avere ragione a tutti i costi o volevano prevaricare sulle mie scelte – io dovessi rimanere zitta e dire di sì ad ogni cosa!», mi tirai su a sedere. Michael strinse la bocca in un sorriso sbarazzino e istigatore. «Proprio non sopporto queste cose!»

    «Non ti scaldare» mi portò i capelli dietro le spalle. Dire che avesse una faccia da schiaffi era dire poco. «Nessuno ti dice che hai sbagliato... io ero come te...»

    Roteai gli occhi in alto. «Oh, grazie al cielo!»

    «Però rispetto i miei genitori... e anche tu fai lo stesso» si corresse vedendo il cambio d’espressione sul mio volto. «Vorrei che al mondo ci fossero più famiglie come la vostra...»

    Si incupì momentaneamente.

    Fin da quando era giovane, Michael si era sempre occupato e preoccupato di importanti temi sociali, anche grazie ad una fama di livello internazionale che poteva aiutarlo ad ispirare e far ragionare le masse. Invitava i fan che lo seguivano ad essere una famiglia unita, ad amare i propri genitori e i propri figli, a curarsi delle generazioni future senza far mancar loro un posto sicuro e amorevole dove crescere. Una volta mi parlò di un discorso fatto ad Oxford e per curiosità, quando lui ovviamente non poteva scoprirmi, ero andata a cercarlo su Internet. Quel poco che avevo trovato allora era stato sufficiente a farmi venire le lacrime agli occhi. Il suo amore per i bambini, per il pianeta e per il futuro del genere umano – così come la dedizione che traspariva dalla sua voce rotta dalla commozione – lo rendevano uno degli umanitari più importanti di questi ultimi decenni.

    Qualche volta mi chiedevo se il mio desiderio di aiutare gli altri fosse una pallida imitazione del suo stesso obiettivo esistenziale. Non capivo se sentissi veramente quel fuoco nel petto o se fosse solo un tentativo inutile di emularlo.

    Michael pensava che fossi una persona buona ed altruista, me lo diceva sempre. Perché io non riuscivo a vedere me stessa attraverso i suoi occhi? Perché non riuscivo a credere che – prima che fosse divenuto parte della mia vita – io fossi stata una bella persona?

    Mi sbagliavo. Io lo ero, ero una bella persona ancora prima che lo incontrassi. Michael mi aveva soltanto migliorato, aveva aperto porte che un tempo avevo tenuto spalancate e poi avevo sigillato con una miriade di lucchetti. Lui era riuscito a farmi ricredere su tantissime cose, mi aveva aperto gli occhi su questioni a cui non avevo mai riflettuto, aveva permesso a quel piccolo focolare nel cuore di riaccendersi, invece che lasciarlo perire nell’oscurità e nel gelo di un inverno senza fine apparente. Forse il nostro amore sarebbe finito presto e le nostre strade si sarebbero interrotte per sempre, o magari qualcosa sarebbe andato per il verso giusto e le nostre questioni irrisolte si sarebbero chiarite col tempo... ma, nel bene o nel male, Michael mi aveva aiutato a tirare fuori il meglio di me e rivelare la vera me stessa, portandomi a lavorare su quegli aspetti di me per cui era necessario fare un cambiamento. Se fossimo stati insieme per sempre o ci fossimo separati nel giro di una settimana, non avrei mai potuto negare l’enorme impatto che aveva avuto sulla mia vita e sulla mia persona. Aveva risvegliato una parte di me completamente sepolta da anni: mi aiutava ad essere una donna migliore, giorno dopo giorno, lasciando andare il vecchio e facendo entrare il nuovo.

    Il suo complimento a me e alla mia famiglia riuscì a darmi un po’ orgoglio e soddisfazione, ma non completamente. Mi fece riflettere molto; non potevo negare che fossimo una bella famiglia, ma...

    «Grazie» accennai un sorrisetto e lo baciai sull’estremità sinistra delle labbra. Michael si risvegliò dal suo stato meditabondo e mi esaminò con sguardo apprensivo. «Da una parte vorrei anch’io che molte famiglie fossero come la mia, da un’altra parte no... non c’è mai stata una vera e propria pace e serenità tra noi, e credo sia normale... nessuna famiglia è perfetta...» Appoggiai la fronte sul suo petto una volta che ci fummo ridistesi sul letto. «A volte mi domando se sia giusto così...», bisbigliai.

    Michael stette in silenzio e io pure.

    Chiusi gli occhi. Il suo battito cardiaco era uno dei suoni più belli che avessi mai udito al mondo.

    «Che cosa intendi con “A volte mi domando se sia giusto così”?»

    Sospirai impercettibilmente. Feci scivolare le mani sotto il viso e in seguito vi poggiai sopra il mento, così avrei potuto guardarlo negli occhi.

    «Quando i miei litigavano ferocemente speravo che potessero divorziare», mormorai. «Piuttosto che vederli star male, desideravo vederli felici con altri. Ci sono stati anni terribili, momenti in cui speravo di poter scappare di casa».

    Michael inclinò il capo da una parte e lo sguardo si fece rammaricato ma comprensivo.

    «Le loro sfuriate e le loro urla, i loro insulti e i loro silenzi mi hanno aiutato molto... mi hanno portato a cercare l’amore vero… non solo con la A maiuscola, ma con tutte le lettere maiuscole!» inarcai la fronte ammirando distrattamente il cuscino vuoto in parte a lui. «Ho sempre creduto che andassero d’accordo soltanto perché non potevano fare altro. Me lo dimostrano ogni anno che passa: quando ritorno in Italia e sto con loro, percepisco che non stanno insieme per amore, ma per semplice istinto di sopravvivenza. Io non voglio questo per me. Per loro, per i parenti e per tutto il paese separarsi è quasi una vergogna, ma io non la vedo così... si sta parlando della felicità e della pace di due persone, non di un gioco. Se due esseri umani non riescono più ad amarsi e andare d’accordo - e ogni scusa è buona per trovare ciò che non va l’uno dell’altro, non importa quanti anni si prova a sistemare i casini e le situazioni irrisolte – che senso ha continuare?

    Non penso che vadano più d’accordo da prima ancora che partissi per l’America… pff, litigavano sei giorni su sette. Dai miei quattordici anni in su non ricordo un periodo in cui riuscissero ad essere felici e godere l’uno della compagnia dell’altro per più di tre giorni consecutivi. Probabilmente anche per questo mia madre sperava che non me ne andassi dall’Italia. Perché senza di me non avrebbe più avuto una ragione per tenere duro, per cercare di non litigare continuamente con mio padre… mi chiedo se non sia stata io l’egoista a voler partire, a volte…»

    Michael sorrise con gli occhi lucidi. Mi afferrò la mano e strofinò i suoi polpastrelli sul dorso.

    «Loro hanno fatto una scelta e tu ne hai fatta un’altra. Non darti colpe. Non sei responsabile per le vite e le decisioni altrui. Le cose possono cambiare se due persone lo vogliono veramente... ma devono essere in due, Sarah. Se i tuoi genitori vogliono rimanere così, è perché pensano che sia il meglio per loro… e anche per te»

    Abbassai lo sguardo e respirai a fondo.

    «A che cosa stai pensando?»

    Gli occhi saettarono in direzione dei suoi, spaesati. «Uhm?»

    Sollevò entrambe le sopracciglia. «Ti conosco. Quando fai quella faccia c’è qualcosa che ti tormenta...», sussurrò con una voce in grado di farmi venire i brividi ogni dove. Sorrise. «Avanti, a cosa pensi?»

    «Penso a quello che mi hai appena detto...», con un rapido gesto di dita slacciai il primo bottone della sua camicia da notte.

    Fui ipnotizzata dal movimento del suo torace che si alzava e si abbassava seguendo una melodia inesistente. Resistetti all’istinto di sbottonargli tutta la maglia e dopo un altro lungo silenzio alzai lo sguardo. La sua espressione era quella di poco prima, solo più scettica.

    «... davvero!», esclamai a palpebre spalancate e un sorriso imbarazzato.

    Bugiarda! Bugiarda! Bugiarda! Una fastidiosa cornacchia strepitò nella mia testa. La scacciai con invisibili manate in aria e questa prese il volo, offesa.

    Michael si accigliò e osservò il soffitto. «Farò finta di crederti».

    «Credimi...», gli posi una mano sul busto.

    Un tocco soltanto e le iridi di uno sfrecciarono alla ricerca di quelle dell’altro. Senza smettere di fissarlo, con uno sguardo appannato di desiderio e un sorriso sbarazzino in viso, mi allungai verso il suo collo e gli detti un bacio caldo e affettuoso nell’incavo tra guancia e spalla, lasciandogli un debole schiocco.

    Michael non rispose se non con un veloce umettarsi di labbra. Mi fissò con iridi offuscate tanto quanto le mie e allora gliene diedi un altro... un altro ancora... piegando la testa e respirando pesantemente.

    Ricambiò quando non riuscì più a resistere alla tentazione, abbassando le palpebre, inspirando a pieni polmoni, e avvertii i suoi palmi di mano cercare il mio fondoschiena un po’ rialzato dal materasso. Lo pizzicò teneramente ed io soffocai una risata imbarazzata, frattanto che la lingua s’insinuava all’interno della mia bocca e le dita scivolavano in basso, sulla sua camicia, per sbottonarla completamente. Egli mi strinse sulle natiche febbrilmente, accarezzandomi con pressioni forti e passionali, ed un gemito fuoriuscì dalla gola di entrambi. Quando mi posi sopra di lui, a cavalcioni, il cuore scalpitava sulle tempie e nella mia intimità.

    Soffiò il mio nome con un sussurro d'approvazione.

    Arrivai a slacciargli quasi tutta la giacca del pigiama, fermandomi sull’ombelico dove il suo stomaco era vigorosamente contratto. Appoggiai il ventre sulla sua protuberanza già emozionata al di sotto dei pantaloni. Esalò un respiro di lascivia, facendo cadere la testa all’indietro e chiudendo le palpebre per un millesimo di secondo.

    «Ti guardavo oggi... mentre giocavi a carte... con Prince...», gemette sentendo le mie dita infilarsi sotto i suoi pantaloni elastici.

    Emisi un distratto “Sì” di risposta.

    «Ad un certo punto ti sei chinata... ti è caduta una carta...», farfugliò.

    Sorrisi.

    Non appena sfiorai il suo membro mi afferrò le natiche e le strinse a sé con ancora più forza di prima. Scontrandomi con la sua fierezza incespicai in un piagnucolio di impazienza, inarcando la schiena di riflesso.

    Mi aiutò ad abbassargli pantaloni e mutande sollevando appena il bacino dal materasso. Io, per fortuna, ero già con gli slip e basta. Ci osservammo intensamente. Il mio seno sporse dalla camicia da notte. Accostai percettibilmente il mio sesso al suo.

    «Ero troppo scollata...?», bisbigliai con premurosità furbesca.

    Sollevò un sopracciglio e un angolo della bocca. «Oh, se lo eri...»

