In Your Defense

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    IN YOUR DEFENSE


    Raiting: Rosso (varia comunque a seconda dei capitoli)
    Timeline: Dalla Dangerous Era in poi
    Characters: Michael Jackson e Nuovo Personaggio





    Capitolo 1

    EIGHTEEN-YEAR OLD DARLING





    “Tesoro, vieni qui, ti vogliono salutare!”

    La sala brulica di persone, così tanto che sento già mancarmi l’aria. I camerieri, con quel ridicolo papillon azzurro al collo, sfrecciano dai tavoli al bancone del bar in continuazione, servendo cocktail e patatine. Le chiacchiere e le risate degli invitati mi stanno facendo scoppiare la testa, e la festa è appena iniziata.
    Tra un “Ma come sei cresciuta!” e un “Sei meravigliosa!” riesco a raggiungere finalmente mia madre Marion, l’abito nero e lungo che le cade morbidamente sul corpo e i capelli raccolti in uno chignon.

    “Ehi, eccoti! Ti ricordi di Marie?”
    Guardo confusa la signora dinanzi a me. “Ma certo, Marie…”
    “Sono un’amica di vecchia data di tua madre, vi ho ospitati a Parigi un po’ di tempo fa, tu eri piccolissima” si presentò la donna, con uno spiccato accento francese, per poi rivolgersi a Marion. “Avrà avuto tre anni, no?”
    “Oh, forse anche meno, due e mezzo appena!”
    “Be’, ha poca importanza, guardati adesso, sei una donna bellissima, tanti auguri!” esclamò tornando a posare gli occhi su di me e baciandomi le guance.
    La ringrazio imbarazzata, sorridendo.
    “Il tempo è volato, ieri non sapeva neppure camminare e invece ora…”
    Sospira, come per scrollarsi tutti quegli anni dalle spalle, per non pensarci. Mia madre accetta con difficoltà il tempo che passa, ogni anno appesantisce il macigno della vita che si porta sulle spalle e ogni ticchettio dell’orologio scava una nuova, guizzante ruga sul suo volto secondo lei. Eppure è una donna incantevole, curata nell’aspetto e con una personalità brillante. Talvolta pare che se ne dimentichi.
    “Ma ti ricordi quanti croissant mangiò durante quella vacanza? Non le piaceva nient’altro ed io iniziavo a temere che le sarebbe venuto il diabete al nostro ritorno!” cambia poi discorso, ravvivandosi e ricominciando con i suoi aneddoti, sembra che per ogni individuo in questa stanza ci sia qualcosa da raccontare che mi riguardi, ma il fatto è che io ricordo appena una decina di persone, figuriamoci se posso sapere quello che ho fatto e detto in ogni circostanza.
    Mi guardo intorno, alla ricerca di una via di fuga, mentre mia madre e questa Marie continuano a parlare di tutto ciò che ho combinato in quei cinque miseri giorni nella capitale francese.

    Poco distante da me scorgo Soraya, che scuote la testa sghignazzando e mi si avvicina quando capta una richiesta di aiuto dal mio labiale.
    Mentre si fa spazio tra la massa, penso a quanto sia bella stasera, con il suo abito bianco che arriva al ginocchio e che risalta la sua carnagione scura, due perle che le ornano le orecchie piccole e i tacchi che slanciano la sua figura. E forse, riflettendomi nella mia migliore amica, capisco mia madre, seppur mi risulti difficile ammetterlo: è vero, siamo cresciute, mi basta pensare alla Soraya delle elementari con i ricci crespi e le mani sempre sporche di pennarello. Adesso siamo donne e suppongo che la nostra strada sia tutta in salita da questo momento in poi.
    “Ve la rubo un attimo, spero non vi dispiaccia!” Mi afferra per un braccio e mi trascina al tavolo dove è seduto il suo ragazzo, porgendomi un mojito. “Bevi, o non arriverai a fine serata!”
    “Ma sei pazza?!” Strabuzzo gli occhi, ridendo. “Con i miei genitori qui! Se mi vedesse mio padre, ci rimarrebbe secco!” Riappoggio il bicchiere sul tavolo e mi metto a sedere, imitando Soraya. Chase l’attira a sé e la bacia dolcemente sulle labbra, mugugnando qualcosa a me incomprensibile.
    “Okay, grazie per avermi salvata, ma anche qui la situazione non è migliore, non ho intenzione di fare il terzo incomodo.”
    “Dai Lou, non rompere, stai qui con noi!” mi richiama, quando me ne stavo già andando. Cedo e torno al mio posto, e per la seconda volta devo dar ragione a qualcuno, a malincuore: prendo quel mojito e mi attacco alla cannuccia, non c’è altra soluzione.
    “Allora, il tuo principe viene? Anzi, il tuo re…” Alzo gli occhi dal bicchiere, incontrando il suo sguardo malizioso. “Michael.”
    Per poco non le sputo tutto l’alcol sul vestito immacolato. “Michael che?!”
    “Il tuo re, principe sarebbe riduttivo per lui” ripete. Giuro che prima o poi, quando tirerà nuovamente in ballo l’argomento, la ucciderò. Questa storia va avanti da almeno una decina di anni, da quando scoprì un disegno impiastricciato della persona interessata nel mio zainetto di scuola.
    “Non è il mio re, come lo chiami tu.”
    “Non ancora, ma qualcosa accadrà prima o poi. Michael ha occhi solo per te…” continua, morendosi il labbro inferiore per provocarmi.
    “Ma chi sarebbe Michael, eh Lou?” domanda Chase, tirandomi una gomitata. “L’hai incontrato agli stage universitari? Oppure potrebbe essere uno di quei professori giovani e affascinanti per cui voi ragazze perdete sempre la testa.”
    “Ness-”
    “Michael Jackson” mi interrompe Soraya. “Nonché suo futuro marito.”
    “Wow, Swedien!” Chase mi fissa a bocca aperta. “Sapevo che tuo padre lavorasse con lui, ma qui la cosa prende tutta un’altra piega.”
    “Amore, dovresti vederlo!” inizia eccitata, rivolgendosi al suo ragazzo. “Appena la vede gli brillano gli occhi, è dolcissimo. Non nascondo che la invidio, perché insomma, sappiamo tutti quante doti abbia Michael, e non solo per quanto riguarda la musica…”
    “Soraya!”
    “Cosa?” Scopre i denti in un sorriso falsamente innocente.
    “Basta!”
    “No Lou, adesso voglio sapere tutto, ogni dettaglio.” dice tassativo il ragazzo, sporgendosi più verso di me per non essere infastidito dal chiacchiericcio generale.
    “Chase, ti prego, almeno tu, non alimentare le sue fantasie. Tra me e Michael non c’è niente. Ci conosciamo da una vita ed è un mio caro amico, punto. E lui è gentile con tutti, non solo con me.”
    “Eccolo che arriva!” Sposto gli occhi da una parte all’altra della stanza, cercandolo tra la gente. “Ops, stavo scherzando! Ehi, ma guardati come sei arrossita, stai andando a fuoco!” Stronza.
    “Soraya, io ti ammazzo!”
    I due fidanzati scoppiano a ridere ed io mi rituffo sul mojito, la mia unica soluzione, seriamente.
    “Allora, chiariamo una cosa: Michael è un cantante di fama mondiale, ha un sacco di soldi e, oltretutto, quindici anni più di me. Secondo voi, pensa a me?”
    “Oh, quindi è l’età il problema… Ma non ti preoccupare, è solo un numero” replica Chase, ormai complice della sua ragazza. Stronzo pure tu, ecco perché state tanto bene insieme.
    “Mi arrendo, divertitevi senza di me, piccioncini.” Mi alzo fingendo di essere estremamente irritata, ma la verità è che mi sto sforzando con tutta me stessa di non ridere per non dar loro soddisfazione, e me li lascio alle spalle, le loro risate che si affievoliscono mano a mano che mi allontano.

    Recupero la mia pochette, salgo sull’ascensore che ferma direttamente nel salone e premo sullo zero, ritrovandomi nell’atrio di quell’albergo di venti piani costruito interamente in vetro. Chiedo alla receptionist il telefono, dopodiché compongo automaticamente il suo numero. Fisso dalle vetrate le luci multicolore di Los Angeles, le auto intasate nel traffico, i turisti che si guardano intorno meravigliati da quella città e dal suo lusso.
    Ho il cuore in gola e i bip della cornetta mi stanno rimbombando nell’orecchio.
    Mi sento sempre così prima di parlarci o incontrarlo, un ammasso di carne rammollita e di ossa che cedono, una marionetta nelle mani del suo burattinaio, incapace di decidere e di avere il controllo su se stessa. Mi pare che la terra si apra sotto i miei piedi e che io possa precipitare da un momento all’altro, ma alla fine ciò non accade mai, poiché un momento prima della mia caduta lui arriva e tutto torna in ordine: l’ansia si scioglie in serenità, la paura in pace.
    “Pronto?”
    “Tra quanto arrivi?”


    ***





    “Io propongo un brindisi!” esclama Quincy Jones, alzandosi in piedi e sollevando il calice. “A Lou! Ti auguro di avere il meglio dalla vita, di riuscire a realizzare i tuoi sogni e di vivere per questi. Ormai sei una donna, stupenda e dall’animo puro e, da tuoi padrino, voglio dirti che sono molto fiero di te!” Segue uno scroscio di applausi, mentre vado ad abbracciarlo e lo ringrazio emozionata. “Bene, adesso mangiamo, buon appetito a tutti!” conclude, lasciandomi un bacio sulla fronte.
    Torno al mio posto, di fianco a Soraya, e mi preparo psicologicamente alle cinque o sei portate stabilite da mio padre Bruce. I tavoli sono ricoperti da tovaglie color panna e sono decorati con fiori celesti, abbinati al mio vestito. Indugio sulle tre forchette, rigorosamente d’argento, poste accanto al piatto di ceramica inglese dipinto a mano. Idee di mia madre, ovviamente, perché “cosa è meglio delle ceramiche inglesi?”
    “Ma allora Michael? Perché non arriva? Adesso sono seria, so quanto tu ci tenga” mi sussurra Soraya, coprendosi la bocca con una mano, come se volesse serbare quella confessione solo a noi due. Tesoro. Mi fa tenerezza, perché nonostante le sue prese in giro ricorrenti ha sempre una parola di conforto nel momento del bisogno. Lo sguardo mi cade sulla sedia vuota accanto a me, che è seguita dal posto dove è accomodata Elizabeth Taylor, e sul segnaposto davanti ai bicchieri, rattristandomi.
    “Non lo so, mi ha detto che stava uscendo di casa.” Ci viene servito il nostro antipasto, ringrazio. “Due ore fa.” Scrollo le spalle.
    “Arriverà, tranquilla” conclude accarezzandomi un braccio. “Ora mangiamo e non assillarti il cervello.”
    La cena è eccezionale, anche se sembra non terminare mai. Parlo e scherzo con le persone vicine a me, quasi tutte miei compagni di scuola, anche se non riesco a farmi coinvolgere più di tanto dalla conversazione.
    Tutti appaiono soddisfatti, stanno da dio e ripuliscono fino all’ultima briciola i loro piatti. Io mi sento felice per metà, sto una via di mezzo e a mala pena ho toccato cibo.

