Any Dream Can Become True

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    Any Dream Can Become True.
    _________________________






    Trama:

    1987, Los Angeles.
    Sharon Ville, ragazza di origine italiana con un sogno che sembra essere irrealizzabile: ballare e, con questa sua passione, diventare una professionista. Non è una ragazza come le altre, poiché il suo mondo è ritmo ed energia, musica allo stato puro. Nonostante le situazioni, è una ragazza positiva che crede in quello che vuole e una svolta inaspettata sembra essere l'occasione di un desiderio ormai rinchiuso dal tempo e dalla delusione. E lui... Be', lui non ha bisogno di presentazioni. Lui è Michael Jackson. In un modo molto particolare, questi due personaggi sono connessi da uno strano destino che li porterà ad una storia particolare che spero vi farà restare attaccati allo schermo del vostro computer.

    Data creazione: 24/01/10
    Rating: arancione
    Storyline: Bad era
    Genere: romantico, sentimentale, drammatico
    Capitoli tot.: 29
    Paring: Michael J. Jackson / Personaggio inventato


    _______________________________________




    Premessa.


    Get always a chance.
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Bene ragazze, per oggi può bastare», disse la Signorina Phillips, con un tono acuto e severo che mi fece rabbrividire. Ero in quella scuola di danza da quasi due settimane – anche se io, per quel posto, avrei preferito il termine IDPPCM, Istituto Denigratorio Per Principianti Come Me - e ancora non mi ero abituata alla sua parlantina rigida e stridula che, ogni giorno, me la faceva odiare sempre più. Già non la sopportavo per come si comportava nei miei confronti, sempre offensiva e poco gentile, ed in più la sua voce mi dava sui nervi, dal primo giorno in cui l’avevo conosciuta per giunta. Non mi scorderò mai quella stramaledetta giornata. Mai. Il modo in cui mi avevano trattato era stato il più offensivo che avessi mai ricevuto.
    Tutte assieme, io e le altre ballerine, ci alzammo e facemmo l’inchino, cosa che Mrs. Phillips desiderava fosse sempre fatta, una volta finita la lezione. Fatta anche quella sceneggiata tanto snob quanto disgustante per me, mi alzai in piedi agile e scattante, pronta per andare a casa, farmi una doccia e andare a lavoro, al locale più frequentato di una di quelle tante piccole e sconsolate periferie di Los Angeles.
    Non vedevo l’ora di andarmene e, nonostante l’ambiente ostile che mi veniva a parare di fronte il destino, ero ogni giorno di più convinta che chissà quando il mio sogno di diventare una ballerina professionista sarebbe diventato realtà. O almeno, io speravo.
    «E ora passiamo alle buone notizie!», esclamò di colpo, battendo le mani gioiosa. Mi bloccai di colpo con la mano sulla maniglia della porta, oramai arrivata alla porta che mi avrebbe portato all’uscita da quella sala da ballo, e schioccai un’occhiata curiosa e preoccupata alla professoressa. Ero curiosa sì, perché mi interessava sapere come mai fosse così contenta ed entusiasta, ma allo stesso tempo preoccupata perché di sicuro non rientravo nel gruppo di quelle che sarebbero evidentemente state “le fortunate” di quella novità.
    Sarebbe stato il solito concorso per figlie di papà ricche e viziate, gruppo nel quale assolutamente non rientravo. Purtroppo venivo considerata da tutte, insegnante compresa, come la povera ragazza straniera in cerca di fortuna in America dal fisico troppo formoso per una ballerina di danza classica che cerca invano di diventare qualcuno, e che alla fine non sarebbe mai andata da nessuna parte.
    La verità era che quella danza - il ballo classico, specifichiamo - non era fatta per me e lo sapevo fin da quando avevo pochi anni di età. Io avevo bisogno di muovermi, andare fuori dagli schemi... Non avere limiti. Sentirmi libera. Come Alex, la protagonista di Flashdance, il mio film preferito. Mi immedesimavo tantissimo in lei e nella sua storia.
    Peccato che nessuno riusciva a capire cosa provavo io quando ballavo, e non cosa si dovesse provare o essere concentrati per i passi giusti. Per loro la danza classica era quella che portava al successo. Oddio, era vero che era un po’ la base per tutti gli altri balli quella, ma se sapevo che nel programma di quella scuola contava di più il classico non mi sarei mai iscritta. E dire che lo avevo anche chiesto, alla segretaria, se in quel corso ci fosse stata la danza classica. Ma lei "Nooo, si figuri!". Come no.
    Che cosa avrebbe fatto la gente per i soldi a volte, io proprio non riuscivo a capirlo. Io vivevo in un altro mondo, fatto di danza e musica allo stato puro. Trasformavo la mia vita in musica e quando ballavo mi sentivo felice. Davvero felice.
    «Bene ragazze, mi raccomando, da domani inizieranno dei provini». Voci inquiete angosciate cominciarono ad echeggiare nella stanza, facendo diventare quel ansioso silenzio di attesa in un ronzio caotico e soffocante. «Silenzio, ragazze!», tuonò la Signorina Phillips. Quando tutte si calmarono e ritornò il silenzio, ritornò a sorridere contenta. «Domani, come ho già detto, inizieranno dei provini che saranno la vostra opportunità di una vita intera
    A sentirle pronunciarle quelle parole, sentii il cuore in gola. Una strana ansia percorse le mie vene al posto del sangue e, se avevo capito bene e l’udito e l'intelligenza non mi ingannavano, domani avrei potuto realizzare il mio sogno più grande con un solo provino. Peccato che io, ancora, non avevo capito di che razza di provino si trattasse. Se fosse stato riguardo la danza classica, mi sarei messa subito il cuore in pace. Con tutta l’anima pregai non trattasse di quel tipo di ballo.
    «Ebbene, vorrete sapere di che tipo di provino si tratta. Ragazze mie, proprio domani ci farà visita il cantante più famoso di tutti i tempi di questi giorni, e cerca proprio una ragazza per un video del suo nuovo album in debutto su tutte le classifiche mondiali…»
    Mi mancò il respiro. Quei dettagli erano abbastanza per capire di chi stesse parlando. Il sorriso sulle labbra della professoressa si allargarono sempre di più, fino a quando si decise finalmente a dire quel benedetto nome che avrebbe fatto rabbrividire perfino i muri dall’euforia. Un coro di gridi e urli eccitati si levò da tutte le ragazze presenti nella sala, tranne che da me.
    Io ero troppo emozionata per parlare e per respirare, soprattutto per far continuare a battere il mio cuore a ritmo naturale. Riuscii solo a sorridere, come una vera imbecille, e a portarmi le mani a coprirmi gran parte del viso, bocca e naso.
    «Calmatevi, ragazze, un po’ di contegno!» gridò felice Mrs. Phillips, battendo le mani chiamandole all’ordine. Una volta finite le crisi isteriche ed emozionate delle mie compagne di sala da ballo, l’anziana insegnante proseguì di nuovo con il suo discorso e prediche varie.
    «Voglio vedervi tutte preparate a dovere, ormai le cose le sapete fare meravigliosamente. Non avrete problemi in nessun stile, grazie alle cose che vi ho insegnato», disse orgogliosa la professoressa, rivolgendomi uno sguardo malvagiamente sorridente.
    Sapeva benissimo che io sapevo poco e niente di come si faceva in modo meraviglioso un Cambrè, un Attitude o un Arabesque! Qualsiasi passo provassi a fare non andava mai bene. Lo capivo da come mi guardava e dal modo dispregiativo con cui mi correggeva, e dalle risatine cattive alle mie spalle di Jenny e Gloria, due galline che avevano sbagliato pollaio tanto tempo fa.
    «Mi scusi, Signorina Phillips» intervenne, come al solito, la vipera di turno, Gloria Williams. «E chi è appena arrivato da poco tempo, nella scuola, farà lo stesso il provino?»
    Non guardava me, ma di sicuro quella frase non poteva essere rivolta ad altri. Accennai ad un sorriso falsamente cordiale a Jenny, che mi guardò sorridente ma con fastidio per la mia espressione di scherma.
    Anche perché, poi, mi ero abituata a tutte le loro battute e prese in giro; quando c’era la professoressa non rispondevo mai, ma se capitava mi provocassero quando non era presente le massacravo a parole. Mi bastava dirle poche parole di falsa benevolenza e le inducevo ancora di più alla rabbia. Mi divertivo, tutto sommato. E ancora non riuscivo a capire il perchè mi avevano odiato fin dal primo giorno in cui ero stata ammessa a quella classe.
    «Tutte parteciperanno, almeno se qualcuno non rinuncia già da adesso», rispose lanciandomi una fugace occhiata che ricambiai non smettendo di sorridere. «Ovviamente chi non sarà all’altezza, penso che si noterà da subito».
    «E in cosa si baserà questo provino?» disse una delle tante ballerine in sala, che se non ricordavo male si chiamasse Lauren. La Signorina Phillips si aggiusto gli occhiali sul naso e rispose, lasciando trasparire una tonalità di voce assolutamente neutra.
    «Dovrete ballare una ciascuna, secondo l’elenco, in una vostra esibizione a piacere. Più specificatamente, il genere richiesto sarà molto più movimentato della raffinata danza classica».
    Un coro di voci preoccupate e nervose cominciò a farsi udire, mentre io pensai di essere l’unica in quella stanza ad essere felice come una pazza per quella notizia. Saper di poter ballare un pezzo tutto mio e non classico, e in più con mie coreografie mi rendeva al settimo cielo. Di sicuro non volevo perdere quell’occasione.
    Se sarebbe andata bene o male non mi importava, quello che sentivo era solo il desiderio di sentirmi bene e mostrare che, al contrario di quello che diceva qualcuno, io la musica la possedevo, con o senza tecnica di base. Oramai non credevo molto nel mio sogno, c’erano molte più brave di me, ma la speranza era dura a morire, nel mio caso.
    «E ora andate, dovete essere bellissime e fresche per domani. È un’occasione da non perdere, da non perdere! Non fatemi fare brutta figura, altrimenti sarò costretta a non farvi esibire… Voglio che rappresentiate questa scuola al meglio, perché la maggior parte di voi sono delle ballerine modello! Sono sicura nelle vostre capacità, ma non mi deludete! Troverete tutti gli orari nella bacheca all'ingresso, au revoir!»
    Quasi fosse più importante la reputazione che il nostro futuro, si diresse a passo spedito e sulle punte verso l’uscita, mentre tutte le rivolsero il saluto, me compresa. Una volta uscita la professoressa, le due oche starnazzanti di nome Jenny e Gloria mi si avvicinarono.
    «Allora partecipi anche tu, dilettante?» disse Gloria con un sorrisetto divertito. Non si poteva dire lo stesso di Jenny, che mi guardava piena d'invidia, neanche avessi già vinto. In effetti, capivo che si sentiva già con meno possibilità, al mio confronto.
    «Ovvio, ma non vi chiederò se parteciperete anche voi. La risposta già la so da me, non ho bisogno di inutili chiacchiere» dissi perfidamente divertita dalla smorfia che apparve sul volto contratto di Jenny. Gloria alzò un sopracciglio e continuò per la sua strada.
    «Stai tranquilla, avrai molto tempo per affinare le tue tecniche classiche di base, perché di sicuro non verrai presa.» rispose, trasformando quel sorriso in una faccia provocatoria. Io alzai di spalle, con un’espressione ingenua in volto.
    «Può essere. E tu sei convinta di vincere?»
    «Ovviamente. Non ho dubbi». Nel suo tono di voce, scoprii una leggera nota di rabbia per la mia domanda che, sicuramente, pensava fosse insensata.
    «Allora buon per te. Intanto, prima di sognare, aspetta domani. Potrebbe vincere qualcun altro, che non sia né io né tu o nè Jenny.»
    Nel volto di entrambe le due comari apparve una smorfia di rabbia e fastidio, così girarono i tacchi – o le punte – e se ne uscirono fuori dalla stanza, seguite dalle solite stupide invaghite delle più ammirate di quella classe.
    Sospirando, uscii anche io, proseguendo diretta però verso casa una volta fuori dall'edificio, non prima di aver controllato la bacheca degli orari di domani riguardo al provino. Uscita da quel posto che mi faceva venire ogni volta che ci entravo mal di stomaco, subito fui bloccata da Roxy, una ragazza timida e l'unica che mi trattava come una persona normale, in quella scuola. Aveva dei profondi occhi cioccolato e portava lisci capelli bruni poco più lunghi delle spalle.
    «Hey Roxy», dissi fermandomi e rivolgendole un cenno con la mano. Non appena mi si avvicinò, prese fiato e mi disse:
    «Volevo chiederti... Domani farai anche tu il provino, insomma, come le altre?»
    «Certo», dissi alzando le spalle con un lieve sorriso in volto. Sapevo che qualcosa la tormentava, e di sicuro non riguardava me. Era ovviamente in dubbio, come tutte le altre ballerine del corso.
    «Ecco, tu nei miei panni... Che faresti? Cioè, lo so che vado meglio nella classica, però mi piacerebbe provare... Insomma, è Michael Jackson! Un'occasione così non capiterà mai più!» disse saltellando su sè stessa, non appena pronunciò il nome dell'artista. Io, felice di quell'entusiasmo improvviso, le sorrisi apertamente. Mai mi sarei immaginata Roxy Views una fan di Michael Jackson.
    «Allora, se ritieni che questo sia un avvenimento importante, provaci! Magari verrai presa! Vedrai che farai una buona esibizione, sei brava», le risposi poggiandole una mano sulla spalla sinistra, per rincuorarla.
    «Io non credo vincerò... Stai sicura che prenderanno te, non ho dubbi», ammise lei, guardandomi sorridente. Una cosa che mi piaceva di Roxy, era che non provava invidia. Non era gelosa per le cose che possedevano altri o per opportunità a lei non concesse. Era una brava persona, la migliore là dentro in quell'inferno.
    «Speriamo, ma ho anche io dei forti dubbi... E spero anche per te il successo.»
    «Grazie Sharon. Quindi tu pensi che debba...?» chiese mordendosi il labbro inferiore, nervosa.
    «Sì, provaci.» risposi annuendo convinta. «Se questa esperienza non accadrà mai più, è meglio provarci no?»
    Mi sorrise cordiale, mi ringraziò e mi salutò, dicendomi che se avrebbe fatto tardi avrebbe perso sicuramente l'autubus che l'avrebbe portata a casa. Io, allora, m'incamminai verso la strada di casa.
    Purtroppo anche quella sera avrei dovuto lavorare al locale, ma forse era una buona cosa: mi sarei potuta esibire in un ballo pre-provino. Ballavo spesso alla sera, al locale, oltre che a fare la cameriera e assistente barista, e il pubblico mi ammirava. Mi sentivo, per quel poco che facevo, fiera di me. Quel locale era come una seconda casa. Per evitare di farmi due volte la doccia, proseguii dritta al bar "Saturday Night" e mi misi al lavoro prima del tempo; un po’ di straordinari mi avrebbero fatto bene.
    Per tutta la serata non pensai ad altro se non al provino e ai miei sogni per il futuro. Dissi dell'opportunità al mio capo, il signor John Berry, e fu felice per me; anche lui, nonostante le apparenze da uomo tozzo e piccolo, dalla severità degna di una roccia, si era rivelata una brava persona. Mi apprezzava per come ballavo e finita ogni esibizione mi faceva sempre complimenti, offrendomi in più un drink gratis. Al bar lavorava con me anche una mia cara amica, Hilary, e mi disse che se avrei vinto mi avrebbe portato a fare shopping no-stop, tutte spese pagate da lei. Era più agitata lei che io, che avrei dovuto entro poche ore esibirmi.
    Ripensai a quel cantante di nome Michael Jackson che, nella mia vita, aveva segnato un lato della mia esistenza indelebile... Assieme a tutti i miei film preferiti che mi avevano dato ispirazione nella danza, ovvio. Michael Jackson era per me, fin da bambina, un esempio da ammirare, ma non ero mai stata una sua vera fan. Io lo ammiravo come ballerino e artista in sé, il carattere non lo conoscevo. Non mi ero mai interessata se non alla musica, sebbene lo trovassi di primo impatto una persona gentile e sincera. Non potevo basarmi solo su quello che intravedevo dalla tv e dai media, per definirlo una persona di cui farne un idolo. Forse le cose, da domani, sarebbero cambiate. Avrebbe reso la mia vita colorata di un sogno che, ormai, avevo rinchiuso per sempre in un cassetto del mio cuore? Sarei stata abbastanza brava da superare quella prova?
    L'unica cosa di cui ero certa, era che l'indomani sarebbe stato il giorno più importante della mia vita.

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    Capitolo Uno.


    Dancing for her life.
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Prego, ora tocchi alla signorina Megan Taylor», disse l’accomodante voce di Mrs. Phillips, la professoressa delle ballerine che stavo per l’appunto esaminando accuratamente.

    Io e il mio manager avevamo vagato per tutte le scuole di danza di Los Angeles, in cerca di una ballerina per il mio nuovo e primo video estratto dall’album Bad, The Way You Make Me Feel, ma non avevo ancora trovato quella che avrei desideravo trovare. Ci erano rimaste solo 5 scuole da esaminare, e chissà, magari avrei trovato quella giusta nei posti che più potevano essere impensabili.
    Solo due, quel giorno, avevano attirato per quel poco la mia attenzione; erano brave, avevano base a sufficienza per essere delle professioniste, ma non avevano quella, come si dice, passione quando si esibivano, che ormai ero sul punto di credere che anche in quella scuola non avrei trovato la ragazza che cercavo.
    Ella doveva essere semplice, quando si muoveva doveva essere… Doveva essere felice. Doveva essere orgogliosa di ballare, dovrebbe trasmettere. Ecco, la parola giusta era proprio trasmettere.
    Stavo seduto su una cattedra lunga di mogano, in fondo ad un angolo di un’enorme stanza di parquet di legno e senza specchi. Ero seduto al centro del tavolo, con alla mia sinistra il mio assistente coreografo, il mio manager Frank Di Leo e alla mia destra la Signorina Phillips. In quella posizione, potevo avere una chiara visione della sala e delle ballerine che si esibivano.
    Quella volta, a discapito di altre, avevo scelto di farne esibire una per una, in modo da osservarle attentamente e senza far differenze. Non volevo rischiare di perdere, se nel caso ci fosse stata, la persona giusta che avrei proclamato fosse quella corretta.
    Quando l’esibizione di anche questa finì, toccò ad una certa Jenny Vain, secondo l’elenco. L’insegnante accanto a me sembrò emozionata all’idea di vederla ballare, quando le lanciai un’occhiata fulminea potei capire che di sicuro era una delle preferite.
    La ragazza cominciò a ballare, ad un ritmo quasi classico, forse troppo per i miei gusti, siccome ricercavo qualcuno che sapesse danzare una musica più movimentata. Aveva tecnica però, dovevo ammetterlo. Ed era anche abbastanza carina. Decisi di prenderla in considerazione e sull’elenco delle ballerine la segnai con un asterisco.
    Quando la professoressa vide quel mio gesto, mi parlò emozionata.
    «Jenny Vain è una delle più promettenti ballerine di questa scuola, sono sicura che se ci lavorerà un po’ su non la deluderà» mi disse sottovoce. «E possiede bellezza, anche questo non si deve scordare».
    «Oh, certo. La prenderò in considerazione» risposi, non staccando gli occhi dalla ballerina che, con un lieve sorriso in volto, fece l’inchino.
    Chissà perché, Mrs. Phillips non era una donna che mi suscitava fiducia. Faceva differenza, e la cosa non mi piaceva. In ogni modo, decisi di prendere in considerazione il talento delle ragazze, non il carattere.
    «Bene,» dissi poggiando la penna sul tavolo e rivolgendo alla ragazza un lieve sorriso di rimando. «Grazie per l’esibizione. Passiamo a…» Guardai l’elenco e poi ripresi. «Sharon Villa».
    Silenzio. Non successe praticamente niente. Pensai che non avesse sentito, perciò ripetei il suo nome. Dalla sala cominciarono a provenire voci soffocante e risatine dalle ragazze presenti e subito Mrs. Phillips mi bloccò, prima che potessi spiccicare di nuovo parola.
    «La ragazza non verrà, penso. Chiedo scusa al posto suo di questo suo comportamento infantile,» disse pronunciando quelle parole in un modo dispregiativo che mi portò a guardarla fisso negli occhi. «Ma non si perde niente, è qui da poche settimane perciò…»
    «Sì, sì, ho capito», risposi bloccandola prima che potesse dire altre cose.
    Non mi piacevano le persone che offendevano a priori, sebbene in effetti non pensavo avesse tutti i torti. Era stato un comportamento un po’ impulsivo, ma capivo l’ansia che si poteva provare. La compativo, nonostante non la conoscessi. Tuttavia, non potevo capire come mai quel tono malvagio da parte dell’insegnante.
    Da un gruppetto di ballerine in fondo scorsi alcune, fra cui Jenny Vain, ridere sarcasticamente e, casualmente, sentii pronunciare il nome della ragazza che non si era presentata. Quando incrociarono il mio sguardo, quelle quattro o tre ragazze smisero subito di ridere, siccome le fissavo pensieroso e deluso dal comportamento di certe persone.
    Feci finta di niente, nonostante gli sguardi di paura e di timore, e continuai a chiamare una ad una le ragazze dell’elenco, sotto gli sguardi di tutti i presenti in sala.
    «Avanti con… Roxanne Views».
    Una ragazza dai capelli bruni e gli occhi scuri si fece avanti, minuta, e inserì nel lettore Cd dell’angolo alla mia sinistra della parete il disco.
    Cominciò a ballare e cercai di rimanere con l’attenzione fissa alla sua danza, piuttosto che pensare alla ragazza precedente ed il motivo perché non fosse venuta.
    Nessuno, penso, avrebbe mai perso un’occasione così.
    Ad un certo punto la mia attenzione – e un po’ quella di tutti in sala – si rivolse ad una ragazza che, in fretta e furia entrò nella stanza ansimando. Era una ragazza dai capelli ricci e lunghi, di colore castano scuro, e con profondi occhi neri. Aveva la pelle mulatta e un viso ovale, dai lineamenti marcati ma con un che da bambina. Che fosse lei Sharon Villa?
    Mrs. Phillips si alzò dalla sua sedia in modo molto secco, con l’aria di chi sta per scatenare tutta la sua ira e la sua furia. La ragazza rimase immobile, guardando tutte le persone nella sala, incrociando in ultimo il mio sguardo.
    Non so cosa accade, ma la sensazione che mi provocò attraverso i suoi occhi fu fatale. Non avevo mai visto uno sguardo più intenso. La luce che trasmettevano i suoi occhi neri era profonda, intensa. Una luce che trasmetteva vita.
    Arrossì di colpo, non appena ebbe focalizzato che quello che stava fissando ero veramente io, e spostò di colpo gli occhi sulla Signorina Phillips, che nel frattempo l’aveva già raggiunta a passo agile e dinamico. Vidi le labbra della ragazza muoversi veloci, fin quando non furono interrotte da quelle della anziana donna, furente di rabbia.
    «Michael?», disse il coreografo, alla mia sinistra, preoccupato.
    «Di’ di fermare un momento la musica, per cortesia…» dissi guardando un momento la ragazza, Roxanne Views, che si era accorta di quello che era successo e si era fermata, preoccupata.
    La musica s’interruppe di colpo e gli sguardi delle ballerine, dell’insegnante e di Sharon – ormai non avevo dubbi sul chi fosse – mi fissarono straniti. Guardai la professoressa Phillips, improvvisamente terrorizzata, e Sharon, la quale non muoveva un muscolo.
    «C’è qualche problema?» disse il coreografo, rubandomi parola di bocca.
    Subito Mrs. Phillips guardò me, a bocca aperta, poggiando successivamente uno sguardo omicida su Sharon – che teneva gli occhi fissi ai miei – e rivolgendosi infine a me.
    «Mi… Mi dispiace molto, signor Jackson, per l’interruzione. Lei non…» disse balbettando con voce tremante e irata.
    «Sei Sharon Villa, vero?» chiesi rivolto alla giovane, con un lieve sorriso. Lei annuì soltanto e poi tornò a guardare la maestra, con uno sguardo carico di rancore e frustrazione.
    Perché quell’odio reciproco, fra insegnante e alunna?
    «Signor Jackson, le chiedo perdono per l’interruzione. Io davvero…». Senza le parole giuste per proseguire, tornò a guardare negli occhi la ballerina, questa volta con un tono di secca decisione.
    «Non ci saranno più intoppi, la ragazza non ballerà e potrete andare avanti coi provini».
    «Cosa?!», esclamò la ragazza, sbarrando gli occhi. Rimasi ad osservarla, questa volta sorpreso dalla sua improvvisa esclamazione.
    Poi il suo sguardo fuggì verso due ragazze, di cui una sempre la solita Jenny Vain, a sogghignare. Il suo sguardo si fece carico di rabbia.
    «Tu non ballerai, né ora né qua», ripeté l’insegnante, questa volta fulminandola con lo sguardo di chi non ammetteva repliche.
    Vidi gli occhi di quella Sharon farsi lucidi di rabbia e delusione e sentii improvvisamente l’istinto di volerla aiutare. Potevo scorgere in lei la voglia di danzare e qualcosa dentro di me mi disse che dovevo farle raggiungere il suo scopo; se non l’avrei fatto, magari mi sarei pentito per sempre.
    E lei soprattutto avrebbe sofferto per sempre.
    «Io invece vorrei vederti ballare, Sharon» dissi, sentendo tutti gli sguardi, nel giro di un secondo, su di me. Anche la ballerina mi guardò con occhi sconvolti e eccitati. Io, allora, le sorrisi gentilmente.
    «Cosa?». Questa volta era Mrs. Phillips ad esserne sconvolta, mentre Sharon mi ricambiava la cortesia con un sorriso aperto e spontaneo, affascinante.
    «Io avrei finito, puoi prendere il mio posto se vuoi…» rispose una timida voce, proveniente da Roxanne Views, la ragazza che si era interrotta nel mezzo dell’esibizione.
    Sharon la guardò con uno sguardo pieno di rammarico e angoscia, immaginando si sentisse in colpa per averle troncato una occasione come quella. L’altra le sorrise gentile e solo allora lei ricambiò con un sottile “Grazie”.
    Sorridendo, a discapito di tutte le ballerine e la professoressa sconvolte e scioccate da quella situazione, con un cenno del capo invitai Sharon a farsi avanti, in piedi dalla sedia su cui una decina di minuti prima stavo seduto. La Signorina Phillips accennò una smorfia irata con le labbra e squadrò l’alunna con disgusto e odio inumano. Solo allora la ragazza, facendo finta di niente, s’incamminò allo stereo per inserire il Cd di ballo.
    L’anziana donna si portò alla cattedra, non enunciando parola, e finalmente mi sedetti anche io. Sorrisi inconsciamente. Nel frattempo che la ragazza faceva un po' di stretching, il mio assistente coreografo mi parlò.
    «Sei davvero sicuro ne varrà la pena? E se non è brava come desideri?», chiese dubbioso.
    «In quel caso almeno avremo tentato.», dissi cordiale, alzando le spalle, non riuscendo a distogliere gli occhi dalla ballerina Sharon, che velocemente si riscaldava.
    «Signor Jackson, le prego di perdonare quella che sarà una perdita di tempo…» riprese imperterrita Mrs. Phillips, non dandosi per vinta. «Lei non è una professionista, è solo una ragazza straniera che non ha base… Frequenta questa scuola da solo due settimane, non ha tecnica… E' solo... La prego, non… Non sa quello che fa…»
    Subito la interruppi, non volendo più sentirla enunciare parola. Mi davano fastidio le persone che dispregiavano altra gente senza un motivo giusto. «So benissimo quello che sto facendo, ho le idee molto chiare».
    Non disse più nulla. Nessuno disse più niente e, da quel momento, solo la musica cominciò a regnare sull’immensa stanza. La traccia che avevo scelto non mi era nota, ma stranamente – in confronto a tutte le altre – non aveva preparato una coreografia su una mia canzone.
    La ragazza si fece avanti al centro della stanza, con accanto alla sua sinistra a qualche metro da lei una sedia. Mi guardò un istante, con una espressione decisa e tranquilla, per poi volgere il suo sguardo sul pavimento.
    La vidi chiudere gli occhi e respirare profondamente. Una volta che il ritmo si fece più veloce, vidi il suo corpo cominciare a scaldarsi e dalle sue labbra comparire un sorriso. Un sorriso sereno. Felice.
    La ragazza aprì gli occhi di scatto e cominciò a muoversi, sinuosa ma secca nei movimenti, a ritmo delle note di quella stupenda canzone hip hop. L’unica cosa che in quel momento riuscivo a fare era quella di starmene a bocca aperta. Come tutti quelli presenti nella sala, d’altronde.
    Il mio istinto non aveva torto, quella volta. Era lei. Ne ero sicuro. Lei trasmetteva emozioni!
    La vidi muoversi agilmente, sorridente, felice di quello che faceva. Era magnifica. Non avevo mai visto nessuno così, e lei era quella particolare eccezione alle regole. Davvero sembrava di vivere personalmente la scena di Flashdance, la scena in cui la protagonista si esibiva per il suo esame.
    Ma la cosa che più mi rendeva senza parole, era l’energia che dava. Trasmetteva quella voglia di ballare e di muoversi, la libertà e la serenità di quando si prova ad essere senza catene, senza limiti di svago.
    Non riuscii neanche a pensare a qualcosa di concreto. Era come starsene in un altro mondo e non ero il solo a pensarla così. Tutti in quella sala erano senza parole e le persone che prima la giudicavano ora la guardavano scioccate e senza le parole per dire qualche altra cattiveria. Lei regnava in quella pista da ballo, niente la poteva fermare. Il suo mondo era il ballo. Ballare era la sua unica via d’uscita da quel mondo… Proprio come per me.
    Quando finì il ballo, la ritrovai inginocchiata con gli occhi chiusi, a pochi metri in linea da dove stavo seduto. Non seppi che espressione avevo in volto, né quelle degli altri in sala. Lei ansimò e si alzò in piedi, in equilibrio perfetto.
    Guardò la sua insegnante e, a scapito di tutti, fece l’inchino. Vidi nel suo volto comparire un’espressione di tranquillità innata, quasi come se si sentiva la più serena di quel mondo.
    «Grazie… Per avermi dato… Questa opportunità…» disse ancora ansimante, accennando un sorriso verso di me, e girò i tacchi in direzione del lettore Cd.
    Prelevò il suo disco e lo mise nella tracolla che aveva portato con sé. Nessuno disse niente, ma lei proseguì dritta per la sua via, senza guardare nessuno in faccia. Una volta propensa alla porta d’uscita, un istinto dentro di me mi spinse ad alzarmi dalla sedia.
    «Aspetta…», la chiamai, con voce alta ma comunque tremante, a causa delle forti sensazioni di felicità immotivate che mi possedevano.
    Sentivo lo sguardo di tutti i presenti su di me – alcuni dubbiosi, alcuni ansiosi, alcuni perfino arrabbiati – ma ero concentrato solo su una persona, Sharon.
    Lei si voltò a guardarmi, sinceramente curiosa, neanche si aspettasse la lasciassi andare senza fermarla. Io le sorrisi e, mantenendo una tonalità normale, le chiesi: «Se posso chiederti… Cosa pensi, quando balli?»
    Pronunciai quelle parole con calma, quasi sillabando, e lei abbassò lo sguardo verso il pavimento, a pensare, a fronte corrugata. Improvvisamente sorrise e mi rivolse i suoi occhi particolarmente illuminati di felicità.
    «Io non penso. Mai. Quando ballo mi libero di tutti i problemi, del dolore, della sofferenza, del passato… Ballare mi rende forte, mi fa sentire bene. Mi da la forza di andare avanti. Sono libera, felice.»
    Disse quelle parole con estrema devozione trasparire nella voce e nello sguardo che mi fece rabbrividire. Un lungo fremito mi avvolse tutto, rendendomi immobile e impedendomi la capacità di movimento. Il cervello non aveva più capacità di pensare. Sentivo solamente un senso di calore dentro l’anima, a quelle parole.
    Lei mi sorrise apertamente, con incantevole gentilezza, e uscì dalla porta, lasciandosi sguardi increduli e immediati bisbigli soffocati alle spalle.