    Mi morsi un labbro.

    «E ti è piaciuto...?»

    Sorrise.

    «Da matti»

    Se fossi ingrassata di qualche chilo o se fossi asciutta come l’estate passata, non c’era problema: mi mangiava con gli occhi in ogni caso.

    «When I get this feeling...» canticchiai ironicamente. «I need sexual healing...»

    Rise a voce roca e sguardo acceso di lussuria, arrossendo a malapena. «It’s something that’s good for me...»

    Arricciai le labbra con divertimento. Mi tolsi la camicia da notte rimanendo in canottiera. I suoi polpastrelli vagarono veloci in direzione del mio seno, superando l’ostacolo imposto dal reggiseno e dalla canotta. Il calore delle sue dita che si posava sulla mia pelle mi regalò brividi di freddo e di eccitazione, nonostante la sua temperatura corporea fosse tutto fuorché tiepida.

    Abbassai le spalline del reggiseno, lo sganciai e lo sfilai da sotto la canotta; chinandomi su di lui, ventre contro ventre, gemetti. Per quante parole volessi enunciare non riuscii a dirne neppure una che esprimesse come mi sentissi per davvero.

    Puntai la fronte nel punto dove si trovava il suo cuore.

    «Pensi che potrebbero sentirci...?», fremetti.

    Michael prese una gran dose di ossigeno e mi massaggiò teneramente le cosce.

    «Se ti controlli, anche no...»

    Alzai la testa per guardarlo a bocca aperta.

    Michael mi puntò divertito, compiaciuto ma visibilmente scombussolato. Per quella sua frase premetti ancora di più il ventre contro il suo. Entrambi ci sentimmo mancare il fiato dai polmoni ma mantenemmo il contatto visivo.

    «Ti ricordo che non lo sono l’unica che prega quando facciamo queste cose...», gli feci la linguaccia e ridussi gli occhi in due fessure.

    «Shhh...», mi prese le guance tra le dita della mano destra. Mi avvicinò a sé e mi baciò intensamente. «È troppo tardi per tornare indietro, adesso...»

    Mugugnai contrariata, ma non protestai. Con un dito scostai le mutandine da un lato e lo lasciai entrare in me. Un gemito piuttosto acuto venne bloccato dalla mano di Michael sulla mia bocca; il pollice e l’indice dello stesso arto scivolarono tra le mie labbra e li lambii emettendo gemiti più soffusi ed eccitati; dopodiché scivolammo – dapprima lentamente, in seguito rapidamente – nell’ennesima e deliziosa caduta senza fine.
     
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    Capitolo Quarantacinque: La Caduta dell'Eroe


    Non ricordo quasi niente dei mesi successivi al mio ritorno a Los Angeles.

    Questo senso di perdita di memoria improvvisa mi capitava in ogni momento brutto della mia vita, particolarmente traumatizzante a livello emotivo. La mente desiderava cancellare qualsiasi cosa che mi facesse male, che non riuscivo ad affrontare senza provare il desiderio di scomparire dalla faccia della terra. Era un tipo di maledizione e benedizione assieme, che offuscava ogni ricordo lasciandomi solo qualche sprazzo di luce o momento sbiadito: l’unica cosa che rimaneva era l’emozione, forse la parte più difficile di tutto. Mi sentivo in una bolla in cui ogni rumore esterno veniva attutito dal dolore che provavo dentro.

    Non mi ero mai sentita sola come allora.

    Abbandonata.

    Repressa.

    Falsa.

    All’inizio la mia unica compagna in quelle giornate vuote era stata la rabbia, un tipo di ira che mi faceva sentire come una bomba sul punto di scoppiare, ma che reprimevo per non peggiorare la condizione attuale. La rabbia si era zittita di fronte alla delusione e all’impotenza, anche queste ammutolite nel giro di qualche settimana da una sensazione che possedeva una brutalità disarmante: il vuoto. L’incapacità di formulare a parole i sentimenti.

    La cosa peggiore non è la rabbia. Non è neanche l’odio. Non è la tristezza, non è il rancore, non è la disillusione. Il peggio è il silenzio che nasce dentro quando non riesci più a trovare le parole per esprimere cosa provi. Un vuoto che invade tutto, che non emette un fischio o un suono, che non grida e non piange. Quando percepisci quel senso di desolazione, capisci di essere così sommerso dal dolore che l’unica cosa che ti riesce bene è lasciarlo agire e non protestare. Impari a conviverci. Lo lasci esistere. Tutto il mondo – con le sue voci, i suoi schiamazzi, le sue risate e i suoi pianti – diventa un ronzio a cui ci fai semplicemente l’abitudine, ma è incapace di scalfirti.

    In quel vuoto, respiravo perfettamente.

    Sapevo che sarebbe arrivato il momento in cui mi avrebbe soffocato del tutto. Mi avrebbe ucciso, me lo sentivo, anche se credevo già di essere più morta che viva.

    Semplicemente continuavo a fare quello che dovevo fare: insegnare. Dare il mio supporto incondizionatamente, nonostante le porte sbattute in faccia e i rifiuti. Fingere continuamente che tutto andasse bene, che fossi indistruttibile anch’io. Falsificare le mie mille emozioni diverse per un bene superiore, per non essere egoista e non trasformarmi in un mostro incapace di provare comprensione e pazienza. Per proteggere i figli di Michael – in primis – e per evitare a lui di stare peggio di quanto già non stesse.

    Anche Michael fingeva.

    Fingeva ogni qualvolta uscisse di casa, per andare in tribunale e sorridere ai fan che tifavano per lui al di fuori di mura costruite su tensione e agonia. Fingeva per fare un dispetto ai media, perché non voleva che lo vedessero crollare pubblicamente.

    Ma pian piano, con il passare dei mesi, anche il suo sorriso scemò, e non poté fingere che la cosa non lo stesse privando di ogni forza vitale. Soltanto a casa – lontano dallo sguardo curioso e attento dei suoi figli – poteva essere se stesso.

    Gennaio passò veloce e la situazione tra noi sembrava tesa, ma non poi così male. Riuscivo ancora a farlo sorridere, a fargli desiderare la mia vicinanza, a farlo parlare e a distrarlo come potevo. Da quando ero tornata dall’Italia sembrava che ci fossimo riavvicinati definitivamente, più forti di prima, e così volli convincermi che fosse.

    Febbraio scorse più lento – nonostante i giorni fossero meno – e pian piano ritornammo a prendere le distanze. L’aria diventava più pesante. Michael cominciava a parlare sempre meno, a evitare di mangiare, ma cercava di buttare tutto sul divertimento e sul comico anche nelle occasioni fuori luogo. Nei suoi occhi scintillava la tristezza.

    Marzo sembrò non passare più. La sua voce scomparve del tutto – perlomeno con me. Tornò ad evitarmi e a non volermi più accanto, negando silenziosamente le mie richieste di passare un po’ di tempo assieme, anche solo per guardare un film in silenzio e abbracciati. Pensavo che – anche non parlando – gli avrebbe fatto piacere, ma mi sbagliavo. Quando lo incrociavo per i corridoi a volte manco si accorgeva della mia presenza. Passava quasi tutto il suo tempo con Prince, Paris e Blanket, guardandoli giocare in silenzio – a volte con lo sguardo perso nel vuoto, a volte con le lacrime agli occhi – con la scusa che papà non stava molto bene e preferiva guardarli divertirsi. Non mi rivolgeva la parola se non quando era estremamente necessario, ossia quando riguardava l’istruzione dei suoi figli. Non mi voleva più toccare. Mi disse che preferiva rimanere un po’ di tempo distante da me perché non voleva farmi del male, perché “ora come ora non sarei di buona compagnia per nessuno”.

    Il punto è che niente sarebbe tornato come prima.

    Le cose erano destinate a cambiare.

    *

    C’era oscurità. Un buio che rendeva fredda e sinistra la mia camera da letto e il mondo al di fuori. La fioca luce delle due lampade a comodino sbatteva sulle finestre impedendomi di guardare quello che era un magnifico cielo senza stelle. Il profumo che quella sera avevo deciso di indossare pervadeva l’intera stanza con un elegante ma delicato alone di mughetto e limone.

    Paris era così fiera quel giorno, assolutamente splendente per quel suo settimo compleanno. Come per i suoi fratelli prima di lei aveva avuto una festa bellissima, anche se molto intima e privata. Due famiglie di conoscenza di Michael erano venute a trovarli a Beverly Hills con i loro figli e Paris appariva così felice all’idea di essere circondata da bimbi più o meno della sua età. Tutto era stato perfetto per la piccola principessa di famiglia.

    Ciò nonostante, avevo preferito nascondermi ed evitare il contatto umano per tutto il giorno. Non volevo che la gente mi facesse domande su chi fossi, non volevo giocare, non volevo sorridere come se tutto fosse pacifico e tranquillo; non volevo fingere e rovinare la festa a nessuno, tantomeno a Paris. Il mio regalo e i miei auguri glieli avevo già fatti la mattina presto, prima che arrivassero gli invitati, e mi aveva abbracciata così stretta da arrivare quasi a stritolarmi.

    Ma in quel momento perfino le luci di un’animata e lontana Los Angeles di inizio aprile parevano non regalarmi alcun tipo di calore.

    Pensare a come la vita degli altri continuasse anche se la mia stava andando a rotoli mi lasciava indifferente; immaginare che non ero l’unica al mondo che si sentisse così non mi donava alcun conforto. Momenti di puro egoismo, insomma.

    Ritornai a contemplare le mie mani adagiate delicatamente sulle cosce. Con la coda dell’occhio lo sguardo cadde sulla mezzaluna scintillante che tenevo al collo. Per un attimo desiderai togliermi quella collana di dosso e nasconderla in qualche posto che poi, a distanza di mesi, non mi sarei più ricordata.

    Cancellai l’immagine di Michael da dinanzi agli occhi con uno urlo inudibile.

    In compenso non avevo indossato il suo ultimo regalo di compleanno per me: un bracciale sottilissimo formato da tanti minuscoli diamanti. Non sentivo il desiderio di farlo.

    Mi lasciai cadere sul materasso e rimasi a pancia in su a fissare il soffitto.

    Era da tanto che non suonavo il pianoforte. Era da tanto che non scrivevo... era da tanto che semplicemente non ascoltavo musica e mi lasciavo trasportare dalle emozioni – una qualsiasi; la maggior parte delle volte mi sentivo svuotata.

    Per un attimo mi sforzai di analizzare i miei sentimenti e dar loro un nome.

    Niente.

    Vedere le persone che ami soffrire come dannati è forse anche peggio di patire l’inferno da solo. Io stavo bruciando all’inferno e contemporaneamente pregavo per colui che amavo. La sua sofferenza viaggiava in me come tante onde radioattive attraversandomi tutto il corpo. Mi si avvinghiava addosso e io non volevo, in parte, separarmi dalla sola cosa che pareva tenerci vicini: la lealtà.