    Quando arriva il momento della torta, ho perso ormai le speranze. Eh va be’. Anche la torta è incredibile, cinque piani di pan di spagna ricoperto di panna azzurra e decorato con ricami argento.
    Senza preavviso, mio padre afferra il microfono e si ferma al centro della sala, schiarendosi la voce e facendo calare il silenzio. “Scusatemi, non voglio fare il guastafeste, ma prima di festeggiare avrei qualcosa da dire. Louise” scandisce il mio nome e mi fissa, con gli occhi lucidi. “Sai quanto per me sia difficile trovare le parole giuste, infatti ho scelto di fare il tecnico del suono, lascio che sia Rod Temperton a scrivere i testi.” Tutti scoppiano a ridere rivolti verso Rod, che scuote il capo divertito. “Ma per stasera ho voluto scriverti qualcosa…” Estrae un foglio dalla tasca e si infila gli occhiali, buttando fuori l’aria per calmarsi. “Ormai sono trascorsi diciotto anni dalla prima volta che ti ho tenuta in braccio, eri piccolissima ed avevo una paura tremenda di farti male. Credo che quello rimarrà uno dei momenti più belli della mia vita, quando ho avuto la concreta consapevolezza di essere padre. Essere partecipe della tua crescita è stato ed è qualcosa di travolgente. Ma ogni volta che facevi un passo in più o pronunciavi una parola più complessa sapevo che ti stavi allontanando un po’ da noi, dal tuo nido. Ho sempre voluto essere un padre modello per te, ma so benissimo di aver sbagliato in molte occasioni, perché rimango sempre umano. Per questo voglio scusarmi se a volte ti possa aver ferita, stavo solo cercando di proteggerti. I figli nascono per essere liberi, non per rimanere incatenati ai genitori. Tu devi essere libera, la libertà è il diritto fondamentale che una persona deve avere. Oggi ho capito che presto continuerai il tuo cammino da sola, autonomamente. Sappi, però, che io e mamma ci saremo sempre. Per qualsiasi bisogno, noi saremo accanto a te, pronti a tenderti una mano. Ci hai resi tanto orgogliosi e siamo fieri di essere i tuoi genitori, qualsiasi cosa tu decida di fare nella tua vita. Ti vogliamo tantissimo bene, non puoi neppure immaginarlo, e resterai per sempre la nostra bambina. Grazie di esistere.” La voce si incrina sulle ultime parole ed io sento una lacrima rigarmi le guance, gli invitati gli applaudono, alcuni fischiano e agitano i tovaglioli. Ci abbracciamo e si aggiunge anche mia mamma. Potremmo essere un quadretto di quelle famiglie stupide e spensierate che si vedono nelle pubblicità, ma poco importa.
    “Dai, spegni quelle candeline!” afferma poi Bruce, sciogliendo l’abbraccio e ricomponendosi.

    Sto per soffiare quando le porte del salone si spalancano, tutti si voltano sorpresi e, sollevato lo sguardo, credo che le labbra mi si potrebbero strappare da un momento all’altro da quanto sorrido. Lo sapevo, lui non mi deluderebbe mai.
    “Giusto in tempo per la torta, meno male!” Tira un sospiro di sollievo, togliendosi gli occhiali da sole neri, nonostante sia buio da ore. La calma viene riempita di nuovo da applausi e grida.
    “Che ti avevo detto?” mi mormora Soraya un attimo prima che corra ad abbracciarlo, avvinghiando le gambe intorno al suo busto sottile e affondando la testa nell’incavo del collo, venendo investita dal suo odore di vaniglia.
    “Grazie grazie grazie!” ripeto, mentre mi stringe forte. E tutto è al suo posto adesso.
    “Buon compleanno” mi sussurra, schioccando un bacio sulla mia guancia e mettendomi a terra. “Vai a spegnere quelle candeline!”
    Non dico niente, non riesco neppure a formulare una frase di senso compiuto, faccio soltanto ciò che mi ha detto e soffio su quelle piccole fiamme, accompagnata dagli applausi che sembrano non finire più.

    Mentre due camerieri tagliano e servono il dolce, apro i miei regali, sotto gli occhi incuriositi dei miei compagni. Dopo l’arrivo di Michael si sono riversati su di lui per chiedere autografi e foto e, fortunatamente, dopo essere stati accontentati si sono calmati subito. Casi di isteria, svenimenti, pianti incontrollabili, tutto quello di cui avevo più paura è stato evitato ed anche coloro che sono i fan più accaniti hanno tenuto il loro entusiasmo sotto controllo. Adesso Michael sta parlando con Elizabeth e sta mangiando la sua fetta di torta.
    “Lou, questa borsa è bellissima, devi prestarmela!” prorompe Soraya, rigirandosi tra le mani l’oggetto. “Ed anche questi orecchini, si abbinano ad un vestito che ho comprato poco tempo fa.”
    “Tutto quello che vuoi!”
    Improvvisamente il dj attacca la musica e i più giovani si lanciano in pista, riscaldando l’atmosfera della festa.
    Chase invita Soraya a ballare, ma prima di seguirlo mi prende in disparte. “Non vorrai mica lasciare Michael con Liz per tutta la sera, vero? Penso che dovresti andare a riprendertelo. E dimenticavo, complimenti per il tuo slancio di prima, stai diventando quasi più dolce di lui!” Mi fa l’occhiolino e si allontana, io le do un buffetto sul braccio e rido. La adoro.

    Seguo davvero il suo consiglio, tanto sono tutti occupati in discussioni oppure si stanno scatenando a ritmo di musica disco, nessuno si cura di me. Mentre cammino verso di lui, lo osservo, voltato di spalle. Si è tolto il fedora e i ricci scuri gli ricadono sulle spalle larghe, coperte da una giacca nera che porta la classica fascia rossa al braccio destro. I pantaloni, più larghi dal ginocchio in poi, gli avvolgono le cosce e… il fondoschiena soprattutto. Quel fondoschiena perfetto, protagonista dei miei sogni erotici adolescenziali, insieme a qualche altra parte del suo corpo asciutto e sinuoso. Mi mordo il labbro inferiore, nel vano tentativo di arrestare le mie fantasie. Ovviamente indossa i suoi classici mocassini neri, ma le mie pupille si sono fermate qualche centimetro più su e non vi prestano particolare attenzione.

    “Principessa!” Sussulto a quella voce acuta. “Sei mozzafiato, una vera meraviglia, vieni qui con noi!” Liz mi stritola tra le sue braccia e mi lascia un pizzicotto sulla guancia. Michael abbassa gli occhi per non ridere a quella scena in cui Elizabeth sembra la zia sdolcinata di turno. A volte non capisco davvero, per quanto bene le voglia, come faccia a sopportarla.
    “Ma quanto sei bella, honey? Una vera regina!” continua, facendo scorrere le ametiste che ha inculcate tra le palpebre sul mio corpo. Ma come fa a mantenere questo tono stridulo quando parla?
    “Grazie Liz.” rispondo sinceramente. In fondo, le voglio davvero bene.
    Michael mi lancia un’occhiata che non so decifrare, poi guarda Elizabeth, che sembra si senta fuori luogo d'un tratto. O forse è solo una mia impressione. Credo che il mio afflusso di sangue al cervello sia drasticamente precipitato da quando ho Michael accanto e ciò si ripercuote sulla mia percezione della realtà.
    “Ehm, penso che andrò…” tentenna, guardandosi intorno, fino a quando scorge un cameriere. “…a prendere altro champagne! Lo lascio a te, tesoro, okay?”
    Si allontana in tutta velocità e vorrei sotterrarmi per il silenzio e l’imbarazzo che ci hanno avvolti. Ho l’adrenalina alle stelle, il fiato corto e la scomparsa di salivazione ha fatto della mia bocca un deserto. Troppo bello per essere reale, ho sempre questo pensiero.
    “Andiamo… a fare due passi fuori?”
    La sua voce impacciata mi giunge come la più delicata delle carezze; addirittura non mi accorgo che mi ha appoggiato, lievemente esitante, una mano sulla schiena e so che quel punto scotterà per tutta la notte. Un giorno mi ucciderai, e sarà soltanto un piacere.