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    Capitolo Due.


    Get inside my mind.
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Non potevo crederci. Avevo ballato per me stessa. Avevo ballato per il mio futuro. Avevo ballato e ora mi sentivo divinamente, leggera. Ero, per la prima e vera volta nella mia vita, nella condizione di dire che ero felice per me, per quello che avevo fatto. Così, aprii frettolosamente la porta d’ingresso del locale, emozionata all’idea di raccontare tutto quello che era successo alla mia amica Ilary.
    Mentre attraversai il locale per recarmi verso il bancone – venni salutata da quasi tutti i clienti fissi che oramai conoscevano perfettamente chi fossi, grazie alle mie esibizioni di danza sul palco – notai uno strano tipo che non avevo mai visto prima. Era seduto su uno sgabello, vicino allo spigolo del bancone, un posto con cui ogni persona avrebbe avuto una precisa e netta vista sul palco. Guardava l’esibizione di Rachel Parker – ragazzina di quasi 22 anni, una fra le più giovani intrattenitrici del bar – che cantava una delle sue canzoni più richieste, munita della sua inseparabile chitarra elettrica.
    A pochi passi dal bancone, sentii urlare il mio nome ad alta voce e sentirmi abbracciare alle spalle. Chi altri poteva essere se non Ilary? Sorrisi e mi voltai verso di lei, mentre imperterrita mi teneva in una stretta formidabile fra le sue braccia.
    «Sharon, devi assolutamente dirmi com’è andata! Allora, ti hanno preso?» mi chiese con la sua parlantina veloce, saltellando su se stessa emozionata. Io le sorrisi, prendendola con le mie mani sulle spalle per farla smettere di saltare.
    «Innanzitutto, calma. Rischierai l’infarto, prima o poi», dissi ridendo. Lei sbuffò, contrariata, fermandosi sul posto.
    «Che se ne frega dell’infarto», esclamò alzando una mano in alto, nervosamente. «Io. Voglio. Sapere».
    Risi, ma non feci tempo a non dire altre parole che arrivò John, il nostro capo. Pronunciò il mio nome, a mo’ di saluto, e mi abbracciò stretta, cosa che prima di allora aveva fatto solo quando avevo compiuto gli anni – 27 precisamente - festeggiando al locale.
    «Allora com’è andata? Ti hanno preso?» mi chiese anche lui. Cercai di controllare una smorfia contrariata sul viso, e sorrisi allegramente. Vidi nei loro volti la luce, e sarebbe stato evidente che li avrei subito deluso, a quella notizia.
    «Be’, in effetti…». Neanche cominciai il discorso che venni subito interrotta.
    «Prima, siediti», disse John indicandomi lo sgabello accanto allo spigolo del bancone, accanto a quel nuovo cliente mai visto prima d’ora. Eppure qualcosa nei suoi modi di fare mi spingeva a constatare che già lo conoscevo. No, era impossibile.
    «Ma come, e il lavoro?» chiesi io, con espressione confusa, mentre i due si spostavano dall’altra parte del bancone, a fissarmi curiosi.
    «Niente lavoro stasera» rispose Ilary immediata. «Lo ha detto il capo qui presente.»
    «Oh, non serviva, davvero!». Feci per rialzarmi ma subito mi accompagnarono giù a sedere con la forza delle loro braccia, quasi che il loro fosse più un ordine che un permesso. Li rimasi a guardare quasi scioccata, mentre Ilary cominciava a farsi irrequieta.
    «Ora raccontaci… Cosa è successo?», domandò John, appoggiandosi con il gomito sinistro sul banco in legno scuro. Io li guardai sorridente, troppo contenta per il mio successo personale, meno preoccupata alla loro successiva “piccola delusione”. Ma io, proprio quella sera, non potevo non sentirmi felice.
    «In realtà non è andata» risposi serenamente, mentre mi accorsi che i loro occhi cominciavano a fuoriuscire dalla orbite. Prima che dicessero qualcosa, continuai. «Diciamo che ho perso l’autobus, quindi me la sono dovuta fare di corsa. Perciò… Sono arrivata in ritardo e…»
    Sul mio volto spiccò un sorriso leggero, che fu subito spento dagli sguardi tristi e un tantino arrabbiati delle due persone a me di fronte.
    «Tu. Hai. Perso. La. Corriera?» disse sillabando Ilary, mezza furiosa e mezza delusa. Io abbassai lo sguardo, annuendo.
    «Vuol dire che non hai ballato? Non ti hanno permesso di danzare?» chiese John, facendosi arrabbiato e triste allo stesso tempo. Io aggrottai la fronte, pensando che quella situazione era più complicata di quella che mi sarei aspettata. Sospirai e poi ripresi a parlare, sotto gli sguardi immobilizzati di John e Ilary.
    «Ho ballato, questo sì…». Proprio nel frattempo che pronunciai quella frase, i due sospirarono di sollievo. Li linciai con lo sguardo, a mo’ di dire “Lasciatemi finire, per cortesia”. Subito capirono l’andazzo del mio occhio e tacquero.
    «Ma non penso verrò presa. Non penso neanche che potrò più frequentare la scuola di danza. La professoressa mi odia, per non contare le altre comari del circolo, e con la figura che le ho fatto fare so che mi butterà fuori.», dissi passando con l’indice della mano destra il contorno del bicchiere di Coca Cola offerto da John, proprio mentre dicevo quelle parole.
    «Adesso basta fare la vaga», esclamò irritata Ilary, attirando il mio sguardo disorientato su di lei. «Dicci in ogni minimo dettaglio – e quando intendo minimo dettaglio significa proprio tutto – riguardo a cosa è successo».
    Sorrisi della sua espressione buffamente arrabbiata e di quella preoccupata di John, bevvi un sorso di Cola e mi propensi a parlare, una volta per tutte in modo chiaro e conciso, prima che mi costringessero con la forza – anche se prevedevo sarebbe stata un’impresa, data la mia testardaggine. Spiegai tutta la storia, per filo e per segno, non tralasciando le mie sensazioni e la felicità che traspariva da ogni mio particella del corpo. Sentii perfino lo sguardo curioso e attento dell’estraneo all’angolo, vicino a me di quasi mezzo metro, ma non ci badai molto. Non mi dava fastidio sapere di essere ascoltata, poiché era una persona la quale sapeva poco e niente di me e io lo stesso per lui. Alla fine del racconto, schioccai un’occhiata di scherno a Ilary e John, che mi guardavano preoccupati.
    «Quindi non sei triste?», chiese cauta Ilary. Oddio, adesso mi avrebbero fatto il questionario per vedere se il mio grado di serenità era reale oppure no. Prevedevo una lunga serata, a mio sfavore. Che scena comica: io, felice, che sarei stata sgridata perché lo ero.
    «No, per niente», risposi scuotendo la testa e guardando entrambi negli occhi, senza niente da nascondere.
    «Sono davvero, davvero contenta per ogni minima cosa che ho fatto. Non mi pento, e ballando ho capito un’altra cosa, molto importante; io il mio sogno lo realizzato. Ho dimostrato a qualcuno che so danzare, o almeno penso, ma soprattutto che la musica la sento dentro. Io amo il ritmo. È un’altra parte di me. Ora so che l’unica cosa che voglio dalla mia vita è continuare a ballare, mantenendo questa passione. Punto».
    Il mio discorso li rese finalmente convinti che dicevo la realtà. Quando mi accorsi che sorrisero, sorrisi anche io di rimando. Ilary mi prese delicata la mano sinistra, quella che tenevo appoggiata libera sul bancone, e mi disse: «Se è questo quello che vuoi dalla vita, io ti appoggerò».
    Mi sentii onorata da quelle parole, tanto che mi venne da commuovermi. John sorrise e d’improvviso ci avvisò che doveva un momento andare dietro le quinte, a controllare qualcosa. Non sospettai niente e rimasi lì, seduta, a seguire le varie esibizioni, commentandole con la mia amica del cuore impegnata nelle faccende da eseguire. Ridemmo come delle sceme per alcune sue constatazioni, e munita di straccio mi impegnavo a batterle un colpo sulla spalla, nei momenti che i suoi commenti si facevano più spinti.
    «Ehy tesoro», disse una voce maschile, che io conoscevo più che bene e che mi dava sui nervi, ogni volta che mi capitava di sentirla. Sbuffai, non guardando alla mia sinistra, proprio la direzione nella quale si era seduto lui.
    «Che c’è, non mi saluti più?»
    Si chiamava Tyler McFear, era un giovane uomo sempre alla ricerca di divertimento e di belle donne. Da un mese e più mi stressava la vita con la storia che eravamo fatti per stare insieme, ma io non gli davo corda. Aveva perfino cercato a convincermi di uscire con lui, qualche sera, ma io avevo rifiutato. Ma ora si faceva più pesante, da un po’ di giorni non lo potevo più sopportare. Era un pallone gonfiato, con la smania di fare sesso e basta. Una botta e via, come si dice. Ma se pensava di avere quell’effetto su di me, aveva sbagliato ragazza. Non ero così cretina da cadere in quei sciocchi tranelli.
    «Ciao, Tyler.» risposi acida, guardandolo fisso per mezzo secondo e poi tornando con gli occhi sul palco. Ero seduta sullo sgabello, in direzione dei cantanti, con alla mia destra lui e alla sinistra, all’angolo, l’estraneo che d’improvviso si era fatto più attento e vigile, nascosto da un capello e scarpa che teneva per coprigli il volto.
    «Be’, non serve essere così fredde… Lo sai che ti amo, baby», disse avvicinandosi sempre più al mio viso. Io non mossi un muscolo per allontanarmi dalla posizione che ero e mi misi a ridere, falsamente divertita. Immediatamente si allontanò, con un cenno all’irritazione in volto. Si sentiva preso in giro, ed aveva ragione.
    «Ohoh, certo, come no. E tu sei Dio in persona sceso fra i comuni mortali come me» pronunciai secca, schioccandogli un’occhiata sarcastica. Lui non sembrò comunque mollare la presa e continuò.
    «E per questo che mi piaci: il tuo senso dell’umorismo è una parte di te che ci accomuna».
    «Oh, lo vedo», risposi alzando un sopracciglio, continuando a fissare un punto nel vuoto del palco. Che cosa voleva, quel razza di stupido? Pensava davvero di riuscire, con due paroline alla caso, a portarmi a letto?
    «Senti, tesoro… Quand’è che usciremo insieme? Ci divertiremo, avanti…» mi propose, sorridendo maligno, con chissà quali pensieri in testa. Voltai il mio volto verso le braccia che tenevo incrociando al petto, sbuffando irritata e girando gli occhi verso l’alto, per poi guardarlo dritto in faccia.
    «Non uscirò con te. Né ora, né mai.» sillabai, mentre con un gesto secco e frettoloso mi propensi ad alzarmi dalla sedia e dirigermi nei bagni, dove non avrebbe potuto seguirmi… Credo.
    Fui improvvisamente strattonata al braccio, verso il suo corpo, tenuta stretta da una presa che non ammetteva compromessi né intenzioni a lasciarmi andare. Il suo viso si fece più vicino all’incavo del mio collo e il suo alito caldo mi avvolse disgustosamente per me in brividi di orrore.
    Guardai Ilary, che in quel momento stava servendo ad un tavolo e che, d’improvviso, mi guardò allarmata; poi il mio sguardo toccò all’estraneo seduto all’angolo, il quale mi guardava con occhi spaventati e timorosi, irrigidito nella sua posizione. Eppure quegli occhi…
    «Dove vai, eh? Non mi hai ancora risposto… Non fare la stupida…»
    Tutto quello successe in pochi secondi. Schioccai un occhiata al bancone, verso la mia Coca Cola mezza piena e un’idea mi attraverso la mente come un fulmine. Mantenendo il mio respiro più normale che potessi, lentamente scivolai con la mano libera verso la bibita, mentre temeraria mi voltai verso Tyler che continuava a parlare imperterrito, mantenendo in volto un sorriso da schiaffi.
    «Avanti, tesoro… Un sì, che ti costa dopotutto?», disse squadrando il mio corpo da capo a piedi, mentre io aspettavo solo un minimo dito sul mio corpo per far scattare la mia trappola.
    Lui rise e finalmente ci cascò: appoggiò una mano sul mio fianco, spingendomi lentamente – quasi a rallentatore – verso di lui, e io risposi con l’armeria. Gli gettai in volto la Cola, ritirandomi svelta non appena sentii la presa farsi insensibile al contatto, mantenendo l’espressione sul mio volto impassibile, tentando di contenere un sorriso soddisfatto. Lo sentii imprecare a bassa voce, guardandosi gli abiti macchiati dalla Coca Cola, nel frattempo che Ilary raggiungeva allarmata e silenziosa il bancone.
    Captai inoltre lo sguardo di alcuni clienti fissi su di me - con ancora il bicchiere in mano, ora vuoto - nonostante la musica fosse abbastanza alta da lasciare insospettiti tutti quanti. Tyler mi guardò, sconvolto e rosso di rabbia e vergogna.
    «Sai, tesoro, questa mossa l’ho imparata da Flashdance, solo che la mia è leggermente modificata. E' il mio film preferito» dissi sorridendo. Subito mi voltai dall’altra parte, in modo da sedermi di nuovo sullo sgabello senza incontrare più il suo sguardo, ma una sua parola mi fece voltare.
    «Puttana…», soffocò Tyler, incazzato nero, che mi osservava furibondo. Io, a quell’esclamazione, mi feci seria e mi voltai a fissarlo, con fare impassibile. Ilary mi osservava preoccupata, sapendo già che cosa succedeva a qualcuno quando questo mi chiamava “puttana”.
    «Puttana è il termine con cui ti rivolgi alle tue sgualdrine, quelle che usi per portarti a letto quando sei troppo solo per fare qualcosa di concreto per te stesso e gli altri. Puttana è la persona che tu ti sbatti con facilità, che pensi di usare ma che, in realtà, è lei che usa te per interesse», dissi guardandolo negli occhi, intanto che lui scioccato e irato mi fissava a bocca aperta.
    «Ricordati bene che, prima di chiamarmi con quel termine, ci devi pensare non due volte ma bensì una centinaia. Perciò...» sussurrai avvicinandomi al suo volto. «Sappi che da me, almeno, non avrai un bel niente».
    Ci scrutammo negli occhi per qualche secondo, finché lui furioso non si alzò dal posto, in direzione dell’uscita del locale. Sorrisi e, una volta accomodata di nuovo, vidi sorridere compiaciuta Ilary e lo straniero, il quale teneva lo sguardo timidamente basso, col capello che copriva la visuale del suo volto.
    Nessuno disse niente al riguardo - solo Ilary mi rivolse un sorriso facendomi l'occhiolino – e quando sul palco salì Isabel, donna di mezza età ormai, il quale devoto marito era morto tanti anni fa, in un incidente stradale, mi invitò a cantare con lei.
    Isabel ed io avevamo un rapporto molto particolare, quasi mi considerava sua figlia; mi insegnava a cantare, durante le prove al locale, e quella sera mi chiamò, sotto lo sguardo curioso di tutti, con lei sul palco. Timidamente mi alzai, leggermente rossa in volta, preoccupata dal fatto di dover cantare. A ballare non avevo nessun problema, ma il canto…
    Cantammo una delle mie – e sue – preferite, e a quanto pare ottenni un buon effetto sul pubblico. Finita la canzone io e Isabel venimmo applaudite da tutti i presenti nel bar, e quella cosa ebbe un effetto positivo su di me.
    Rimaneva il fatto che, anche se cantavo abbastanza bene, il ballo era il mio solo e unico amore. Quando tornai al posto – dopo essere stata trattenuta anche a danzare, per di più – mi accorsi che l’estraneo se n’era andato.
    «E’ andato via poco fa, prima che cantassi, dopo una chiamata ricevuta da qualcuno di molto importante, a giudicare dal tono» mi disse Ilary sorridendo, avendo visto lo sguardo perso nello sgabello vuoto.
    La guardai facendo finta di niente, e non mancò di farmi i complimenti anche lei, in seguito a tante altre persone.
    Riconfermai nella mia testa che quella era la prima e vera volta che ero felice di me stessa.







    P.S. Per il momento sposto i primi due capitoli con la premessa, per mancanza di tempo, e entro due/tre giorni spero di riuscire a pubblicare la storia intera. O almeno, spero, in base ai compiti e allo studio che mi richiede la scuola e i futuri esami di qualifica (:
     
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  2. Ray of light*
     
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    Io l'ho sempre detto che questa storia è magnifica!! A me è piaciuta veramente tanto! :D E meno male che l'ho scoperta sull'altro sito sennò non avrei resistito lo so, la solita impaziente...
    Ti dispiace se mi faccio una ripassata? :love:
     
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    CITAZIONE (Ray of light* @ 11/1/2011, 19:46) 
    Io l'ho sempre detto che questa storia è magnifica!! A me è piaciuta veramente tanto! :D E meno male che l'ho scoperta sull'altro sito sennò non avrei resistito lo so, la solita impaziente...
    Ti dispiace se mi faccio una ripassata? :love:

    Certo che non mi dispiace, sono molto fiera di esser stata capace di averti trasmesso <3
    Grazie per la fiducia che hai riposto in me :love:

    P.S. Preparati che presto ne pubblicherò una nuova, e quella non è completa... Dovrai subire l'ansia di dover leggere e aspettare ogni giorno in attesa di un nuovo capitolo :patpat2:
     
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  4. °Alexandra°
     
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    Ho aggiunto la FF alla lista,ma la prossima volta, per piacere,segnalala dopo che la posti :P Grazie.
     
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  5. Ray of light*
     
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    CITAZIONE (Rhythm Nation @ 11/1/2011, 22:37) 
    CITAZIONE (Ray of light* @ 11/1/2011, 19:46) 
    Io l'ho sempre detto che questa storia è magnifica!! A me è piaciuta veramente tanto! :D E meno male che l'ho scoperta sull'altro sito sennò non avrei resistito lo so, la solita impaziente...
    Ti dispiace se mi faccio una ripassata? :love:

    Certo che non mi dispiace, sono molto fiera di esser stata capace di averti trasmesso <3
    Grazie per la fiducia che hai riposto in me :love:

    P.S. Preparati che presto ne pubblicherò una nuova, e quella non è completa... Dovrai subire l'ansia di dover leggere e aspettare ogni giorno in attesa di un nuovo capitolo :patpat2:

    oddio già immagino...devo cominciare a prepararmi allora :patpat2:
    :kiss2:
     
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    CITAZIONE (°Alexandra° @ 13/1/2011, 17:37) 
    Ho aggiunto la FF alla lista,ma la prossima volta, per piacere,segnalala dopo che la posti :P Grazie.

    Oh... :look: Scusa... Me ne sono dimenticata... :(
    La prossima volta segnalerò, scusa ancora per il disturbo.

    CITAZIONE (Ray of light* @ 13/1/2011, 19:24) 
    oddio già immagino...devo cominciare a prepararmi allora :patpat2:
    :kiss2:

    Hai detto la parola giusta: preparati. :patpat2:
    P.S. Aggiorno fra poco <3
     
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    Capitolo Tre.