    Nella mia impotenza, nel mio sentirmi assolutamente inetta per lui, sapevo che non potevo far altro che sperare; a volte il dolore era così insopportabile che lo trasformavo in una rabbia sconsiderata, in odio e in rancore. Stargli vicino era la sola cosa che dovevo e potevo fare, anche quando Michael non mi voleva tra i piedi e preferiva tenermi alla larga. Aveva bisogno di una donna forte, che lo tenesse saldamente per mano, non una che assorbisse la sua sofferenza e crollasse con lui; io facevo di tutto per esserlo e non tentennare mai.

    Era stato facile pensare che l’amore potesse salvarci, ma difficile renderlo possibile se entrambi ci rifugiavamo ognuno dietro le proprie barricate e le proprie afflizioni. L’amore univa, non separava.

    Sbagliavo quando pretendevo che si fidasse e si aprisse con me, per quello cercavo di fare il minimo necessario: avevo capito che non voleva essere pressato, perciò non tiravo più fuori l’argomento “processo” o “accuse”. L’unica cosa che potessi fare era esserci sempre e comunque, nonostante mi trattasse con indifferenza. Nonostante fosse chiaro come l’acqua che non desiderasse il mio amore.

    Michael sbagliava nel trattarmi così, pensando che fossi una fonte di amore infinito che non aveva mai bisogno di ricevere nulla in cambio; sbagliava nel pensare che io non sentissi o comprendessi il suo dolore e il suo atteggiamento al dolore perché – alla fine dei conti – per l’amore che sentivo per lui avrei sacrificato me stessa in ogni caso. Una persona normale avrebbe avuto bisogno di un time-out, mentre io non me lo concedevo mai. Pensavo fosse la cosa migliore da fare affinché potesse capire che non era solo e abbandonato a se stesso.

    Bussarono alla porta e il mio viso si diresse in automatico verso di essa. I muscoli facciali si contrassero.

    Non proferii alcun “Avanti” o “Entra pure”, perché sapevo che sarebbe entrato anche se non glielo avessi detto esplicitamente... e così fece.

    La maniglia si abbassò con un rumore metallico e le palpebre si serrarono per un istante, nel momento stesso in cui un bruciore incredibilmente doloroso mi arse il petto.

    Apparve da oltre la soglia vestito con pantaloni di velluto nero e una camicia blu, segno che probabilmente non si era cambiato dalla fine della festa fino al momento in cui aveva messo a dormire i suoi figli. Era da quel pomeriggio che non uscivo dalla mia stanza, non potevo saperlo. Il viso fu l’ultimo dettaglio che volli guardargli, perciò evitai. Mi alzai a sedere con un sospiro affaticato.

    Mi bagnai le labbra udendo i suoi passi avanzare nella semioscurità di quella camera da letto.

    Nessuno dei due osò enunciare parola per un bel po’ di tempo. Si arrestò a venti centimetri di distanza dalla mia persona e tuttavia fu come se entrambi non ci fossimo.

    Poco dopo emise un sospiro pesante.

    «Perdonami...».

    Per cosa?

    Lo osservai nell’attimo in cui fui capace di elaborare la sua risposta e la mia conseguente reazione. Fui imperscrutabile e Michael pure, nonostante il suo sussurro a fil di voce doveva essere più sincero di quanto i suoi occhi lasciassero trasparire. Volli rispondere, ma non ci riuscii...

    Silenzio.

    Si massaggiò nervosamente le mani.

    «Hai fame?», domandò piano. «Non è troppo tardi...»

    Sono le 22.00 passate. Non ho più fame da ore, in realtà.

    «No, grazie», scossi il capo con un accenno di sorriso forzato. Tenni gli occhi bassi sulle sue scarpe. «Com’è andata la festa? Dalle voci che ho udito fino a qui sembra che Paris si sia divertita un sacco», sorrisi maggiormente e con una nota di affetto nella voce.

    Non rispose. Strinse la bocca con espressione arresa. Piegò impercettibilmente la testa verso destra. Le sue iridi furono lo specchio di uno sconforto disilluso e arrabbiato, due pozze di liquido scuro e indefinito.

    Feci per seguire il punto che stava ammirando, ma mi fu davanti nel giro di mezzo secondo.

    Il cuore smise di battere vedendo la scatolina che teneva in mano, immaginando cosa potesse essere. Mi paralizzai e percepii una sensazione di pentimento e vergogna divampare nell’animo, nelle viscere e negli occhi.

    Ero ancora seduta sul bordo del letto quando si mise in ginocchio di fronte a me, fissandomi inquieto e nervoso come un bambino a cui sta andando incontro a una punizione, piuttosto che a un lieto evento. Ricambiai l’occhiata con una scintilla di paura nelle iridi.

    Inspirai a fondo. «Non dovevi farmi un regalo… non è il mio compleanno…»

    Cercai di sdrammatizzare inutilmente, poiché la voce che mi uscì dalla gola fu tutt’altro che lo specchio del divertimento e dell’ironia. Cercò le dita della mia mano sinistra, quella che tenevo sul materasso, e i brividi mi solleticarono insistentemente le gambe.

    «Dobbiamo parlare...»

    Strinsi i denti. Feci un altro respiro profondo.

    Posizionò la mia mano con il palmo verso l’alto e vi poggiò sopra la minuscola scatolina in velluto nero. Rinchiuse le mie dita su di essa e me la strinsi con entrambi i suoi arti. Ebbi un leggero soffio al cuore, un attimo di commozione che mi lucidò le iridi verde chiaro, e quando lo guardai negli occhi anche i suoi sembravano improvvisamente carichi di affetto.

    Così, inaspettatamente, dopo mesi passati a non amarci più.

    «Se tutta questa storia finisse bene», mormorò a voce roca, «vorrei che tu seguissi me e i miei bambini ovunque». Michael prese una pausa e un respiro tremante. Il mio petto si alzava e si abbassava velocemente, rumorosamente, così tanto che pensavo si potesse percepire anche dall’esterno. «Vorrei che continuassi a essere l’insegnante dei miei bambini, ma soprattutto che diventassi la donna della mia vita. Non mi sono mai proposto a qualcuna a meno che non fossi veramente sicuro che fosse la persona che desiderassi amare per il resto della mia esistenza. Tu sei…».

    Boccheggiò un attimo, incapace di trovare le parole giuste. Abbassai gli occhi sulle sue mani che tremavano attorno alle mie. Sentii una fitta al cuore e non riuscii a comprendere se fosse per un’emozione piacevole o tutto il contrario. Qualcosa non andava, sentivo che non riuscivo a essere davvero felice.

    «Sei una delle persone più squisite e dolci che abbia mai incontrato», si bagnò le labbra senza smettere di cercare i miei occhi. «Sei intelligente, sei profonda, sei matura, sei comprensiva…»

    Eppure non mi vuoi…

    Chiusi le palpebre non appena lo sentii strizzarmi la mano. Lasciò andare la presa e io con lui, dopodiché prese la scatolina e la aprì con un leggere “clock”. Quando riaprii gli occhi, la sorpresa e l’inquietudine mi attraversarono in pieno petto: era un anello magnifico, in oro bianco e con un diamante di non so quanti carati in risalto.

    Una volta mi aveva detto che regalava gioielli e diamanti soltanto alle donne di cui era veramente innamorato… figurarsi un anello di fidanzamento.

    «Ti prego, se tutto questo finisse bene, diventa mia moglie».

    Mirai ai suoi occhi scurissimi e vi colsi una silenziosa preghiera.

    In quel momento, a istinto, la mia risposta fu “No”.

    Quando dico che lo amavo non mentivo. Avrei voluto passare il resto di quella e molte altre vite con Michael, di questo ne ero certa. Non cercavo di stargli accanto e amarlo solamente per pietà, perché stava male o per misericordia, ma perché era la persona più speciale che avessi mai conosciuto – non solo la più complessa e difficile da gestire; nel bene e nel male riconoscevo in lui la meraviglia, il divino, l’uomo più perfetto nelle sue imperfezioni tipicamente umane. Michael era l’uomo che volevo davvero, quello con cui – per la prima volta nella vita – riuscivo a visualizzarmi in un futuro lontano. Michael era tutto quello che volevo; mi aveva fatto provare cose mai provate, come la libertà di essere chi fossi senza paura e l’esperienza di vivere una relazione in cui mi sentissi veramente in pace. Stare con lui annullava ogni cosa brutta nel mondo e mi riempiva di amore e serenità.

    Ma sapevo che quella non era una scelta che gli veniva dal cuore. Guardandolo negli occhi avevo capito cos’era quel qualcosa che non funzionava affatto: la paura.

    Michael aveva paura per il futuro.

    Come dargli torto.

    Michael aveva paura di finire in prigione, di perdere ogni speranza che lo mantenesse in vita e, per questo, aveva anche paura di non avere più persone amate al suo fianco. Sapeva bene cosa provassi e quanto stessi male dentro, quanto il suo isolamento nei miei confronti e i suoi continui rifiuti mi allontanassero dall’amore che mi spingeva a non voltargli mai le spalle.

    Perciò non volevo dirgli di sì, perché quello avrebbe significato che fossi una sciocca. Se avessi accettato di sposarlo sarei stata una certezza assoluta più che il vero amore; con me al suo fianco per sempre si sarebbe sentito consolato e appoggiato, ma non felice per davvero. Non in quel momento, non con quel processo che gli offuscava i sensi e la ragione. Se volevo essere chiesta in moglie, volevo che lo sentisse per affetto, non per paura di un mio probabile addio o allontanamento definitivo. Volevo che le sue parole andassero d’accordo con i suoi gesti, che da lì a diversi mesi precedenti erano tutto l’opposto. Credevo che la sua non fosse una proposta dettata dal cuore, ma dall’egoismo.

    Mordendomi l’interno della bocca inghiottii le lacrime.

    Sfiorai il tessuto che rivestiva la scatola con polpastrelli tremanti. Sorrisi con un misto di amarezza e dolcezza, senza rivolgergli lo sguardo, per poi prendere un gran respiro che – invece che ossigeno – sembrava acqua nei polmoni.

    «Io non so che dire…», mentii.

    «Indossalo...» m’intimò mormorando.

    Lo fissai ed egli ricambiò con un sorriso speranzoso. Non aveva neanche aspettato la mia risposta, pensando che gli avrei detto “Sì” senza alcun dubbio. Anche se quel gesto mi fece rimanere male, non ebbi la forza di aprir bocca e dargli un’ulteriore delusione.

    Sii forte, ignora cosa dice la tua mente, sicuramente stai fraintendendo il suo comportamento. Se ti ha proposto una cosa del genere vuol dire che ti ama davvero, no? Sii fiduciosa ancora una volta, non ritirarti nel tuo guscio. Dagli un’altra occasione per dimostrarti che ciò che stai donando e facendo è importante anche per lui.

    Presi l’anello fra le dita. Lo girai e lo rigirai in angolazioni sempre diverse, fino a quando Michael non me lo sfilò delicatamente di mano per mettermelo al dito. Mi stava perfettamente.