    ***





    Non ricordo il giorno in cui ho conosciuto Michael, ma so per certo che me ne sono da subito innamorata perdutamente.
    Mio padre fu ingaggiato per la realizzazione di Off The Wall, il suo primo album solista, e da quel momento Jackson e la sua troupe hanno continuato a desiderarlo anche nella produzione dei due album successivi, Thriller e Bad. Insieme a Quincy avevano prodotto delle pietre miliari della musica e la loro collaborazione era tanto stretta e soddisfacente che mai avrebbero pensato di rinunciare l’uno all’altro. L’aria che a volte ho respirato anche io durante le sessioni in studio era frizzante, un’energia dirompente che loro incanalavano nel ritmo. E tutto questo per merito di Michael Jackson, “il più sensazionale artista con cui abbia mai lavorato e con cui lavorerò”, come lo descriveva Bruce, riportando sostanzialmente il parere della maggior parte delle persone.
    Quando mia madre era troppo impegnata nel suo studio legale, capitava spesso che mio padre mi portasse con sé a lavoro, visto che odiava lasciarmi da parenti o babysitter. Voleva trascorrere con me quanto più tempo possibile, ma finiva sempre che io mi incollavo a Michael ed era una lotta staccarmi da lui quando era arrivato il momento di tornare a casa.
    Perciò ho passato la mia infanzia a giocare con quella popstar mondiale, che però per me era soltanto un compagno di giochi. Muoio dalla vergogna ripensando che lo obbligavo a vestire le mie barbie o a bere da quelle tazzine dove fingevo ci fosse del tè.
    Michael mi ha sempre adorata ed anche lui non mi mollava neppure per un istante. Certi giorni mi portava in sala registrazione e provava a cantare con me in braccio, accarezzandomi i capelli biondissimi, ma il suo lavoro veniva puntualmente distrutto dalle mie parole mozzate o dai miei versi infantili. Comunque lui, nonostante le espressioni esasperate delle persone al di là del vetro e le imprecazioni soffocate del duo manager Di Leo, non si arrabbiava mai (è sempre stato un santo con me, sul serio!).
    Un pomeriggio scoppiai a piangere perché volevo andare al luna park nel quartiere adiacente, ma mio padre era troppo occupato a terminare le ultime rifiniture di Rock With You per accompagnarmi. Più mi imponeva di calmarmi, più gli strilli si facevano acuti, quindi Michael, dispiaciuto, si infilò una grande felpa e, dopo essersi nascosto nel cappuccio, mi accompagnò a quel parco divertimenti che al momento era la mia necessità primaria. Mi guardò gioire sulla giostra dei cavalli e salì sulle macchinine a scontro con me, dopodiché mi comprò uno zucchero filato più grande di me (che, dopo due morsi, gli lasciai) e ritornammo in studio.
    Soltanto in seguito, quando compresi chi fosse per il mondo e non solo per me, quando assistetti a qualche caso di isteria, quando lo vidi trattenere le lacrime a fatica per il semplice fatto che non potesse fare nemmeno una passeggiata al parco senza essere preso d’assalto, compresi quanto avesse rischiato in quell’occasione, che rimarrà impressa nella mia mente per sempre come la più valorosa dimostrazione d’affetto da parte sua. Voleva soltanto vedermi felice.
    Nonostante l’elevata differenza di età e il nostro rapporto così intimo, non lo considerai mai una sorta di secondo padre o un fratello maggiore; Michael restava una persona esterna alla mia famiglia ed era ciò a rendere la nostra simbiosi ancor più speciale.
    Fu al sopraggiungere della mia adolescenza che cominciai a vederlo sotto aspetti diversi, mai presi in considerazione prima. Lo guardavo più insistentemente quando non mi notava, per poi avvampare appena mi beccava (praticamente sempre!). Improvvisamente la sua presenza mi metteva a disagio, mi bruciava la pelle, faceva di me una stupida ragazzina con la bava alla bocca, per quanto volessi scongiurare di apparire in quel modo. Avevo iniziato ad adorarlo nel vero senso della parola, era divenuto un mito per me, un esempio. Mi sono trasformata inconsapevolmente nella sua fan più accanita.
    A sedici anni feci per la prima volta un sogno erotico su di lui, quando mi svegliai ero madida di sudore. Era così che dovevano sentirsi le mie compagne di classe quando, origliando distrattamente le loro conversazioni su Michael Jackson, sentivo i loro gridolini di eccitazione. Capii di essere probabilmente su una strada di non ritorno: come era accaduto con mio padre anni prima, più mi dicevo di togliermi quelle immagini dalla testa, più esse si ripresentavano nel cuore della notte. La differenza stava nel fatto era che, in questa circostanza, Michael non avrebbe esaudito il mio desiderio. Divenne il mio sogno erotico adolescenziale.
    In quel periodo, inevitabilmente, il nostro rapporto mutò, seppur nessuno dei due lo ammise mai apertamente; persi un po’ la mia personalità nei suoi confronti, limitandomi a lasciarmi trasportare dalle sue parole e dalla sua figura. Non ammettiamo nemmeno adesso, due anni dopo, che qualcosa si è incrinato. Semplicemente non ci facciamo caso, o almeno proviamo.

    L’acqua della piscina illuminata brilla sotto la luce della luna, creando una scia argentea sulla sua superficie. Anche il diamante che Michael ha cucito, con drappeggi neri, alla giacca sfavilla nel buio. Anche i suoi occhi, in questo momento, luccicano.
    Siamo seduti sul prato perfettamente tagliato che si trova nell’area centrale dell’albergo, ai piedi di una grossa quercia alla quale ci siamo appoggiati. Le nostre spalle si toccano appena. Chiudo le palpebre, gustando quell’atmosfera pacifica che, secondo me, si avvicina tremendamente all’Eden descritto nella Bibbia. Be’, in realtà sono atea, ma deve essere per forza così.
    “Ho una cosa per te…” La sua flebile voce mi risveglia dal mio scenario immaginario, i miei occhi si schiudono e le mie pupille si spostano sulle sue. Due pozzi scuri che paiono senza fine, che mi risucchiano ogni volta senza lasciarmi via di fuga. Si è voltato ed ora mi porge il pacchetto che, per tutto quel tempo, ha tenuto nascosto dietro la schiena. “Spero ti piaccia.”
    “Dio Michael, ma non importava, te l’ho detto che mi bastava averti qui…” puntualizzo, accomodandomi di fronte a lui a gambe incrociate.
    “Shh, aprilo e basta.” Mi sorride, scoprendo la sua dentatura impeccabile che tutti invidierebbero.
    Faccio come mi ha detto, sciogliendo il fiocco panna e strappando la carta rossa. E… non ci posso credere! Se un giorno mi imponessero di scolpire un blocco di marmo, indubbiamente farei di lui la più bella delle statue, più ammaliante degli dei greci. Sarebbe il riconoscimento minimo.
    “Michael no, non posso… Tu sei pazzo!”
    “Ti piace?”
    “Non posso accettare, è troppo.”
    “È solo un pensiero. Ti piace o no?” insiste.
    “Mi piace?! È il massimo che potessi augurarmi! Non trovo nemmeno le parole.”
    “Bene, basta questo.”
    C’è un attimo di silenzio nel quale continuo a fissare incredula la scatola che ho tra le mani. Si tratta della prima macchina fotografica digitale della storia, sono mesi che sbavo davanti alla televisione quando trasmettono la pubblicità. È il più sofisticato apparecchio che Nikon abbia mai emesso sul mercato e gli sarà costato una fortuna.
    “Non so che dire… Grazie, con tutto il cuore!” Lo abbraccio, lasciandomi cullare.
    “Figurati! Ma c’è una condizione” afferma, sciogliendo la stretta. “Sarò il primo su cui la proverai.”
    “Ovviamente!”
    Devo avere un sorriso a trentadue denti, perché Michael non smette di fissarmi le labbra e distenderle a sua volta. Poi percepisco i suoi occhi scendere sulla scollatura a cuore del mio vestito carta zucchero, sul punto vita assottigliato, sulla gonna ampia che nasconde le mie gambe e infine sui miei piedi scalzi (ho abbandonato il mio tacco dodici dopo appena due minuti di camminata).
    “Te lo avranno detto tutti, ma… sei bellissima Lou” sussurra, prendendo tra le dita una ciocca dei miei capelli biondi con una tale morbidezza che mi sembra di liquefarmi. Arrossisco eccessivamente, abbassando la testa per non fargli proprio notare che sono un pezzo di argilla inerme tra le sue mani. Lui mi plasma in qualsiasi modo voglia. Ed ha ragione, me lo hanno detto tutti, ma quelle parole pronunciate da lui sono poesia.
    Dopodiché si alza, si sgranchisce e si guarda intorno con un sorriso beffardo che io, troppo occupata ad ammirare ancora la macchina fotografica, adocchio troppo tardi per evitare che mi prenda improvvisamente in braccio e corra al bordo della piscina.
    “Michael no, cazzo, ti prego, no no no!” grido sapendo benissimo le sue intenzioni, mentre lui mi dondola tra la terracotta delle mattonelle e l’acqua. “Non ti azzard-”
    La presa cede e… Vaffanculo, Jackson! Riemergo in superficie con i capelli incollati al viso e il vestito che fluttua a rallentatore mentre nuoto verso la bordatura di muratura e mi ci aggrappo.
    “Bastardo! Questa me la paghi, e subito!” lo intimo, mentre lui è piegato in due dalle risate. Gli afferro una gamba a provo a trascinarlo in piscina, senza successo. E comunque, pur di non darmi soddisfazione, si tuffa da solo. Quando ricompare dall’acqua, scoppiamo a ridere, un suo mocassino che si è sfilato e adesso galleggia poco lontano, il mio mascara che è un po’ colato e che viene raccolto alla meglio da un suo dito affusolato.
    “Ma i tuoi avevano affittato anche la piscina, vero?”
    Ridiamo ancora di più, schizzandoci a vicenda, come due bambini, le stelle sono nostre compagne taciturne, complici di quella pazzia.
    “Buon compleanno, eighteen-year old darling.”
    Ecco perché ti amo.



    Ciao a tutti (forse meglio tuttE, non so)! Se siete arrivati fin qui, spero sia perchè questo primo capitolo vi abbia, almeno un pochino, incuriosite. E' la prima volta che mi dedico, con decisione, alla stesura di una fan fiction su Michael e mi auguro che continuerete a leggere.
    Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate:
    Intanto vi mando un bacio, al prossimo capitolo!
    -Kalospia


    Edited by kalopsia - 1/7/2017, 00:01
     
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    Ho rivisto il Michael dopo tanto tempo attraverso le tue parole. Questo tuo scrivere di lui, con una notevole bravura tra l'altro, me lo fa rivivere come se il tempo non fosse passato. Lo amiamo ancora tanto, vero? E allora non vedo l'ora di seguire Louise in questa nuova avventura...
    Grazie di esserti buttata, e spero che tu abbia già pronto il seguito!
     
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    Ciao Eff e grazie infinitamente per le tue parole! Ti giuro che ricevere dei complimenti da te mi ha fatta emozionare un bel po', per me sei sempre stata LA scrittrice di fan fiction, semplicemente eccezionale!
    Non sono mai stata tanto costante nella scrittura, ma essere spronata così mi ha dato una carica pazzesca!
    Eh sì, lo amiamo e lo ameremo fino all'ultimo respiro. Il 25 giugno, quest'anno, è stato anche più duro del solito e forse è anche per questo che ho sentito il bisogno di raccontare di lui. Lui è sempre qui.
    Il seguito attualmente è in cantiere, ma prometto che farò l'impossibile per non farvi aspettare troppo!
     