    Maniac on the floor.
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Mi diressi a passo spedito verso la seconda rampa di scale, quella che secondo le indicazioni della segretaria all’ingresso portava direttamente alla sala di ballo di Mrs. Phillips. Tutto in ansia aspettavo il momento in cui avrei visto il viso scioccato di Sharon, una volta detto davanti a tutti che avevo scelto lei come ballerina della mia troupe di ballo. Sarebbe stata felice, o almeno speravo.
    Solo il giorno prima l’avevo vista per la prima volta e con un solo provino avevo deciso da subito che il mio sarebbe stato un sì. Purtroppo non avevo avuto il tempo per parlarle, perciò non appena fu uscita dalla stanza mi ero diretto verso di lei, rincorrendola, dicendo al mio coreografo di andare avanti con i provini, anche se entrambi sapevamo che non ne sarebbe valsa la pena. Una volta uscito dalla stanza, lei però era già scomparsa. Volatilizzata.
    Propenso a seguirla, almeno per farle i miei complimenti, chiesi alla segretaria che in quel momento si era trovata in portineria il suo indirizzo dove poterla rintracciare. Con un po’ di difficoltà motorie alla mia vista, la donna riuscii a darmi la via e il numero.
    Mi diressi nella stanza del provino, di corsa, intimando alle ballerine di continuare e dicendo al mio manager e all’assistente coreografo che me ne andavo. Cercarono in tutti i modi di convincermi – soprattutto Frank, il quale mi schioccò un’occhiata di shock – ma non furono abbastanza testardi da riuscire a fermarmi.
    Dopodiché, mi ritrovai all’appartamento dove abitava, ma lei non c’era. Erano le 19,00. Strano non fosse a casa. Chiesi alla portinaia – la quale non mi riconobbe grazie ad un accurato travestimento del momento – dove si trovava e mi disse che come ogni giorno era diretta al locale dove lavorava la sera, il “Saturday Night”. Con fretta di trovarla e di parlarle, mi ritrovai al bancone del bar ad aspettarla. Una volta arrivata però non riuscii a spiccicare parola. Un uomo e una ragazza, che più tardi scoprii fossero il suo capo e l’altra una sua amica, la fecero sedere e raccontare la storia. Credeva che non l’avrei presa come ballerina del video, eppure non era infelice. Tutt’altro, era serenissima. Dai suoi occhi spiccava una luce brillante, accesa di contentezza. L’ammiravo per questo.
    Tutta la sera ero stato là, ad osservarla, cercando di nasconderlo per non farle notare che ero io. Stavo diventando codardo, mi sentivo un’idiota all’idea di spiarla, eppure ero così curioso che non potevo non stare lì ad osservarla. Volevo saperne di più su di lei, quasi fosse una calamita che attira un opposto all’altro. Ero stato tranquillo, fino a quando non era arrivato quel tipo, quel Tyler.
    Avevo notato lo sguardo con cui la osservava, la voglia che traspariva da quegl’occhi languidi. Ero stato sul punto di alzarmi ed aiutarla, non appena avevo visto il modo in cui l’aveva trattenuta al posto. Non mi ero perso nemmeno una parola del loro discorso, e quando avevo incrociato i suoi occhi non vi era traccia di paura. Aveva guardato alle mie spalle, poi il bicchiere di Coca Cola che mezzo pieno non aveva ancora finito di bere. Aveva aspettato lui facesse una mossa falsa, e glielo aveva gettato in faccia.
    Quello che avvenne dopo fu la cosa che più non mi aspettavo, un coraggio che pensavo non possedesse. Era stata così intraprendente che lui, dopo il discorso fatto quando l’aveva insultata, che lo aveva fatto uscire dal locale a gambe levate.
    Mi venne da ridere più volte quella serata, grazie a lei e alla sua amica, ma per fortuna riuscivo a controllarmi la maggior parte delle volte. Da quello che avevo intravisto, potevo capire che era una ragazza semplice, spontanea, e divertente, oltre che a possedere un fascino innaturale. Ogni espressione che assumeva attirava la mia attenzione, ma alcune volte dovevo far finta di non osservarla; avrebbe pensato fossi un maniaco.
    La chiamarono sul palco, ad un certo punto, e il mio sguardo allora si fece più attento e le mie orecchie più acute. Non riuscii però a sentire la sua voce, poichè fui chiamato da Frank, e a malincuore me ne dovetti andare. Non riuscii a dirle nemmeno una parola. Fu per quel motivo principalmente che venni alla scuola di danza, quel giorno, anche se, ad essere sinceri, ero venuto anche per vederla ballare.
    Quando danzava lasciava trasparire tutta l’energia proveniente dalla sua anima. Un’energia pura, che mette felicità.
    Arrivai alla stanza e vidi quasi tutte le alunne dentro, pronte. Cercai costantemente Sharon, ma non la vidi; avanzai troppo incauto, poiché subito una schiera di ragazza urlanti mi circondò. Io, timidamente, le salutai tutte, ma in realtà cercavo in un angolo della stanza almeno la presenza della ragazza.
    Le ballerine tornarono all’ordine non appena la Signorina Phillips, entrata nell’aula, batté le mani. Subito si misero in fila e mi si rivolse con un gentile saluto alla francese. Risposi al saluto con un cenno del capo, e mi ricordai del discorso che l’altra sera avevo sentito pronunciare da Sharon e la sua amica:
    «Ti uccideranno, quella Jenny e Gloria, se vinci il provino», aveva detto la ragazza dietro il bancone. Sharon aveva riso, ma non divertita. Subito il suo sorriso si era spento in una smorfia pensierosa e di ribrezzo.
    «Ti sbagli, loro mi ucciderebbero – se ne avessero la possibilità – anche se non vincessi. E la professoressa Phillips le aiuterebbe, stanne certa. Mi odiano, da sempre, da quando sono entrata in quella maledetta scuola, ma non riesco a capire il perché.»
    «Signor Jackson», aveva detto mielosa la Signorina Phillips, con una strana smorfia in volto che avrei definito infastidita dalla mia presenza. «E’ venuto a dirci la sua scelta?»
    Subito un coro di urletti si levò dalla sala, facendomi voltare verso loro con un lieve sorriso.
    «In realtà sì, ma… Non sono... Tutte presenti?» Mrs. Phillips guardò il gruppo di ballerine che cominciarono a bisbigliare e le interruppe subito con un solo cenno della mano; di certo notava un particolare rispetto.
    «In effetti… L’alunna Sharon Villa oggi non si presenterà, ma può dire comunque la notizia» rispose accennando un falso sorriso. Non avevo dubbi, aveva intuito che la ragazza che avevo scelto lei.
    Lo avevano capito penso tutte, ma rimanevano con l’illusione che si sbagliassero.
    Sospirai e finalmente dissi la verità. «Io… Avrei scelto proprio lei per il video… Mi dispiace avervi fatto sprecare tempo, scusate…»
    Da una parte mi sentivo in colpa, ma quando incrociai gli sguardi pieni di rancore di Jenny Vain e Gloria Williams cambiai idea; quello che si erano dette Sharon e la sua amica era vero. La odiavano a morte, e qualcosa nei loro occhi mi faceva venir voglia di ribattere alle loro occhiate piene di rancore.
    «Può passare un’altra volta, se desidera» rispose con tono neutro Mrs. Phillips, non lasciando trasparire nulla dal suo volto anziano. Annuii soltanto, accennando ad un sorriso, e me ne andai salutandole tutte con un cenno del capo.
    Decisi comunque di non andarmene, almeno non così presto. Rimasi in quell’edificio e camminai avanti e indietro per tutti i corridoi nella speranza di incontrarla, ad un certo punto. Ma niente. Non c’era sul serio. Improvvisamente sentii una musica leggera – che scommisi fosse “Maniac”, di Flashdance – e corsi diretto verso quel ritmo veloce. Man mano che procedevo sentivo la musica farsi più alta ed arrivai finalmente ad una porta di una sala da ballo del terzo piano, corridoio 15, stanza 11.
    La porta era socchiusa, perciò mi propensi a guardare al suo interno. Ancora una volta stavo facendo la figura di colui che spiava senza averne il diritto, ma la visione fu abbastanza ricompensante da far sparire tutti i miei sensi di colpa del momento. Avevo ragione, era Sharon.
    Indossava dei semplici fuseaux neri, con una maglia celeste in tinta perfetta con la sua carnagione mulatta e i capelli castano dai riflessi dorati, tenuti ricci e senza elastico a tenerli stretti. Ballava ad occhi chiusi, con un sorriso in volto, mentre si scatenava a ritmo di quella canzone stupenda. Lei era sensazionale.
    Dovevo ormai essermi abituato, per quel poco, alle emozioni che mi faceva sentire dentro, ma con mia sorpresa mi rendevo conto che sbagliavo a pensarla così. Era quasi come ricevere in pieno petto una scarica di adrenalina, tanto potente da farmi sorridere inconsciamente e far venire perfino a me la voglia di ballare.
    Una volta finita la canzone la vidi inspirare ed espirare a fondo, riprendendo il fiato necessario, inginocchiata a terra con le mani appoggiate alle ginocchia. Con un coraggio che mai mi sarei aspettato da me, mi decisi a farmi vedere. Aprii la porta lentamente, e subito lo sguardo di Sharon incontrò il mio attraverso lo specchio. Prima mi osservò pensierosa, un istante dopo rossa in volto e paralizzata. Sorrisi della sua espressione e le rivolsi parola.
    «Ciao». Di sicuro non potevo essere più fantasioso di così, ma era l’unica cosa veramente concreta che riuscivo a dire in un momento come quello; ero ancora sotto l’effetto della sua danza.
    Lei si voltò a guardarmi negli occhi e di scatto si alzò in piedi, torturandosi il braccio con una mano, nervosa. A bocca aperta si guardò intorno, in cerca di qualcosa da dire. Scosse la testa lieve, e poi parlò, con fronte aggrottata.
    «Michael… Cioè, mi scusi… Signor Jackson, che ci fa Lei qui?». Evidentemente imbarazzata da quel suo discorso un po’ confuso, mi schioccò un’occhiata scioccata, non sapendo nemmeno lei cosa dire di quella situazione.
    Decisi di intervenire, sempre mantenendo in volto un sorriso aperto.
    «In realtà sono appena arrivato,» dissi, mentendo, «Comunque chiamami Michael, signor Jackson è troppo formale per me».
    Lei mi sorrise di rimando, ancora con la fronte corrugata e occhi confusi, ma in compenso sorrise. E per me era già tanto. Significava che anche a lei le informalità, in quel caso, non le piacessero affatto. Subito però il sorriso si fece quasi inesistente.
    «Se cerchi la mia classe di danza, o la Signorina Phillips, mi sa che ha sbagliato stanza», annunciò abbassando lo sguardo. Anche se non lo ammetteva, credevo che l’idea che non fosse lei la ballerina che avevo scelto la faceva un po’ rattristare.
    «E’ al secondo piano, se vuole… Insomma, se vuoi te la posso mostrare», disse correggendo la tonalità formale con cui aveva detto quelle parole con un sorriso. Io guardai la stanza tutt’attorno – le finestre al muro opposte alla grande parete di specchi, una sbarra e alcune sedie – e subito feci il finto confuso.
    «In realtà penso di aver beccato la stanza giusta. Ti dispiace se ti faccio un po’ di compagnia?» chiesi a voce sottile, mentre lei spalancava gli occhi dalla sorpresa in quelle parole. Lei si guardò intorno, quasi sospetta che si trovasse veramente in quella stanza con me, e immediatamente mi annuì convinta.
    Mi sedetti sul pavimento e aspettai che lei facesse lo stesso. Mi guardò e, dopo qualche passo poco sicuro, si sedette a terra a quasi mezzo metro da me. Fissava le sue mani, e io osservavo lei. Quando percepì il mio sguardo, mi guardò confusa. Ero quasi del tutto sicuro che volesse domandarmi qualcosa.
    «Come mai per il tuo video hai scelto una ballerina non famosa? Insomma, con tutte quelle belle e brave che si trovano nel mondo dello spettacolo…».
    Non era una domanda stupida, nemmeno il suo scopo. Da come mi scrutava capivo che mi aveva chiesto tutto questo per capirmi meglio, più a fondo. Risposi con un sorriso cordiale, sospirando. «Diciamo perché volevo cercare qualcuno che sentisse la musica come la sento io», risposi abbassando lo sguardo, sperando che con quelle parole cominciasse a capire il significato di quello che stavo dicendo.
    «E l’hai trovata alla fine?» mi chiese guardandomi interessata. Io le sorrisi e mi morsi il labbro inferiore, non sapendo bene se dirglielo adesso oppure aspettare un po’ di tempo e farla arrivare da sola.
    «Sì, a quanto pare sì. Oggi sono venuto apposta per dirglielo».
    «Ti prego, non dirmi che la danzatrice si chiama Jenny Vain oppure Gloria Williams, altrimenti mi butto giù da quella finestra!», esclamò allarmata indicandomi con un cenno della testa una delle tante vetrate al muro. Risi e scossi il capo, non smettendo di sorridere.
    «Tranquilla, non è nessuna delle due…». Nonostante il suo sospiro di sollievo, proseguii col discorso. «Ti avrebbe dato fastidio la cosa?»
    Lei mi osservò acuta, non distogliendomi più gli occhi di dosso. «No, affatto. Più che altro mi preoccupavo per me stessa; se fosse stata una di loro, sicuramente mi avrebbero umiliato per il resto della mia esistenza, anche se ormai sono abituata alle loro battute da vipere…»
    «Ti odiano?», chiesi aggrottando impercettibilmente le sopracciglia. Lei rise senza divertimento – come la sera precedente durante la chiacchierata con la sua amica – e annuì.
    «Sì, diciamo di sì… Il nostro è un odio reciproco, anche se hanno cominciato loro a denigrarmi e a farmi sentire come un pesce fuor d’acqua. Non ho mai capito il perché», emise un sospiro esasperato, poiché tornò a guardarmi negli occhi, avendo appoggiato lo sguardo al pavimento.
    «Ora però che sono fuori dai giochi sono più contente, penso...». Il mio volto assunse un'espressione dubbiosa, lei lo notò. Sospirò, quasi sollevata per la notizia che stava per dare.
    «Mrs. Phillips mi ha appena espulsa dal corso, dalla scuola. Era una cosa ovvia, prima o poi, che lo avrebbe fatto», disse ridendo, sebbene non fosse per nulla divertita.
    La guardai senza parole, sbalordito da come si atteggiassero certe persone. Non era giusto. Lei era brava, meritava di imparare, eppure era stata buttata fuori. Quell'odio che tanto vedevo trasparire negli occhi della professoressa ma soprattutto negli occhi delle due ballerine Jenny e Gloria, ora aveva un senso compiuto e reale. Non ne dubitavo più.
    «Loro - intendo Jenny e Gloria -, in confronto a me, sono più fortunate; hanno bei vestiti, ricchezza, fama, classe, rispetto dalla propria insegnante… E detta tutta non le invidio affatto! Eppure sembra che questo, in confronto a quello che possiedo io, non conti. È tutto così un mistero per me, forse perché vivo in un altro mondo…», rispose lieve, abbassando lo sguardo a terra.
    Io rimasi molto colpito da quel discorso; mai prima di quel momento avevo sentito qualcuno parlarmi così apertamente, non nascondendo i suoi sentimenti, lasciando trasparire da quel volto un’espressione carica di emozioni confuse e, a momenti, angosciate. Si sentiva appartenere ad un altro mondo, e io potevo capire benissimo come ci si potesse sentire… La malinconia nel sentirsi l’unico a pensarla in quel modo, essere considerato da tutti strano…
    «Forse ti trattano così perché tu possiedi qualcosa che non hai», risposi, mentre lei alzò lo sguardo incredulo fisso ai miei occhi. «Forse ti invidiano per quello che sei, per la persona che sei. So cosa si prova a sentirsi soli, te lo garantisco…»
    I suoi le si fecero a malapena lucidi, nel frattempo che nel suo volto comparve un leggero sorriso gentile e cordiale. Io sorrisi di rimando, e mi decisi a dirle finalmente la verità. O almeno, una delle tante verità che le nascondevo. Battei le mani sulle mie gambe e mi alzai in piedi, guardandola negli occhi, mentre lei si facevo più curiosa dal mio strano comportamento “sulle spine”.
    «Ora è meglio che avvisi la ragazza che farà parte del mio video, fra poco devo andare…» esclamai, lasciando trasparire dalla mia tonalità di voce una leggera emozione di felicità e trepidazione.
    Lei però non sembrò accorgersi di niente e mi guardò con delusione, quasi con rancore. Come facevo a dirle che in realtà sarei volentieri rimasto a parlare con lei, lasciando da parte impegni e lavoro?
    Mi avvicinai teatralmente – lasciandola senza un mio saluto apposta – alla porta della stanza, e sullo stipite della porta mi bloccai; con una mano tenuta alla maniglia, mi voltai con un leggero sorriso sul volto. Sharon teneva le braccia strette al petto e guardava il legno con delusione, non accorgendosi che mi ero fermato.
    «A proposito…», le dissi, nel frattempo che lei mi rivolse un’occhiata confusa e scrutatrice. «Penso che balli in modo straordinario, e sento quello che provi tu mentre balli. Per questo ti ho scelto».
    Il suo sguardo da confuso si fece meravigliato. Rimase a guardarmi ad occhi aperti, non emanando nessun respiro. Io sorrisi, immaginando solo la sua agitazione ed esaltazione quando io sarei andato via, lasciandola sola in quella stanza a riflettere sulle mie parole.
    «So dove abiti, perciò ti verrò io a prendere per le prove di domani mattina. A domani, Sharon».
    Non le chiesi neanche il suo parere, poiché me ne andai, lasciandola senza parole.


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    Capitolo Quattro.


    A hold of my heart.
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Corsi fuori dall’edificio saltando come una pazza furiosa, quasi mi fossi appena fatta di una droga insostituibile e imparagonabile alle altre. Sentivo il mio umore alle stelle, la felicità che scoppiettava da ogni poro del mio corpo, e il mio corpo ballare a ritmo dell’adrenalina che mi scorreva al posto del sangue. Non ero più me. Ero una Sharon felice. Libera.
    Tutte le mie speranze e i sogni gettati e chiusi nei cassetti, le delusioni e le amarezze, il desiderio di diventare qualcuno, un giorno, ora sembravano poter finalmente diventare realtà. Ora non sarei più stata quella sciocca ragazza dalle aspettative impossibili, mai più quella screditata da chi aveva più tecnica di me, ma solo una ballerina che non aveva mai smesso di credere e di continuare con la sua passione. Ora nessuno avrebbe detto che ero stata una stupida pazza a sperare nei miei sogni.
    Mi diressi subito verso il bar – sebbene fossero solo le 18,00 del pomeriggio – correndo come un’ossessa, senza prendere automezzi. Semplicemente correvo, ero troppo entusiasmata per stare ferma in un momento del genere. Non mi importava di tutti gli sguardi che i passanti mi rivolgevano, pensando che fossi solamente una svitata, ma solo di me stessa. Di quello che avrei detto a John e a Ilary, una volta arrivata anche lei, la sera stessa. Della loro reazione. Della mia felicità.
    Una volta all’entrata del “Saturday Night”, spalancai la porta e mi diressi velocemente verso il bancone, sotto lo sguardo di alcuni clienti confusi e scioccati. Quando arrivai al mobile di legno, cercai con lo sguardo John, che all’inizio non sembrò notarmi. Nel momento che si voltò verso di me, mi chiamò per nome e poi rimase a fissarmi incredulo.
    «John…», dissi ansimando a causa della corsa dalla scuola al locale, «Michael Jac… Cioè, mi ha preso! Mi ha preso come ballerina del suo video! Ti rendi conto?»
    John rimase al momento immobile, disorientato, poi d’improvviso comparve sul suo volto un’espressione allegra, sorpresa. «No! Non ci credo!»
    Dall’altra parte del bancone, si protese ad abbracciarmi, sebbene facessimo entrambi una fatica bestiale. Dopo la stretta, con un enorme sorriso in volto, mi disse che non avrebbe detto parola fino a quando non sarebbe arrivata anche Ilary. Io sorrisi e mi diressi rapida verso i camerini. Dovevo far sapere di questa novità anche ad Isabel. Lei non potevo non informarla. Aprii la porta del suo camerino e la vidi scegliere i vestiti da indossare per quella sera, fin quando non mi guardò sorridente, una volta accortasi della mia presenza. «Sharon, ma che ci fai qui così presto, darling?»
    Io l’andai ad abbracciare senza esitazioni, tanto da rischiare di fare cadere entrambe. Ero troppo emozionata da riuscire a contenere la mia gioia e quello non ero proprio il momento per essere delle contenute. Ero così contenta per me stessa che non riuscivo a pensare a qualcosa di veramente concreto.
    «Cara, ma… Che è successo?», mi chiese Isabel, soffocando una risata divertita da quel mio gesto così irrequieto ed istantaneo. Le stampai un bacio stampo sulla guancia.
    «Isabel, mi hanno preso! Michael Jackson mi ha preso per il suo video! Ho passato il provino! Me lo ha detto lui di persona!», le dissi non contenendo un’evidente eccitazione nella mia tonalità di voce tremante. Avrei potuto toccare benissimo il cielo con un dito.
    Lei spalancò gli occhi – siccome sapeva già del provino, siccome lei era una delle vere e uniche persone di cui mi potessi fidare – e si mise le mani sul volto, emozionata quanto me. «Darling, non ci posso credere! Non mi prendi in giro, vero?»
    «Te lo giuro, Isabel! È tutto vero! Il mio sogno si è realizzato!», esclamai con occhi lucidi, mentre osservai che anche nei suoi si stavano formando gocce di commozione miste a contentezza. Mi abbracciò di nuovo, questa volta più possentemente, e mi baciò in fronte.
    «Te lo avevo detto, tesoro, che un giorno il tuo sogno sarebbe diventato realtà! Ora devi solo stare attenta… Nel modo del business i pericoli sono molti, e nascosti. Non credere mai a nessuno che dice di conoscerti e poi ti parla male alle spalle. Non raccontare mai i tuoi segreti a nessuno, e continua sempre a fare quello per cui tu combatti da sempre!»
    Io annuii soltanto, un po' intimorita da quel consiglio, e a quel punto il suo sorriso si fece più grande. «Ma davvero hai conosciuto Michael Jackson? Che tipo è?»
    Rimasi un momento immobile, a riflettere. In effetti era un ragazzo abbastanza misterioso, almeno ad una prima visione soggettiva, siccome non avevo avuto ancora molte possibilità di parlargli in modo chiaro e conciso, se non quel pomeriggio per qualche minuto. Mi venne in mente il suo sorriso, e d’improvviso sorrisi anche io. Aveva un sorriso illuminante, dolce.
    «Sembra una persona buona. Ma come hai detto tu mai fidarsi dello show business, no? Siccome da oggi in poi sarà il mio capo, be’… Penso che avrò tutto il tempo di conoscerlo meglio», dissi, astenendomi ad una valutazione corretta.
    Avrei voluto aggiungere che era bellissimo, stupendo, ma era meglio stare zitti e mantenere quel commento per me. Fortunatamente non avevo detto a nessuno che avrei lavorato per Michael Jackson, perciò non avevo ricevuto commenti del tipo “Com’è?”, “E’ carino?”, “E’ strano oppure no?”. Mi sentivo in dovere di farlo per un gesto di rispetto nei suoi confronti, ma anche perché non volevo sbilanciarmi con miei commenti. Non lo conoscevo ancora. Non tanto da poterlo giudicare.
    Lei mi sorrise e mi prese le mani, congiungendole alle sue. «Ti piace, per caso?»
    «Ma che cosa dici, Isabel?», dissi arrossendo, pur non di mia spontanea volontà. Come poteva piacermi? «Te lo detto, non lo conosco. Non so che persona è, e tu sai il carattere che ho io…», dissi abbassando sempre di più la mia voce.
    Non sembravo convincente nemmeno a me stessa, sebbene davvero io non provassi niente per lui. Eppure, quando lo sentivo vicino o capivo che mi stava osservando, provavo quasi una scossa di elettricità. Sentivo una sensazione che non avevo mai provato con nessuno, forse perché non ero mai stata innamorata di nessuno in vita mia. Come se fossimo posseduti entrambi da feeling reciproco.
    La sera arrivò presto – forse anche troppo – perché potessi essere ancora convinta che quello che stavo vivendo era tutto vero. Ilary, come prevedevo, mi abbracciò, così forte da essere capace di farmi venire le cervicali, e per tutta la serata sembrava positiva, sebbene un po’ dispiaciuta che un’opportunità del genere avrebbe finito per separarci. E io la compativo. Finito di lavorare me ne tornai a casa, stanca ma ancora euforica. Il giorno successivo sarebbe stato uno fra i più importanti della mia vita. Sarebbe stato il primo giorno delle prove.