    Sentii una fitta allo stomaco.

    «Che ti sembra?»

    Rimasi con la bocca aperta e il sorriso semi-spento, esaminando la mano con l’anello.

    Se solo potessi descrivervi cosa fosse il suo sguardo, lo farei... ma era qualcosa di straordinario... seppur fossero tristi e malinconici, così speranzosi e così attenti assieme, io per quegli occhi potevo morire davvero. Potevano scaraventarmi al suolo senza produrre un suono, permettere alle mie ginocchia di cedere senza sfiorarmi con un dito ed io non avrei mosso un muscolo per rialzarmi. Non ne avrei avuta la forza. Mi attraversavano da parte a parte. Erano ciò che mandava in tilt anche la mia più inutile funzione vitale. Due occhi che non credevo possibile potessero esistere sul serio.

    Con quel luccichio nello sguardo mi sorrise mestamente.

    «Ti amo, Sarah».

    La vista si appannò.

    Perché lo fai?

    Il naso pizzicò per le lacrime, accorgendomi all’improvviso di quanto la sofferenza, come l’amore, privasse di tutte le parole che un cuore vorrebbe disperatamente urlare a gran voce. Al contempo mi accorsi che stavo sbagliando tutto, ogni cosa, ma non ero ancora pronta per incamminarmi verso una direzione differente alla sua.

    Lo abbracciai inaspettatamente.

    Gli gettai le braccia al collo ed egli rimase impalato, sconvolto, mentre io gli accarezzavo i capelli con le dita di una mano respirando il suo profumo ad occhi chiusi. Le sue mani si posarono sulla mia schiena e mi fecero rabbrividire.

    Vorrei soltanto capire...

    Inspirai forte.

    Se questo è stato ed è ancora amore...

    Mi morsi il labbro e mi strinsi ancora più forte al suo corpo per non farmi vedere sul punto di piangere.

    Ti basterebbe così poco per farmi cambiare idea...

    «Vuoi rimanere qui stanotte?»

    Lo chiesi con il cuore, nella speranza che avrebbe accettato l’ennesima proposta di passare del tempo insieme. Non volevo fare necessariamente sesso, tutt’altro; mi bastava stare al suo fianco e sentire il suo calore come non lo sentivo da settimane, mesi. Tutta quella assenza di amore ricambiato – per quanto odiassi ammetterlo – mi faceva star male. In quei momenti mi pensavo egoista ed egocentrica oltre ogni limite, ma la realtà è che ogni cuore ha bisogno di sapere che quello che si dona alla persona amata può essere accettato, apprezzato e ricambiato.

    Quando si separò dal mio corpo, il suo sguardo ammirava l’anello infilato nel mio anulare sinistro.

    «Penso che sia meglio che tu rifletta sulla proposta».

    Aveva capito?

    Lo scrutai con un velo di inquietudine e dubbio. Sorrideva, ma era un sorriso senza emozione; i suoi occhi erano vuoti come lo erano stati negli scorsi mesi, ad eccezione di quando stava con i suoi tre bambini.

    Si alzò in piedi e si diresse velocemente verso la porta della mia stanza.

    «Non avere fretta, pensaci un po’ su», abbassò la maniglia dandomi le spalle. «E quando sarai pronta, io sarò lì ad attendere la risposta».

    Trattenni il fiato. Il suo pacato sussurro mi colpì come un fulmine a ciel sereno.

    Aveva capito tutto.

    Come può una persona intrappolata nella propria angoscia guarire un altro essere umano altrettanto fragile e bisognoso di cure? Come si può pretendere che questa ami di rimando, pur essendo incapace di trovare la forza – o la volontà – di farlo? Niente aspettative, niente seconde opportunità, niente mani tese ad aiutare, niente abbracci affettuosi o baci risananti… non se si rimane bloccati all’inferno. Ma a volte per tornare in piedi si ha bisogno di aiuto... sta a quel qualcuno decidere se accettare o rifiutare, morire o vivere, tenere duro o mollare.

    Quando chiuse la porta dietro di sé, senza salutarmi, mi sentii come se le pareti di quella casa fossero diventate una vera e propria prigione.

    Di riflesso portai le dita dietro il collo.

    Da quel giorno smisi di indossare la collana con la mezza Luna.

    *

    «Stare così non migliorerà le cose...».

    Ma Michael non ascoltava.

    Lui non ascoltava più niente di quello che gli diceva la gente, tanto meno quello che dicevo io.

    Mi faceva una tale rabbia. Una rabbia incredibile.

    Alzai le braccia al cielo e per un attimo le labbra mi tremarono, soprattutto quando riuscii ad emettere un respiro tanto angosciato quanto rauco. «Smettila di stare qui a… a morire perché pensi e credi di non essere abbastanza forte per farcela! Anche se sei debole, sai benissimo di non essere da solo e abbandonato; il processo sta volgendo a tuo favore, non hanno prove per inchiodarti, lo sappiamo entrambi… eppure ti isoli perché in fondo è quello che vuoi: morire!»

    Perfino i bambini non erano così sciocchi da non capire che c’era qualcosa che non andava nel loro papà.

    Tutti lo capivano.

    Lui non ascoltava... non reagiva... si abbandonava alla disperazione. Scompariva per ore. Delirava per ore. Affondava nelle sue lacrime invisibile per ore. Per giorni. Per mesi.

    Perché lui?

    E più gli parlavo – qualsiasi argomento fosse – più Michael si infastidiva.

    Se ne stava accoccolato nel divano quando Prince, Paris e Blanket uscivano con Grace; si chiudeva in camera a chiave, rannicchiandosi su se stesso in un angolo del letto vuoto, circondato da gelide tenebre. Aveva cacciato tutti gli addetti alle pulizie o alla cucina, dando a tutti settimane di ferie prima del licenziamento vero e proprio. Usciva dal suo stato di perenne stanchezza e distaccato isolamento solo quando era obbligato a farlo, di solito la mattina per andare in udienza, o per mentire ai suoi piccoli dicendo di essere soltanto ammalato, volendo dedicarsi semplicemente a loro. Mi voleva con lui soltanto durante la notte, quando aveva bisogno di qualcuno a tenergli la mano fino a quando non si sarebbe addormentato.

    Era così freddo che mi spaventava, tanto da destarmi dal mio sonno leggero e domandarmi se stesse ancora respirando.

    Giorno dopo giorno si spegneva sempre di più. Era un tenue sfolgorio di luce, come il lume di una candela che sciogliendosi lentamente, prima o poi, non avrebbe più illuminato il buio che aveva attorno.

    Era quasi fine maggio.

    Michael, tenacemente, continuava a respingere ogni contatto con altri.

    Il fiato tremò uscendo dalla bocca e il grande mattone sullo stomaco mi rese più pesante di quanto già non fossi.

    Avanzai a grandi passi verso il divano in cui era seduto, verso la sua figura che mi dava sfrontatamente le spalle, e mi posi al suo fianco. In piedi, rigida e tremante d’ira, lo guardai con il sangue caldo nelle tempie.

    «Mi stai ascoltando...?!», alzai la voce.

    Credevo che fare la dura qualche volta potesse scuoterlo.

    Non fece una piega.

    I suoi occhi erano fissi sulla Tv a pochi metri di distanza, la quale ronzava fastidiosamente e a vuoto; lo schermo era macchiato di immagini a colori e confuse. Non detti molta retta a cosa stesse guardando ed ero sicura che per Michael fosse lo stesso.

    Le sue sopracciglia leggermente inarcate non scesero di un millimetro. Neanche i lineamenti facciali parvero aver intenzione di manifestare un qualsiasi accenno d’attenzione.

    Era terribile. Era terribile vivere così.

    Più per lui che per me, ma non potevo negare quanto mi sentissi fragile anch'io.

    «Dio, Michael, rispondimi!» Un moto di rabbia irreprimibile mi attraversò come adrenalina nel sangue. Spalancai le ciglia ed espirai percependo un brivido lungo la schiena. «Io sono qui per te da mesi, sono qui perché ti amo veramente! Non lasciarmi fuori dalla tua vita!», gesticolai.

    Egli inspirò alzando ed abbassando le spalle vigorosamente. Le mani afferrarono le ginocchia frattanto che le labbra formavano una linea sottile e diritta. Non credevo di riconoscerlo più. Sembrava tutt’un’altra persona.

    «Voglio essere... lasciato in pace... ok?», sibilò in tono roco e macabro, calando le palpebre e sollevando le sopracciglia contemporaneamente. «Non mi sembra difficile da capire...»

    Mi scoccò un'occhiata fulminante.

    All’improvviso mi mancarono le parole.

    Fu una questione di pochi secondi – o minuti – prima che la collera mi avvolgesse come lava incandescente. Mi tremavano le mani. Le mie iridi iniettate di disprezzo – mascherato da un verde chiarissimo – lo osservarono come se lo volessero stritolare.

    «Vuoi rimanere qui in un angolino, con te stesso, infliggendoti colpe su colpe e crogiolandoti nel tuo dolore...?» chiesi velenosamente, inarcando un sopracciglio. «Preferisci rimanere così, sapendo che c’è qualcuno disposto ad amarti…?», la mia voce si ruppe.

    Lo vidi inspirare col naso digrignando i denti.

    Alzai le braccia al cielo, esasperata e arrabbiata. «D’accordo, cazzi tuoi!»

    «Sì, sono cazzi miei!», Michael urlò con gli occhi fuori dalle orbite e si alzò in piedi con violenza.

    Sebbene quel suo atto non avesse fatto il minimo caos e nessun oggetto si fosse rotto, nella mia testa fu come se avesse buttato a terra tutto ciò che era presente in salotto. Vasi, tavoli, televisore, divani. Porcellane ridotte a pezzi sparse per tutto il pavimento, tende squarciate, finestre distrutte.

    Indietreggiai di due passi.

    «Sono cazzi miei! Lo sono adesso e sempre lo saranno! Tu non ti impicciare, lasciami in pace e vattene!», gesticolava a vuoto, con iridi nerissime accecate da una rabbia che non gli avevo mai visto addosso. Vacillava sul posto, postando il peso da una gamba all’altra. Mi puntò il dito. «Non sei nessuno per venire qua, nessuno, e dirmi come devo comportarmi, assillandomi con le tue stronzate

    Le lacrime furono in procinto di sgorgare fuori dai miei occhi e scossi la testa incredula, spalancando anche la bocca. «Sto solo cercando di aiutarti, idiota che non sei altro!» sbraitai calpestando per terra, alzando la voce di due ottave più alte.

    «Che ne sai, uh?!», gridò. Il suo viso sfigurato e i suoi occhi accecati di rabbia mi fecero paura. «Che ne sai?!»

    Lo studiai sconvolta.