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    Grazie davvero. Ieri sera mi sono addormentata con l'immagine di Michael che arriva alla festa. Ad otto anni di distanza dalla morte mi rendo conto che basta ancora poco per sentirlo vicino. Ovviamente sarebbe impossibile senza la bravura della scrittrice, e tu ne hai!
     
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    Capitolo 2

    I'D RATHER LEAVE THE FANTASY OF WHAT MIGHT BE





    Fisso l’obiettivo, il suo dito indugia sul tasto e lo preme in tutta fretta soltanto quando un fresco soffio di vento mi sposta un riccio davanti al volto.
    Il sole sta ormai calando su Neverland ed un’altra giornata sta per volgere al termine. Pensavo di rientrare in casa e cenare, ma Lou mi ha spiegato elettrizzata che non esiste luce migliore di quella del tramonto se si vuole ottenere una foto tanto naturale quanto espressiva. Così le ho creduto e mi sono fatto convincere. Be’, effettivamente le sfumature aranciate conferisco al ranch un’atmosfera così rilassante e pacifica.

    Mentre Lou armeggia con la macchina fotografica per sistemare diaframma, tempo e tante altre cose che non ricordo, nonostante mi abbia illustrato ogni minima parte di quell’apparecchio appena mezz’ora fa, mi sposto al centro del vialetto che porta al luna park, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
    Mi squadra un po’, socchiudendo gli occhi. “Sposta lo sguardo di là, così sei troppo in posa, deve essere qualcosa di spontaneo.” Seguo il suo dito, che indica un punto indefinito del prato, e lì poso gli occhi.
    Click. “Perfetto!”
Deve avere una recondita fissa per le “foto naturali”, visto che è da tutto il giorno che mi ripete quanto una sola foto semplice ed espressiva valga più di dieci foto palesemente costruite.
    “Dimenticati i tuoi costumi da antico soldato romano o le tue maschere da Luigi XIV, il Re Sole lascialo a Versailles.” Testuali parole, è sempre diretta la ragazza.

    Nel pomeriggio una decina di bambini hanno visitato Neverland e Lou - questo ha compensato la sopracitata battuta - si è offerta di scattare qualcosa anche con loro.
    Soltanto adesso, ripensandoci, mi chiedo come sia stata in grado di stare dietro a tutti noi. Già, devo considerarci anche me perché, considerando tutta la stanchezza che ora mi sento addosso, sono più che sicuro di non essermi fermato un attimo.
    Dopo il classico giro di tutta la casa, zoo compreso, ci siamo sfidati sulle macchinine a scontro (Jackson 3 - Swedien 0, ovviamente), abbiamo fatto un giro sulla giostra dei cavalli al quale Lou ha preferito astenersi (solo perché vuole tirarsela, adesso che è maggiorenne, lo so) e infine ci siamo accomodati sulla ruota panoramica (i soli dieci minuti di tranquillità).
    Prima che i bambini tornassero a casa, ho anche dichiarato una guerra con i palloncini d’acqua e, stavolta ragionevolmente, ho risparmiato Lou perché voglio che il mio regalo abbia almeno qualche anno di vita.
    Mi ha garantito di aver scattato una foto “supermegapazzesca”, ma ha anche aggiunto che terrà la bocca chiusa fino a quando non avrà riguardato tutto il lavoro di oggi. A quel punto, me la farà vedere.

    “Andiamo dentro? Ho fame.”
    Il sole è ormai scomparso e i lampioni del giardino si sono accesi. L’aria di luglio, anche alla sera, resta densa e calda. Annuisco, pregustando il condizionatore che c’è all’interno.
    Aspetto che riponga la macchina fotografica nella tracolla e, dopo averle circondato le spalle con un braccio, ci dirigiamo verso la residenza principale.
    La sento accoccolarsi sotto la mia spalla, il suo profumo di borotalco mi invade le narici. Mi sembra così piccola in questo momento, che non riesco a frenare il moto di tenerezza che mi investe. La stringo, quasi a dirle “Tranquilla, sono io la tua difesa.”


    ***




    Sono l’unico ad essere a conoscenza della sua passione per la fotografia. O meglio, sono l’unico a sapere che vorrebbe trasformarla in un lavoro.
    Fantastica di diventare come Steve McCurry, di viaggiare per il mondo e di trovare anche lei la sua “ragazza afghana”.
    Il problema è che sostiene con assoluta certezza che suo padre non sarebbe d’accordo, probabilmente neppure sua madre. Sarebbe un lavoro troppo rischioso, con un guadagno più che incerto, e loro vogliono qualcosa di solido e stabile per lei, la loro unica figlia.
    Più volte le ho detto che, secondo me, dovrebbe pensare a fare semplicemente ciò che le piace, senza curarsi troppo del parere altrui. Ma lei risponde che non posso capire, che io ho iniziato da piccolo e quando si è bambini si affrontano le cose con leggerezza, che la musica è sempre stata il mio lavoro, non ho dovuto prendere una vera e propria decisione. Dopodiché lascio cadere la discussione, perché la sola volta in cui ho insistito si è letteralmente infuriata, ripetendomi quanto io faccia le cose semplici, e non mi ha parlato per giorni. E non è ciò che desidero, ogni giorno senza di lei è un inferno.
    Così a settembre inizierà a studiare business a Stanford, farà velocemente sia carriera sia tanti soldi e si assicurerà un futuro senza problemi. Come fa praticamente tutta la gente, sarà soltanto un numero. Entusiasmante.
    Potrei quasi pensare di assumerla come mia contabile, giusto per affiancare il suo nome a “Wacko Jacko”. Indubbiamente spiccherebbe tra la massa più di quanto possa fare da un’altra parte. Già immagino i titoli dele riviste di gossip: “La giovane contabile che dorme nella camera iperbarica con Wacko Jacko” oppure “Ecco la donna che sanerà i debiti di Wacko Jacko dovuti all’acquisto dello scheletro dell’uomo-elefante”. Rabbrividisco soltanto all’idea, ma almeno il suo nome otterrebbe fama.
    Il fatto è che quella ragazza ha talento, ed è proprio questa la cosa che mi fa arrabbiare. Ha ricevuto un dono da Dio e non lo coltiverà, soltanto per accontentare i suoi genitori. Esiste colpa più grave? Non è disposta a lottare per vedere i frutti del suo talento, preferendo crogiolarsi dietro la stupida maschera che presto oscurerà il suo volto. Come può lasciarsi cadere nell’anonimato con le sue stesse decisioni, con la sua mancanza di coraggio? Questo mi fa rabbrividire quasi più delle cattiverie che vengono scritte sul mio conto.
    Per il suo diciottesimo compleanno, avevo scelto già da molto tempo di regalarle qualcosa che le sarebbe rimasto per sempre, ad esempio una collana fatta esclusivamente di diamanti sarebbe stata perfetta.
    Invece ho preso quell’occasione come l’ultima per provare a farle aprire gli occhi. Quando ho visto quel gioiellino fotografico nuovo di zecca potevo sentirlo gridare: “Ragazza, sveglia! Sei ancora in tempo!”. Ero certo che avrebbe percepito lo stesso, che poi avrebbe cambiato idea e che, finalmente, avrebbe implorato la St. John’s University di accettarla al loro corso di fotogiornalismo, sebbene avesse precedentemente rifiutato.
    Esatto perché, come se non bastasse, era stata accettata nell’università dei suoi sogni. “Faccio domanda solo per curiosità, tanto non prenderanno neppure in considerazione il mio portfolio” aveva cinguettato con finto disinteresse. Mi ha fatto giurare che quella cosa sarebbe rimasta tra noi due e l’ho aiutata a compilare i moduli. Sono addirittura andato con lei all’open day, travestito con una vecchia tuta, con i folti baffi che mi pizzicavano il naso e la dentiera ingiallita che non faceva altro che staccarsi. Gli altri genitori devono avermi preso per suo padre e si devono essere chiesti come un uomo in quelle condizioni sarebbe stato in grado di pagare sessantamila dollari all’anno per mantenere la propria figlia.
    “Non chiedere niente, tanto lascerò perdere tutto” ha affermato tassativa quando siamo tornati a Neverland ed io, per non cominciare con la mia paternale e starmene zitto, ho dovuto strappare quegli stupidi baffi con una tale forza che il giorno dopo la pelle era sempre arrossata.
    Un mese dopo Rose, la mia domestica, mi ha portato i fogli con la risposta positiva della St. John’s University nel mio ufficio, pensando che fosse qualche scartoffia che “avevo per sbaglio gettato nell’immondizia”. Fortunatamente Lou se nera già andata, altrimenti le avrei fatto mangiare quella carta fino all’ultima fibra. Stupida ragazza.
    Seriamente, questa sua testardaggine mi fa impazzire. Ci conosciamo da una vita, possibile che non voglia ascoltarmi in nessun modo?
    Inoltre, da un po’ di tempo, si comporta in maniera così strana… Mi scruta di sottecchi, a volte è palesemente a disagio quando siamo insieme e cerca di liquidarmi con ogni scusa mentre, altre volte, passiamo intere giornate in compagnia e sembra non volersi separare da me per nessuna ragione.
    Questa situazione mi rende talmente confuso che non faccio altro che rimuginarci sopra. Nonostante non sia un guru in fatto di donne, è impossibile non notare il suo atteggiamento ed ho intuito, anzi ne sono quasi certo, che si sia presa una bella cotta. I sintomi ci sono tutti: è sempre truccata e profumata quando dobbiamo vederci, vorrebbe apparire impeccabile ma finisce sempre per fare almeno un paio di figuracce e non fa altro che complimentarsi con me per ciò che penso/dico/faccio. E, indubbiamente, la sua giovanissima età è un altro fattore che non le permette di nascondere tanto bene questo… sentimento?
    Mi è capitato, lo ammetto, di immaginarla come qualcosa di più di una cara amica e, al solo pensiero, sento lo stomaco fare una capovolta. Lei è così importante, così dolce, così bella, così tutto.
    Mi dico spesso che dovrei fare qualcosa per sciogliere quel filo di tensione che ci lega, ma non so cosa. In realtà, per quanto possa essere timido, saprei come testare il terreno, ma sarebbe un gesto avventato che mi farebbe solo rischiare di perderla. Ed io non voglio.
    Lou deve avere una vita serena come le altre persone, deve poter andare dove vuole quando vuole, deve essere libera. Libera dalle gabbie dorate nelle quali sono rinchiuso, libera da tutta la cerchia di vampiri che ho intorno, libera dai miei ritmi estenuanti. Libera.
    Una nostra possibile relazione - questa parola ha fatto esageratamente aumentare i miei battiti - le porterebbe un’infinità di problemi ed io non anteporrò mai, per nessun motivo, il mio desiderio alla sua libertà.
    Forse, in in un’altra vita, mi dico sempre.