    L’indomani mi svegliai alle 6,00 di mattina. Neanche dovessi partire per un lungo viaggio in Arizona, o chissà dove. Mi preparai con vestiti semplici, ma faticai nella scelta. Non volevo sembrare una poveraccia, però non potevo dimostrare di essere una ricca sfondata. Perciò, alla fine, dopo quasi un’ora di tempo mi decisi a mettere i miei fuseaux neri preferiti e una camicetta rossa – tipo Flashdance, tanto per cambiare.
    Aspettai per un bel po' d'ore - in effetti non ricordavo a che ora mi avesse detto che sarebbe venuto a prendermi -, un tempo che fu riempito dalle mie paranoie personali. Ogni secondo mi ritrovavo a guardare fuori dalla finestra, in cerca di una macchina possibilmente elegante che arrivasse, prima o poi. Proprio in un momento che avevo perso la speranza che lui arrivasse, sentii suonare il campanello. Dallo spavento rischiai di inciampare nelle mie stesse scarpe – siccome camminavo come una disperata avanti ed indietro per la mia stanza d’appartamento – ma riuscii ad arrivare sana e salva fin giù dalle scale, fuori dall’appartamento. Appoggiato al cancelletto, ci stava Michael, ovviamente travestito, che sembrava osservarmi.
    Io, facendo finta il più possibile di niente, proseguii fin quando non lo ebbi di fronte a me, una volta spalancato e chiuso il cancello. «Buongiorno», disse, con occhi splendenti di una luce che si rispecchiava ai miei. Io sorrisi, salutandolo di rimando. Aprii la portiera della macchina e mi fece accomodare, prima che anche lui si sedesse. La macchina partì e subito lo vidi togliersi travestimento completo di sciarpa e cappello. Per interrompere il silenzio istantaneo, mi propensi a fargli una domanda.
    «Posso… Posso chiederti una cosa?» Quando lo guardai in volto, scoprii che mi stava già osservando da prima che parlassi. «Certo Sharon, dimmi pure», rispose con voce vellutata.
    Evitai inutilmente di arrossire, mentre un lieve brivido mi attraversò la nuca al suono della sua voce. Annuii per dimostrare di aver capito – non volevo pensasse avessi qualche problema fisico e psicofisico - e allora mi sorrise, con un sorriso che temevo avrebbe illuminato perfino il sole.
    «Lo so, sembrerà una domanda idiota ma... Come facevi a sapere dove abitavo? Insomma… Mi hai visto solo una volta al provino, noi non ci conosciamo…» chiesi con voce sottile, mentre fissavo attentamente il suo volto contrarsi, per poi assumere una strana espressione di dubbio. Qualcosa mi diceva che nascondeva chissà cosa.
    «Oh, be’, lo chiesto alla segretaria della tua ex scuola» mi rispose rivolgendomi di nuovo il suo sguardo, sorridendo nuovamente. Io feci lo stesso, ma temei che il mio sembrasse più ad un sorriso da idiota.
    Il giorno prima avevo parlato con lui come se niente fosse, dovevo continuare come avevo sempre fatto prima che mi avesse dato quella notizia. Non era da me, eppure credevo che tutto quello che mi stava succedendo non dipendessi dal riguardo nei suoi confronti. Piuttosto era a causa sua – il modo in cui sorrideva, il modo delicato e dolce con cui mi rivolgeva parola, la sua maniera di atteggiarsi – a farmi sentire una grande ebete.
    «Come ti senti all’idea che ora diventerai una persona conosciuta?», mi chiese, attirando immediatamente i miei occhi ai suoi. Era quasi una calamita al quale non potevo che non rimanerne attirata.
    «Emozionati. E soprattutto ricompensati.», risposi calma, sospirando. Lui inclinò leggermente la testa, curioso. «Mi sento bene perché so che ora forse, dopo tutto il dolore patito, una via d’uscita c’è. Nonostante sia una persona positiva, avevo rinunciato da tempo a tutto questo».
    «Non rinunciare mai ai tuoi sogni. Un’esistenza senza sogni non è mai abbastanza vissuta», disse lui, guardandomi dolcemente. Io lo osservai, sorridendo, cominciando a sentir sciogliere dentro di me quella sensazione di freddezza che mi attanagliava.
    Non potevo non essere me stessa, quando stavo in sua presenza. Questa cosa ormai l’avevo capita da tempo, e non potevo negarla. Inoltre, non ero una brava attrice, non lo ero mai stata. Era più forte di me. Con lui tutte le mie barriere di diffidenza e preoccupazione sembravano rompersi all’istante, anche non appena incrociavo i suoi occhi. Mi chiedevo come facesse. Era straordinario.
    «Non ho mai smesso di sognare, purtroppo», dissi sistemandomi più comodamente sul sedile, accennando ad un sorriso. «E anche quando mi sembrava essere troppo debole per rialzarmi, alla fine riuscivo ad abbandonarmi a quelle sensazioni di timore grazie alla musica. Quando ballo sono felice».
    Lo osservai guardarmi attentamente, con un sorriso sul volto e allo stesso tempo un’espressione incredula. Pensai di aver detto qualcosa che non poteva capire, perciò mi propensi a dire: «… Ho detto qualcosa che non va?»
    Lui aggrottò le sopracciglia, per poi accennare ad una risata soffocata. Certo che anche lui non era normale. Forse tanto strano quanto me. Avevo questo dubbio da ieri, quando mi aveva detto quelle cose che mi avevano preso magicamente il cuore, e ora ne avevo quasi la convinzione. Che fosse simile a me? Sharon, che sciocchezze dici. Nessuno ti può capire…
    «Affatto. Provo le tue stesse sensazioni di libertà ed energia quando ballo, quelle emozioni forti che ti fanno sentire leggero e ti portano in un altro mondo. Un posto lontano da questo, nel quale nessuno sembra mai capirti veramente per come sei», mi disse, con un leggero sorrisino.
    Io lo guardavo allibita. Le parole che aveva appena pronunciato avrebbero avuto il potere di farmi sollevare, se non fosse stata una cosa scientificamente impossibile. Ma, tuttavia, qualcosa dentro di me si era mosso. Nel suo volto potevo percepire le mie stesse percezioni del ballo, le stesse che nessuno prima di me – quando le avevo raccontate di persona – sembrava capire. Nessuno, fuorché lui.
    Rimasi in silenzio, sorridendo e basta. Non c’erano parole per esprimere il mio concordo, la verità che sentivo nel suo discorso. Arrivammo più presto del previsto nello studio di prove, in un posto di Los Angeles che non avevo mai visitato prima di allora. Scendemmo entrambi non appena lui si fu rimesso il travestimento e con cautela – accompagnati da dei signori che era evidente erano le guardie del corpo, ma ben non riconosciute – avanzammo all’interno dell’edificio.
    Salimmo di qualche piano con l’ascensore ed attraversammo dopodiché un corridoio in marmo bianco, fino ad arrivare ad una stanza particolare, che sembrava tanto l’aula dove mi allenavo per ballare, ma ovviamente molto più bella ed elegante. Ne rimasi affascinata. Pavimento in legno, lucido, specchio ogni dove, muri perfettamente bianchi e due finestre all’angolo sinistro della parete di specchi principale. Erano gli studi delle prove ballo delle star di Los Angeles, quelli, altroché.
    All’interno della stanza si trovavano un paio di ragazzi – che se non sbagliavo contai fossero sette in tutto – e tre ragazze, fra cui una molto famigliare. Peccato mi fossi dimenticata dove l’avessi già vista. La musica risuonava leggera nella stanza, mentre gli altri non accorgendosi della presenza mia e di Michael continuavano a chiacchierare tranquilli. Per un momento, mi sentii un pesce fuor d’acqua, di nuovo nella mia vita.
    Michael notò evidentemente il mio sguardo preoccupato e confuso, e con un lieve cenno sulla spalla richiamò i miei occhi. Lui mi sorrise dolce e apertamente, sussurrando. «Tranquilla, ora ti presento io».
    Accennai un sì con un cenno impercettibile del mio capo e mi feci coraggio. Non dovevo temere niente. Michael avanzò di qualche passo oltre a me, prendendomi improvvisamente la mano. Questo gesto mi provocò brividi lungo tutte le braccia e la schiena, dandomi una sensazione di sicurezza innata. Sebbene la situazione doveva essere imbarazzante, non arrossii. Ero sicura. Protetta, in un certo modo. Mi sentii di nuovo capace di toccare il cielo con un dito.
    «Ragazzi, ragazze», pronunciò, attirando l’attenzione di tutti. «Vi presento Sharon, la ragazza protagonista del video».
    «Piacere di conoscervi», dissi sorridendo, comportandomi come mi comportavo sempre. La stretta di Michael mi faceva sentire senza paura. C’era lui – sembrava significare – e perciò non dovevo temere niente.
    Tutti mi si avvicinarono contenti, stringendomi la mano. Purtroppo dovetti mollare quella di Michael, ma ora non ero più impaurita. Mi sentivo bene. Una volta salutati tutti mancò la presentazione di una sola ragazza, quella che avevo già visto da qualche parte. Michael avanzò, contento, con un sorriso d’angelo in volto. Guardò me e poi lei. E se fosse la sua ragazza? Il mio stomaco ne risentì le conseguenze, a quella domanda.
    «La Toya, ti presento Sharon. Sharon, ti presento mia sorella». Oh, ecco dove l’avevo già vista! Risi di me stessa.
    Sorrisi, quasi sollevata che non fosse la sua fidanzata – perché poi doveva importarmi? -, e le strinsi la mano. Lei accennò ad un sorriso, osservandomi bene. Michael, chiamato da quello che avevo riconosciuto fosse lo stesso coreografo dei provini, se ne andò, lasciandoci sole per un istante.
    «Quindi», iniziò lei, docilmente. «Tu sei Sharon. Ho sentito molto parlare di te da mio fratello. Vedrai che non sarà niente d’impegnativo, dovrai solo cercare di non cadere alle sue avance», mi disse ridendo.
    Ora ero confusa. Che voleva dire? Non cadere alle sue avance? Io dovevo ballare... o no? Uno strano presentimento cominciò a vagarmi irrequieto per la testa, ma cercai di mantenermi il più calma possibile. Così, feci una domanda.
    «In che senso?», chiesi, cercando di controllare il mio disorientamento. Lei mi fissò – siccome nel frattempo aveva voltato il suo sguardo verso un altro ballerino della sala – e dopodiché sorrise, gentile.
    «Mio fratello non te ne ha parlato. Devi solo camminare avanti e indietro per il video, tutto qui. Non sarà difficile».
    Improvvisamente, sentii una frase che Isabel mi aveva ripetuto tante volte, ronzare nella mia testa: "Non ti illudere mai dei bei sogni ad occhi aperti".

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    Capitolo Cinque.


    Can feel the rhythm.
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Quindi rimaniamo d’accordo così?» mi chiese Jonathan, il mio assistente coreografo. Io annuii soltanto, incapace di ribattere. Perché mai Sharon doveva “passeggiare”, anziché ballare almeno qualche passo? Non gli bastava la capacità che aveva dimostrato al provino?
    «Vedrai, ci saranno altre possibilità nelle quali la farai ballare. Durante i tour, o che ne so, durante video di altre canzoni», disse, osservando attentamente il mio volto perplesso.
    Ma gli accordi non erano proprio questi. Avevamo accordato che avrebbe ballato un po’, che avrebbe danzato in due o tre scene, anche lei nel video. Invece lui mi aveva appena proposto di avere un’idea geniale in mente, ossia quella soltanto di non farla ballare e lasciarla camminare, attenendosi comunque al copione. “D’altra parte – aveva detto lui – l’idea rimarrà invariata, lei cercherà di scapparti, mentre tu la cercherai di sedurre, come avevi proposto tu; solo quel particolare cambierà”.
    Io avevo risposto di sì, ma subito poco dopo avevo pensato a quello che avrebbe pensato Sharon. Lei pensava che avrebbe ballato nel video, anziché da atteggiarsi come la ragazza che scappava dal personaggio principale innamorato di lei, ossia io. Ne sarebbe rimasta delusa? Sperai con tutto il cuore di no, perciò mi avviai velocemente verso di lei.
    Lanciai una fugace occhiata a mia sorella – che avrebbe fatto parte di quel mio video, grazie soprattutto alle continue persuasioni sue e dei miei genitori – la quale stava parlando con le altre due ragazze del cast, e mi chiesi perché mai Sharon non fosse con lei. La vidi poco distante da tutte loro, ma con lo sguardo assente, vacuo. Se mia sorella le aveva detto anche solo una parola che non doveva pronunciare, io la...
    «Sharon, posso parlarti un momento?» chiesi io, non appena le arrivai accanto. Lei mi osservò scrutatrice, aggrottando le sopracciglia. Qualcosa era evidente le era stato detto.
    «Perché non mi hai detto che in realtà non dovevo ballare?», disse, confusa. Non era arrabbiata, almeno sembrava, solamente dubbiosa. Delusa, forse. Sentii una morsa allo stomaco, ma non seppi se era a causa sua oppure del timore che lei se ne andasse.
    «Perdonami... Non era mia intenzione. Io volevo veramente farti ballare, ma…». Neanche finii la frase e fummo interrotti dal coreografo, il quale mi chiese se eravamo pronti per iniziare. Dissi a malincuore di sì, mentre Sharon mi rivolse un’espressione neutra.
    Mi avviai al centro della stanza, con di fronte a me tutti i ballerini. Cercai invano di non rivolgere continuamente, mentre parlavo, il mio sguardo a Sharon, la quale non mi toglieva i suoi occhi dai miei. Sembrava quasi propensa ad entrarmi dentro nell’anima, data la profondità del suo sguardo. Nonostante la situazione, però, non potei non pensare al fascino che possedeva.
    «Perciò», proseguì al posto mio Jonathan, notando il mio continuo distrarmi da quel discorso. Forse era giusto continuasse lui; era meglio che in quel caso stessi zitto. «Prima di farvi vedere a voi ragazzi quali sono i passi base e alle ragazze cosa devono fare nel frattempo, cominciamo a mostrarvi come si baserà la scena con la ragazza del quale Michael si innamora».
    In automatico, tutti gli sguardi delle persone in sala si rivolsero a Sharon, che si guardò attorno stordita, mentre io con un lieve sorriso e con un cenno del capo la invitavo a raggiungermi. Lei mi venne incontro, e tutti rimasero in un angolo in fondo alla stanza ad osservare quello che sarebbe successo. Jonathan andò ad inserire il disco nel lettore, mentre io mi avvicinai lento a lei.
    «Tu fai solo quello che ti verrebbe spontaneo fare se uno ti seguisse incostantemente, ok?», dissi, valutando attentamente il suo sguardo nervoso. Annuì e le sorrisi, cercando di farla sentire più a suo agio, nonostante la situazione che mi faceva sentire abbastanza imbarazzato.
    Lei ricambiò inarcando gli angoli della sua bocca in un leggero sorriso, mentre io sentii illuminarmi. Forse non era poi così arrabbiata, magari le stavano bene anche così le cose com’erano. Preso da un sollievo improvviso mi propensi ad invitarla, con un cenno della mano, a incominciare la sua camminata prima di me, sebbene la musica non fosse ancora iniziata.
    Jonathan aspettava un mio segnale, e io quel segnale lo avevo già programmato a modo mio. Delle voci echeggiavano nella stanza, confuse, e quando Sharon cominciò a proseguire a pochi passi sicuri davanti di me mi rivolsi agli altri, urlando.
    «Hey!», gridai, facendo zittire tutti. Sharon si voltò a guardarmi, scioccata. Mi guardava confusa, quasi sbigottita, presa completamente alla sprovvista da quel mio gesto improvviso. Perfino Jonathan mi guardò stordito.
    Silenzio. Mi avvicinai lento a Sharon, schioccando le dite tre volte, immaginandomi il ritmo che sarebbe venuto dopo con la musica. Lei mi guardava attentamente, cambiando espressione da sbalordita ad inquisitoria. Evitai di sorridere; si stava calando perfettamente nella parte di chi doveva evitarmi. Le girai intorno, mentre lei non si scomponeva più di tanto a fissarmi, quieta.
    D’improvviso sentii una scossa di adrenalina dentro di me. « You knock me off of my feet, baby. Hooo».
    Con un cenno del capo non appena dissi quella frase, Jonathan aprii la musica. Subito il ritmo mi percosse come una scossa su tutto il corpo e mi lasciai andare. Dovevo provare ad essere naturale, a essere attraversato dal feeling che Sharon aveva su di me. Dovevo sciogliermi, lasciare che le sensazioni avessero il sopravvento su tutto. E ci riuscii.
    Lei cominciò a scapparmi dalla vista, e io cercai in tutti i modi di farle attirare la mia attenzione. Era qualcosa di magico, mi sembrava che in quella stanza ci fossimo solo noi due. Sebbene qualche volta ad entrambi venisse da sorridere – a lei soprattutto – recitammo la parte alla perfezione, più bene di quanto avessi mai sperato. Era così semplice essere sciolto con lei. Non avevo catene che mi impedivano di essere qualcuno che non ero o che cercavo di nascondere.
    Nel punto del demo in cui solo la musica regnava, ci fermammo ad un mio cenno della mano. Sembrò ad entrambi come di cadere dalle nuvole, ma riuscii a bloccarmi in tempo, quello corretto dove il passo di ballo doveva avvenire da me e tutti i ballerini maschi presenti nella sala. Mi rivolsi verso Jonathan, il quale subito mise in pausa la canzone.
    «Bene… Da questo momento in poi i ragazzi dovranno ballare dei passi con me. Come lo dice il copione del video, sarà un modo per mettere in confronto me con altri ragazzi. Alla fine, lei sceglierà me», dissi pronunciando imbarazzato quelle ultime parole, rivolgendo il mio sguardo a Sharon, che mi guardava accennando ad un sorriso.
    Per ancora un’ora provammo i passi giusti, a volte solo il pezzo mio e degli altri ballerini, altre volte la canzone intera. Mentre guardavo ballare i ballerini per controllare i loro passi, chiamavo Sharon a starmi vicino e dirmi che cosa ne pensava. Lei con riguardo mi diceva quello che pensava, e io casualmente ero d’accordo con lei. Durante quell’ora, mi sembrò che il nostro rapporto si faceva più stretto rispetto a quello del giorno precedente. Più sciolto.
    Come da video, venne perfino il punto in cui le dovetti spiegare cosa doveva fare, una volta finito il balletto con gli altri ballerini. Arrossì non appena glielo dissi, e quando ripetemmo per l’ultima volta in quella giornata mi abbracciò, come da copione… E rimasi senza parole. Non per il fatto che si comportasse in un modo estremamente affascinante, ma soprattutto per le sensazioni che mi dava.
    Il suo era un abbraccio caldo, abbastanza da togliermi il fiato. Sentii il mio cuore, a quella stretta, cominciare a battere come se fosse leggermente in tilt, ma non abbastanza fin quando non sentii il suo profumo attraversarmi. Era un’essenza proveniente dalla sua pelle, naturale e fresca, alla quale non potevo che non sottrarmi. Era un’emozione adrenalinica che non avevo mai provato con nessuno. Quando l’abbraccio dovette sciogliersi, non potei non rimanerne confuso e scioccato. Il suo odore e la sua presenza così vicina mi aveva provocato brividi in tutto il corpo, nonostante fosse per me quasi un’estranea. Eppure, quando ero con lei – solamente con lei e con nessun altro – uno stato di energia pura e carica di elettricità mi attraversava per tutto il corpo, al posto del sangue.
    Finì la lezione e salutai tutti. Sharon mi aspettò fuori dalla sala prove, nel frattempo che io facevo un resoconto col coreografo. Lui non disse niente riguardo a Sharon, ma osservò attentamente preoccupato il mio sguardo frastornato. Uscii dalla stanza – avendo, alla fine, capito poco e niente di quello che Jonathan mi aveva riferito – e con Sharon arrivammo in macchina, in silenzio, accompagnati da una guardia del corpo.
    Saliti, nessuno dei due disse niente per un paio di minuti. Dopodiché, una sensazione di dubbio nascosta nel profondo del mio cuore mi uscii dalle labbra, specchio della mia confusione e di una domanda a cui dovevo assolutamente dare risposta.
    «Sei arrabbiata con me? Per non averti detto prima le vere intenzioni di...», ma non proseguii oltre, poiché la vidi sorridere serena.
    «Stai tranquillo. A me sta bene anche così. Sei tu che devi decidere la mia parte, non io», mi rispose scrollando le spalle, con un’espressione in volto che io definii rassicurante. Ma io non ero tranquillo del tutto.
    «Sei davvero sicura di voler lavorare con me?», chiesi, con voce sottile, mentre mi accorsi del suo sguardo scioccato che aveva in volto. Avevo detto qualcosa di male?
    «Michael, io sono qui, felice come non sono mai stata in vita mia – sebbene non balli nel video, nonostante le mie speranze – e tu mi chiedi se sono sicura di voler lavorare con te? Ma che domande, certo che sono sicura!», rispose, mezza irritata ma comunque sorridente.
    Le sorrisi e lei fece lo stesso, spostando il suo sguardo fuori dal finestrino, le quali immagini passavano lente da un edificio all’altro. Io rimasi a guardarla per qualche minuto, incapace di togliere i miei occhi dal suo volto.
    Per la prima volta rimasi ad osservare il suo aspetto, quasi con paura che il giorno dopo mi sarei già dimenticato alcuni particolari del suo volto sorridente.
    Il tramonto faceva risaltare i suoi capelli scuri e ricci con mille riflessi castano dorato, e i suoi occhi risaltare di quella luce che traspariva sempre dai suoi occhi neri. I suoi lineamenti risplendevano alla lieve luce solare pallida e arancione, mentre il suo sguardo era chiaramente attratto dal paesaggio avvolto dal calare del sole.
    Improvvisamente, quando capì di essere osservata, si voltò verso di me. Un lieve sorriso imbarazzato mi apparve in viso, incapace di dire o dare spiegazioni ulteriori al mio gesto, nel frattempo che lei soffocava una risata. Mi sentii sprofondare dall’imbarazzo, per niente capace di sopportare la situazione in cui mi ero maledettamente trovato. Nonostante ciò, ero rimasto affascinato dalla visione del suo sorriso alla luce del sole. Era splendente, semplice. Pulito.
    «Grazie...», disse lei, attirando nuovamente il mio sguardo a lei, mordendosi un labbro. «Mi hai dato molto coraggio oggi, a lezione. Te ne sono grata». Nel suo viso non c’era tratta di falsità, solo gratitudine.
    «Non devi ringraziarmi. Ne avevi bisogno per avere più fiducia di te stessa e non avere paura», risposi, dimenticando e lasciandomi alle spalle la figura fatta precedentemente.
    «Io non avevo paura...», esclamò lei, aggrottando bocca e fronte come una bambina. «Solo terrore, tutto qui», disse, facendo una espressione da fintamente perplessa e di chi sta sul punto per scoppiare a ridere. Risi con lei a quella frase, fino a quando non mi accorsi che la macchina si era fermata proprio di fronte a casa sua. Eravamo a casa sua, purtroppo.
    Quando lo capì anche lei mi rivolse un’occhiata dispiaciuta, con un sorriso quasi inesistente sulla sua faccia. Scesi dalla macchina, decidendo di accompagnarla fino al cancelletto dell’appartamento, per non mostrarmi scortese nei suoi confronti. Nel frattempo che cercava la chiave giusta fra quelle cinque o sei che possedeva, mi parlò.
    «Senti...», mi disse, sollevando lo sguardo dalle sue chiavi. «Mmh... Quando ci sono le prossime prove di ballo? Per il video, intendo.»
    Riflettei sulla mia lista di impegni e cose da fare quella settimana, poi risposi. «Penso domani pomeriggio, verso tardi se non ricordo male, alle otto di sera».
    Subito il suo volto si fece serio, pensieroso. Nel frattempo, sbuffando, prese la chiave corretta e ripose le altre dentro la sua borsa a tracolla, per poi voltarsi verso di me di nuovo afflitta. Tutt’un tratto ricordai che lavorasse al locale, e capii il suo stato di confusione.
    «Purtroppo non so se il mio capo mi lascerà venire, ma chiederò, io lavoro a…»
    «Giusto, il locale…», dissi sottovoce, non accorgendomi del danno detto senza troppo pensare.
    Il suo sguardo si fece da preoccupato a serio, da pensieroso a sbalordito. «Cosa?»
    Cercai di fingere non avessi detto niente, sebbene il mio volto fosse lo specchio della verità menzionata che avevo appena rivelato. «Eh?»
    Chiuse gli occhi per un secondo, poi li riaprì. «Come fai a sapere del locale? Del locale dove lavoro?»
    Il suo sguardo si fece inquisitore, squadrando ogni minima espressione che rivelava il mio volto. Ormai non potevo più cercare di mentire. Avevo fatto la mia figura, perciò mi propensi a dire la verità.
    «Io… Scusa. Ti giuro, volevo dirtelo, ma avevo paura ti arrabbiassi per il fatto che non…». Scorsi i suoi occhi vagare a vuoto, per poi sbigottirsi di un’idea che le era sicuramente percorsa nella mente. O forse, più che idea, una verità.
    «Tu… Eri per caso l’estraneo all’angolo? Quello accanto a me, seduto?», esclamò, diventando sempre più rossa in volto, facendo arrossire perfino me. Annuii soltanto, e la sua espressione si fece senza parole.
    Si portò entrambe le mani a coprirsi il volto, inspirando ed espirando agitata. La fissai, timoroso di una sua istantanea crisi isterica che sarebbe partita, ma che invece non arrivò. Riportò i suoi occhi ai miei, mantenendo il polso della mano destra a coprirsi la bocca, incapace quanto me di parlare.
    «Dovevi dirmelo», disse lei, con voce tremante dall’imbarazzo e dall’irritazione. «Subito».
    «Perdonami. Io non avevo il coraggio di…», cercai di scusarmi, accorgendomi che anche la mia voce si stava facendo flebile. Troppo flebile. Un suo sospiro aumentò a dismisura il mio senso di colpa, fin quando con un suo gesto riuscii a far scomparire ogni preoccupazione. Appoggiò la sua mano sul mio braccio sinistro, guardandomi con occhi gentili ma non del tutto sollevati dalla figura che le avevo fatto fare.
    «Non avere mai paura di esprimere te stesso, di dire alle persone quello che pensi. La verità può far male e causare delle brutte reazioni, ma una bugia è peggio. Però ti prego, non scusarti, perché io non provo rammarico. Forse un po’ di imbarazzo, ma non chiedere scusa.»
    Il suo sguardo sorridente e il suo discorso limpido e chiaro mi fece allibire. Non ebbi parole per esprimere le sensazioni di gratitudine e liberazione che sentivo dentro, e il consiglio che mi aveva dato me lo aveva detto senza superiorità, ma solo con l’umiltà. Alla mia faccia sbigottita il suo sorriso si fece più grande, aprii il cancelletto e si diresse verso la porta d’entrata dell’edificio. «A proposito», esclamò, voltandosi di colpo, mentre io continuavo a fissarla senza parole. Lei sorrise. «La prossima volta saprò riconoscerti».
    Poco prima di chiudere la porta definitivamente, mi salutò con un cenno della mano. Dopodiché scomparì, lasciandomi senza troppe parole da dire davanti al cancelletto.


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    Capitolo Sei.