    Mi ci volle un po’ per realizzare il significato di quello che aveva detto. Quando lo feci, strinsi le labbra e storsi il naso in un cipiglio quasi schifato. Due lacrime scesero lungo le mie guance e la forza che avevo per urlargli contro morì improvvisamente; ma non cedetti, continuai a osservarlo con il petto che si gonfiava e si sgonfiava per la rabbia e la tristezza.

    Stette zitto, poi sbuffò. Mi diede le spalle passandosi le mani sul volto.

    Si voltò nuovamente in mia direzione, con una mano sospesa in aria – prima aperta e poi chiusa a pugno – e credetti di vederlo mordersi un labbro. Guardò in basso non riuscendo a reggere il mio pianto imminente.

    «Tu... tu non devi fare niente. Stammi lontano, ok? Stammi il più lontano possibile...» sibilò crudele. Il cuore mio venne stritolato dalle sue parole. «Non ho bisogno di aiuto, io non voglio che la gente si sacrifichi per me! Sono solo e morirò solo».

    Michael si sedette una seconda volta. Poggiò i gomiti sulle ginocchia, portò le mani fra i capelli, serrò le palpebre e infine le riaprì rassegnato, dondolando avanti e indietro.

    Indietreggiai ancora.

    A distanza potevo scorgerlo rabbrividire terribilmente.

    Sembrò arrabbiarsi di nuovo, stavolta più di prima.

    «Voglio stare da solo, in pace, senza i tuoi rimproveri e… i tuoi sguardi... il tuo affetto e appoggio incondizionato…», sibilò con una sorta di velato disgusto, «che non fanno altro che farmi sentire peggio, che mi condannano! Tu, più di altri, mi fai sentire più solo che mai!».

    Crack, il mio cuore che si crepava e si riduceva immediatamente in polvere.

    Crack, le mie fragili sicurezze e aspettative che cadevano a pezzi.

    Poi un tonfo. La mia vita che, scivolando dalle mani, si era disintegrata a terra con uno scoppio assordante. Uno di quelli che rimbomba nel cuore e nella testa e colpisce così forte da farti credere di essere morto… e in realtà sei più vivo che mai.

    E poi il silenzio.

    Un vuoto indicibile.

    Indietreggiai ancora di un passo.

    Non riuscivo più a sentire.

    Non avevo voce, non avevo fiato, non avevo la testa per pensare.

    Michael non si muoveva. Non era lì.

    Rimanemmo ognuno nella propria posizione. Non ricordo quanto tempo passammo così, ma sono sicura che prima di avere il coraggio di fare un altro passo, dire una parola o semplicemente muovere un muscolo passarono parecchi minuti. In tutto quel tempo cercai di abituarmi a quella bomba a mano che Michael aveva lanciato e fatto esplodere senza pensare alle conseguenze delle sue azioni.

    All’improvviso parlai.

    «Io ho finito qui...».

    Non mi accorsi di avergli dato la schiena e di essermi diretta verso l’uscita della sala. Salii le scale. Mi incamminai verso la mia stanza. Vi entrai e rimasi lì, in piedi e immobile, a guardare il letto ancora stropicciato e le finestre aperte su quel pomeriggio di inizio estate, mentre le tende danzavano delicatamente con il vento.

    Ogni gesto che compivo, ogni mossa, ogni pensiero era oscurato. Non vedevo niente.

    Non asciugai nessuna lacrima.

    Non urlai.

    Non mi arrabbiai.

    Non potevo permettermi di essere debole.

    In un certo senso ero sempre stata abituata a essere così. Dovevo essere come mia madre mi aveva insegnato di essere: dignitosa, forte, una roccia, la spalla su cui piangere, una salvezza incontrollabile, una forza della natura. Spalle alte e schiena dritta, sguardo dritto davanti a me. “Per quanto il mondo possa essere contro di te, tu continua ad andare avanti e non farti schiacciare da niente, tantomeno da te stessa”.

    Sarah non poteva permettersi di essere insicura, di lasciarsi andare ad un momento di vulnerabilità, perché non sarebbe più riuscita ad alzarsi. Sarah non poteva affondare quando doveva tenere le persone a galla. Sarah non era mai stata quel tipo di persona che lasciava intravedere la sua fragilità, che si poteva permettere di vivere la sua vulnerabilità, non se doveva reggere il mondo con le sue sole mani; Sarah era quel faro a cui si poteva chiedere sempre aiuto e sostegno, senza dover donare a propria volta.

    Io non dovevo e non potevo crollare a pezzi.

    Dopo la mia partenza in Italia fino a prima che incontrassi Michael, andavo avanti senza cedere di un passo. Certo, avevo avuto dei momenti di crisi, perché non ero una macchina; ero stata male, avevo avuto dei tentennamenti e ricevuto forti scossoni che avevano messo a dura prova la mia resistenza, ma mai una vera e propria caduta. Niente poteva farmi perdere la retta via definitivamente, per quanto mi sentissi temporaneamente insicura e sperduta. Così facendo lasciavo che le piccole cose della vita mi passassero a fianco, quasi silenziosamente, ignorate dalla sottoscritta che indomita continuava a fare quello che le veniva meglio: guadagnarsi un posto nel mondo con coraggio.

    Prima di Michael non mi ero mai permessa di essere veramente fragile. Ero arrivata negli Stati Uniti da sola e da sola avevo lottato, sputato sangue, sudato camicie su camicie, supportandomi e incoraggiandomi affinché potessi dimostrare a me stessa e alla mia famiglia che potessi farcela. Avevo studiato tutto il giorno e tutti i giorni, mi ero fatta il culo per guadagnare quello che credevo di meritarmi; ero stata insultata per le mie capacità e per l’invidia della gente; ero stata tradita dal mio primo amore, ero stata abbandonata dal secondo, perché non avevo fortuna nelle relazioni amorose. Ero un essere indipendente, una tigre che apparentemente non abbassava mai lo sguardo di fronte a niente e a nessuno, ma in tutto questo era sempre stata sola. Anche se in ginocchio, anche se con le lacrime agli occhi, anche se stremata, Sarah non crollava mai del tutto.

    Prima di Michael avevo lavorato continuamente, senza sosta, senza lasciarmi andare ad un momento di vero e proprio sconforto e abbattimento. Continuavo a camminare, a faticare, come la vita fosse una ripida e infinita salita e mai un terreno dritto e sicuro, per ottenere la soddisfazione di una vita e una carriera che mi rendesse fiera della persona che ero e sarei diventata. Come se riuscire a farcela senza cadere mai a pezzi fosse una cosa da persone veramente coraggiose, resistenti a tutto e a tutti, incapace di essere vittima di qualcosa più grande di lei: il senso di impotenza e la mancanza di controllo.

    Prima di Michael avevo vissuto una vita in cui precipitare nel vuoto senza fine non era all’ordine del giorno, perché il mondo non si fermava se io rimanevo immobile a far niente, a compatirmi o a deprimermi. Le mie mani e le mie gambe si erano impantanate in sabbie mobili di sfiducia e solitudine, ma quest’ultime non erano mai state abbastanza forti da distruggermi.

    Prima di Michael non avevo mai permesso a nessuno di scoprirmi facilmente. Non mi ero mai mostrata apertamente vulnerabile con nessuno se non con lui. Non piangevo davanti a qualcuno; anche se mi guardavo indietro e vedevo solo una ricchezza apparente, stare da sola mi permetteva di avere il controllo su quasi ogni cosa. Non stramazzavo al suono, non mi spezzavo del tutto; non osavo aprire il mio cuore per paura di perdere le redini della mia vita, non osavo mostrare le mie paure e le mie ferite; soffocavo inutilmente le mie paranoie nonostante fossero lì, davanti ai miei occhi, pronte a disintegrarmi anche solo avessi aperto bocca.

    Prima di Michael avevo sperimentato un vuoto diverso da quello che di colpo sentivo dentro; prima di Michael avevo provato un tipo di solitudine che mi aveva fatto capire di non aver mai avuto un rapporto vero e proprio con qualcuno prima d’allora; mai una sintonia reciproca, intima e profonda con un uomo; mai un amore divino e assoluto, uno di quelli che ti fa capire di aver trovato la tua persona; mai una relazione che ti facesse capire che tutta la fatica fatta potesse essere stata, in qualche modo, utile per arrivare fino a lì, in quel punto della tua vita dove ogni cosa trova un senso.

    Prima di Michael nessuno mi aveva tenuto il viso fra le mani e aveva capito chi fossi pur non avendo emesso una parola; nessuno mi aveva sorriso in quel modo, nessuno mi aveva amato in quel modo, interessandosi a me fino a quel punto, preoccupandosi del peso che reggevo sulle mie spalle da anni – il peso del mio stesso corpo e di tutti i problemi derivanti dal mio tentare di essere imperturbabile. Come poteva non accorgersene lui, che di pesi e sofferenza ne sapeva molto più di me? Come poteva non vedermi per quello che ero, lui, così intuitivo ed empatico? Così intelligente e così umano?

    Michael mi aveva permesso di essere me stessa. Era stato la boccata d’aria fresca che aspettavo da non so quanto. Essere libera di sentire qualcosa che non fosse soltanto la mia ambizione e il vuoto nel petto… quello era stato il più grande traguardo mai raggiunto fino ad allora. Mi aveva aiutato ad abbassare la guardia, mi aveva insegnato a piangere di nuovo, mi aveva insegnato a vivere un sentimento che fosse veramente qualcosa, non solo l’idea di qualcosa1. Mi ero sentita più viva e più donna con Michael che con tutte le altre persone che avevo incontrato prima di lui; ero stata coinvolta in un amore più grande di me e delle mie previsioni, uno di quelli che ti avvolge e ti rassicura… ma che, nel caso peggiore, tira fuori tutti i tuoi scheletri nell’armadio – quelli che pensavi di aver gettato via per sempre. Quell’amore amplificava la mia vulnerabilità repressa, ogni ombra e paura che conoscevo bene ma non ero stata in grado di affrontare, ed era la scure calata sul mio collo mozzandomi il fiato per sempre, cambiandomi per sempre.

    Non avrei mai pensato che facesse così male.

    Crollare a pezzi, intendo.

    Un anno prima non avrei mai creduto possibile che, per tanto amore ci potesse essere tra noi, sarei andata incontro ad una così grande desolazione.

    No, in realtà sapevo benissimo come sarebbe finita, ma ero troppo innamorata per dare retta all’istinto.

    Sentivo di non voler essere più forte come un tempo. Desideravo lasciarmi andare e non rialzarmi più, perché il mio amore per Michael non era mai stato sufficiente. Non lo era stato per me e neanche per lui, e probabilmente per nessun’altra persona che avessi mai incontrato sul mio percorso.

    Non era mai stato un mio pregio, quello di amare. Non potevo salvare nessuno. Non ero un eroe invincibile, ma dovevo sempre fingere che stessi bene, anche quando volevo soltanto mollare.