    ***




    “Lou” la chiamo, mentre scendo le scale a due a due e mi dirigo verso la cucina, fresco di doccia e con i ricci morbidi sciolti.
    Non ricevo risposta.

    It's the fallin' in love that's makin' me high
    It's the being in love that makes me cry cry cry
    You got me falling in love, got me falling in love*



    Sorrido, sentendola cantare una mia canzone, che trapela di verità. Mi appoggio allo stipite dell’arco che porta alla grande cucina. Sta cucinando qualcosa, canticchiando soltanto quella strofa, per continuare mugugnando la melodia.
    Ha i capelli ancora umidi raccolti in una crocchia scomposta ed indossa la mia maglia azzurra di Mickey Mouse, che è stata annodata su un fianco, altrimenti sul suo corpo magrissimo sarebbe stata enorme. Gli shorts a vita alta segnano il suo punto vita e risaltano i suoi glutei. Istintivamente mi mordo il labbro inferiore.

    You're not like anybody I ever knew
    But that don't mean that I don't know where we are
    And though I find myself attracted to you
    This time I'm trying not to go too far, cause



    Proseguo la canzone, avvicinandomi alla sua figura e poggiandole le mani sulle spalle, massaggiandole, per poi spostarmi al collo lasciato scoperto.
    Sobbalza e la forchetta, con cui fino a poco prima stava girando il pollo nella padella, cade a terra.
    “Dio Michael, mi hai fatto prendere un infarto!” esclama, portandosi una mano al petto e voltandosi verso di me. E potrei morire in questo preciso istante, rapito dai suoi occhi color ghiaccio.

    No matter how it starts it ends the same
    Someone's always doing someone more
    Trading in the passion for that taste of pain
    It's only gonna happen again



    Continuo a cantare, raccogliendo la forchetta e lanciandola nel lavello, per poi prenderne un’altra e passargliela. Lei scuote la testa e curva le labbra in un sorriso imbarazzato. È per te, parla di te. E scusa se ti ferirò, so già che accadrà prima o poi.
    “Dai, canta tu il ritornello!” la incoraggio, saltando a sedere sulla penisola in mezzo alla stanza.
    “Scordatelo!” replica tassativa, dandomi le spalle e tornando a prestare attenzione al pollo.
    “Dai!”
    “Mi vergogno, lo sai.”
    “Ma tanto ti ho già sentita prima!”
    “Ah.”
    Torno con i pedi per terra. “Lascia perdere” le dico, togliendola dai fornelli. Le cingo il bacino con un braccio e chiudo con le mie dita una sua sottile mano. La faccio ondeggiare, finché non ci ritroviamo ballare per tutta la cucina. Se la cava piuttosto bene, è sciolta. “Canta, sei brava, davvero” insisto.

    It's the fallin' in love that's makin' me high
    It's the being in love that makes me cry cry cry
    It's the fallin' in love that's makin' me high
    It's the being in love that makes me cry cry cry
    All night, all night



    La sua timida voce è paradisiaca, come il modo un po’ impacciato con cui sta muovendo i piedi, abbassandoci gli occhi di tanto in tanto per essere certa di non calpestare i miei. Lei è Paradiso. Non ti farò piangere, te lo prometto.

    And though I'm trying not to look in your eyes
    Each time I do they kind of burn right through me
    Don't want to lay down in a bed full of lies
    And yet my heart is saying come and do me



    La stringo più a me, portando entrambe le mani sul suo bacino, mentre le sue mani si intrecciano dietro la mia nuca e giocano con i miei capelli. È l’innamoramento che mi fa volare con la testa, darling. È così piccola dinanzi a me, una spanna abbondante più bassa e, fatte scorrere le dita sulla sua colonna vertebrale, con le ossa facilmente riconoscibili al tatto. Provo a fissare le pagliuzze celesti nelle sue pupille, invano. A discapito della loro tonalità glaciale, gli effetti che hanno su di me sono quelli di un fuoco che brucia ogni concretezza. Quegli occhi sono un vortice che mi spazzerebbe via la lucidità e mi trascinerebbe in un viaggio senza possibilità di ritorno, se solo lasciassi la presa alla quale mi aggrappo con tutte le forze.

    Now we're just a web of mystery
    A possibility of more to come
    I'd rather leave the fantasy of what might be
    But here I go falling again



    Dimmi, Darling, che ne sarà di noi? Resisterò? Oppure mi farai perdere il senno?
    Ti sogno sempre, sai? Credo che potremmo stare bene insieme, almeno nelle mie fantasie. Ogni notte mi innamoro di più. Sei la mia boccata d’aria fresca, di normalità. Non di dirlo, ti prego, non dire che io sono come tutti gli altri. So che non è così, ed è questo l’appiglio che mi tiene ancora i piedi per terra. Ci faremmo solo del male, a causa mia. Rovinerei il diamante più prezioso della mia vita. Se non fosse così… oh Darling, non puoi nemmeno immaginare cosa farei in questo preciso istante
    .

    It's the fallin' in love that's makin' me high



    Termina solo con la prima frase del ritornello, senza ripeterlo interamente, come se avesse percepito le mie paure.
    Soltanto quando avverto le sue mani scorrere sulle spalle, sulle braccia, sulle mie mani che adesso penzolano molli lungo il corpo, mi rendo conto di aver chiuso gli occhi. Li riapro lentamente e lei è sempre davanti a me, la testa leggermente inclinata da una parte.
    “Mi hai fatto bruciare la cena” afferma, incrociando le braccia al petto e fissandomi con una falsa aria di rimprovero.

    Con l’odore di bruciato che aleggia sempre in cucina, ci siamo rintanati sul divano e ora le nostre mani si alternano nella ciotola piena di pop corn. Lou, sdraiati su metà divano e con il telecomando puntato contro lo schermo della televisione, sta facendo zapping, alla ricerca di qualcosa di interessante.
    “Cosa mi sono perso della tua festa?” domando, per distogliere l’attenzione dai cambi continui di canale che mi stanno dando alla testa.
    “Oh niente di che… L’amica francese di mia mamma. Hanno discusso tutto il tempo di quante brioche avessi mangiato quando siamo andati a Parigi” risponde, riempiendosi poi la bocca di pop corn.
    “Sicuramente ne hai mangiati un bel po’…” Mi fulmina con lo sguardo e mi tira una specie di calcio privo di forza. “Invece di fare la violenta, pensa a non affogare!”
    Deglutisce. “Be’, in realtà ti sei perso il discorso di mio padre.”
    “Tuo padre ha fatto un discorso?!” chiedo sorpreso.
    “Già, ha detto che è orgoglioso di me a prescindere da quello che farò e che devo essere libera di scegliere la mia strada.”
    “Ma, allora…” Allora studia fotogiornalismo e diventa la più grande fotografa della storia, mio Dio. Mi mordo la lingua, fermandomi appena in tempo per schivare l’argomento x che non devo più affrontare con Lou.
    “Allora cosa?”
    “Mm, niente, mi sono dimenticato. Deve essere stato bello.”
    “Sì, mi ha fatta emozionare, sai anche tu che ha difficoltà in queste cose… Ah, e poi ti sei perso la ramanzina che mia madre mi ha fatto a casa!” Ridacchia, coinvolgendomi. “‘Ma cosa vi viene in mente di fare?! Siete tornati in sala fradici, in un albergo di lusso come quello. Che figuraccia!’ Michael, dovevi assistere a quella scena, era completamente fuori di sé.” Il suo petto si alza e si abbassa ritmicamente.
    “Quindi c’ero compreso anche io?”
    “Ovviamente, forse da te se lo aspettavano ancora meno. ‘Ma poi anche Michael, nemmeno fosse un bambino. Invece di fermarti, ti ha addirittura assecondata’ gridava. Non le ho detto che tutto è partito da te, ringraziami.”
    Mi copro il volto con le mani e vi soffoco le risate, non riuscendo a contenermi.
    “E tu?”

    “Io? Io me ne stavo impalata lì con il vestito che gocciolava ancora!” Scoppio a ridere, e a quel punto lei ride ancora più forte, finché le lacrime non le sfuggono dagli occhi per il troppo ridere.
    “Lou, ti pare il modo? Ti sei scordata del galateo per caso?” dico, imitando la voce squillante di sua madre
    “Michael, per favore, non riesco a respirare” mi implora, agitandosi le mani davanti al viso per riprendersi.
    “Guardati anche ora, ti pare il modo di mangiare a casa di Michael Jackson? Ricoperta di briciole, i piedi sul divano! Sei scandalosa, una grande maleducata, signorina!”
    “Michael… Sul serio…” continua a supplicarmi tra il riso.
    “Okay, la smetto.” Mi allungo verso di lei e le asciugo le guance, a quel contatto si fa seria all’improvviso e percepisco le sue pupille trafiggere le mie. “Ieri sera eri bellissima, ma stasera sei… non trovo neppure l’aggettivo. Di una bellezza spontanea, come dici tu” le sussurro, ignorando il calore che mi sento salire fino alla punta dei capelli. Le sue guance avvampano e lei si volta di nuovo verso la televisione.
    “Idiota…” Il telecomando le cade dalla mano e si abbassa immediatamente per recuperarlo, tornando al suo posto.
    Dalle tende scostate, posso notare che un’enorme luna piena illumina il cielo. Oggi mi ha detto che, una sera, le sarebbe piaciuto fotografarla. Ma non stasera, sto così bene che vorrei rimanere in questa posizione per sempre, morire qui. La luna piena tornerà senza dubbio, questo momento probabilmente no.
    “Oddio sì, c’è L’Attimo Fuggente!” esclama poi elettrizzata, allentando un po’ la tensione che si era creata. Si sistema un cuscino sotto la testa e torna ad allungare le gambe sulle mie.
    “Ma è tristissimo.” Sbuffo.
    “Lo so, ma lo adoro!” Lo so. “È stato bello oggi, con quei bambini…” inizia, mantenendo lo sguardo fisso sul film.
    Annuisco, ripensando agli occhietti emozionati di quelle creature innocenti, alle loro grida di divertimento, al loro affetto incondizionato e sincero. I bambini mostrano nei loro sorrisi il divino che c'è in ognuno. Questa semplice benedizione brilla dritta dal loro cuore e chiede solo di essere vissuta.
    “È incredibile quello che fai per gli altri, ed oggi ne ho avuto l’ennesima conferma.” Butta fuori un sospiro leggero. “Ti brillavano gli occhi.”
    Entrambi ci voltiamo e i nostri sguardi si incrociano. Socchiude la bocca, quasi ad aggiungere qualcosa, ma poi si blocca e ricongiunge le labbra.
    “Anche a te brillavano gli occhi. E vorrei ti brillassero sempre.”
    Mi sembra che intuisca il velato messaggio che voglio mandarle, perché rompe il nostro contatto visivo e pianta le pupille sulla figura del professor Keating, ma non pare osservarlo seriamente. Si morde l’interno della bocca e un’ombra di colpevolezza le attraversa il volto, ma so benissimo che svierà il discorso.