    Pictures comes alive.
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Una Coca per il tavolo 10, Sharon», disse Logan, il fratello di Ilary, anch’egli cameriere di quel locale. Distrattamente, senza dargli troppa retta quella sera, eseguii subito i suoi ordini.
    Per tutto il tempo in cui risiedevo dietro il bancone non ebbi il coraggio di guardare fra i tavoli per capire se lui – Michael, e chi se no? - era presente oppure no, siccome non volevo né beccarmi una batosta per quella mia illusione, né volevo fare un genere di figuraccia, se avessi per caso incrociato il suo sguardo. Continuavo a guardare fissa il bancone, studiando ogni lineamento del legno, e distogliendo gli occhi solo quando dovevo mettermi all’opera.
    «Sharon, mi senti?», chiese Ilary, dandomi un leggero buffetto sulla spalla. La guardai fisso, neanche fossi caduta dalle nuvole, e la vidi sogghignare. Subito nel mio volto comparve un’espressione accigliata.
    «Sì, ti sento... Circa. Posso sapere perché ridi sotto i baffi?», domandai, non distogliendo i miei occhi da lei. Ilary accennò ad una risatina lieve e poi rispose, inarcando un sopracciglio.
    «Eh no, prima rispondi tu alla mia. È chiaro a tutti che oggi sei pensierosa, mi spieghi perché?». Roteai gli occhi in segno di disapprovazione. Perché continuava, da quando ero arrivata, a stressarmi con quella domanda?
    «Te l’ho detto, non ho niente. Sto solo pensando alla coreografia...», o quasi..., pensai fra me e me. Di certo non andavo a dirle che la mia testa era presa da una persona, quella che aspettavo arrivasse.
    Non che lo avrei ammesso facilmente. No, a lei non glielo avrei mai detto, altrimenti avrebbe cominciato a tirare gridolini disumani e avrebbe attirato l’attenzione di tutti, per non parlare dello stress che mi avrebbe fatto subire. Sapeva essere veramente testarda e rompiballe quando si metteva, perciò evitavo di raccontarle gossip o altro, sebbene fosse una mia cara amica dal college.
    Ilary storse le labbra in una smorfia per niente convinta dalla mia risposta, e continuò. «Certo, come no. E secondo te io dovrei crederci?»
    Io sbuffai, indecisa se tapparle la bocca con la prima cosa che mi capitava a tiro o se, invece, era meglio lasciarla parlare e basta, evitando di ascoltarla possibilmente.
    «Non voglio che ci credi, l’importante è che non mi stressi la vita. Te l’ho detto, non mi sto preoccupando per nessuno. Per nessuno», sottolineai.
    «Guarda che io non ho detto che c’entrava qualcuno coi tuoi pensieri», disse sogghignando di nuovo. Perfetto, ero finita in trappola da sola. Bravissima, Sharon, mi complimento con te.
    «E comunque», continuò, imperterrita. «So già che è lui la persona. Non ti preoccupare, non lo dirò a nessuno». Preoccupata, sudando freddo, le lanciai un’occhiata sbigottita.
    Lei, invece, scoppiò a ridere. «Tranquilla, fidati che nessuno saprà che sei presa da quell’estraneo dell’altra sera». Be’, almeno non ci era arrivata. Diciamo non del tutto, ecco. Non aveva proprio sbagliato, peccato che lei in realtà non sapesse chi veramente era.
    «E poi, da come ti guardava si capiva che gli interessavi...», disse Ilary, mentre lavava alcuni bicchieri sul lavello. Io, allora curiosa, mi avvicinai a lei, cercando di non sembrare tanto ossessiva.
    «Secondo te gli interesso? Da come lo hai capito?», chiesi, non vedendo l’ora di sapere quale fosse la sua risposta imminente. Lei soffocando una risata mi guardò stupefatta.
    «Avanti, tesoro, non dirmi che non hai visto le occhiate che ti lanciava! È chiaro come il sole che era attirato da te!», disse alzando le mani al cielo, mentre io riflettevo sulle sue parole. «Però, ascolta il mio consiglio: non darla mai, se prima non conosci il soggetto!», disse sorridendo, mentre io esclamai una nota di orrore lanciandole uno straccio in testa.
    «Ilary, ma cosa dici! Secondo te io sono una... così? Tu sei fuori di testa!», dissi scioccata, mentre lei si divertiva come una pazza alla vista della mia faccia a bocca aperta.
    «Be’, non si sa mai Sharon», esclamò ridendo, dirigendosi velocemente dall’altra parte del bancone, avendo visto un cliente in cerca di cameriere istantaneo. Io rimasi dietro il bancone, sorridendo, lavando quegl’ultimi bicchieri da pulire.
    In quel momento, riflettei su quello che mi aveva detto: davvero attiravo la sua attenzione? In effetti, anche quel pomeriggio, in macchina, avevo sentito il suo sguardo continuo verso di me, soprattutto sentivo il feeling fra noi, a ritmo di “The Way You Make Me Feel”. Il modo in cui aveva ballato, il momento in cui lo avevo tenuto per il colletto provocatoria... Arrossii violentemente al pensiero dell’abbraccio e scossi la testa, cercando di divagare quel avvenimento dalla mia mente.
    Quando Ilary tornò – troppo presto per i miei gusti – quasi mi venne addosso. Io la trattenni per un polso, cercando di non inciampare anche io nelle mie stesse scarpe coi tacchi che usavo per il lavoro – scarpe che, sinceramente, ne avrei fatto volentieri a meno. Lei mi rivolse un mezzo sorriso eccitato, ma io non capii subito di cosa si trattasse. La fissai confusa e ammutolita.
    «Sharon... E’ qui». Mi bastò quella frase per fossilizzarmi. Rimasi a guardarla smarrita, mentre lei con un lieve quanto invisibile cenno del capo mi indicava di guardare alla sua destra.
    D’istinto, senza badare molto a quello che sarebbe successo, mi voltai. All’inizio non vidi nessuno, poi in fondo ad un angolo, da solo, c’era lui. Lo riconobbi perché aveva lo stesso travestimento dell’altra sera. Incrociai il suo sguardo per due secondi, il quale curioso mi guardava, con quel fare estremamente tenero e dolce, e mi voltai di scatto dall’altra parte del bancone. Cercai in tutti i modi di non arrossire.
    «Mio Dio...», dissi, fissando il vuoto. No. No. No. Perché diavolo mi stavo emozionando per la sua presenza? Sentivo il cuore scoppiare di felicità, eppure odiavo me stessa per questo.
    «Visto?! Te lo avevo detto!», esclamò entusiasmata Ilary, richiamando subito la sua tranquillità solo quando le schioccai un’occhiata fulminante. Ci mancava solo la standing ovation.
    «Non. Urlare.», sibilai, facendomi prendere dal panico dalla paura che avesse sentito e che, volendo, fraintendesse il mio imbarazzo. Chiunque sarebbe stato preso dal mio stesso rossore… Credo. Lei rimase ad osservarmi, poi dissi:
    «Mi sta guardando?», chiesi con voce tremante. Almeno il rossore stava cominciando a farsi meno, per quanto potessi percepire dal calore sulle mie guance.
    Ilary si voltò, e subito la chiamai a voltarsi dalla mia parte. «Non così!», dissi, con voce stridula. Lei mi guardò confusa, per poi incrociare le braccia e alzare un sopracciglio in segno di rimprovero.
    «Preferisci che stia qua a far niente e guardarti fin quando non ti decidi a farti avanti?». Come se a me sarebbe piaciuto il suo sguardo addosso, in quel momento. Sbuffai, esasperata. Che dovevo fare?
    «Secondo te… Devo andarci a parlare?». Ero in crisi. Non sapevo se fosse giusto andare là, poiché era come dimostrare che mi interessava, ma non sapevo nemmeno se fosse sbagliato non farlo.
    «Sharon, tu sei negata in amore. Ascolta me, vai e provaci, magari solo per chiedergli che cosa vuole stasera da bere, ecc. O la và, o la spacca». Facile per lei dirlo. Io ero troppo preoccupata a mantenere il mio cuore protetto dalle sofferenze esterne, e lei mi diceva di buttar giù le mie barriere in un batter d’occhio?
    Sbuffai, ma decisi che aveva ragione. Mi dirai su dalla posizione accasciata sul banco e presi un block notes e una penna dal mio taschino, pronta per servire quella persona che nessuno avrebbe pensato fosse Michael Jackson. Ilary batté un colpo con le mani e mi disse di aspettare dietro il bancone, prima di andare. Rimasi a guardare il basso, ma mi sentivo osservata. Eccome.
    Improvvisamente sentii una musica che già conoscevo provenire da uno stereo vicino ed amplificatore, e riconobbi con un malore allo stomaco che quella canzone era “Human Nature”. Tutto ma non quella! Ma che cos’era? Una sensitiva? Perché proprio quella? Guardai gli amplificatori delle casse con odio profondo, quasi fossero loro i colpevoli invece che Ilary.
    Una volta che tornò al bancone, la fulminai con lo sguardo. Lei mi guardò comunque sorridente – ovviamente non capendo i motivi di quella mia occhiata aggressiva – e mi raggiunse dietro la schiena. Mi spinse fuori dal bancone, cantilenandomi la frase “Vedrai che ne verrà la pena”, fin quando non inciampai in uno sgabello dove, per sbaglio, mi aveva spinto su.
    Maledetti tacchi. Rimasi immobile per un momento, poi guardai Ilary con un sorriso di scherno, mentre lei - indecisa se scoppiare in lacrime dalle risate o scappare via - mi guardava ad occhi spalancati, con le mani che le coprivano il viso. Infine, entrambe scoppiamo a ridere. Me ne fregai se in quel momento avevo fatto una figuraccia, e appoggiandomi al bancone con una mano e con l’altra sullo sgabello scoppiai letteralmente.
    Andammo avanti per un minuto abbondante, con le lacrime agli occhi, mentre cercavamo invano di non cadere per terra. Alzai il mio volto al cielo, sbattendo le palpebre per evitare di piangere dal ridere e, con una fatica immensa dovuta al suo riso e al mio, riuscii a parlare.
    «Ilary... La prossima volta, non cercare di uccidermi. Lo sai che il mio equilibrio fa schifo, quando sono sui tacchi. Così mi dai una mano», e riprese a ridere, nel frattempo che io mi ricomposi.
    Sospirai, cercando di trattenere un istinto di risata, mentre con la calma mi diressi verso il tavolo dove Michael si trovava. Una volta accanto, storsi la bocca per negare un sorriso e mantenermi seria. Notai che anche nel suo volto, per quel poco che riuscivo ad osservare, c’era un cenno di risata. Era evidente che avevo fatto ridere anche lui. Ovvio, che domande.
    «Buonasera... Mmm», tossii, cercando di non scoppiare di nuovo a ridere, questa volta cominciando ad avvampare. «Benvenuto al “Saturday Night”. Desidera qualcosa oggi?»
    Mi guardò con occhi lucidi che emanavano felicità, a mani congiunte sul tavolo, e con voce lieve parlò. «Oh, be’… Un caffè macchiato, come la scorsa volta…», rispose, ammiccando a quell’ultima frase con un cenno fulmineo dei suoi occhi verso me. Io sorrisi e dimenticata della figura fatta prima, come d’incanto.
    «D’accordo», pronunciai, appuntando con un sorrisetto l’ordinazione su un foglio del blocco. Mentre stavo per muovere un passo per il banco, lui mi fermò avanzando con una mano sul tavolo, allungandola. Lo osservai e vidi che mi osservava, pronto a parlare.
    «Ehm... Posso chiederti un foglio di block notes?». Un’espressione corrugata mi apparve in volto, ma subito dopo scomparve non appena mi sorrise, una volta consegnatogli il piccolo foglietto bianco.
    D’istinto, chiesi. «Ti serve una penna?». Lui mi guardò con fare impacciato, e io gli passai quella che stavo usando.
    Non gli lasciai tempo per dire niente, poiché ne tirai fuori un’altra dalla tasca. Subito sorrisi e me ne ritornai al bancone, senza dire altro. Una volta là, linciai Ilary prima che pronunciasse una sola parola.
    «Non dire niente. Faccio a modo mio adesso», dissi, guardandola con un sorriso sghembo. Lei fece la finta offesa e se andò a servire altri clienti. Una volta preparato il caffè di Michael, mi decisi a portarglielo.
    Nel frattempo, le ultime note di “Human Nature” risuonarono nel locale, lasciando posto ad un’altra straordinariamente lenta. Era Whitney Houston, la mia cantante preferita.
    Quando gli posi la tazzina sul tavolo, mentre mi chinai per non versaglielo addosso, il suo profumo m’invase all’improvviso. Era maschile, ma con una nota di raffinatezza ma allo stesso tempo di vivo. Non lo seppi definire. Sapevo solo che lo adoravo. Anche quando lo avevo abbracciato, poche ore prima, durante le prove, mi aveva stordito, solo che ora era molto più forte di prima.
    Nel frattempo, con una mano mi propense il biglietto, piegato, e facendo finta di niente me ne ritornai dietro il bancone. Cogliendo l’occasione che Ilary stava servendo, lo aprii. Una frenetica curiosità insensata mi portava a scoprire cosa c’era scritto, tanto da farmi perfino tremare le mani.

    Spero che domani verrai alle prove.
    Sarebbe molto bello. Mi farebbe felice.
    Fammi sapere qual è la risposta, così se
    è sì ti vengo a prendere un po’ in anticipo.
    P.S. Ti sei fatta male?


    Mille pensieri mi vorticarono frenetici nella mia povera testa. Mi farebbe felice. Quella frase mi aveva fatto venire il batticuore, e alle parole “se sì ti vengo a prendere un po’ in anticipo” sentii le gambe diventarmi troppo leggere per riuscire a sorreggermi. Che cosa voleva dire con quelle frasi? Veramente voleva che non mancassi, o era solo una scusa? Senza esitazioni, presi la mia penna nera e mi chinai a scrivere la risposta.

    Ho chiesto al mio capo, e non ci sono problemi.
    Domani non mancherò per nulla al mondo.
    Comunque, stai tranquillo, non mi sono fatta niente…
    La morte la rischio quasi ogni giorno!


    Prima di chiudere il biglietto, rilessi più volte e studiai la scrittura di Michael nei dettagli, per non dimenticarmene. Sigillai con cura il foglio e, vedendo che Michael aveva già finito il caffè e aspettava, guardandosi in torno, mi propensi ad andare al tavolo, mantenendomi più calma possibile. Non dovevo mostrare che ci tenevo troppo. Perché la verità era che morivo dalla voglia di raggiungerlo.
    Il locale cominciava a farsi affollato, e la musica allo stereo ormai era stata sostituita con quella dal vivo. Quando gli portai il biglietto, non esitò ad aprirlo. Lo lesse con cura, e scrutando dalla sciarpa che portava al volto capii che quello che aveva in viso era un sorriso. In automatico, senza prevederlo, sorrisi anche io. Incondizionatamente. Era così stupendo quando sorrideva che non potevo non essere felice.
    Chiuse il biglietto e se lo mise nella tasca del cappotto, per poi guardarmi negli occhi. Come ogni volta che succedeva, mi sentii di nuovo vibrare nell’aria, leggera.
    «Non ti esibisci questa sera?», chiese immediatamente, con voce bassa ma che, grazie al cielo, le mie orecchie riuscirono a sentire. Io alzai le spalle, per poi inarcare un sopracciglio.
    «Desidereresti vedermi esibire?». Questa volta fu lui ad alzare le spalle, tenero, ma comunque di quel fascino maschile che mi portava maledettamente all’oblio. Dovetti farmi forza e prendere un bel respiro.
    «Non avrei potuto, sono venuto qua solo per cinque minuti, dovrei tornare a lavoro adesso…». Subito la mia imminente felicità fu stroncata, e una smorfia di delusione mi apparve in volto.
    Rimanemmo a fissarci per un po’, poi si alzò dal tavolo fiaccamente. Io lo lasciai passare e prima che se ne andasse definitivamente, si voltò verso di me. Rimase un po’ indeciso sul da farsi, nel frattempo che io lo fissavo curiosa, e alla fine si propense a darmi un bacio sulla guancia. Arrossii ma feci finta di niente, mantenendo un’espressione neutra in volto, per quanto mi fosse possibile.
    Alla fine, se ne andò, lasciandomi questa volta lui come una stupida me, ignorando la musica del locale e la voce emozionata di Ilary alle mie spalle.


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    Capitolo Sette.


    The greatest love of all.
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Ero indeciso. Suonavo o no il campanello? E se la disturbavo? Le avrei dato fastidio?
    Battevo il piede destro a terra, agitato, mordendomi il labbro inferiore, incapace di decidere sul da farsi. Sentivo della musica – che avrei scommesso fosse Whitney Houston - provenire dall’interno di quella stanza di appartamento e mi chiesi se, anche chiamando, mi avrebbe comunque sentivo. Be’, tanto valeva la pena almeno provarci.
    Suonai il campanello, ma la musica non cessò. Rimasi immobile ad aspettare e notai che, effettivamente, il volume era sceso. Mi accostai con l’orecchio alla porta, cauto, per sentirne i rumori all’interno. Poi una voce, quella calda di Sharon, sovrastò la musica che risuonava. «Arrivo!», la sentii dire, e tirai un sospiro di sollievo. Almeno aveva sentito, fortunatamente. Sentii dei rumori di serratura provenire da dentro la stanza, e optai alla soluzione che fosse lei ad aprire la porta.
    La porta si socchiuse, e la visione che mi parve di fronte fu un’imbarazzata Sharon dai capelli bagnati, poiché riuscivo a vederne solo il volto. Arrossii leggermente e capii che, in effetti, non avevo proprio scelto il momento giusto.
    Certo, le avevo detto che sarei arrivato in anticipo… Già, in anticipo di un’ora e mezza. Come facevo a dirle che non vedevo l’ora di passare un po’ di tempo con lei, in realtà? La verità era che quando ci parlavo, per quel poco che ne avessi avuto la possibilità in quei giorni, io mi sentivo bene. Mi sentivo me stesso senza bisogno di mentire e negare chi io non ero, per quanto cercassi di non fidarmi degli altri.
    «Michael…», mi disse lei, impacciata e scarlatta in volto. «Non pensavo che arrivassi così presto, mi fa piacere!», dopodiché un sorriso illuminante le comparì in volto, risaltando la luce dei suoi occhi.
    «Oh, ehm…», dissi, spostando lo sguardo verso quei suoi capelli bagnati. Lei si accorse del mio volto preoccupato e arrossendo si propense a rispondermi, questa volta più frettolosa.
    «Oh, scusa. Aspetta, adesso ti faccio entrare solo che…», continuò lei, aggrottando la fronte. «Un attimo che raggiungo la doccia. E solo che… Non pensavo arrivassi così in anticipo, tutto qui. Ehm… Aspetta».
    Impacciata, distogliendo lo sguardo dal mio, se ne andò, lasciandomi la porta socchiusa. Io, senza parole, aspettai una sua conferma sul lasciarmi entrare. Cercai di non arrossire e una volta sentita la sua voce che mi dava il permesso, avanzai all’interno della stanza, prudente. Chiusi la porta e mi propensi ad osservare curiosamente quel piccolo ma accogliente ambiente nel quale Sharon abitava.
    «Ho quasi finito, non ti preoccupare… Oh, non badare al casino che vedi, non ho avuto proprio il tempo di mettere tutto apposto. Puoi comunque dare un’occhiata in giro, se sei curioso, che a me non disturba affatto. Spero solo non ti perda in quel caos», riprese soffocando una risata, nel frattempo che sentii lo scroscio dell’acqua della doccia.
    «Non vorrei dare fastidio…», risposi, riferito al fatto della “curiosità”. Non potevo non dire che non fossi preso, poiché avrei mentito. Volevo saperne di più di lei, e osservare ogni dettaglio dell’appartamento mi avrebbe aiutato per quel poco. Intanto, allo stereo cominciò a risuonare la canzone “Where Are You”, di Whitney Houston.
    «Tu fastidio? Figurati! Fai come se fossi a casa tua», rispose, mentre nel mio volto comparve un sorriso. Presi l’occasione al balzo e cominciai a camminare per il salotto, osservando le cose che mi interessavano. Nonostante fosse piccolo, quel ambiente mi dava una sensazione di calore. Mi ricordava un po’ la casa a Gary, e fui preso da una morsa del passato.
    C’erano dei mobili di legno non molto vecchi, scuri, alcuni con vetrate di vetro per mostrare il loro interno. Un tavolino di vetro stava di fronte al divano a tre piazze, con sopra qualche telecomando della televisioni e alcuni libri di lettura. C’era anche un quaderno per appunti, il quale osservai non aveva titolo. Trattenni la curiosità e passai ad osservare i muri bianchi e puliti.
    Dietro il grande divano c’era una finestra che dava sulla strada, e riconobbi la mia auto. Era una stanza al terzo piano, perciò la vista era gradevole. Mille luci trasparivano dagli edifici delle città e nel cielo tinto di blu scuro risplendeva la luna piena. Tornai a guardare all’interno della stanza, dopo essermi tolto quella pesante sciarpa e cappello da travestimento, e i miei occhi furono attratti da due scaffali.
    Entrambi erano al muro, e in questi si trovavano in uno dei libri, in un altro dei Cd di musica. Erano tutti divisi in categorie specifiche e ordinate, e sia libri che dischi erano intatti, trattati con la massima cura. Mi complimentai per come tenesse le sue cose, e lei mi rispose con una risata e un grazie imbarazzato. Non sentii più l’acqua scorrere, e capii che evidentemente aveva già finito la doccia.
    Osservai ripiani e ripiani, ogni dettaglio – dai vasi presenti nella stanza, dai quadri appesi al muro, dai tappeti sul parquet di legno – e intuii che fosse una ragazza con un gusto fine per le cose, ordinata, classica ma comunque elegante, per quel poco che potevo capire possedeva.
    C'erano, fra i Cd, dischi di Steve Wonder, Tina Turner, Whitney Houston, Lisa Stanfield... Notai che c’erano anche miei Cd, alcuni perfino dei Jackson 5, dischi con copertina molto vecchia e fragile ma tenuti perfetti. Avevano si e no qualche ammaccatura sulla copertina, ma ero trattati con riguardo. C’erano tutti… Anche il Cd “Bad”, in primis rispetto agli altri, segno che lo ascoltava spesso.
    Sorrisi compiaciuto e osservai che un’anta di un armadio era semi aperta. Indeciso, alla fine mi propensi ad osservare l’interno, sperando non ci fossero cose private. Rimasi impressionato. In quel mobile, una schiera di cassette Disney erano presenti. Il mio sorriso si allargò, stupefatto, e notai che alcune cassette non erano tutte in inglese. Erano di una strana lingua di cui non riconoscevo fosse il nome e constatai che, a rigor di logica, quella deve essere stata appunto la sua lingua madre. Un dubbio sul dove provenisse mi lasciò il segno.
    «Hai scoperto i miei tesori», disse Sharon, portando il mio sguardo di nuovo verso il suo. Sorridente e imbarazzata mi osservava, avanzando a braccia conserte verso di me. Non mi ero neanche accorto che si era già asciugata i capelli, sebbene ancora leggermente umidi sulle punte. Le ricambiai il sorriso, rivolgendo di nuovo lo sguardo sulle cassette; c’erano Cenerentola, Bambi... Peter Pan. Tutti.
    «Ho sempre amato i cartoni Disney, fin da piccola», disse sottovoce, con un sorriso dolce sulle labbra, guardando quei suoi tesori. «I miei preferiti erano La Bella Addormentata Nel Bosco e Peter Pan. Li guardavo sempre, non mi stancavo mai».
    «Anche a me piacciono molto, Peter Pan soprattutto», dissi con un grande sorriso sulle labbra che ricambiò. Un’altra passione in comune. Per me Walt Disney era un personaggio da ammirare, da sempre, e adoravo incondizionatamente i suoi cartoni. Erano speciali.
    «Sai, per me sono stata la fonte maggiore che mi ha aiutato a tener duro...». Guardai Sharon serio, mentre il suo sorriso si faceva sempre più lieve e con una nota di tristezza. Si tirò su dalla posizione accucciata – dato che le cassette erano in uno sportello in basso – e si avviò lenta verso la finestra, con lo sguardo perso nel vuoto della grande città.
    Un senso di solitudine, nelle parole che aveva pronunciato, cominciò a far pian piano parte di me. La guardai fisso, sperando che continuasse quel suo discorso. Guardava fuori, con sguardo triste e assente, pensierosa, e io la osservavo senza staccarle i miei occhi di dosso. Non potevo. O almeno, non ci riuscivo. Potevo percepire la sensazione che traspariva dal suo sguardo.
    Soffocò una risata, ma non divertita, poi scosse lentamente la testa. «I cartoni Disney, la musica, il ballo, perfino il canto… Erano gli unici metodi per combattere. Mi portano ad un’infanzia che non ho mai vissuto...», pronunciò lei, con amarezza.
    Alla parola “infanzia” sentii il mio cuore farsi piccolo, ma una forza sconosciuta in me mi portò a farle una fatidica domanda improvvisa. «Hai... Hai avuto un’infanzia difficile?»
    Lei annuii, facendo comparire un sorriso di rammarico in volto. Guardava sempre fuori, in un punto vuoto, e con calma mi alzai anch’io dritto, per poi fare qualche passo verso di lei. Emise un sospiro lento, calmo nonostante qualche tremore, chiuse gli occhi e rispose.
    «Diciamo che fra non avere un’infanzia e averne una come la mia, non so quale sia la scelta migliore. Non ho mai avuto una vita facile», mi rispose, sottovoce. Appoggiò il capo alla finestra, per poi guardare me.
    «Che ti è successo?», chiesi con voce debole, piena di comprensione. Volevo capire se anche lei, come me, aveva passato veramente un’infanzia orribile, inesistente. Senza accorgermene, avanzai di un passo.
    Tornò a guardare fuori e rispose. «La mia famiglia... è stata quella la causa per la maggior parte delle volte a provocarmi dolore. E poi, non c’era nessuna persona accanto che ci tenesse veramente a me. Non ho avuto la gioia di condividere i miei sogni con nessuno, poiché nessuno mi capisce».
    No, Sharon... Io ti capisco. Non sai quanto ti capisco... So come ci si sente a sentirsi incompresi e soli, con nessuno accanto. Con nessuno che capisce quello che provi... So come ti senti.
    «Da piccola venivo da tutti i miei coetanei lasciata in un angolo, a piangere lacrime silenziose per qualcuno che speravo un giorno mi fosse accanto. Vedevo i bambini giocare, da lontano, in qualche parco o in strada, e desideravo essere con loro. Ma piangevo, perché sapevo che in realtà nessuno voleva stare con me. Con il tempo ho capito che devo dipendere da me. Li guardavo, e sognavo sogni irrealizzabili».
    Qualcosa dentro di me si mosse. Tristezza, compassione, realizzazione. Non riuscivo a descrivere. Sapevo solo che provava quello che provavo io, e l’immagine di lei che guardava i bambini da lontano mi portava di nuovo al passato. Un passato fatto solo di lavoro e senza un’infanzia degna e sufficiente per la crescita di un bambino. Lei capiva cosa significa essere soli e senza nessuno accanto.
    La guardai e vidi una silenziosa lacrima scenderle sulla guancia destra, messa in risalto dalle luce della città. Quando si accorse che mi ero avvicinato e sfiorato un braccio con dolcezza, si asciugò la goccia di tristezza appena caduta dal suo volto con il palmo sinistro della mano. Evitò di guardarmi, sapendo che la osservavo con occhi lucidi e il cuore riempito di un dolore rievocato.
    «Scusa... Non volevo... Non è facile per...», poi, sentendo il calore della mia mano sulla sua guancia, altre due lacrime le scesero copiose dagli occhi. Con l’altra mano mi appresi ad asciugare anche l’acqua salata sull’altra guancia, avvicinando senza pensare le mie labbra alla sua fronte.
    «Tranquilla... E’ tutto apposto... Non piangere, per favore». La mia voce si fece implorante, una volta che i suoi singhiozzi si fecero più udibili. Mi chiesi se avesse ancora i genitori, ma non era il momento per chiedere. Dovevo esserle vicina, non farla sentire sola.
    «Io... Io so quello che si passa. Anche io non ho avuto un’infanzia. Il mio lavoro ha sempre risentito sul bambino che ero, non sai quanto mi sia sentito solo. Nemmeno io ho mai pensato che qualcuno riuscisse a capirmi, né penso di incontrare un giorno una persona che mi ama per come sono...»
    Il suo pianto, alle mie parole, cominciò a cessare. Con la fronte appoggiata al mio mento e le mie guance sulle sue, ora sembrava più tranquilla. Era una sensazione di appagamento. Nonostante il dolore che rifioriva, sentivo uno stato di benessere. Forse non ero poi così solo, forse non ero l’unico a soffrire per un’infanzia mai avuta, sebbene i nostri passati non fossero simili.
    «Tu troverai chi ti ama...», rispose Sharon, guardandomi negli occhi. Tolsi le mie mani dalle sue guance lievemente, quasi per paura di farle mane, e intanto il nostro sguardo s’incatenava. I suoi occhi neri si incorniciavano perfettamente con la sua pelle mulatta.
    «Forse tutto il dolore che si passa ne varrà la pena...», dissi, sottovoce. Lei sorrise, mentre la luce del pianto faceva risaltare di più quella dei suoi occhi, e il contatto con lei si spense definitivamente.
    Il Cd era arrivato alla fine ed entrambi non ce ne eravamo accorti. Quando anche le ultime note la musica scomparve, Sharon si girò a guardare lo stereo. Io feci lo stesso, in sincrono perfetto.
    «A proposito... Io, be’, non so tu... Hai già cenato?», chiese, guardandomi con curiosità. In effetti non avevo mangiato. Ero arrivato apposta in anticipo per invitarla da me a mangiare qualcosa.
    «No, veramente», dissi sorridendo. Lei allargò allora anche il suo di sorriso. Anche cenare da lei era una soluzione. Ovviamente a me andava bene tutto, perciò alla sua proposta di rimanere accettai.
    «Vuoi che ti aiuti a cucinare?», dissi, nel frattempo che lei tirava fuori pentole e piatti da apparecchiare sul tavolo. Me ne stavo appoggiato allo stipite della porta, e non desideravo si sentisse osservata.
    Lei sorrise. «Puoi farmi da assistente, se vuoi. Il posto di maître purtroppo è già occupato», esclamò con divertimento. Decisi senza ombra di dubbio di stare al suo gioco.
    «Mi andrà bene anche fare da cameriere, capo», risposi avvicinandomi a lei, aiutandola ad appoggiare alcuni piatti e bicchieri. Lei sorrise di nuovo e non potei che fare lo stesso anch’io.
    Passammo la serata così, a comportarci come due bambini che giocavano insieme, come all’asilo. Ora sia io e sia lei sentivamo un’affinità più chiara e senza barriere, dopo aver capito di avere un passato pieno di tristezza alle nostre spalle. Non sentivo più del riguardo con me. Non ero più Michael Jackson, solo Michael, e tutto questo mi appagava.
    Più spesso ero io, durante la cucina, quello che faceva i dispetti e gli scherzi, magari nascondendole qualche posata o qualche ingrediente, e finiva sempre per cascare nei miei tranelli. Le facce che le spuntavano fuori mi facevano morire dal ridere, e quando veniva il suo turno dei giochi toccava a lei ridere.
    Quando rideva era così spontanea... Era simpatica, divertente. Mi piaceva il fatto che ironizzasse su se stessa, ma soprattutto mi piacevano le espressioni che il suo volto cambiava e assumeva. Era dolce, non aveva problemi a dire quello che pensava. Era sincera.
    Fu uno dei momenti più belli della serata. Forse perfino della mia vita.
    Cenammo parlando del più e del meno, facendoci domande suoi nostri hobby o generi di musica, film e molto altro. Non vedevo l’ora sorridesse per poter godermi quella sensazione di calore che faceva trasparire dal suo sorriso. Discutemmo di tutto e di più, a volte giocandoci su come se fossimo due bambini piccoli. Scegliemmo anche il Cd da mettere come sottofondo, durante la cena.
    Alla canzone “Greatest Love Of All” di Whitney Houston la vidi bloccarsi con lo sguardo sullo stereo, presa come per magia da quella canzone. Io la osservai interessato.
    «La tua canzone preferita?», chiesi, nel frattempo che lei riabbassò di nuovo il suo sguardo sul tavolo. Annuì e cominciò a cantare il motivo, come se io non ci fossi.
    «I believe that children are our future. Teach them well and let them lead the way, show them all the beauty they possess inside…». Si alzò dalla sedia nella quale era seduta e venne verso di me, il quale la guardai incantato. Mi porse la mano, e con un cenno del capo mi invitò a ballare.
    Ci dirigemmo verso il salotto, in uno spazio abbastanza vuoto per ballare tranquilli, e poggiai le mie mani sui suoi fianchi morbidi. Continuò a cantare, nonostante a bassa voce, con le sue mani sulle mie spalle, e al ritornello l’accompagnai. Sorrise sentendo la mia voce, sorpresa che anche io sapessi quella canzone.
    I nostri sguardi erano ormai incatenati in una stretta che nemmeno un terremoto imminente avrebbe distolto, e non era mia intenzione lasciarla andare. Desideravo solo rimanere così per un po’ di tempo, sentire di nuovo il profumo naturale della sua pelle, il contatto insistente con i suoi occhi.
    Chi avrebbe mai detto che un giorno avrei incontrato qualcuno di non famoso, qualcuno che mi avrebbe fatto sentire solamente il Michael che ero? Quella ragazza era lei. Lei stava riuscendo e poteva trascinarmi fuori da quel mondo di possibile solitudine che mi gravitava attorno.
    Sentivo di potermi perdere in quelle oscure profondità dei suoi occhi. Affogare in quel suo sguardo non mi avrebbe provocato dolore, anzi, mi sollevava... Qualcosa di irreale e miracoloso mi portava in un mondo che non era quello.
    Ballavamo lenti, lasciando trascinarci da quel ritmo senza regole e quieto.
    Una volta finita la canzone, ci fermammo, poco prima di farle fare un lento giro guidata dalla mia mano. Rimanemmo ad osservarci, ignorando la canzone successiva.
    «Capisco perché ami quella canzone. La amo anche io…». Lei accennò al rossore, assieme ad un sorriso. Io feci lo stesso di rimando, lasciandomi per la prima volta andare.
    Con Sharon non avevo bisogno di essere nessun’altro al di fuori che me stesso. Stare insieme a lei era sentirsi più felici, dimenticavo i brutti pensieri e lasciavo il passato alle spalle. Mi concentravo solo a farla sorridere, a passare quel poco a disposizione al meglio.
    Qualcosa, ad un certo punto, nel suo sguardo accese un piccolo fuoco dentro di me. I suoi occhi profondi e caldi mi facevano sudare e brividi mi attraversarono la schiena. Come facevo a pensare a qualcosa di concreto, se continuavo a guardarla in quegli occhi neri? Come faceva ad incantarmi fino a quel punto?
    Sharon, illuminata da una luce su un mobile del salotto, risultava più bella. Una strana adrenalina mi coinvolse in un attimo e un timore convulso allo stesso tempo: non potevo innamorarmi, non di qualcun'altro che non sapevo se mi avrebbe recato ulteriore sofferenza. Eppure non potevo cercare di reprimere quell'istinto. Non ci riuscivo.
    Ad un certo punto il suo sguardo puntò verso un orologio a muro e rimase sbigottita. Quando mi voltai, vidi che erano le 20,16. Erano in ritardo. In fretta e furia chiuse lo stereo, nel frattempo che mi rimettevo il travestimento. Scendemmo e ridendo ci avviamo verso l’auto, pronti per le prove di quella serata.