    Quando la persona che ami non accetta la tua forza, il tuo appoggio e il tuo amore… che cosa devi fare? Quella persona ti ha liberato dalle catene che portavi al collo da un’esistenza intera e – per quanto dolorose fossero – sono state proprio quelle catene che ti hanno tenuto in vita per così tanto tempo. Se la persona che ti insegnato ad essere fragile non ti ha mai amato veramente, come puoi ritornare ad essere quello di un tempo?

    Non ero più così forte.

    Ero stanca.

    Stanca di lottare da sola, di cadere e di rialzarmi da sola; stanca di sentirmi felice e il momento dopo peggio di come stavo quando mi sentivo in trappola; stanca di dover reggere il peso altrui e fingere che niente mi facesse male, che niente mi scalfisse, quando in realtà avrei voluto soltanto sentirmi amata e apprezzata dall’uomo della mia vita almeno per un istante – e non allontanata.

    Di nuovo il mio ego era tornato alla carica e mi aveva riso in faccia, gridandomi “Pensavi che saresti durata tanto senza di me?”, ma stavolta non voleva aiutarmi a rialzarmi… voleva lasciarmi lì, a terra, perché anche il più nobile degli eroi può cadere.

    Perché tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo bisogno di essere salvati. Abbiamo bisogno di sentire che quello che facciamo ha un senso, che ha un valore per coloro che amiamo. Abbiamo bisogno di un segno, di una parola buona, di non essere respinti quando siamo pronti a dare anche l’ultimo briciolo di sanità mentale che ci rimane. Abbiamo bisogno di chiedere aiuto e di essere raccolti – e non solo di salvare gli altri – nel momento del bisogno. Abbiamo bisogno di cadere e di sostenerci a vicenda, affinché l’amore non sia soltanto un sentimento unilaterale; abbiamo bisogno di essere rassicurati come noi rassicuriamo coloro a cui vogliamo bene. Abbiamo bisogno di apprezzare chi ci ama nonostante stia soffrendo e cerchi comunque di farci sentire importanti, e di non allontanarci quando qualcuno è pronto a donarci il suo affetto nonostante sia debole e vulnerabile a sua volta. Abbiamo bisogno di sapere che quello che facciamo è importante per chi amiamo.

    Alzai lo sguardo verso il telefono cellulare appoggiato sul comodino destra che fiancheggiava il letto. A piccoli passi lo raggiunsi e digitai un numero che conoscevo ancora a memoria.

    Tutti abbiamo bisogno di essere salvati una volta nella vita.

    Anche la persona più forte di questo mondo.




    1 Frase ispirata a una poesia di Taylor Swift, Why she disappeared.


    Edited by fallagain - 23/4/2020, 21:48
     
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    «Non è giusto, Prince!», gli urlò dietro la sorella, posizionandosi al suo fianco con un broncio incredibile. «Sempre tu che sali su Thunder!»

    Thunder era uno dei cavallini inanimati del carosello di Neverland. Ogni tanto tornavamo al ranch per fare felici i bambini.

    Prince e Paris avevano dato un nome ad ognuno dei cavalli e, nelle loro fantasie, erano destrieri in carne ed ossa. Sognavano di essere due avventurieri coraggiosi e la maggior parte dei loro giochi di ruolo erano ambientati nel vecchio West. Salivano sui cavallini del carosello e si sfidavano a chi andasse più veloce dell’altro. Thunder era quello che nelle loro testoline a dir poco creative era il più indomabile e il più rapido tra tutti. Prince, veloce come una gazzella, cercava di fregare la sorella più piccola ogni qualvolta potesse.

    Le fece la linguaccia. «Sono arrivato prima io!»

    «Lo hai già preso la scorsa volta! Non è giusto!»

    «Sei lenta!»

    «No!»

    «Sì!»

    «Nooo!»

    «Sììì!».

    Prince fece una pomposa imitazione della sorella e riuscì a farmi sorridere. Grace, un po’ irritata da quel loro battibecco sempre più chiassoso e incontenibile, li raggiunse in un baleno e li sgridò. Sbattei le palpebre lentamente e guardai in basso, facendo scemare il sorriso nel giro di qualche secondo, fissando con sguardo vacuo i miei piedi e Blanket che mi stava in braccio, il quale canticchiava canzoncine e stritolava senza pietà il suo pupazzo di Monsters & Co. Gli altri due ripresero a giocare come se niente fosse sotto lo sguardo attento e severo di Grace.

    Sospirai pesantemente e il mio sguardo si fissò sui capelli lisci e neri di Blanket.

    In quei giorni sembravo continuamente ipnotizzata dal vuoto; forse lo ero anche da settimane, ma in quegli ultimi tempi me ne rendevo conto anche da sola. Quando pensavo troppo mi assentavo totalmente dal tempo e dallo spazio circostante.

    Avrei dovuto farlo. Sapevo che dovevo farlo. Il punto è che non ne avevo il coraggio, perché il solo pensiero mi uccideva. Non avrei avuto un’altra occasione: Prince e Paris erano lì, da soli, senza Michael tra i piedi. Avrei dovuto chiedere a Grace di allontanarsi quel poco che bastava per comunicare loro la notizia, ma non sapevo come…

    «Ti va di bere qualcosa?»

    Alzai lo sguardo e notai che Grace era a tre passi da me, sguardo serio e incomprensibile. Mi puntava con attenzione sostenuta, cercando di essere gentile ma non troppo. Cominciavo a pensare che non le piacessi affatto.

    Mi scossi con un veloce battito di palpebre. Blanket mi guardò con un sorrisone stampato in faccia.

    «Vorrei parlare con Prince e Paris di una cosa…».

    Mi tremò la voce. Mi bagnai le labbra e cercai di fare un respiro profondo per non lasciarmi andare alle lacrime prima del tempo. Accarezzai la morbida testolina di Blanket e gli diedi un delicato bacio sulla nuca. Non ebbi il coraggio di osservare il viso di Grace e l’espressione che doveva avere.

    «La scuola è finita e presto me ne andrò definitivamente. Vorrei poter esprimere loro il mio affetto e la mia gratitudine… ti dispiace se rimango qualche minuto da sola con loro?»

    Mi si bagnarono gli occhi così tanto che non riuscii a trattenere una lacrima. Questa scivolò giù per la mia guancia destra e con un veloce movimento di polso la asciugai. Espirai sul punto di emettere un gemito sofferente; strinsi forte le labbra e drizzai le spalle per impormi di non piangere.

    Il silenzio durò un minuto abbondante.

    «Certamente», Grace fece altri due passi in avanti e aspettò che mi alzassi per darle Blanket in braccio. Sempre senza guardarla in viso glielo porsi e con la coda dell’occhio la osservai evitare il contatto con il mio sguardo. «Torno fra poco».

    La ringraziai con un fil di voce ed ella mi diede immediatamente le spalle. Parlottò con allegria con il più piccolo dei Jackson, volatilizzandosi nel giro di mezzo minuto.

    Presi un altro gran bel respiro e mi sentii morire.

    Lanciai un’occhiata a Prince e Paris, che scatenati continuavano a lottare con le loro pistole invisibili e imitare il suono degli spari con le labbra. Quando scorsero che li fissavo, mi rivolsero due grandi sorrisi e io feci loro cenno con il capo di raggiungermi.

    Non erano affatto stupidi. Capirono dal mio cipiglio sofferente e malinconico che qualcosa non andava; subito anche il loro ghigno divertito scemò dai loro visini paffuti e scesero dai cavallini in movimento.

    Andai loro incontro e mi fermai in mezzo al nulla, di punto in bianco, incapace di muovermi ulteriormente. Mi vennero vicino sempre più inquieti e perplessi, a causa dei miei occhi lucidi.

    «Va tutto bene, zia?»

    Mi chinai sulle ginocchia, puntandole sul sentiero ciottolato ai miei piedi. Inspirai ed espirai ancora, stavolta incapace di trattenere le lacrime: non importava quanto cercassi di cancellarle con i dorsi e con i palmi delle mani, queste scivolavano dai miei occhi senza freni.

    Prince e Paris si congelarono sul posto. Non mi avevano mai visto piangere se non per qualche scena commovente dei film. Subito ricercarono le mie mani e mi chiesero perché stessi piangendo attraverso i loro flebili e tristi pigolii.

    «Scusatemi, piccoli…», mi asciugai le guance per l’ennesima e ridacchiai senza divertimento. Li ammirai con uno sguardo colmo di orgoglio e nostalgia, afferrando le loro manine di rimando. Prince ero turbato ma serio e attento, mentre Paris era decisamente più scossa. «Devo dirvi una cosa molto importante… ma ho bisogno che mi promettiate di non raccontare nulla a vostro padre, non ancora… si sentirebbe male per me e per voi. Non è un buon periodo per lui, ha bisogno di serenità assoluta e voi siete la sua cura…».

    Prince e Paris si guardarono a lungo.

    «Quando sarete più grandi potrete parlargli di questa nostra conversazione… promesso?»

    Paris puntò lo sguardo in basso, trascinando un piede sul terreno a destra e a sinistra, mordendosi nervosamente un labbro come faceva il padre. Prince tenne la testolina alta e mi scrutò con apparente impassibilità. Dopo che il fratello maggiore annuì, anche Paris si lasciò convincere – pur non felice di dover nascondere qualcosa al suo papà.

    «Grazie…».

    La voce tremò per l’emozione e la vista si offuscò per l’ennesima volta in quel giorno. Accarezzai le loro manine, le quali si strinsero forti alle mie.

    Erano il mio orgoglio più grande. Sapere di aver avuto un impatto positivo almeno nella loro vita mi dava la forza per non sentirmi completamente inutile e fuori luogo. Ero stata la loro insegnante, la loro confidente e la loro amica. Avevano conquistato dei gran bei voti e un’educazione invidiabile a qualsiasi altro bambino della loro età. Avevamo giocato, avevamo riso a crepapelle fino a star male, avevamo scherzato… e io li avevo amati infinitamente – amandomi a loro volta forse tre volte di più di quanto non avessi fatto io con loro. Mi avevano visto come una guida, pendendo dalle mie labbra ad ogni consiglio o lezione impartita, senza mai trattarmi con maleducazione e arroganza. Mi avevano voluto bene come se fossi veramente una loro zia preferita o una sorella maggiore, premurosi e affettuosi come pochi, prendendomi come esempio e ascoltandomi sempre con ligia attenzione.

    Prince, Paris e Blanket erano stati la mia luce e la mia speranza in tutta quell’oscurità durata mesi e questo pensiero mi avrebbe accompagnato fino alla fine dei giorni.

    *

    Smisi di tamburellare le dita sul poggiolo della poltrona udendo lo scatto della porta che si apriva. Le iridi che dapprima peregrinavano su ogni mobile e oggetto presente nell’ufficio di Michael con atteggiamento apatico si bloccarono sulla maniglia che si abbassava lentamente.

    Il cuore perse un battito e risalì con un balzo in gola. La stanza iniziò a profumare, oltre che di legno nuovo e di muschio bianco, anche di sandalo.

    Nascosi tra le cosce la pila di fogli che tenevo in mano.