    Cogli la rosa quando è il momento, ché il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà.



    “Michael, mi fai i grattini?”
    La conosco troppo bene.






    *TRADUZIONE "IT'S THE FALLING IN LOVE"

    Sei diversa da tutte quelle che conosco
    Ma ciò non vuol dire che non mi renda conto della situazione
    Ed anche se mi sono scoperto attratto da te
    Questa volta sto cercando di non lasciarmi andare troppo perchè

    Non importa come inizia, finisce sempre allo stesso modo
    Qualcuno fa sempre più torto
    Scambiando la passione per il gusto del dolore
    So che succederà di nuovo

    E' l'innamoramento che mi fa volare con la testa
    E' essere innamorato che mi fa piangere piangere piangere
    E' l'innamoramento che mi fa volare con la testa
    E' essere innamorato che mi fa piangere piangere piangere
    Tutta la notte... tutta la notte

    E anche se cerco di non guardarti negli occhi
    Ogni volta che lo faccio quella specie di fuoco mi attraversa
    Non voglio sdraiarmi in un letto di bugie
    E tuttavia il mio cuore dice vieni a prendermi
    Ora siamo solo una rete di mistero

    Una possibilità che sia più plausibile
    Preferisco fantasticare su cosa potrebbe succedere
    Ma ecco che mi innamoro di nuovo

    E' l'innamoramento che mi fa volare con la testa
    E' essere innamorato che mi fa piangere piangere piangere
    E' l'innamoramento che mi fa volare con la testa
    E' essere innamorato che mi fa piangere piangere piangere
    E' l'innamoramento che mi fa volare con la testa
    E' essere innamorato che mi fa piangere piangere piangere
    E' l'innamoramento che mi fa volare con la testa
    E' essere innamorato che mi fa piangere piangere piangere
    Per te ... per te (tutta la notte)

    (Mi fai innamorare, innamorare)

    E' l'innamoramento che mi fa volare con la testa
    E' essere innamorato che mi fa piangere piangere piangere ... etc.


    Edited by kalopsia - 1/7/2017, 00:23
     
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    Interessante Lou e Michael si conoscono da tanto. Lou non è convincente dice di provare solo amicizia nei suoi confronti canta una sua canzone It's The Falling In Love è palese presto sarà innamorata.
     
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    No... La parte sul divano mi. Ha stesa :barella: Lou ragazza, c'è poco anzi pochissimo da fare con il re... Se non lasciarsi andare.
    Ma anche lui mi pare già bello cotto <3
    Adoro. Continua!
     
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    Grazie mille ad entrambi per i commenti! :love:
    Eff, spero che ti sarai ripresa quando pubblicherò il prossimo capitolo, ci sto lavorando! :asd:
    Alla prossima! <3
     
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    Passavo di qui... :--:
     
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    Mi fa piacere che tu ti sia ripresa! :asd:
    Sto finendo di scrivere il prossimo capitolo adesso, credo che domani pubblicherò!
    Perdonatemi per l'attesa e anche per il fatto che, ve lo anticipo, non sarà lunghissimo! :ehm:
    Un bacio! :love:
     
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    Fai con calma... Lo so quanto sia laborioso ogni capitolo ;)
    Aspetterò pregustandomi una bella lettura
     
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    Capitolo 3

    CAN I HUG YOU?





    Sono dodici giorni, nove ore e trentasette minuti che non vedo Michael.
    Questo è indubbiamente un record per noi. Solitamente, anche se capita spesso che lui debba lavorare così tanto da non avere neppure un’ora libera, non passiamo più di cinque giorni senza scambiarci almeno due parole faccia a faccia. Magari lo raggiungo in studio e pranziamo insieme, oppure mi siedo semplicemente accanto a mio padre e aspetto che abbia terminato di registrare.
    Soraya è partita ieri e per i prossimi venti giorni, probabilmente, si limiterà ad oziare stesa su una bianca spiaggia delle Bahamas, in compagnia di Chase. Tornerà appena un paio di giorni prima del compleanno di Michael.
    Michael. Non riesco a togliermelo dalla testa. Tutto quello che mi circonda non fa altro che portarmi alla mente lui. Lui e le sue delicate mani sui miei fianchi, lui e le sue parole sussurrate, lui e il tepore rassicurante che mi trasmette quando siamo insieme. Michael, Michael e ancora Michael.
    Solo al pensiero del suo nome mi sembra che le ginocchia si facciano molli e che le gambe potrebbero cedere da un momento all’altro.
    Oramai, la mia mente è bloccata su di lui, e non intravedo neppure una via di fuga.
    Più cerco di scacciarlo, più lui tormenta il mio cervello. E, soprattutto, il mio cuore. Anche se in realtà le emozioni dipendono dal cervello, quindi no, il mio cuore è salvo. Ma il mio cervello è malato, troppo malato. Così malato da non poter ricevere guarigione. E, nonostante la scienza abbia provato che è la mente a comandare, anche il mio cuore mi abbandonerà presto, in seguito ad uno dei tanti infarti che mi prendono quando penso a… Michael. Ci ho pensato di nuovo. Anzi, non ho mai smesso.
    Quella sera è ancora così vivida in me che, se chiudo gli occhi, mi sembra di riviverla. Come la puntina di un giradischi che salta e non fa altro che riprodurre solo una piccola parte del disco, io ho annientato tutti i miei diciotto anni con lui per assaporare semplicemente quella sera.
    Inoltre, il fatto che trascorra le giornate chiusa in camera, da sola, non mi aiuta. Giusto per peggiorare la mia situazione già piuttosto drammatica, Soraya doveva andare in vacanza proprio adesso, quando la sua migliore amica sta per essere risucchiata dalla merda che si abbatte ininterrottamente sulla sua vita. E, come se non bastasse, quando ci siamo salutate mi ha detto: “Buttati Lou, non vivere di rimorsi, prova almeno!”
    Detto da lei, sembra tutto così semplice. Soraya, in relazione all’altro dannato sesso, è esageratamente intraprendente. È stata lei a fare il primo passo con Chase, è stata lei ad avergli chiesto esplicitamente un appuntamento ed è sempre stata lei ad averlo baciato per la prima volta, oltretutto dopo che lui le aveva detto che “la vedeva soltanto come un’amica”. Soraya è una leonessa che punta la preda e, al momento opportuno, l’addenta e non la lascia più andare. Io guardo la mia antilope scorrazzarmi davanti agli occhi. E, addirittura, mi sottometto a lei, mi trasformo nell’erba indispensabile a sfamarla.
    Divento polvere di fronte al mio uragano.


    ***




    Stretta nel mio tubino nero di Burberry (regalo di Michael, ci ho pensato di nuovo), fisso la strada di fronte a me. L’imbottitura del sedile, sommata ai trentacinque gradi che attanagliano la giornata, mi sta facendo squagliare la schiena. Alzo l’aria condizionata. Anzi, l’accendo, adesso si spiega tutto. Strano però, mi sembrava di averlo fatto appena entrata in macchina. Sospiro. Quanto andrò avanti in questo stato di distacco dalla realtà?
    Ho avuto l’ultimo colloquio universitario e ora posso dire con assoluta certezza che a settembre inizierò a studiare business. Tra appena un mese. Nonostante la soddisfazione, non ne sono particolarmente entusiasta, forse a causa del problema ben più grave che non sembra voler darmi pace.

    Avevo pianificato di tornare immediatamente a casa, ma mia madre ha colto l’occasione per farmi respirare aria fresca ancora per qualche ora.
    “Perché non raggiungi papà? È così stressato ultimamente, gli farebbe piacere averti a lavoro con lui nel pomeriggio.”
Certo, ci credo. Non poteva architettare una scusa più stupida. Ma ho accettato.
    Sono settimane che è visibilmente preoccupata per me. Ha fatto ricorso ad ogni mio hobby, ad ogni mia passione ed anche ad ogni mia necessità pur di farmi mettere il naso neppure fuori casa, bastava fuori la mia camera. Ha sempre fallito.
    Eppure oggi l’ho assecondata, primo perché sarei comunque dovuta uscire per il colloquio e secondo perché, quando ho capito che non sapeva più cosa inventarsi, mi sono sentita un po’ in colpa. Mi sono comportata come una bambina capricciosa. Ed è arrivata l’ora della punizione, che in un altro periodo sarebbe stata, in realtà, un piacere. Tuttavia adesso è la peggiore condanna che potessero infliggermi.
    Alzo il volume della radio.

    Si avvicina sempre di più la data di uscita del nuovo album di Mich-



    Spengo tutto in un nano-secondo. Basta. Fate trasferire quell’uomo su un altro pianeta, in un’altra galassia. La gente deve smettere di parlare di lui e tutte le riviste con la sua faccia stampata sopra devono essere bruciate (di questo mi ringrazierebbe). Cancellatelo dall’umanità. Eliminatelo dalla mia vita. Fatelo uscire dalla mia testa.
    Stringo le mani sul volante fino a percepire le mie unghie smaltate di rosso conficcarsi nei palmi.
    Quando metto la freccia per svoltare nel parcheggio degli studio, mi sento in trappola. Nella tana del leone. E temo a tal punto la reazione di Michael, che preferirei continuare ad ignorarlo per il resto della mia vita.