    Edited by Rhythm Nation 1814 - 10/4/2011, 17:44
     
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  8. cinzia 62
     
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    Ciao e complimenti per la storia che seguivo anche sull'altro forum.Posso chiedere perchè è stata inserita fra le ff complete visto che non lo è?
     
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    Lo è Cinzia, solo che non ho il tempo di spostare tutti in una volta i capitoli :P
    Entro uno o due giorni penso che sarà completa di tutti le parti :)
    Grazie per aver seguito :kiss2:
     
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    Capitolo Otto.


    Breaking down walls.
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Finalmente Michael! Stavo cominciando a preoccuparmi per voi!», disse l’assistente coreografo di Michael, Jonathan, un uomo alto e scuro di pelle, sui trent’anni.
    Quando arrivammo in sala di prove io e Michael eravamo sfiniti, ansimanti dalla corsa appena svolta, in ritardo di ben mezz’ora di lezione persa. Non sapevamo se ridere o cercare di respirare invece, vedendo le poche facce che stupite e scioccate ci guardavano. Alcuni evidentemente se ne erano già andati, visto il numero di persone ridotto rispetto al giorno prima.
    Ma il ritardo ne valeva la pena. Ne era valso la pena. Quella sera era stata una delle più belle passate nella mia vita, non mi ero mai sentita così felice. Con Michael ero riuscita a tornare per alcuni momenti una bambina, e poco dopo un’adulta. Capiva il mio dolore d’infanzia, poiché credevo fosse veramente sincero. Chissà come, non riuscivo a non aprirmi.
    Il ricordo della sua mano sulle mie guance, il suo respiro soffocato sulla mia fronte, il contatto soffice con la sua pelle… Questi piccoli dettagli aumentavano i brividi sul mio corpo, e se pensavo alla nostra attività di cuochi mi venne da ridere. Con lui non avevo limiti. Le mie barriere cedevano e si frantumavano in mille pezzi grazie ai suoi occhi e al suo sorriso.
    Michael e io ci guardammo, con un’occhiata d’intesa e furbesca, nascondendo un sorriso. «Devi scusarci Jonathan, c’era traffico… Abbiamo cercato di fare più presto possibile».
    Soffocò poi una risata, e lo sguardo del suo assistente si posò su di me. Chissà come mai mi dava l’impressione che pensava fossi io il motivo principale, ma rispose con un sorriso ed un’espressione esasperata. Sorrisi di rimando, poggiando i miei occhi di nuovo verso Michael, il quale m’osservo curioso.
    «Certo che sei una cosa impossibile», disse una voce fuori dal coro, e dalla postazione accanto a La Toya – la quale mi scrutava attentamente con lieve sorriso – avanzò una ragazza, scura di carnagione, con una finta espressione arrabbiata e stressata. Michael la osservò, per poi sorridere felice.
    «…Per una volta che vengo a vederti ballare, ora tu arrivi in ritardo?», disse la giovane, avvicinandosi pericolosamente a lui. Sentii una morsa allo stomaco.
    «Janet…», disse Michael, correndole incontro. Santo cielo, sua sorella! Si abbracciarono, così strettamente che una morsa di gelosia mi attanagliò. Come potevo essere gelosa di lei?
    L’abbraccio durò pochi secondi, poiché lo sguardo di Janet svoltò curioso verso di me. Io sorrisi, timida, e lei guardò suo fratello perplessa, quasi confusa.
    «Oh, ti presento Sharon…», disse Michael, avvicinandosi con sua sorella verso me. «Sharon, questa è mia sorella Janet, la più piccola della nostra famiglia. E’ una peste…».
    Subito Janet si illuminò, ignorando le parole del fratello. «Sharon? È un piacere davvero conoscerti! Mio fratello ha parlato molto di te…», rispose, ammiccando uno sguardo fulmineo al fratello, il quale spalancò gli occhi.
    Lo guardai sorpresa, mentre lui arrossato si affrettò a rispondere. «Sì, ok, Janet…», intendendo con quella frase che doveva stare zitta. Subito la sorella si affrettò a guardarmi, facendomi l’occhiolino.
    Risposi a quel gesto con un sorriso, nel frattempo che Michael mi guardava preoccupato. Mi sentii onorata del fatto che lui ne avesse parlato, poiché forse questo era un segno che probabilmente non ero invisibile almeno per Michael. Questo poteva avere il suo significato nascosto. A quel pensiero, un’improvvisa emozione di benessere mi contagiò ogni cellula del corpo.
    «Michael, che ne dici, facciamo lezione?», chiese il coreografo, interrompendo il discorso. Tutti gli sguardi si posarono su di lui, il quale valutò silenzioso la situazione e le persone presenti.
    «Be’, è tardi ormai… Se avete qualche altro impegno forse è meglio chiudere qui. Mi dispiace solo avervi fatto perdere tempo…», disse Michael, con tono di sincere scuse.
    Tutti acconsentirono all’idea, dicendo di non scusarsi, e rimanemmo in sala solo io, Michael, Janet, l’assistente coreografo e due ragazze, fra cui La Toya e un’altra mora. Rimasi perplessa sull’ultima, poiché il giorno prima alle prove non l’avevo vista. Forse probabilmente era una ballerina che era mancata alle prove di ieri.
    Michael andò a discutere con Jonathan riguardo alla coreografia e alla sistemazione delle prove necessarie da risistemare nei vari orari di lezione, e la sorella, Janet, mi si avvicinò lenta, con un sorriso aperto e curioso che ricambiai senza esitare. Aveva quasi lo stesso sorriso di Michael, perfino alcune sue stesse espressioni, ma mai paragonabile a quello del fratello.
    «Quindi tu sei la sensazionale ballerina che emana un’energia e un’adrenalina strabiliante quando balla? Michael ci ha detto che sei stata magnifica al provino!»
    Mi sentii avvampare d’imbarazzo, soffocando una risata. «Be’… Non sono così brava». Non mi sbilanciai a commenti, siccome non volevo pensasse che fossi qualcuno che non ero, prontamente cauta.
    «Michael ha detto il contrario. Secondo lui sei meravigliosa!», esclamò Janet, guardandomi negli occhi curiosa della mia reazione. «Una volta voglio proprio vederti ballare!»
    Io avvampai ancora di più, annuendo, nel frattempo che la ragazza mora si avvicinò a noi e La Toya ci salutò, dicendo che se ne andava per conto suo a causa di un appuntamento. La ragazza mora mi si fece avanti con un sorriso e si presentò, cauta.
    «Ciao Sharon, io sono Vanessa Russell. La scorsa lezione non ero presente, perciò colgo l’occasione per presentarmi», disse, con aria gentile. «E’ davvero un piacere conoscere la ragazza protagonista del video di Mike. Non vedo l’ora che diventiamo amiche io e te».
    Primo: la sua voce così vellutata era troppo soft, in confronto all’espressione dei suoi occhi inespressiva. Secondo: chiamava Michael con il nome Mike, e dato che neanche il suo coreografo l’avevo mai sentito chiamarlo così, forse dovevo dedurre fossero più di semplici amici. E terzo: quando una – a mia esperienza – dice che non vede l’ora di diventare mia amica, è una bugia.
    In ogni modo, sperando che le mie supposizioni fossero infondate, sorrisi cordiale, ormai abituata col tempo a lasciar scorrere. Con gli anni avevo imparato a trascurare situazioni o persone che non meritavano la mia attenzione, in questo caso cercai di non lasciarmi influenzare dalle mie malignità.
    Ci stringemmo la mano, poi la nostra attenzione venne attirata da Jonathan, il quale ci salutò e si diresse anch’egli fuori dalla sala. Rimanemmo solo in quattro, e lentamente Michael si avvicinò a noi tre. Povero, non avrei voluto essere nella sua situazione: circondato da ben tre donne, e lui, l’unico uomo. Mi venne da ridere, tanto che dovetti trattenere un’evidente smorfia divertita.
    «Senti Michael», disse Vanessa, guardandolo con occhi blu intenso e attenti, dando appena appena le spalle a me e a Janet. «Hai impegni per questa sera?»
    Sentii il mio respiro bloccarsi per un secondo, un tempo così perenne da sembrare di soffocare. Lo sapevo. Lo sapevo! C’era qualcosa che non mi quadrava, ed avevo ragione. Guardai con occhio cupo prima lei, poi Michael. Lui mi rivolse un’occhiata fulminea, preoccupato riguardo alla reazione. Feci finta di non aver sentito e mantenni un’espressione neutrale.
    «In realtà dovrei accompagnare a casa Sharon…», rispose, fissandomi. Mi accorsi, nello stesso tempo in cui Vanessa mi schioccò un’occhiata finta perplessa, che Janet mi osservava con cura.
    «Oh… Be’, una volta accompagnata a casa possiamo…», non disse oltre, poiché la interruppi subito. Non volevo sentire più una parola pronunciata con quella voce da ochetta giuliva.
    «Puoi portarmi direttamente a lavoro, Michael. Mi faranno bene degli straordinari». Sentivo che la mia voce era cupa, ma in quel momento non mi preoccupava affatto la loro reazione.
    Michael mi guardava fra lo sbalordito e il pensieroso, e un sorriso lieve comparve fra le labbra di Janet. Vanessa spalancò lieve la bocca, poi disse: «Lavori? Dove?»
    Storsi la bocca in una smorfia di dubbio e riflessione, intuendo che se avessi detto che lavoravo ad un locale, lei avrebbe sicuramente proposto quel luogo come “posto da appuntamento”. Purtroppo, a malincuore, dovetti dire la realtà dei fatti. Non dovevo mostrarmi gelosa. No. Mai. Io non ero gelosa…
    «Lavoro in un locale…», dissi, lanciando uno sguardo inquisitorio verso Michael, il quale irrigidito sul posto mi fissava con fare perplesso. Intanto, gli occhi di Janet erano un vagare fra me e Michael.
    «Allora siamo fortunati! Che ne dici, Mike? Ci andiamo anche noi?». Quanto avrei voluto ucciderla. Lei e quella sua voce tanto innocente quanto perfida… Peggio di Gloria e Jenny e di Mrs. Phillips.
    Michael sospirò sottile, per poi guardare Vanessa. «D’accordo. Come vuoi tu». Lo strozzavo. Giuro che l’avrei ucciso. Trattenni il fiato per evitare un urlo soffocato.
    Perché aveva accettato? Perché non aveva rifiutato cortesemente quell’invito? Dentro di me una vocina diabolica mi chiedeva se fosse il caso di prendere entrambi e gettarli giù dal piano più alto dell’edificio. Un volo non sarebbe stato poi così male, rispetto al fuoco che sentivo a divampare nella mia anima.
    «Vengo anche io, vi dispiace?», disse improvvisamente Janet, con un sorrisetto. Subito lo sguardo di Vanessa si fece serio, mentre trattenni a stento una risata sadica. Michael era esterrefatto.
    «Ma certo. Preparo un momento le mie ultime cose nella tracolla e chiamo casa…», rispose tranquilla, ma con espressione concentrato, con sorriso che definii falso in tutti i sensi.
    «Io vi aspetto fuori», ripresi io, non nascondendo la voglia di andare via. Michael mi fissò scioccato, mentre io con un sorriso mi diressi fuori, così veloce che sembrava avessi corso.
    Raggiunsi la porta della stanza, per poi fiondarmi fuori. Mi appoggiai alla parete, ma non ci rimasi se non più per pochi secondi. Mi ritrovai a dirigermi verso il corridoio, lenta. Nel frattempo sfogavo sui miei capelli la rabbia verso me stessa, quella Vanessa e Michael, rendendoli ancora più ricci di quelli che erano di già. Guardavo in basso e riflettevo sulla mia stupidità.
    Era ovvio che io non avevo nessuna possibilità di competere con quella ragazza. Lei di sicuro già lo conosceva da un pezzo, ed era addirittura affascinante. Ma perché mi affezionavo troppo in fretta alle persone a me vicine? Perché non imparavo mai dai miei sbagli?
    Odiavo soffrire, e sapevo che se non cominciavo a darmi una regolata perfino con lui avrei patito più dolore che, con gli anni, era risultato meno sentito. Ma le mie barriere inflessibili all’esterno erano state sbriciolate in un secondo con Michael. Con lui ero me stessa, ogni muraglia era destinata a crollare. Non potevo lasciarmi sopraffare così, dovevo ritornare in me.
    «Sharon», sentendomi chiamare mi volsi di scatto. Michael mi guardava serio, con una nota di rammarico. Io, di riflesso, lo squadrai da capo a piedi e mi posi in volto una faccia neutrale.
    «C’è qualcosa che non va? Mi sembri seria…». Mi venne da ridere, ma mi trattenni. Sarebbe stata una risata di rabbia la mia. Guardai la parete a sinistra, lo fissai e poi scossi la testa, innocentemente.
    «Perché mai?», risposi lasciando trasparire dalla voce una risatina che mi parve, invece che divertita, irritata. Ce l’avevo da morire con lui riguardo al fatto che aveva accettato il suo invito…
    «Sharon», disse lui, avvicinandosi a me con passo lungo ma tranquillo. Sentii il cuore tornare in gola. «Capisco che c’è qualcosa che ti disturba… Me lo puoi dire. Posso capire».
    All’ultima frase scoppiai a ridere, così convulsamente che sembravo una pazza isterica da ricovero, e Michael mi fissava sbigottito. Voltai lo sguardo verso il soffitto, sentendo l’avanzare di un istinto omicida.
    «No, Michael. Non capiresti», esclamai convinta, sull’orlo di una crisi di nervi, tornandolo a guardare, con mani congiunte sui fianchi. Mi guardava confuso, poi una luce apparve nei suoi occhi.
    Mi osservò scioccato, e qualcosa dentro di me mi disse che era probabile che avesse intuito… Intuito che cosa? Io non ero gelosa… Perché mai avrei dovuto esserlo? Di una gasata come lei? Di lui? Eppure, se non lo ero, come mai non riuscivo a lasciar scorrere la situazione?
    «Non ti piace Vanessa?». Sentii un blocco allo stomaco e in parte mi decisi che aveva indovinato una parte di quella verità nascosta. Storsi la bocca, non sapendo se mentire o annuire, continuando a guardarlo.
    Fece comparire in volto un espressione corrugata. «Se hai qualsiasi problema puoi dirmelo. Cercheremo di risolverlo insieme…». Ma come cavolo poteva non capire quello che provavo?
    Eppure il suo sorriso… I suoi occhi imploranti… Perché mi faceva quell’effetto? Stava cominciando a piacermi, a piacermi sul serio, e non dovevo. L’esperienza avrebbe dovuto farmi crescere, ed invece tentavo a cadere al tranello di nuovo.
    Però, sebbene la mia testa e la mia coscienza mi dicesse di stare all’erta e non fidarmi, il mio cuore voleva credere in lui. Avevo paura. Stavo pensando a come scappare, ad una soluzione che mi portasse il più lontano possibile da lì, da Michael. Lontano da una delusione che la mia mente mi diceva che, prima o poi, sarebbe arrivata. Da quando, dopotutto, la fortuna era dalla mia parte?
    Sospirai, spalancando esasperata le braccia, alzando gli occhi al cielo. «Te l’ho detto. Non ho un bel niente. Sto bene, non sono arrabbiata né nervosa, sono solo…» …gelosa?
    Qualcosa nello sguardo di Michael mi bloccò. Era pensieroso, pieno di dubbi, ma non potevo aiutarlo. Se voleva capire che cosa mi faceva fastidio doveva sforzarsi di capirlo da solo. Lo avevo sempre saputo che ero una ragazza orgogliosa e che non ammette la sua gelosia, ma non era questo il punto: se gli fossi piaciuta, avrebbe rifiutato l’invito di Vanessa. Ma lui non lo aveva fatto, e io ci ero rimasta male…
    Mi bloccai prima di finire la frase, stringendo i denti non solo per l’errore che stavo compiere, ma anche per l’arrivo per niente atteso di Vanessa, accompagnata da Janet.
    «Eccoci», disse Vanessa, con un sorriso da bambola diabolica sul volto. Quanto avrei voluto fulminarla con lo sguardo, impedirle di avvicinarsi morbosamente a Michael con quella sua camminata felina.
    Silenziosi ci dirigemmo verso l’uscita, accompagnati dalle guardie del corpo di Michael dentro l’auto parcheggiata proprio di fronte all’edificio. Ogni mio neurone cercava di concentrarsi sull’arrivo al locale, ma era tutto inutile. Non potevo fare a meno di essere arrabbiata, di mostrare a Michael il mio volto riempito da un’espressione vuota e inespressiva.
    In macchina, mi ritrovai all’angolo del finestrino sinistro, accanto a Janet, seguita poi a ruota da Vanessa e Michael. Nel frattempo che sia lui e sia sua sorella si travestirono con sciarpe e cappelli, per far modo che non si notassero più di quanto già si riconoscevano anche ad un cieco, l’innocente Vanessa cominciò a fare la divertente e dolce con Michael.
    Io rimasi per tutto il viaggio in auto zitta, alcune volte guardando fuori dai vetri oscurati le luci della città, ignorando con tutte le mie capacità di concentrazione la voce malignamente soave di Vanessa. Perfino quella di Michael, in quel momento, riusciva a mettermi rabbia.
    In quel attimo l’unica cosa di cui avevo bisogno era il suo sorriso, il suo contatto, nonostante non potessi fare a meno di odiarlo in un momento come quello. Forse non avevano sbagliato – le persone che mi stavano intorno – a dire che ero pazza. Una pazza orgogliosa e gelosa, possessiva, che in realtà mostrava di essere arrabbiata invece che di soffrire come una matta.
    Quando capitava svolgessi i miei occhi su Michael, lo trovavo ad osservarmi attento, inquieto. La sorella, intanto, mi rivolgeva sorrisi cordiali e dolci, a volte alzando gli occhi al cielo per la risata acuta di Vanessa. In compenso, grazie a lei non tutto il tempo passato in quella macchina era una depressione totale. Pensavo che perfino avesse capito più lei del fratello riguardo i miei sentimenti!
    Senza enunciare parola ed ignorando completamente gli sguardi che mi rivolgeva Michael, arrivammo finalmente al locale. Per fortuna quel giorno – di domenica sera – il locale era abbastanza vuoto, tanto bastasse per non far risaltare all’occhio lui e Janet. Scesi immediatamente dall’auto, di corsa, rischiando perfino di inciampare nelle mie stesse scarpe, di nuovo.
    Sentii una risata cristallina e vomitevole alle mie spalle – era senza dubbio quella di Vanessa –, e senza curarmi che gli altri mi seguissero proseguii verso l’interno del locale, verso la mia seconda casa.