    Presi fiato col naso percependo i suoi passi in mia direzione.

    Lo stomaco venne tritato in una morsa di angosciante trepidazione. Ciò nonostante le dita alleviarono la stretta sui documenti che fino a poco prima avevo stretto con spasmodica prepotenza.

    Michael si pose accanto alla poltrona vuota che risiedeva di fronte a me. Ero sicura che, una volta seduto, sarebbe stato come se non ci fossi stata comunque.

    Lo inchiodai con lo sguardo mentre si lasciava cadere di peso sulla sedia, senza guardarmi.

    Le sue spalle erano ricurve e i capelli ricadevano ordinatamente lungo le sue gote estremamente pallide. Era diventato più magro – molto più magro rispetto a due mesi prima, in particolar modo rispetto all’inizio del processo – e il viso era scavato da due solchi profondi. Le iridi scurissime presentavano un perenne accenno di sofferenza e devastazione. I raggi solari, i quali penetravano dalle tende appese alle finestre, fecero risaltare le sfumature lucenti della sua chioma corvina.

    Il cuore risentì di quella visione con un lieve tumulto.

    Rimanemmo un po’ di tempo occhi negli occhi senza sputar fuori una singola parola di bocca.

    Mentirei se dicessi che in fondo, nascosto fra la rabbia, la delusione e lo sconforto che covavo per lui, un minimo di affetto non lo sentissi più. In realtà spesso consideravo quella sottospecie di amore nei suoi confronti come una catena, un qualcosa che temevo di spezzare per paura di sentirmi incapace di andare avanti senza di lui. Un obbligo verso me stessa e un profondo senso di lealtà verso Michael. Una promessa che dovevo mantenere, al contrario di quelle che lui non aveva mantenuto, e uno sforzo sovrumano che dovevo portare avanti fino a quando l’inferno non sarebbe cessato di esistere.

    Quest’ultimo pensiero mi dava la nausea.

    Avevo una paura enorme all’idea di lasciarlo.

    Se mi fossi liberata dal suo amore, Michael non avrebbe fatto niente per riprendermi con sé. Ne ero assolutamente convinta.

    Volevo che si mettesse alla prova, che combattesse per riavermi accanto; che si arrabbiasse anche, purché dimostrasse che mi amava ancora. Ero anch’io egoista. E nello sconforto, capendo che le mie erano soltanto illusioni e false aspettative, errori uno di seguito all’altro, mi lasciavo scivolare sempre più in basso... in basso, in un dolore che mi faceva annegare ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo.

    Il mio animo era diviso in due... il desiderio di non abbandonarlo opposto a quello di smettere di soffrire. Il desiderio di percepire il suo sentimento d’amore in eterno contro il desiderio di riacquisire quell’affetto per me stessa che - per Michael - avevo sepolto senza esitazione. Il desiderio di ricominciare una vita nuova con lui opposto a quello di scappare lontano e chiudere ogni rapporto. Il desiderio di realizzare che niente sarebbe più stato lo stesso... contro la volontà di vivere per sempre in un purgatorio di parole non dette, allontanamenti e situazioni irrisolte.

    Michael interruppe il silenzio con un sospiro tremante.

    Spostava gli occhi su qualsiasi oggetto sopra il ripiano scuro della scrivania come poco prima avevo fatto anch’io.

    Drizzò le spalle. Aspettava una spiegazione sul motivo per cui avessi voluto parlargli in quella sede.

    Quel pensiero mi stritolò le interiora.

    «Tra qualche giorno verrà emessa la mia sentenza», bisbigliò con visibile stanchezza ed esasperazione negli occhi e nella voce, «se venissi considerato innocente, partirò immediatamente… e vorrei che tu venissi con me, Prince, Paris e Blanket». Prese una pausa e mi fissò con due pietre lucide al posto degli occhi. «Stavo pensando all’Europa… o al Medio Oriente… magari anche in Italia, che dici?».

    Le mie sopracciglia si corrugarono un po’ ma senza molto stupore.

    La sola cosa che mi venne da pensare fu un semplice e secco “Ah”. Per il resto, il cervello non riuscì a concretizzare i sentimenti in parole e di conseguenza non risposi.

    Stetti a contemplare gli scatti ansiosi che compivano la sua bocca e le sue palpebre. Ingoiava la saliva e picchiettava le unghie sulla scrivania con evidente tensione. Una serie di domande iniziarono a istigare la mia mente ma un forte richiamo, imponente rispetto a tutte le altre vocine in testa, non mi permise di dar loro voce. Il petto s’alzò e s’abbassò con scatti più rapidi.

    Tu mi ami ancora?

    Silenzio.

    No, non sarei tornata indietro.

    Da sotto il tavolo le mie mani scoprirono un paio di lettere piegate in tre parti uguali, perfettamente intatte, scritte a computer e stampate da ormai tre settimane a quella parte, gettate nel cestino per poi essere ricostruite da capo assieme alle lacrime di cui Michael certamente non era a conoscenza.

    A fatica riuscii ad analizzare la sua reazione. Notai il suo irrigidimento e la sua diffidenza come se gli stessi per infliggere una chissà quale pugnalata alle spalla. La faccia era congelata in una smorfia di sospetto. Dopodiché deposi la lettera sul banco in mogano; con la mano destra che sussultava appena la feci scivolare in avanti; arrivata vicino alle sue dita che afferravano saldamente i bordi del tavolo ritrassi le mie e incrociai le braccia al petto, lasciandomi cadere sulla sedia con un tonfo leggero.

    «Cos’è...?», il tono della sua domanda era cupo e allarmato.

    Fui colta da un istinto di pianto che mi confuse per un istante. «È la mia risposta».

    L’idea di lasciarlo mi provocava un dolore imparagonabile a qualsiasi altro...

    Mi gettò un’occhiata indecifrabile. Studiò il documento per un minuto abbondante e poi decise di leggere. Lo tenne lontano affinché potesse farlo senza aver bisogno di mettersi gli occhiali. L’espressione dapprima crucciata mutò all’improvviso: la delusione, lo sconforto, l’incredulità per quello che aveva davanti ai suoi occhi lo costrinsero a serrare le labbra per non piangere. Si accorse che assieme ad essa c’era anche un’altra copia.

    «No...», bisbigliò sconvolto. «Non è vero… Tu mi stai prendendo in giro... non è vero…?!»

    Non mi guardò, ma continuò a sbattere le labbra velocemente per quel moto di rabbia che lo aveva pervaso di colpo. Scuoteva la testa sempre più forte, sorrideva sardonicamente, ma le sue iridi erano accecate dallo shock.

    Lanciò la lettera lontano, verso la finestra, ritirandosi sullo schienale della sedia e rovesciando qualche altra carta presente sulla scrivania. Sobbalzai.

    Mi fulminò irato e disperato assieme.

    «È così divertente secondo te, Sarah?», esclamò con voce più alta. Sorrise con un ghigno irato. Ricominciò a dissentire col capo come se fosse impazzito. «Pensi che sia una stronzata divertente, uh?»

    Pareva sul punto di ridere e piangere contemporaneamente e mi faceva male.

    Sussurrai con fiato sottile. «Non sto scherzando...». Mi bagnai le bocca raddrizzando la spina dorsale, guardando i fogli caduti a terra alla mia sinistra. «Non sto scherzando affatto».

    Ero seria, glaciale, esattamente come lo era stato lui con me per molto tempo.

    Ero la consapevolezza di non essere abbastanza, la certezza di essermi finalmente arresa ad una battaglia portata avanti per troppo tempo. Ero un pozzo vuoto, senza acqua. Ero lo specchio del suo volto e delle sue parole incise a fuoco nel mio cervello e nel mio cuore. Ero la conferma delle mie paure più grandi, il risultato di un qualcosa che avevo immaginato sarebbe accaduto.

    Mi esaminò riproponendo quella sua solita maschera di assoluta indifferenza.

    «No», ribatté. «Tu non ti licenzierai».

    Mi strinsi nelle spalle, assumendo una smorfia fintamente neutrale. «In effetti posso», sussurrai, «Non appena finirà il processo, me ne andrò. Non puoi rif – »

    «No, non lo farai!». Si alzò in piedi e colpì le nocche sul tavolo.

    Saltai sul posto. Lo scrutai con la paura e la tristezza negli occhi. Da quella posizione potei osservare quanto stesse tremando.

    «Tu...», ansimò. Mi raggelò manifestando tutta la sua vulnerabilità in uno sguardo. «Tu servi qui...!»

    Ingoiai le lacrime. «No… non è vero...»

    Silenzio.

    Nessuno dei due abbassò gli occhi.

    «Come puoi abbandonarci così? Come puoi fare questo a me...?!», si mise una mano sul cuore e sostò in quella posizione per due minuti. Le palpebre erano spalancate. Si scosse con una risata poco divertita, passandosi una mano sul collo. «Tu mi stai mentendo…».

    Mi alzai in piedi. Mi squadrò con la bocca socchiusa dal turbamento, vedendomi camminare verso le carte lanciate a terra da egli stesso. Senza fare una piega le sistemai in ordine numerico e ritornai al mio posto di fronte a lui. Mi sedetti e feci per porgerglieli una seconda volta, ma Michael accostò il palmo della mano al mio dorso chinandosi in avanti con rapidità sorprendente. Appena lo percepii sulla pelle mi ritrassi; portai le dita al petto e ammirai le sue con sguardo vacuo.

    Se mi avesse anche solo sfiorato, non sarei riuscita a portare avanti quella scelta.

    Non sarei stata la persona che lo avrebbe salvato e Michael non sarebbe stato colui che mi avrebbe ascoltato. Io ero colei che non sapeva amare, lui era colui che amando allontanava gli altri da sé. Io ero il burattino e lui colui che dirigeva i giochi. Io ero colei che si allontanava silenziosamente, Michael era colui che non faceva nulla per trattenermi. Io ero colei che scappava in punta di piedi, lui colui che fuggiva con una magia, scomparendo nel nulla e riapparendo quando più gli piaceva.

    «Non sono più niente per te...?!»

    Era sul punto di delirare. Le sue accuse sotto forma di domande mi squarciavano l’anima.

    «Rispondimi! Non sono più niente per te...?!»

    Chiusi gli occhi.

    Smettila di trattarmi come se non mi importasse.

    «A quanto pare non sono abbastanza! Ho fatto qualcosa di sbagliato, sono incompleto per te, sono tutto fuorché l’uomo giusto!», urlò.

    Le mie ciglia si risollevarono e con queste anche la voglia di andarmene da quell’ufficio. Mi issai dalla sedia senza far rumore; conscia di cosa stessi rischiando con quel gesto, e gli rimisi sotto il naso il fascicolo che doveva assolutamente firmare.

    «Mi dispiace».

    Le parole non erano mai servite fra noi, neanche in quell’occasione.

    Mi fissò con due occhi sconvolti.

    Poco dopo lo shock lasciò il posto alla rabbia.