    Dopo aver parcheggiato, faccio il mio ingresso in quell’enorme struttura. Non che per me sia una novità, sono praticamente nata in posti come questo, ma questi posti così grandi e attrezzati mi affascinano sempre. Forse uno studio fotografico è simile.
    Una ragazza all’entrata mi riconosce e mi informa che mio padre è nella stanza cinque del secondo piano.
    Il ticchettio dei miei décolleté scandisce i secondi che mi stanno divorando l’anima. L’ascensore raggiunge la mia destinazione più velocemente del previsto e la stanza cinque è appena di fronte ad esso. Avrei preferito sprecare ancora qualche minuto.
    Busso. Ho il cuore che galoppa all’impazzata.

    “Ehi Lou!” mi saluta mio padre, aprendo e facendomi segno di entrare. Mi stava sicuramente aspettando, perché solitamente non apre mai lui, piuttosto qualcuno del personale di servizio.
    “Ciao papà” ricambio, mentre mi schiocca un bacio sulla guancia. “Buon pomeriggio a tutti” aggiungo, a testa bassa. Mi riservano un saluto tirato.
    “Vieni, accomodati.” Mi sistema una sedia accanto a lui, per poi rimettersi al suo posto. “Stavamo discutendo del video di Black Or White.”
    Soltanto quando le mie povere chiappe, trascinate lì contro la volontà di qualsiasi parte del mio corpo che non fosse il mio cervello ammaccato, affondano nella seduta, faccio scorrere le mie pupille su tutte le persone intorno al grande tavolo che è l’unico arredamento insieme alle sedie.

    Incrocio per lo più facce sconosciute. Di Michael non c’è traccia, ad eccezione del segnaposto con il suo nome posto in corrispondenza di una seduta vuota.
    Sento le funzioni vitali rallentare e tornare alla normalità. Mi aspettavo di trovarlo qui, invece non c’è. E benché da una parte tiri istintivamente un sospiro di sollievo, dall’altra non posso negare di essere dispiaciuta.
    Un tozzo uomo seduto di fronte a me blatera di soldi, contratti e investimenti. Gli altri sembrano intrappolati ognuno nella propria bolla, sentono ma non ascoltano. Quella stanza, me ne accorgo solo ora, è così asettica da rendere scontato il fatto che Michael non vi sia all’interno; basterebbe la sua presenza per colorare le mura grigie e rendere più piacevole l’atmosfera.
    Intanto hanno cambiato velocemente discorso, stanno discutendo di strategie di marketing e gestione del patrimonio di Michael Jackson.
    Un senso di nausea mi stringe lo stomaco. Le facce di queste persone sembrano così omologate, sono tutte identiche, con quell’espressione seria e un po’ disillusa dipinta sopra. Probabilmente neppure Steve McCurry sarebbe in grado di trovarvi qualcosa di interessante, nemmeno un singolo dettaglio che guizzi sulla loro pallida pelle.
    Ripenso al mio colloquio. “Complimenti, signorina Swedien. La nostra laurea le consentirà di accedere ai migliori posti di lavoro” mi ha detto il direttore del dipartimento di business, stringendomi mollemente la mano, come se fosse avvezzo a quelle parole e a quel gesto.
    Credo che lavorare per Michael sia uno delle migliori occasioni lavorative, senza dubbio. Eppure, a discapito di questa possibilità, gli uomini intorno a me appaiono così… grigi da confondersi con le pareti. Non dovrebbero essere fieri del loro lavoro? Insomma, ripeto, non capita a tutti una simile possibilità. Invece non fanno altro che trattenere sbadigli, passarsi le mani sui capelli radi, scarabocchiare cifre a sei zeri per cancellarle subito dopo.
    Hanno le cravatte strette intorno al collo, le camicie immacolate che coprono le pance spropositate di qualcuno che evidentemente lavora tutto il giorno ad una scrivania, lo sguardo di chi ormai non si aspetta nessuna novità sensazionale dalla vita.
    E parlano, parlano interrottamente. Bla, bla, bla… Tuttavia non mi pare che siano ancora giunti ad una reale conclusione.
    Le mie corde vocali si prosciugano al solo pensiero di blaterare in questo modo per un pomeriggio.
    E mentre i miei occhi passano nuovamente in rassegna questi nomi svuotati di ogni sprizzo di vitalità, mi chiedo: Diventerò come loro?
    “Papà” sussurro, cercando di ottenere la sua attenzione. “Papà.” Gli scrollo leggermente il braccio, riuscendo nel mio intento.
    “Dimmi tesoro.”

    “Dove è Michael?”


    ***




    Indugio sulla porta, dove capeggia un foglio con scritto in caratteri cubitali MICHAEL JACKSON.
    Passa una signora del personale con il carrello delle pulizie e lancia un’occhiata interrogativa alla mia mano chiusa a pugno sollevata in aria. Le sorrido per rassicurarla e ritiro a me la mano imbarazzata, ma mi sembra che lei scuota la testa e rida di nascosto come a divertirsi di me, mentre sparisce nel corridoio perpendicolare a quello in cui mi trovo.
    Questo è una dimostrazione palese del fatto di quanto sia profondo il mio stato di trance.

    Inspiro profondamente. È Michael, mi ripeto, non ha senso essere così agitata. Povera illusa, Michael è proprio la prima ragione per essere agitata.
    Passo una mano nei capelli per sistemarli, prima di riempire i polmoni d’aria per l’ennesima volta e, finalmente, bussare.
    “Avanti.” Faccio scattare la maniglia ed entro lentamente.
    Il rumore dei tacchi che si imbattono sul parquet rovere scandisce ogni passo in meno di distanza dalla figura seduta sulla poltrona di pelle nera.
    Sta armeggiando con tutti i tasti e le valvole che si estendono davanti a lui, le mani si spostano delicatamente da un pulsante all’altro.
    Mi fermo alle sue spalle, dalle cuffie che indossa posso percepire della musica, ma non le parole di questa.
    Conto fino a tre, poi gli poggio una mano sulla schiena, il tessuto della camicia nera è morbido e profuma, come di solito, di vaniglia. Saprei riconoscere quell’odore ovunque.

    “Michael.” Mi ignora, anche se so benissimo che mi ha sentita, viso che dalle cuffie non proviene più una singola nota. “Michael.” La mia mano scivola svogliatamente via e spezza il contatto che avevo con il suo corpo. Mi siedo accanto a lui.
    “Pensavo di trovarti di là, con mio padre” insisto, ma lui non mi degna neppure di uno sguardo, limitandosi a rigirarsi un lecca-lecca in bocca e ad abbandonare le cuffie sul ripiano, sistemandosi i capelli in una coda bassa.
    “Puoi almeno guardarmi?” Niente. Chiudo gli occhi, cercando di mantenere la calma con tutte le mie forze. Quando Michael è arrabbiato, non grida in faccia il problema, né discute. È impossibile litigare con lui, litigare nel vero senso della parola: non urla, non impreca, non sbotta. E, in questo modo, non permette neppure a me di scoppiare. Semplicemente ti toglie ciò che ritiene più importante, vale a dire l’attenzione. Non che mi sia capitato di litigare spesso con Michael, ma in quelle poche volte è stato così freddo e impassibile che è difficilissimo comprendere quali siano le parole giuste da usare.
    “Ascolta Michael…” Le ruote della mia poltrona scivolano più vicine alla sua. “So di… aver sbagliato, okay? E fai bene a non considerarmi, me lo merito. Ma ti chiedo scusa.”
    Si alza per gettare nel cestino il bastoncino del lecca-lecca, dopodiché torna al suo posto. La sua espressione non è cambiata di una virgola.
    “Puoi dire qualcosa?” Sento la rabbia salire, fino a chiudermi la gola.
    Non lo sopporto quando si comporta così. Lo detesto. Vorrei spaccargli quella fottuta faccia d’angelo con le mie stesse mani, spezzargli un femore almeno per un po’ non potrà fare il moonwalk, squarciargli le corde vocali affinché abbia un serio motivo per non parlarmi.
    “Cazzo Michael, ti ho chiesto scusa! Puoi cagarmi?” grido, balzando in piedi.
    Conto fino a dieci, per riprendere il controllo. Fortunatamente la stanza è insonorizzata, penso.
    “Ehi, guarda chi si rivede!” replica, finalmente. Il suo tono sarcastico mi fa venire solo voglia di prenderlo a schiaffi, ma almeno ha parlato.
    “Mic-”
    “Quanti giorni sono passati dall’ultima volta? Una decina, credo. Be’, sei cresciuta, quasi non ti riconosco.” Con una debole spinta alla scrivania, volta la poltrona verso di me e mi squadra dalla testa ai piedi. “Quante volte ti ho chiamata? Forse trenta? O quaranta?” Il suo sguardo, seppur distaccato, trafigge le mie pupille come se vi fossero state conficcate due spille.
    Quarantatré, per l’esattezza.
    “Michael, scusami, davvero.”
    “Sai cosa? Io proprio non ti capisco.” La tonalità della sua voce rimane uguale ad ogni parola. “A volte ti comporti davvero da bambina.”
    “Se non devi fare altro che trattarmi da dodicenne, puoi ritornare nel tuo mutismo, papà.”
    “Sai quanto sia difficile, per me, fidarmi di qualcuno. E sai anche quante persone, dopo poco, mi abbiano sbattuto fuori dalla loro vita. E tu che fai? Proprio questo.” Lo detesto ancora di più quando riesce ad afferrare il coltello dalla parte del manico e a puntarti la lama contro, rigirandosi ogni cosa in proprio favore.
    “Non ti ho sbattuto fuori dalla mia vita.”
    “Io non capisco come tu possa comportarti così. Mi conosci, conosci la mia vita, conosci i miei problemi. Che senso ha evitarmi per tutti questi giorni, comportarti come tutti gli altri?”
    “Ora sono qui. E non sono come gli altri, lo sai.” Non riesco a decifrare la sua faccia, non riesco a capire se sia incazzato nero o semplicemente amareggiato. O, peggio, deluso.
    