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    Capitolo Nove.


    The time has come.
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Mi diressi a sguardo basso verso l’interno del locale, seguito a ruota da Vanessa, poco più indietro rispetto a Janet. Sharon era corsa subito verso il bar, lasciandomi ad osservarla senza una parola, scombussolato.
    Era stata molto strana con me da quando aveva conosciuto Vanessa. Era lei la causa principale del suo malumore, ma non sapevo definire perché. Era fredda, non mi rivolgeva il suo sguardo, e io mi sentivo come un cane bastonato. Non mi aveva rivolto parola da quando eravamo stati interrotti, in corridoio, e cercava sempre di evitare i miei occhi. Non riuscivo a capire perché fosse arrabbiata.
    Vanessa era solo una delle ragazze del video, l’avevo conosciuta il giorno dei provini per le comparse, e avevo intuito da subito che le piacevo. Purtroppo per Vanessa, a me lei non interessava. Mi dispiaceva però deluderla, perciò non ero riuscito a dirle di no riguardo l’appuntamento. Era bella, affascinante, ma non era… Non era come Sharon. Sharon era solare, divertente, dolce, energica... Unica.
    Non potevo assolutamente paragonare lei a Vanessa, eppure Sharon non sembrava capire questo fatto importante. I miei occhi e il mio cuore erano attratti principalmente da lei, e da nessun altro. Lei era la voce fuori dal coro, l’unica che, come me, andava contro la corrette, quella nella quale le persone vedono in un modo differente da noi il mondo.
    Non potevo mentire. Per tutta la cena con Sharon ero stato bene e dal momento che non mi aveva più rivolto il suo sorriso, ma solo uno sguardo neutro, mi ero sentito vuoto. Lei mi piaceva e me ne ero accorto solo dopo quell’attimo di freddezza tra noi. Volevo esserle accanto, non riuscivo a resistere all’idea che fossi io, in qualche modo, a farla soffrire.
    Quando entrammo nel locale ci posizionammo in un angolo, quello dove mi ero seduto il giorno prima, e notai che non c’erano molti clienti quella sera, circa una decina. Di solito ce ne erano al massimo una ventina o molti di più, da quando ero entrato per la prima volta.
    Con lo sguardo cercai Sharon e la vidi andare dietro il bancone, di corsa, non degnando di uno sguardo nemmeno Ilary, la ragazza sua amica. Anch’ella rimase di stucco dal suo atteggiamento furioso e d’improvviso si propense a fissarmi, stupita. Mi sentii sprofondare dalla vergogna che fosse colpa mia ma non distolsi lo sguardo, finché Ilary perplessa cominciò a bisbigliare a Sharon.
    Osservai con cura Sharon rispondere alla ragazza con espressione arrabbiata, delusa. Rivolgeva continuamente il suo sguardo da Ilary al banco o alle ordinazioni che svolgeva, senza lanciare il benché minimo sguardo su di me. Mi sentivo vuoto.
    Vidi più volte Sharon aggrottare il volto, mostrando il broncio come una bambina piccola, fino a quando non prese l’amica per il polso e si diresse fuori dal bancone, lanciando ad un ragazzo lo straccio per pulire, segno evidente che dovesse prendere il loro posto per il momento.
    «Ehy Mike», disse melodiosa Vanessa, attirando mal volentieri il mio sguardo verso di lei. Mi accolse con un sorriso a 32 denti. «Che pensi di prendere da bere?»
    Mia sorella intervenne, sebbene non interpellata. «Io prendo una Soda, se ovviamente sei così educata da chiedere anche a me l’opinione».
    Strike uno a favore di mia sorella.
    Vanessa tornò seria, mentre un lieve sorriso mi comparve fra le labbra. «Io penso di prendere una Cola, per questa serata. Non bevo alcolici. Chiamiamo il cameriere?»
    «Io in realtà vorrei andare in bagno un attimo, se arriva puoi – potete – ordinare una Cola anche per me?», chiese Vanessa. Io annuii e lei si diresse a passo svelto al bagno, chiedendo prima dove fosse al banco.
    Una volta sparita dalla mia vista e quella di Janet, mia sorella prese a fissarmi. Io la osservai di rimando un attimo, poi guardai di nuovo il bancone. Ma lei continuava a guardarmi imperterrita.
    «L’hai uccisa, lo sai?», disse, interrompendo bruscamente ogni mio pensiero. Mi voltai di scatto, serio, fissandola negli occhi. Janet, tranquilla, mi osservava con un lieve sorriso fra le labbra.
    «Di che parli?», chiesi, cercando di capire se avesse intuito a chi stavo pensando. Lei ruotò gli occhi verso l’alto, sospirando impaziente. Poi tornò a guardarmi, come fossi un caso senza speranza.
    «Sai di chi parlo. E ti dico che, accettando la proposta di Vanessa, si può dire che tu l’abbia “colpita ed affondata”. Mi sa che ti ci voglio io per capire fino a che punto l’hai delusa…»
    Il mio sguardo passò al tavolo, non potendo più reggere il suo sguardo accusatorio, nel frattempo che i miei sensi di colpa aumentavano a dismisura. L’avevo davvero ferita così tanto come faceva intendere Janet?
    «Secondo te è arrabbiata tanto da non parlarmi più?», risposi, lanciando una fugace occhiata al bancone, sospirando poiché Sharon non si faceva ancora vedere. Che stava facendo?
    «Questo non lo so. Di sicuro ci è veramente rimasta male», disse Janet, bloccandosi quando il cameriere intervenne per le nostre ordinazioni. Ordinammo e se ne andò spedito al banco, poi continuammo.
    «Parlale, magari risolvete», riprese mia sorella, guardando verso la toilette per vedere quando arrivasse Vanessa. Io scossi la testa, confuso da morire. Avevo il caos nella mente.
    «Non penso mi parlerebbe. Ci ho provato anche prima, ma non voleva dirmi niente. L’ho ferita e non so come fare per rimediare...», risposi. Davvero non sapevo che dovevo fare.
    Mi sentivo attanagliato dentro da un timore allucinante, così potente da farmi venire mal di testa. Nella mia mente, rivedevo lo sguardo di Sharon. Dovevo rimediare. Assolutamente.
    «Provaci un’altra volta, falle capire che ti dispiace. È difficile, ma prova...», dopo una breve pausa, continuò. «Se ti interessa sul serio, tenta. A lei piaci, e molto anche...»
    «Da cosa lo deduci?», ma non rispose, poggiando lo sguardo alle mie spalle, in direzione di Vanessa, appena seduta accanto a me. Non mi ero accorto che era arrivata, perciò mi ammutolii.
    «Avete ordinato?» chiese con un sorriso, col tentativo di rompere il nostro improvviso silenzio. Io e Janet annuimmo, muti, e con un ultimo riso si propense con noi a guardare le varie esibizioni live.
    Ma la mia mente era assente. Ero dall’altra parte della sala, con Sharon. Il mio pensiero era a lei. Cercavo in tutti i modi una soluzione, un coraggio che mi mancava, una paura nella sua reazione e in quello che sarebbe successo se avessi parlato con lei. Mi avrebbe perdonato? Oppure avrebbe continuato per sempre a tenere quella nuova barriera di freddezza fra noi?
    L’unica cosa di cui ero certo era che non potevo starmene lì, fermo, mentre lei stava male. Stavo male anche io. Come potevo resistere a lungo senza il suo sorriso? Senza i suoi occhi pieni di quella luce speciale ed indefinibile? Come potevo tener duro di fronte al suo sguardo offeso e amareggiato a causa mia?
    Nel frattempo che riflettevo sui miei sentimenti e dubbi, vidi Ilary – l’amica di Sharon – al bancone senza l’amica. Allo tempo stesso quando mi accorsi che Sharon era assente, mille domande cominciarono a vorticarmi in testa sul perché non ci fosse. Sentii l’istinto di alzarmi in piedi, ma quando Ilary mi guardò qualcosa mi disse di non muovermi.
    Nel suo volto, un misto fra confusione e compassione mi attraversò dentro, facendomi intendere che nel significato di quell’occhiata c’entrasse anche Sharon. Mi rivolse un mezzo sorriso dispiaciuto, poi tornò alle ordinazioni.
    I clienti arrivarono fino ad una quindicina abbondante, la musica continuava a risuonare e la voce di Vanessa riprese a parlare con me… Ma io non ero presente. Totalmente assente da quel luogo, aspettavo lei. Il perché di come riuscisse a rendermi così preoccupato per lei, in quel attimo, passò oltre tutto. Oltre la mia confusione, il mio rimorso.
    Rispondevo cordialmente a Vanessa, ma sapeva anch’ella che non era il momento giusto per rivolgermi parola. Con un fulmineo sguardo vidi Ilary avvicinarsi con le nostre ordinazioni.
    «Ecco a voi», disse una volta poggiando i drink a ciascuno. Prima di andarsene mi rivolse un’occhiata curiosa ed attenta, e poco dopo pochi passi mi alzai in piedi, volenteroso a raggiungerla.
    «Michael!», disse Vanessa, sbalordita, sotto lo sguardo sorridente di mia sorella. Subito Janet mi lasciò lo spazio per passare, aumentando il fastidio dell’altra. Altro strike per lei.
    Ringraziai mia sorella con un cenno del capo, dirigendomi veloce verso la ragazza. Una volta raggiunta, con un lieve tocco sulla spalla la chiamai a voltarsi verso di me, con occhi strabuzzati.
    «Scusami…», dissi, riprendendo poi cercando un tono che non facesse riconoscere la mia voce. « Ehm, sai dove posso trovare Sharon, la tua amica? È importante, davvero…»
    Alla mia frase rimase di sasso, a bocca aperta, incapace di formulare qualcosa di concreto. Volse il suo sguardo verso le quinte del palco, per poi guardarmi di nuovo negli occhi. Per un minuscolo attimo pensai che probabilmente mi aveva riconosciuto, perciò mi allontanai di mezzo passo.
    Neanche emise parola, che d’improvviso il palco si oscurò, pronto ad accogliere una nuova esibizione.
    Una donna di mezza età, dai capelli biondo cenere e occhi straordinariamente verdi, salii sul palco, illuminata da una delle luci bianche. Sorridendo, venne accolta con un applauso da tutti i presenti, mentre io rimanevo in piedi immobile. Un flash nella mia mente mi ricordò che era la donna che, due sere prima, aveva cantato con Sharon, il primo giorno in cui ero al locale.
    «Buonasera! …Grazie, grazie», disse, sorridendo ai molti applausi dei presenti. Dette un colpo di tosse leggero e poi riparlò. Io e Ilary, nel frattempo, non ci muovevamo di un millimetro, guardando la donna.
    «Mi sembra davvero il caso di movimentare la serata, che ne dite?», urli da parti dei clienti, poi continuò con il sorriso. «Vedo che siete d’accordo, be’… Penso che solo una persona sia quella più adatta…»
    La donna fece una faccia finta confusa, poi sorrise nuovamente. «Vediamo… Posso farvelo capire cantando questa canzone… Mh… Just a still town girl on a Saturday night, lookin’ for the fight of her life, in the real-time world no one sees her at all… they all think she's crazy»
    Un applauso e gridi di contentezza si levarono non solo per l’intonazione eseguita con la frase, ma perché evidentemente avevano capito chi era. A solo poche parole, io aveva già intuito chi fosse. Sentii il respiro bloccarsi per un secondo, subito dopo il cuore.
    «Dato che avete capito chi è lei, lasciamole posto con una delle sue meravigliose coreografie… Signori e signore, buona permanenza al locale». E così dicendo, scese giù dalla scaletta del palco, mentre l’oscurità ricopriva di nuovo il palco e l’attesa – per me – si faceva sempre più estenuante.
    Ilary rivolse un’occhiata fuggevole verso di me, in attesa che continuassi il discorso o che aspettassi impaziente la sua risposta, ma in quel momento l’unica cosa che desideravo era vedere Sharon ballare. Quanto bramavo quell’attimo di adrenalina. Forse quello sarebbe riuscito a darmi la forza e il coraggio per andarle a parlare. Almeno, lo speravo.
    D’improvviso una musica leggera, una chitarra, accompagnato dal continuo schiocco delle dita, dette l’indizio che l’esibizione stava per incominciare. Una luce tenue illuminò un corpo femminile, la quale avanzava sicura attraverso l’oscurità del palco scenico. Quella canzone era anch’essa di Flashdance, il titolo era “He’s A Dream”, la stessa che balla Alex nel film quando la si vede danzare per la prima volta.
    Pochi secondi la sua entrata accenna a qualche passo suo, poi prima che la musica cominciò a farsi più movimentata finalmente una luce bianca la illumina; e io rimasi paralizzato. Paradisiaca, vestita con pantaloni in velluto e giacchetta neri, senza camicie e solo con un top che le fasciava il petto di color nero, cappello anch'esso nero, seduta su una sedia in mezzo al palco. I suoi capelli ricci e senza legami, occhi e pelle vengono risaltati dalla luce.
    Il suo sguardo fu inizialmente serio, poi man mano che la musica si fa più scatenata la vidi sorridere. Girava su sé stessa, produceva passi che non avevo mai visto prima in vita mia, alcune volte chiuse perfino gli occhi. Tutti furono stupefatti, i più audaci riuscirono ad applaudire, ma io rimasi immobile. Non mossi un passo, ma non distolsi i miei occhi di dosso da Sharon.
    Era stupenda. Non riuscivo a esprimere nemmeno a me stesso la sensazione che mi fece palpitare dentro nel profondo. Era una farfalla senza catene, a volte sembrava perfino che volasse, alcune volte era così aggressiva ed energica che sembrava una bomba pronta ad esplodere. Era elettricità allo stato puro.
    Mi sentii arrossire più volte durante quella sua esibizione. Era così bella che non poteva essere reale. Aveva un fisico curvilineo, più forse di una ragazza dalla corporatura "normale"; sembrava fatta di morbida ceramica di delicata pelle mulatta.
    Ad un certo punto, sentii Ilary emettere un suono soffocato, quasi un respiro bloccato. Le lanciai un’occhiata, vedendola con occhi sbigottiti che guardava Sharon sedersi accattivante sulla sedia.
    «Non posso crederci che lo vuole fare!», esclamò, non distogliendo lo sguardo dall’amica che intanto sorrise. La mano di Sharon raggiunse una maniglia, agganciata ad un filo, e dentro di me capii quello che volle – o ebbe intenzione – di fare.
    Un attimo di silenzio, la musica fece una pausa. Lei chiuse i suoi occhi, mordendosi un labbro inferiore, tirando secca la catena. In un attimo, il suo corpo venne bagnato di acqua, proveniente dall’alto.
    Non potevo credere nemmeno io a quello che aveva fatto. Ilary immediatamente si mise le mani in volto, sconvolta, mentre io guardavo Sharon accennando ad un sorriso. Che adorabile pazza!
    Ma lei proseguii, nonostante l’acqua sul suo corpo, ancora più scatenata di prima. Era una furia, proprio una maniaca sul palcoscenico, come diceva la canzone di Flashdance. La mia maniaca era sempre così stupenda.
    Non riuscivo a staccarle i miei occhi di dosso, sorridendo di rimando, incapace di pensare concretamente a qualcosa di giusto da poter dire o fare, una volta che avesse finito di ballare.
    Poi, all’improvviso, Sharon mi rivolse un’occhiata. Era uno sguardo fulmineo, ma il contatto mi procurò brividi sulla schiena; possibile che potesse una ragazza rendermi così stravolto? Forse Janet aveva ragione… Se mi interessava così tanto, non dovevo perderla. Dovevo lottare per ottenere di nuovo il suo perdono. Avevo sbagliato, perciò dovevo rimediare.
    Nel frattempo che io continuavo a fissare Sharon, Ilary volse il suo volto verso l’entrata del locale. Pensai fosse entrato un cliente, perciò la mia curiosità non si spinse ad osservare chi fosse. Poi, quando notai una luce di panico nello sguardo, mi voltai anche io amaramente.
    Fissava un uomo, alto, dai capelli neri e brizzolati, dagli occhi castano scuro. Azzardai fosse una persona sulla cinquantina, o anche più giovane, e mi chiesi se avesse a che fare con Ilary oppure con Sharon. L’uomo guardò me con espressione vacua, poi lei, con un sorriso.
    Volsi i miei occhi verso Ilary – stranamente preoccupato – e la sentii irrigidirsi al mio fianco. Proprio in quel momento la musica finì, e nel frattempo che gli applausi partivano da tutti i clienti Ilary fissò ansiosa Sharon, la quale stava seduta sula sedia e prendeva il respiro.
    «Cazzo…», sussurrò Ilary a denti stretti, con occhi spalancati dalla paura. Continuava a guardare Sharon, mentre io guardavo lei. Che stava per succedere adesso, in quel locale? Sharon era in pericolo?
    Senza badare a me, Ilary corse verso il palco fino a raggiungere Sharon, la quale la fissava sbigottita. Non mi accorsi che Janet si era alzata e mi aveva raggiunto a fianco, poggiando una mano sul mio braccio.
    «Che succede?», disse sottovoce. Non ricevette risposta da me, troppo preoccupato a leggere tra le labbra delle parole di Ilary e Sharon. Nel frattempo, la donna che aveva presentato andò velocemente lungo il corridoio poco illuminato accanto al palco. Nessuno emanava il minimo suono.
    Poi, lo sguardo di Sharon incrociò per un breve minuto i miei occhi, poi quelli dell’uomo a pochi metri di distanza da me. La sua confusione si trasformò in shock, poi in rabbia. Una rabbia convulsa da un respiro affannato, mentre si irrigidiva sul posto.
    Ilary la guardava con paura – quasi avesse paura in una sua reazione esagerata – e io altrettanto preoccupato. Vederla così agitata, sentivo un immotivato timore pervadermi il corpo e il sangue che mi scorreva fra le vene. L’uomo la guardava con un sorriso, ma qualcosa dentro mi diceva che fosse tutt’altro che cordiale. Provocatorio.
    Ma che aveva a che fare quell’uomo con lei?

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    Capitolo Dieci.


    Gone through the hell.
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Il ricordo divampò veloce come un lampo nella mia mente, procurandomi brividi in ogni parte del mio corpo.
    Era una sensazione di ribrezzo, disgusto, ansia di una paura e una rabbia repressa del passato che, nonostante il tempo, non riuscivo a placare. Non potevo non dimenticare che cosa mi aveva fatto. Non potevo scordare la profonda ferita che mi aveva provocato nel cuore.
    L’unico uomo che avevo amato incondizionatamente in vita mia. L’unico che non sarei mai riuscita a perdonare. L’uomo che mi aveva cambiato la vita in un secondo e mi aveva provocato un dolore che non avrei augurato mai a nessuno: mio padre.
    I suoi occhi scuri mi riportavano alla sofferenza terribile che mi aveva portato. Alla violenza che avevo subito. Alla paura che avevo provato, che improvvisamente un giorno si trasformò in rabbia e odio. Il rancore per quello che aveva fatto a mia madre, senza motivo, e a me. Il papà che prima dei miei sette anni d’età pensavo fosse il papà migliore del mondo.

    Fino alla morte del fratello.
    Mio padre Anthony e suo fratello erano stati fin dalla nascita gemelli, uno non poteva stare senza l’altro.
    Quando lo zio morì, per mio padre fu il disastro. Cadde in depressione, non sorrideva più, e una notte tornò a casa ubriaco fradicio, senza più il controllo del suo corpo e della sua mente. Era irritabile, provocatorio… Sembrava posseduto.
    Mia madre – che da sempre mi voleva un bene dell’anima – faceva il possibile per impedirmi di credere che mio padre fosse quello che era: un uomo ormai sotterrato dalla rabbia e dalla sua insoddisfazione per la vita. Aveva cercato di impedirgli di fare del male anche a me, ma non ci era riuscita.
    Quella notte d’inverno del 1968, quando tornò a casa, picchiò mia madre senza motivo. La violentò. La punì per qualcosa che non aveva fatto. Io non potevo starmene a guardare; ero scesa in cucina, chiedendomi il perché di quel caos, e quando ero intervenuta per aiutare la mia mamma aveva picchiato anche me. Anche io ero stata punita.
    Da quel giorno, il papà migliore del mondo si era trasformato in una bestia senz’anima. Soffrivo come una dannata, piangendo sentendo gli urli soffocati di mia madre Alicia e ogni volta subite le sue violenze sul mio corpo e, soprattutto, nel mio cuore.
    Che cosa c’entravamo io e mia madre con il suo dolore per il fratello scomparso?! Che cosa avevamo fatto per meritarci tutta questa brutalità. Eravamo sempre stati una famiglia felice, prima di allora. Il suo affetto era stato molto importante per me, e in un secondo era riuscito a svanire per sempre.
    Le botte e le violenze andarono avanti per anni, mentre la paura ogni notte tornava. Con l’oscurità, tornava mio padre. Ogni notte la passava in un locale, alcune volte non tornava per giorni e giorni. Era stato licenziato dal suo lavoro, e quando non lo vedevo in casa mi sentivo sollevata. Mi sentivo senza un peso e senza una paura incombente.
    Fino a quando morì mia madre.
    Avevo solo 18 anni quando se ne andò. La mia vita sembrò andare in frantumi. La mia mamma era morta giovane, per infarto, un giorno quando io non ero a casa. C’era solo mio padre… O meglio dire, colui che un tempo chiamavo padre. Non aveva fatto niente per aiutarla. Niente. L’aveva vista morire.
    La collera prese il posto del sangue, asfissiandomi il cervello, tanto che d’istinto colpii con un pugno in volto mio padre. Gli urlai che lo odiavo, che era colpa sua se la mamma non era mai stata felice. Gli dissi che era un bastardo, che non avrebbe mai avuto il mio perdono per avermi rovinato la vita.
    Dal giorno del funerale abbandonai la casa dove abitavo con mia madre e mio padre, e andai al college.
    La cercai di scordarmi di lui. Cercai di dimenticare il dolore, la violenza, la rabbia, ma l’odio no. Non lo perdonavo non solo per aver picchiato me e la mamma, ma per non averla salvata soprattutto. Era morto per me. Mio padre Anthony era morto all’età di sette anni, questo dicevo a chi mi chiedeva che fine aveva fatto. E mentre dicevo quelle parole, il mio odio diventava maggiore.
    Dopo tutto quello che la mamma aveva fatto per me, per noi, per la nostra dignità di famiglia unita… Tutto quello era scomparso per sempre, come cenere. La sua morte aveva definitivamente chiuso il mio rapporto con lui. Ancora ricordavo come avesse cercato di persuadermi a non andare, a restare con lui, solo per un suo interesse di sopravvivenza economica.
    Aveva tentato di bloccarmi prima con le buone, con le parole, poi con le cattive; ma io non ero più la bambina di un tempo, debole e senza il coraggio di ribellarmi alla sua stessa violenza. Quando appoggiò la sua mano sul mio braccio di nuovo – nonostante il forte pugno che non gli avevo già risparmiato -, lo avevo colpito in pieno volto. Lui cadde per terra, sanguinante al naso, ed ero corsa via.
    Fuori da quell’incubo di una intera infanzia e adolescenza.