    Afferrò i documenti. Li posizionò davanti a sé in modo che potesse chinarsi e firmarli senza doversi sedere sulla poltrona.

    «D’accordo...», sibilò furioso.

    Prese una penna con ferocia e premette la punta sul primo foglio che beccò.

    Mi sarebbe mancato tutto di lui…

    «D’accordo...»

    L’inchiostro bagnò la carta bianca di un nero catrame sbavando in alcuni punti; non appena ebbe finito di compilare quella serie infinita di carte fu colto da un gesto di stizza e gettò la penna a terra, alla sua destra. Quella volta non sobbalzai.

    Si mise le mani fra i capelli, vicino alla fronte, e mi dette le spalle. Dondolò sul posto, avanzando lentamente verso la finestra dell’ufficio, mentre i suoi respiri affannati si confondevano col silenzio. Mi parve di sentirlo singhiozzare.

    Ingoiai il fiato e una lacrima scivolò giù dai miei occhi.

    «Lasciami solo...»

    Affondò il viso tra le mani. Pianse.

    Io non stavo dormendo.

    Non era un sogno.

    Stavo annegando sul serio.

    Sollevò la testa sempre in direzione della finestra. «Ho detto di uscire!», urlò. «Vattene

    Presi la copia firmata da sopra scrivania, la strinsi al petto e feci dietrofront. Con le guance bagnate e il fiato affannoso mi diressi verso la porta, uscii dalla stanza e accorsi verso la mia camera da letto.

    Non mi fermai. Continuai a camminare senza sosta, passo dopo passo dopo passo.

    Da quel giorno non tornai più indietro.

    *

    Corte Suprema dello Stato della California per la Contea di Santa Barbara, divisione di Santa Maria. Processo dello Stato della California contro l'imputato Michael Joe Jackson. Caso numero 1133603.

    Tenni stretto il telecomando della TV senza muovere un muscolo del corpo. Fissai lo schermo col cuore che batteva a mille.

    Ero seduta a terra, sul pavimento, con la schiena appoggiata al materasso.

    Verdetto numero uno. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole di cospirazione, come accusato nel primo capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    Trattenni il fiato.

    Verdetto numero due. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole di atto osceno su minore, come accusato nel secondo capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    Emisi un sospiro strozzato, dolorante.

    Nascosi la testa fra le ginocchia piegandomi in avanti.

    Tentai a fatica di smettere di piangere.

    Lo stesso verdetto venne dato anche per la terza, la quarta e la quinta accusa, tutte e tre riguardanti le principali accuse di pedofilia.

    Verdetto numero sei. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole di tentato atto osceno su minore, come accusato nel sesto capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    Non ricordo quanto rimasi lì ferma in quella posizione.

    Rimembro soltanto le grida dei fan, tutti raccolti in gruppo, che vibravano in aria e con esse anche il loro amore per Michael. L’attesa nei loro volti, quei visi congelati nei secondi precedenti ai diversi verdetti, si trasformava in uno scoppio di felicità ad ogni “non colpevole” emesso dal giudice.

    Verdetto numero sette. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole di somministrazione di un agente inebriante finalizzato alla commissione di un crimine, come accusato nel settimo capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    Ricordo loro mani alte in cielo, le loro lacrime e i loro abbracci. Un boato di giubilo che le telecamere avevano ripreso senza sosta e da più angolazioni e quei giornalisti increduli che non la smettevano di stare zitti, nemmeno in un momento come quello. I brividi causati dai sorrisi di chi amava Michael, dalle loro esclamazioni di vittoria, dalle parole del giudice, dalle colombe bianche che una donna bionda aveva liberato e fatto volare in cielo.

    Ad ogni sentenza in cui Michael veniva definito innocente, una parte di me respirava e moriva contemporaneamente.

    Verdetto numero otto, reato minore. La giuria, nel caso in questione sopra riportato, ritiene l'imputato non colpevole della fornitura di bevande alcoliche a persone di età inferiore ai 21 anni, come accusato nell'ottavo capo d'imputazione; datato 13 giugno 2005, portavoce della giuria numero 80.

    14 accuse, 14 verdetti di innocenza.

    Quando il giudice smise di parlare le telecamere ripresero l’uscita di tutti i presenti dall’aula. Chiusi la Tv non appena scorsi i capelli corvini di Michael, incapace di reggere la sua espressione.

    Non smisi di avere i brividi neanche dopo aver spento la Tv.

    Il cuore era sul punto di esplodermi in petto.

    Era finita.

    Il sollievo e quella gioia indescrivibile si erano spenti poco dopo la sua uscita da quell'edificio freddo e angustiante che era il tribunale.

    Ogni scusa era buona per rallentare il tempo che scorreva inesorabile, ma ad un certo punto era finalmente arrivata l’ora di dire addio a tutto. Le valigie erano pronte. Le telefonate per gli ultimi dettagli di viaggio pure. Mancava solo andarmene e, con la mia partenza, lasciare l’ultimo ricordo di me a Michael…

    Immaginavo già la sua reazione… quando avrebbe visto la busta e ciò che vi era al suo interno…

    Potevo sentire il corpo rabbrividire percependo la contentezza dei fan, mentre tutto ciò che ero si distruggeva in miliardi di pezzettini, e ogni pezzo che si staccava da me si trasformava in una lacrima; quando tutti i resti di me si erano depositati al suolo, ero rimasta immobile.

    Camminavo nel vuoto, sperduta.

    Respiravo perché non potevo far altro.

    Ero smembrata, sbriciolata, frantumata… ma resistevo ancora.

    Salii sopra il letto a gattoni. Il mio pigiama profumava vagamente di ciclamino. Ciclamino significa timida speranza, pensai senza emozione. Mi distesi, mi nascosi sotto le coperte e rimasi in quella posizione per ore.

    Quando la porta della mia camera si aprì io non mi mossi.

    Passi lievi risuonarono sul parquet della stanza.

    Mi si sedette accanto.

    Scoppiò a piangere nel giro di qualche secondo. Un pianto disperato, sollevato, stremato, vittorioso. Ero certa che le mani gli coprissero il volto ma io non potevo vederle, perché incapace di muovermi. Rimasi ad ascoltarlo senza liberare una lacrima.

    Poco dopo si distese al mio fianco e crollò in un sonno profondo, consumando l’ultimo tacito momento che ci rimaneva da vivere assieme.

    *

    Feci piano. Non si accorse dei miei spostamenti.

    Silenziosamente ero riuscita a lasciare la sua mano stretta nella mia, a portar fuori tutti i bagagli, a sistemare la busta nel suo lato del letto. Abbassai completamente la serranda per evitare che si svegliasse con la luce dell’alba. Ero riuscita a cambiarmi, a infilarmi scarpe e giubbotto e il tutto senza farmi udire.

    Dormiva come non faceva da mesi.

    Avrei voluto baciarlo, sentire il suo calore un’altra volta, ma la sola idea di farlo mi uccideva.

    Ero sicura che non mi avrebbe mai perdonato. Ero sicura che una volta digerito il dolore avrebbe covato soltanto odio nei miei confronti. L’odio era senz’altro meglio di quell’angoscia. E poi anche l’odio prima si sarebbe assopito e mi avrebbe dimenticato. Prima o poi sarebbe andato avanti e mi avrebbe pensato soltanto come un grande errore.

    Non voglio vivere senza di te.

    Con il naso che pizzicava e gli occhi lucidi esaminai quella busta sul suo comodino.

    Andarmene sarebbe stato il rimpianto e il dolore più grande che mi avrebbe accompagnato per il resto della vita.

    Avevo fatto quello che dovevo fare. Finalmente era salvo.

    Lasciai la stanza con l’odore del suo corpo impresso nella pelle.

    Era strano, quasi ironico, che l’ultimo giorno che avremmo speso insieme sarebbe stato proprio nel luogo in cui tutto era iniziato: il Neverland ranch. Dopotutto sarebbe stato anche l’ultimo giorno che Michael avrebbe speso lì prima di partire per l’Europa e l’Asia e non rivedere mai più.

    Abbandonai Neverland senza emettere una parola, senza restare ad ammirarla per un minuto di più. Salii in macchina e salutai con un cenno del capo gli uomini della sicurezza che gentilmente mi avevano aperto i cancelli, cercando di captare inutilmente una mia espressione nascosta dagli occhiali da sole.

    Quel vuoto che premeva nel petto divampò in ogni parte del corpo, tanto velocemente quanto la mia auto e i battiti del cuore, mentre il numero di chilometri che dividevano me e Michael si faceva sempre più ampio secondo dopo secondo.

    La mente scalpitava nel tentativo di cancellare ogni momento di me e lui assieme. I ricordi che volevo lasciare alle spalle, man mano che mi avvicinavo all’aeroporto, persero il loro colore e la loro nitidezza.

    Morii silenziosamente. In una resa lenta e spietata, precipitando in un vuoto senza luce.







    Fine.

    Seconda parte: The Rebirth.






     
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    Mi vergogno un po', perchè non penso al mio racconto come qualcosa così immenso da farci un trailer, ma è comunque una fanfiction che mi sta a cuore. Quindi, per fangirlare e per ringraziare chi mi è sempre stato accanto - e ha sempre creduto e amato questa storia - dedico questo piccolo sgorbietto.



    Edited by fallagain - 20/3/2021, 00:12
     
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    Non ti sottovalutare perché con le tue parole hai saputo sempre trasportarci in un altro mondo
    Solo una piccola e semplice parola GRAZIE❤️❤️
     
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    E di cosa ti dovresti vergognare?
    E' un trailer fantastico.. sono rimasta a bocca aperta e colpisce al cuore..la musica in sottofondo, la sofferenza di Michael, l'amore che lega i due protagonisti!
    Non sottovalutarti mai perché sei davvero unica nel tuo genere!
    Grazie (: <3 <3 <3
     
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    CITAZIONE (fallagain @ 4/5/2020, 22:57) 
    Mi vergogno un po', perchè non penso al mio racconto come qualcosa così immenso da farci un trailer, ma è comunque una fanfiction che mi sta a cuore. Quindi, per fangirlare e per ringraziare chi mi è sempre stato accanto - e ha sempre creduto e amato questa storia - dedico questo piccolo sgorbietto.

    www.youtube.com/watch?v=tmVgYtHUijM

    Io piango. No, piango davvero. Perché è stato come guardare finalmente la storia che aspetti da anni prendere Vita, come succede ai grandi romanzi che poi diventano film.
    Non so dirti il numero di volte che l'ho visto nel giro di dieci minuti, non mi vergogno a dire che nel giro dei prossimi dieci lo riguarderò ancora e neanche tu devi vergognarti, mai.
    Kate è azzeccatissima e...
    Sei così immensamente meravigliosa. Grazie, di nuovo, ancora, mille volte. 💘
     
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    Grazie infinite per apprezzare <3 <3 <3
    Mi dispiace tanto avere così poche parole per farvi capire la mia gratitudine. Sappiate che è sentita e profonda. :]
    Un abbraccio <3
     
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