“Alla buon’ora. E soprattutto… Perché? Qual è il problema?”
    “Ascolta, io-”
    “Vuoi sapere la verità? Ho avuto paura di averti persa. Una dannata, insopportabile, paura. E ne ho ancora.” I suoi occhi, i suoi grandi occhi scuri da cerbiatto, si rabbuiano e diventano lucidi allo stesso tempo. Distolgo lo sguardo.
    “Michael, ti prego…”
    “Ma sai, in realtà, qual è la cosa più brutta? Pensare che tu mi avessi dimenticato. Come fa la maggior parte della gente quando non servo più. Tu non puoi capire quanto mi senta solo, troppo spesso. E non avere nemmeno te…” Si ferma, lasciando la frase in sospeso. Lo sento tirare su con il naso. Quando torno a guardarlo, una lacrima corre sulla sua guancia.

    Ha ragione, non potrò mai capire come si senta talvolta. Certo, lo conosco meglio di quanto possa conoscere me stessa, ma Michael Jackson ha così tante sfaccettature che è impossibile immedesimarsi in ognuna di esse. Per quante volte sia stata a Neverland, non comprenderò mai cosa significhi vivere in una gabbia dorata. Non capirò mai cosa si provi ad essere paparazzati ovunque. Non capirò mai la frustrazione che lo assale per non poter recarsi ad un parco o al supermercato. Non capirò mai il dolore che lo attanaglia al solo sapere di essere circondato da persone che vogliono esclusivamente i suoi soldi, prima ancora del suo bene. Non capirò mai Michael Jackson, per quanto lo adori.
    Ma posso comprendere e aiutare Michael, la sua parte più vera. Semplicemente lui, Michael.
    E mi sento un’idiota ad averlo ignorato, anteponendo le mie paranoie alle sue più che fondate e reali paure.

    “Dio, scusami Lou…” Sospira e si passa le mani sul volto.
    “Posso abbracciarti?” sussurro, trattenendo le lacrime.
    “È tutto quello che voglio.”
    Mi avvicino velocemente e, abbassandomi sul suo corpo ancora abbandonato sulla seduta della poltrona, lo stringo a me, in quella posizione scomoda. “Scusa, Michael, scusami.” Sento le sue unghie aggrapparsi disperatamente al mio vestito. Nonostante abbia trentatré anni, in questo momento è piccolo come un bambino.
    “Ho avuto paura che-”
    “Non dirlo, sono qui.” Sempre attorcigliata in quell’abbraccio scomposto, mi siedo sulle sue gambe. “Sono stata una stupida, scusami.”
    “Scusami tu per le parole un po’ troppo… dure.”
    Ci stacchiamo, rimanendo in silenzio. Gli asciugo un’ultima lacrima e gli sorrido, mentre lui si lascia cadere sullo schienale tenendo comunque una mano sulla mia coscia, come per non farmi scappare via.
    “Michael, io ci sarò sempre, okay? Non me ne andrò mai, mai. Non dubitarne nemmeno per scherzo, per favore.”
    Annuisce debolmente con la testa, vuotando la stanza di ogni minimo rumore. Scruta qualcosa alla sua destra, come per tenere la mente concentrata. Posso sentire i suoi pensieri sfrecciare da un emisfero all’altro del suo cervello.
    “Non ho fatto altro che pensare a quella sera” afferma poi, in un bisbiglio appena percepibile, posando di nuovo gli occhi sui miei.
    Esito a quella dichiarazione, la temperatura sembra essersi innalzata improvvisamente, ma in maniera positiva, senza soffocarmi. Non vivere di rimorsi.
    “Anche io” confesso, con le guance che, ne sono certa, sono avvampate.
    “E che hai pensato?”
    “Tu?”
    “Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda” mi rimprovera, punzecchiandomi un fianco. Ridacchio, sistemandomi meglio sulle sue gambe per non scivolare. Mi cinge un fianco con un braccio.

    Questa situazione è irreale. È tutto così calmo, disteso. A discapito della vicinanza con Michael, non sono in iperventilazione né ho la tachicardia, come accade solitamente. Sono rilassata a tal punto che potrei pensare di star dormendo. E questo è il più angelico dei sogni. Forse sto davvero dormendo, da piccola mi addormentavo sempre in braccio a Michael. Forse è una di quelle occasioni.
    In tal caso, non svegliatemi.

    “Che siamo stati bene. Ho pensato che siamo stati bene” mi risponde, mordendosi il labbro inferiore. Smettila, Jackson, o dovranno ricoverarmi per causa tua.
    Non so se, in questo momento, sia più dolce o sexy, ma sicuramene questo mix mi sta uccidendo lentamente.
    “Davvero? Hai pensato questo?”
    “Sì, che stiamo bene” si corregge. Fa scorrere gli occhi sulla mia figura, ogni brandello della mia pelle prende fuoco man mano che i suoi pozzi scuri lo passano in rassegna. “Tu?”
    “Anche io” ammetto, giocherellando con un braccialetto per non puntare tutta la mia attenzione su Michael.
    “Anche tu cosa?” insiste. Stronzo, non si accontenta mai.
    “Anche io… ho pensato che…. che stiamo bene, no?”
    “E… in che senso?” Ora è lui ad essere arrossito. Si appoggia con la fronte alla mia spalla, come per nascondersi. Il profumo dei suoi capelli, ancora impregnati dell’odore fresco del suo shampoo, mi invade le narici.
    “Non lo so… Non deve sempre esserci un senso, giusto?”
    Lui non dice niente, sembra pensarci su. Il suo respiro caldo si infrange contro la pelle nuda, accarezzandola, come le onde del mare cullano la battigia.
    “Forse hai ragione” replica, risollevando la testa. Ci fissiamo, profondamente. “Era questo il problema, darling?” mi chiede, con una punta di malizia mista a timidezza. Posso sentire la voce di Soraya nella mia testa ordinarmi di baciarlo, qui, adesso, senza indugio. Sarebbe il momento perfetto.

    Invece, appena pochi secondi dopo, la magia si spezza e Michael cambia argomento, imbarazzato. “Come è andato il colloquio?”
    “Bene, mi hanno definitivamente accettata.” rispondo, destandomi dalle mie fantasie. Vorrei chiedergli come faccia a sapere del colloquio, ma lascio perdere. Probabilmente gliel’ha detto mio padre.
    “Quello era scontato, lo sapevo già. Ma non sembri entusiasta. E non lo sembravi nemmeno quando sei uscita.”
    Corrugo la fronte, rivolgendogli uno sguardo interrogativo. “Che intendi?”
    “Anche se mi hai ignorato per tutti questi giorni” sottolinea nuovamente, tirandomi un buffetto sull’avambraccio. “Volevo essere il primo a congratularmi con te, quindi mi sono fermato nel parcheggio dell’università ad aspettarti. Ma c’era troppa gente e non sono potuto uscire dalla macchina alla fine.”
    Lo fisso sbalordita. Quest’uomo non smetterà mai di sorprendermi. “Non ci credo…” Il pensiero che lui sia stato lì a mia insaputa è un po’ inquietante, ma soprattutto mi lascia senza parole, e per felicità.
    “Invece è vero, credici. Ho agito da stalker!” Scoppio a ridere, seguita da Michael, che si copre la faccia con le mani.
    “Be’, puoi sempre conquistarti il primo posto, visto che non ho ancora chiamato mia madre e mio padre era troppo occupato in quella noiosa riunione.”
    “Che io ho visto bene di saltare!” Rido di nuovo. “Comunque davvero? Ancora nessuna congratulazione?”
“Già, proprio così.” Mi ricompongo, spostandomi i capelli dal viso.
    “Allora, se le cose stanno così… Congratulazioni!” esclama, schioccandomi un bacio sulla guancia, lasciando le labbra contro la mia pelle più del dovuto.
    “Grazie!”
    “Ieri sera sono stato in un centro commerciale e ho visto una cosa che mi ha fatto venire in mente te. Alzati un attimo.” Faccio come mi ha detto. Si sposta al lato opposto della stanza, prendendo una busta con un vaporoso fiocco rosa a tenerla chiusa. “Tieni” dice, porgendomela. Pesa una tonnellata.
    “Michael, devi smettere di farmi tutti questi regali, seriamente.”

    “E tu devi smetterla di dire così tutte le volte.”

    “Ma è vero.”
    “Mi piace viziarti, okay? Adesso aprilo.”
    
Non ribatto, consapevole di non avere possibilità di vincita. Inizio a sciogliere il fiocco. Michael, con le mani unite dietro la schiena, segue i miei movimenti in trepidazione, sorridendo.
    Tiro fuori l’oggetto dalla busta e lo fisso a bocca aperta.

    STEVE MCCURRY: PORTRAITS



    Faccio scorrere le dita sulla foto della famosa ragazza afghana stampata in copertina, accarezzandola. Questa raccolta di ritratti, alta tanto da aver bisogno di un’intera giornata per sfogliarla tutta, è tutto ciò che potessi desiderare. La mia fonte di ispirazione.
    “Ci sono tutti i ritratti e poi-”
    Abbandono il libro sulla poltrona su cui ero precedentemente seduta e torno a chiudere le braccia intorno al corpo asciutto di Michael. “Grazie, Mike, è pazzesca!”
    “Ti piace?”

    “Dire ‘Mi piace’ è riduttivo, la amo letteralmente!”
 Ridacchia oltre le mia spalla, mentre io affondo la testa nel suo petto.
    “Ti ho scritto una cosa dentro…” Si allontana, circondandomi però le spalle con un braccio, mentre io recupero il libro e lo apro alla prima pagina.

    “Guarda ai grandi per diventare ancora più grande.”
    Love, Michael Jackson.






    Buon pomeriggio!
    Ecco finalmente il capitolo, e mi scuso per il fatto che sia più corto del previsto.
    Voglio anche dirvi che, ovviamente, la storia deve ancora "spiccare il volo". Da un certo punto in poi, ho già in mente come andranno le cose (ho pensato a qualcosa di abbastanza "inusuale", credo, che spero vi stupirà), ma prima devo arrivare a quel punto.
    Perciò pazientate ancora per qualche capitolo, per favore.
    Grazie, un bacio!
     
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    Wooow che bella storia :-) sono contenta che c'è qualcuna che ancora tiene vivo il forum con lw FF, ti aspettiamo :)
     
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    It's all for love, L.O.V.E.

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    Ehi! Sono felice che ti piaccia, alla prossima! <3
     
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    Un abbraccio risolve tutto finalmente Lou e Michael si sono ritrovati. È mancato poco Lou lo stava baciando e dicendo di amarlo sarà per la prossima volta
     
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