    E ora, rivederlo lì, a pochi metri da me… Tutto mi sembrava confuso. Il mio cuore batteva all’impazzata dall’odio che ancora, dopo quasi dieci anni dalla nostra “separazione”, avevo cercato di placare inutilmente. Un odio che nessuna qualsiasi anima avrebbe potuto smettere di andare avanti.
    Mi sorrideva, falsamente dolce, ma sapeva che non doveva aspettarsi niente da me. Se solo pensava avrebbe avuto il mio perdono, il mio amore, la mia compassione e i miei soldi si sbagliava.
    «Sharon...», sussurrò Ilary, guardandomi preoccupata. Io, senza ricambiare lo sguardo intimorito della mia amica, rimasi immobile. Aspettavo una mossa di quel bastardo.
    «Ciao, figlia mia…», disse Anthony – non lo chiamavo più papà, poiché addossare quella parola a lui era un complimento che non meritava – con fare gentile. Mi stava provocando.
    «Da quando sono figlia tua, eh Anthony?», dissi sottolineando il nome. Lui mosse percettibilmente le labbra, quasi per ribattere, poi da uno sguardo serio sorrise divertito.
    «Non chiamarmi così, Sharon. Dimentichi che sei mia figlia?», continuò inclinando lieve il capo. Strinsi le nocche, arrabbiata, e mi diressi verso la scaletta che mi portava giù dal palco.
    «No, Anthony», risposi, provocatoria, inarcando un sopracciglio. «Tu non sei mio padre. Mio padre è morto da tanto tempo ormai…»
    Lui rise divertito, ma io continuai, avendolo raggiunto a quasi un metro di distanza. «… Da quando io avevo sette anni lui ha smesso di esistere per me».
    «Avanti, amore, non essere così», disse con un sorriso tra il divertito e il supplichevole.
    «Non chiamarmi amore!», sibilai furiosa. Nei miei occhi lo specchio di tutto l’odio cercato di nascondere si stava risvegliando. «Non ero il tuo amore quando tornavi a casa, ubriaco, alla sera, e picchiavi me e mia madre dandoci la colpa dei tuoi fallimenti!»
    Stavo alzando i toni, ma poco mi importava. Non badai nemmeno agli sguardi preoccupati dei clienti, né ad Ilary che mi stava lontano a pochi passi con gli occhi sbarrati dalla paura. Solo uno sguardo, fra tutti, incrociai.
    Michael mi fissava da dietro il travestimento con occhi anch’essi sbarrati, un misto fra preoccupazione, dolore e timore. Sua sorella, accanto a lui, lo teneva per una manica della camicia, mentre mi fissava.
    «Ero depresso per la morte di tuo zio, lo sai», disse mio padre, avvicinando una mano verso la mia distesa lungo al fianco. Io, con gesto incondizionato, l’allontanai con scatto d’ira.
    «Depresso? Ti sembra giusto picchiare e violentare tua moglie e tua figlia – tua figlia?! Chi ti dava il permesso di prendertela con noi e sfogare tutta la tua rabbia per la vita e per i tuoi fallimenti?»
    Non mi accorsi nemmeno che la mia voce tremava, rabbiosa, di un dolore soffocato che si stava trasformando in parole di sfogo e lacrime d’odio. Il mio respiro soffocato rendeva perfino difficile parlare.
    «Io ti credevo il papà migliore di tutti! E tu mi hai ferito! Ti sembra poco?!», chiesi urlando, non riuscendo più a controllare le lacrime che rendevano la mia vista offuscata e la voce a singhiozzi.
    Sentii prendermi un braccio da qualcuno e senza badare chi fosse me lo scrollai di dosso violenta. «Sharon, calmati!», disse John, il mio capo, che nel frattempo era stato chiamato da Isabel.
    «No! Io non mi calmo!», urlai disperata e furiosa. Lui indietreggiò di un passo alla vista delle mie lacrime e dei miei occhi ricolmi di odio. Poi, dopo aver osservato tutte le persone alle mie spalle – Ilary, suo fratello, Isabel e John – mi rivolsi di nuovo ad Anthony.
    «Che cosa ci fai tu qui? Spiegami che cazzo pretendi ancora dalla mia vita, EH?!», chiesi ormai isterica, avendo perso definitivamente anche il minimo lampo di ragione dentro di me. Mi misi una mano fra i capelli, respirando affannosamente. Continuavo a piangere, facevo fatica a respirare. Mi sentivo morire.
    «Pensi davvero di poter tornare qui, ADESSO, e chiedermi di perdonarti? Per chi mi hai preso?! Io non ti perdonerò mai per tutte le botte, per la violenza, per il DOLORE che mi hai causato! HAI CAPITO?!»
    Improvvisamente Michael mi si avvicinò, tenendomi per le spalle e avvicinandomi a lui. Io, quella volta, mi lasciai andare. Affondai la testa fra l’incavo del suo collo, continuando a fissare mio padre piangendo. Le braccia di Michael mi tenevano stretta, accarezzandomi le braccia, appoggiando le sue labbra sulla mia fronte, sfiorando i miei umidi capelli bagnati.
    Non potevo piangere, perché piangere significava dargliela vinta. Eppure non riuscivo a smettere.
    Mio padre mi fissava, inespressivo, per poi gettare il suo sguardo a terra. «Sharon ho sbagliato, scusa. Il fatto che ho bisogno di te… Ho bisogno di mia figlia!», disse con voce bassa e lieve.
    Staccai il mio volto dal petto di Michael, tenendomi comunque stretta a lui per le maniche. «Bisogno di tua figlia? È troppo tardi! TROPPO!», urlai infine disperata.
    «Shh… Tranquilla…», disse Michael, sottovoce all’orecchio, accarezzandomi i capelli. Nonostante la rabbia, sentii i brividi attraversarmi il corpo. «Ci sono io».
    Ilary si avvicinò a me e a Michael, docilmente. «Portala via, Michael», disse. Per fortuna non era svenuta, quando le avevo detto che lui era Michael Jackson… Ma in quel momento non ci feci caso.
    Michael mi dette un lieve bacio sulla fronte, continuando ad accarezzarmi. Nel momento in cui mi voltai per incamminarmi con Michael, sua sorella e Ilary, sentii un braccio afferrarmi da dietro, quello di mio padre, e il ricordo di una scena simile attraversò la mia mente. Anche quando era morta la mamma mi aveva preso così. Con la stessa freddezza e pressione che non ammetteva regole. Incontrollata, mi voltai di scatto e lo colpii con uno schiaffo in pieno viso.
    Alcuni dei clienti si alzarono in piedi, i loro bisbigli si facevano di shock e paura. Isabel si mise una mano in volto, scioccata; John, corse da mio padre, intento a rialzarlo da terra; nel frattempo che il caos si scatenava, Michael mi afferrò con le braccia legate al mio petto.
    «NON OSARE MAI PIÙ TORCERMI CON UN DITO, BASTARDO!», urlai contro mio padre piangendo, scossa da spasmi di rabbia. Michael mi voltò verso il suo petto e nascose il mio viso fra l’incavo del suo collo, ancora scossa dai singhiozzi.
    Non stavo piangendo perché ero triste. L’unica emozione che sentivo navigare dentro di me era l’odio. Questa rabbia portava ad odiare me stessa, ma era la sola sensazione appagabile al mio stato d’animo.
    «Mi dispiace che dopo tutto questo tempo tu non abbia smesso di odiarmi… Ero venuto per…»
    «Non mi sei venuto a trovare in quasi dieci anni, PERCHÈ PROPRIO ADESSO?», esclamai piena d’ira. Michael mi strinse ancora più forte a sé, cercando in un modo o nell’altro di calmarmi.
    Mio padre Anthony mi guardò, poi finito di massaggiarsi la guancia dopo un attimo di silenzio continuò: «Sei come tua madre… Non hai mai capito che se vi facevo quel che facevo lo facevo per il vostro bene!»
    Michael, che nel frattempo mi teneva stretta, s’irrigidì sul posto. Una piccola parte di me si chiese il perché, poi sfruttando quell’attimo di poca pressione da parte delle sue braccia mi lanciai contro mio padre.
    Sentii alcuni clienti urlare, mentre io presi mio padre per il colletto della camicia. Lo spinsi contro un tavolo, facendo rovesciare alcuni bicchieri al di sopra, che s’infransero a terra. Quando arrivai accanto a lui, mi avvicinai a pochi centimetri dal suo volto. Occhi negli occhi, con i miei capelli bagnati che coprivano una parte del viso, dissi:
    «Lo sai vero che succede a chi mente così spudoratamente come stai facendo tu? A chi violenta e picchia sangue del proprio sangue, sua moglie compresa?», dissi bisbigliando. «Li manda all’inferno…»
    Con quest’ultima frase riempita da tutto il mio odio, mi staccai da lui di scatto. Subito venni trattenuta per un braccio da Michael – che riconobbi subito nonostante non lo stessi guardando – e mi spinse delicatamente contro il suo torace. Accettando quel contatto, mi strinsi con tutta la forza della mia mano alla sua camicia.
    Anthony continuò a guardarmi fisso, con sguardo leggermente adirato, mentre John lo raggiunse. Anch’egli mi fissò, scioccato, e senza proferire parola Michael mi portò via. Ilary lo guardò e, di scatto, s’incamminò verso il corridoio accanto al palco, quello che portava ai camerini del locale.
    Inseguiti da Janet e Vanessa - la quale non aveva ancora enunciato parola – ci incamminammo di fretta verso il camerino dove poco prima mi ero cambiata per la mia esibizione, prima che la mia serata fosse rovinata da quell’uomo che una volta chiamavo papà.
    Non mi accorsi nemmeno di essere entrata nella stanza. Michael, continuando a tenermi per mano e massaggiando la nuca e i capelli, si sedette accanto a me in una poltroncina in velluto nero accanto all’armadio guardaroba, mentre Ilary mi rimase accanto in piedi e Janet e Vanessa stavano lontane a qualche metro. Dopo tutto quello che era successo, non avevo più la cognizione sul dove fossi.
    «Devi bere un bicchiere di acqua...», disse mite Ilary, accarezzandomi una guancia. Io guardavo per terra, senza distogliere il mio sguardo scioccato, e il silenzio regnava in stanza.
    «Be’», disse Vanessa intimorita. «Non mi aspettavo avessi un passato così tremendo… Mi dispiace per te».
    La sua voce smielata mi dava i nervi, perciò per evitare di arrabbiarmi un’altra volta decisi che era meglio farla tacere una volta per tutte. Non mi serviva la sua falsa tristezza.
    «Vanessa», dissi con tonalità neutra, chiamandola per la prima volta per nome. «Non mi serve la tua compassione adesso. Veramente non ne ho bisogno… Mi dispiace».
    Alzai lo sguardo – ignorando gli occhi felici di Janet a quella mia risposta – e vidi una Vanessa che, in parte offesa, mi fissava con occhi sgranati. Dopodiché guardò Michael, mentre nel suo volto potei scorgere un mezzo sorriso. Se soltanto avrebbe provato a fare la vittima con lui era la buona volta che la uccidevo…
    «Volevo solo cons…», rispose, ma venne subito interrotta da Michael, lasciandola nel bel mezzo del suo discorso a bocca aperta dalla sorpresa.
    «Janet, è meglio che tu e Vanessa andiate a casa. Io… Rimango ancora un po’», disse guardandomi dolce, sfiorando con la sua dolce mano la mia guancia destra.
    «Sei sicuro?», chiese la sorella preoccupata. «Se ti scoprono…?»
    «Non succederà, tranquilla», rispose immediatamente. Janet accennò ad un assenso col volto, poi si avvicinò a me abbracciandomi dolcemente. Io mi lasciai a quella stretta, non riuscendo però a ricambiarla, dopodiché sia lei che Vanessa se n’andarono, quest’ultima non salutandomi nemmeno. Se fosse stata furba, lo avrebbe fatto, per non fare brutta figura.
    Anche Ilary se ne andò, lasciando me e Michael da soli. Prima di andarsene disse a Michael di chiudere la porta, in caso di intromissioni, e quando lui si risedette accanto a me dopo averla chiusa a chiave mi toccò la mano.
    Sentivo il suo sguardo su di me.
    «Sharon…», disse con voce rotta. Io, incontrollatamente, lo guardai negli occhi. Come mi aspettavo, al contatto con i suoi occhi, due grosse lacrime offuscarono la mia vista e bagnarono il mio volto.
    Poco dopo, mi lasciai andare in un pianto disperato, affogando con il volto di nuovo fra l’incavo del suo collo, lasciando che mi tenesse stretta, cercando una possibile via d’uscita da quella oscurità.

    _______________________________________




    Capitolo Undici.


    Maybe it was too late.
    Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.


    Sharon desiderò che Michael fosse lì con lei, per cercare di aiutarla. Pregava in un miracolo, nel suo miracolo, ma era troppo tardi. Un flash del suo contatto dolce e delicato sulle sue guancie prese per un momento il posto di quella paura, mentre il ricordo sei suoi occhi lucidi le sollevavano per quel poco il suo cuore.

    ***
    Un’ora prima...



    «Sharon…», dissi con voce sottile, tremante. «Per favore… Non piangere... Va tutto bene adesso… »
    Stava con il suo volto nell’incavo del mio collo, continuamente attraversata dagli spasmi del pianto di sfogo, stringendomi fortemente per un pezzo della camicia. Continuava a piangere, incontrollatamente, solo da quando, in quella stanza, eravamo rimasti noi due e basta.
    Mi si stava spezzando il cuore. Le sue lacrime erano piccole schegge di vetro che attraversavano la mia anima, rendendo anche me sofferente del suo stesso dolore. Non potevo vederla e sentirla piangere disperata, soprattutto ero ancora turbato da quello che era successo poco prima… Era suo padre quell’uomo. Un uomo che l’aveva e la stava facendo soffrire.
    Come non potevo non compatirla? Anche io avevo avuto un passato così. Un passato orribile. A quel pensiero, un lungo brivido attraversò come un lampo la mia schiena, istintivamente stringendo di più Sharon. Non solo mi stavo sentendo male per la situazione, ma il ricordo del mio stesso passato molto simile al suo mi faceva stare ancora peggio.
    Come potevo aiutarla? Come potevo farle sentire che le ero vicino, senza farla ulteriormente soffrire? Avrei dovuto dirle che mi dispiaceva per quello che le era successo o non dire niente? Forse la cosa migliore, in quel momento, era invece lasciarla sfogare di tutte le lacrime che non aveva pianto? Di tutta la rabbia rinchiusa nella sua anima per anni?
    Eppure non potevo vederla così. Non potevo stare immobile e non farle capire quello che sentivo. Come avrei mai potuto non dire niente per consolarla e non farle sentire il mio appoggio? Io la capito, e capivo fin troppo bene che cosa significasse quell’infinito dolore che non muore mai.
    «Scusa…», soffocò con un ultimo singhiozzo Sharon con voce strozzata, staccandosi un poco dal mio collo. «Non volevo… Mi dispiace… Sono solo… Una stupida impulsiva…»
    Era sconvolta, e per farle sentire vicinanza le accarezzavo delicatamente le guance, sfiorando con le labbra la sua fronte. Era strano che, nonostante l’attimo, migliaia di brividi mi pervadevano?
    «Non dirlo… Non ti devi scusare, io… Capisco fin troppo bene che cosa significa…», risposi con un filo di voce, indeciso se proseguire col discorso o meno. Lei si staccò lentamente dal mio petto, guardando con occhi arrossati ed insistenti la mia camicia rossa. Io, perplesso, fissai prima la mia maglia poi lei.
    «Mh… Ti ho inzuppato la tua camicia con tutte le mie lacrime», disse a bassa voce, con tono di disappunto, lanciandomi un’occhiata preoccupata. D’istinto, soffocai una risata intenerita.
    «Stai tranquilla, a dire il vero nemmeno mi importa adesso», risposi con un sorriso. Che tipo… Si preoccupava più della condizione della mia camicia che di chiedermi il perché della risposta precedente.
    Lei accennò ad un sorriso, per la prima volta dopo il pianto, e di riflesso sorrisi anch’io. Aveva una tale forza su di me che non potevo starmene lì a non sorridere di rimando.
    Quando il suo sorriso cominciò a farsi quasi inesistente, inclinai di poco la testa, sfiorandole con la mano destra i suoi capelli. Lei alzò lo sguardo dritto nei miei occhi, procurandomi un leggero brivido sulla nuca.
    «Grazie, davvero», disse a voce più controllata, meno vibrata di prima e molto più mite. «Ti ringrazio per essere rimasto con me, piuttosto di andare via e lasciarmi qui, da sola…»
    Una morsa al cuore mi avvolse, vedendo la sua espressione – per la prima volta – simile a quella di un cucciolo indifeso e tremante. Come poteva quell’uomo, se si poteva definire uomo, averle fatto quelle cose? Come aveva avuto il coraggio di toccarla? Sentii un accenno di rabbia stringermi lo stomaco, cercando invano di reprimerlo.
    «Non ti avrei mai lasciato qui da sola… Non dopo quello che è successo», risposi sottovoce. D’istinto, spostai un ricciolo bagnato dei suoi capelli dietro il suo orecchio destro, per non impedirle la vista.
    «Ti ringrazio…», sbiascicò lei, arrossendo lievemente sulle sue guancie caffelatte. Come risaltavano quei suoi occhi neri, rispetto al colore della sua pelle e a quello dei suoi capelli…
    Arrossii anche io, staccando lentamente la mia mano dalla sua guancia. Rimanemmo un attimo in silenzio, guardandoci diretti negli occhi, per poi staccare il mio sguardo dal suo, troppo arrossato per resistere ulteriormente a quel contatto visivo.
    «A proposito…», disse lei con voce bassa e impacciata. Per un motivo o per l’altro, fui costretto a riguardarla negli occhi, intimidito. «Mi dispiace per come mi sono comportata prima…»
    Sharon accennò ad un sorriso dispiaciuto, per poi abbassare gli occhi. Era dispiaciuta per prima… Ma quello che in realtà doveva chiedere scusa ero probabilmente io, non lei. Non avevo badato ai suoi sentimenti.
    Magari aveva avuto quella reazione apposta perché lei… No, non era possibile. Non poteva provare qualcosa per me. Era impossibile. Non poteva essere gelosa. Ma forse… No, nessun forse! Non che mi sarebbe proprio dispiaciuto, se… Sottolineo se – avesse provato più di una semplice amicizia per me… No, Michael, riprenditi! La conosci da troppo poco tempo… Non puoi innamorarti ancora…
    «Sono io che devo dirti scusa… Mi dispiace non aver badato a quello che provavi», risposi inconsciamente, arrossendo subito dopo. Lei spalancò quei suoi occhi da cerbiatto, accennando di nuovo al rossore.
    «No, Michael! Non dire così!», rispose portando rapida una mano sulla mia. «Davvero, è colpa mia… E’ solo che… Non lo so… Non mi piace molto… Forse è perché non ho feeling con le donne».
    A quell’ultima frase aggrottò le sopracciglia, sorridendo con scherno e confusione. Io, di riflesso, inclinai di nuovo il capo e chiesi: «In che senso non hai feeling?»
    Lei mi guardò, poi soffocò una risata non divertita, voltando il suo sguardo per un attimo impercettibile alla sua destra, guardando il pavimento. «Dimentichi Jenny e Gloria, quelle del mio corso? Non è la prima volta che delle mie coetanee mi odiano. Fin da quando ero piccola, in effetti, vado avanti così».
    «Forse so il motivo perché ti odiano…», dissi non distogliendo il mio sguardo da lei. Ero serio, e lei mi guardava confusa e altrettanto attenta. Senza badare ai brividi, strinsi di rimando la sua mano.
    «Forse è perché nonostante il dolore sei una bellissima persona con un’anima…», risposi, senza dare troppa attenzione alle parole che mi uscivano fuori senza controllo. Lei arrossì lieve, sorridendo, per poi farsi nuovamente seria, pensierosa.
    «Michael… Mi fa piacere che dici queste cose di me. Ma non mi conosci ancora bene per dirmi chi sono… Forse quello che dici è vero, ma che motivo avrebbero per invidiare una come me? Io non ho niente che possa valere, per quelle persone…»
    Ma valgono per me… Volevo risponderle. Strinsi la sua mano forte, con l’istinto di rassicurarla. In parte aveva ragione però: come potevo sapere che tipo di persona fosse in realtà? E se la sua era solo una maschera? Ma, nonostante tutto, qualcosa dentro di me mi diceva che non mentiva. Il suo dolore era reale. I suoi occhi trasparivano sincerità e luce.
    «Ti ricordi cosa ti ho detto quel giorno? Quando ti ho detto che ti avrei presa per la mia compagnia?». Lei alzò lo sguardo, accennando ad un lieve assenso con il capo. Io allora accennai ad un sorriso rincuorante.
    «Ti invidiano per quello che sei, per la persona che sei. Perché tu possiedi qualcosa che loro non hanno», risposi serio, avvicinandomi percettibilmente verso di lei. Lei mi guardò, senza distogliere i suoi occhi.
    «… E che cosa sarebbe questo “qualcosa” che loro non possiedono? Il passato? Io, veramente, non…». Si fermò improvvisamente, quando entrambi ci accorgemmo della nostra strana vicinanza troppo incauta.
    Cercando di controllare il respiro, parlai. «La luce nei tuoi occhi…»
    Lei non rispose, io non continuai il discorso. Semplicemente ci guardavamo negli occhi, senza proferire più parola, con i nostri volti distanti di solo venti centimetri di distanza.
    Mi sentivo stordito solo a starle lontano di solo quel poco spazio. Era una cosa allucinante. Era la stessa sensazione che avevo provato, ballando con lei, quella sera, a ritmo della canzone “The Greatest Love Of All” – la stessa che avevo provato anche quando la vedevo ballare - solo molto più intensificata. Molto più potente e lancinante. Mi lasciava senza parole.
    «Anche tu… Hai la luce negli occhi», rispose lei, lenta. Io accennai ad un sorriso, spostando fulmineo il mio sguardo in basso per un breve momento, per poi tornarla a guardare.
    Lei mi sorrise dolce, per poi piegare la testa di lato, accennando ad uno sguardo di divertente confusione. «E che cosa avrebbe di particolare questa particolare luce?»
    Non risposi, poiché sentimmo bussare alla porta. Nello stesso momento, spostammo entrambi i nostri occhi verso la porta, per poi guardarci con paura. Sharon si alzò dal divanetto veloce come un fulmine, nel frattempo che io mi rimettevo sciarpa, cappello, e tutti gli indumenti necessari al mio travestimento.
    Prima di girare la chiave controllò che fossi pronto, poi ad un mio cenno del capo aprì. Dalla porta entrò Ilary, con sguardo stordito, che ci disse che il padre di Sharon se ne era andato e che non c’era più ragione di nascondersi. Feci un sospiro di sollievo, per poi avvicinarmi a Sharon, fino ad esserle a pochi centimetri di distanza. Temevo in una sua crisi, perciò le ero andato vicino.
    Sharon abbassò lo sguardo, annuendo, ma nei suoi occhi non c’era sofferenza. Solo una sensazione vaga di odio e rabbia. In quel momento le accarezzai la spalla, poi lei mi rivolse un lieve sorriso.
    «Pensi di restare?», disse Ilary, cauta. Subito Sharon scosse la testa, accennando ad una espressione di dolcezza. Voleva rincuorare l’amica.
    «Credo me ne andrò a casa. Ho già fatto la mia esibizione», rispose gentile. Ilary annuì, per poi rivolgermi uno sguardo scioccato negli occhi. Ancora non avevo capito se sapesse che ero io Michael Jackson.
    «Ilary? Tranquilla, non morde», disse Sharon soffocando una risata divertita. Io e l’amica la guardammo di riflesso, lei sbigottita ed io accennando ad un sorriso, contento che ora fosse più serena.
    «Ridi, ridi… Tanto tu ormai ci sei abituata a parlare con Michael Jac…». Prima che pronunciasse il mio nome per intero, Sharon le tappò la bocca, linciandola con lo sguardo, sotto il mio sguardo divertito.
    Salutammo veloci l’amica, accompagnati sotto lo sguardo di tutti fino all’uscita del locale. Una volta fuori, dopo un sospiro di sollievo di Sharon, chiamammo un taxi. Per tutto il tragitto le tenni la mano, per aiutarla a sentirsi meglio, e per far sentire meglio anche me. Di fronte all’appartamento, chiamai il mio autista privato per venirmi a prendere.
    «Grazie ancora, sei stato molto gentile e dolce con me», disse lei dopo qualche minuto, sorridendomi. Ora che la vedevo sorridere, sentivo quel nodo alla gola farsi inesistente. Ero veramente sollevato.
    «Figuriamoci…», risposi sorridendo di riflesso. Poi, notai che era ancora un po’ bagnata, e che soprattutto non aveva né giacca né niente che non le potesse far sentire freddo. Perciò, tirai via il mio cappotto e glielo porsi.
    «Tieni». Lei mi guardò stupefatta e nonostante le sue continue insistenze sul tornarmelo, si decise a tenerlo. Era più testarda di quanto pensassi. «Forse è meglio che vai… Se ti ammali poi è colpa mia»
    «No, non voglio. Ti lascerei solo…», disse lei, supplicandomi. Io sentii una morsa al cuore – questa volta non di tristezza – ma le pregai di non restare. Non volevo che si prendesse una malora, nonostante volessi con tutto il cuore che rimanesse con me. Ma non volevo che… Be’, quella sarebbe stata una sorpresa.
    Sharon mi rivolse uno sguardo triste, perciò per calmarla le presi il viso fra le mani e la baciai sulla fronte. Non so per quanto rimasi in quella posizione, so solo che quando mi staccai eravamo entrambi ancora troppo vicini. Qualche centimetro di distanza…
    «Buonanotte, Sharon», dissi sottovoce, pronunciando quel nome con un brivido. «A domani… Ti vengo a prendere io domani mattina…». Lei annuì, lanciando un’occhiata in basso.
    Lentamente ci allontanammo, uno più stordito dell’altra, e indecisa proseguii oltre il cancello, dopo la selezione delle chiavi giuste per aprirlo. Io la guardai allontanarsi dalla mia vista, fino oltre la porta dell’appartamento. Poco dopo arrivò la mia macchina e salii, dando un ultimo sguardo all’edificio.
    Un brivido improvviso mi scosse.
    Sharon…

    ***



    Sharon si diresse a passo lento e trascinato verso il secondo piano, camera d’appartamento numero 17, con ancora il volto leggermente arrossato. Era troppo irreale, lui, per essere vero. Forse stava sognando.
    Mai nessuno prima di allora l’aveva trattata come aveva fatto lui con lei. I suoi modi estremamente dolci e pacifici le facevano venire mille brividi in tutto il corpo, mentre uno stato di confusione le atterrava ogni pensiero concreto della sua mente. Era possibile che fosse veramente vero quello che le stava succedendo? Non stava solo immaginando, vero?
    Lui è solo un sogno, si auto convinceva, ormai dovresti averlo capito che i tuoi sogni non diventano mai una realtà, Sharon. Pensava che tutto quello che le stava accadendo era solo un’illusione.
    Eppure… Qualcosa dentro di lei le faceva sembrare tutto vero.
    Come mai si sentiva così felice quando era al suo fianco? Perché si sentiva così straordinariamente tranquilla quando lui l’abbracciava? Perché era serena anche quando non era tutto apposto?
    Sharon tirò fuori dalla sua tracolla le chiavi della stanza d’appartamento, in cerca di quella giusta. Quando la trovò e tentò di rigirarla nella serratura, capii che la porta era già aperta.
    Una sensazione di paura fulminea le attraversò la mente, per poi convincersi che la sua era un timore infondato. Magari si era solo dimenticata. Nonostante qualcosa non le andasse, decise di entrare.
    Con cautela avanzò nel buio, in cerca del tasto per accendere la luce.
    D’impatto, si sentii trascinare da una forza sconosciuta alle sue spalle, mentre una mano le copriva la bocca per evitare di lasciarle cacciare un urlo. Come aveva fatto quel qualcuno ad entrare?
    Poi, nel frattempo che lasciava cadere la tracolla e giacca a terra, paralizzata, sentii un soffio d’aria calda sul suo collo scoperto, ed un senso di disgusto le impedì di rimanere lucida del tutto.
    «Ti sei comportata molto male con me prima…», disse una voce maschile, sibilando. «Mi sa proprio che con te le buone maniere non servono affatto, vero figlia mia?»
    Sharon riconobbe quella voce. Il suo tono che non ammetteva repliche. L’alito con qualche traccia di alcool e fumo di sigaretta appena assunti. Le sembrava di tornare al passato, quando aveva solo sette anni d’età e pregava perché la notte non tornasse mai, per la paura che arrivava incombente. Era suo padre quello. Anthony. Era il mostro che popolava ogni suo incubo.
    Con gesti irrequieti cercava inutilmente di staccarsi da quella presa fredda e potente, ma oramai lui l’aveva in pugno. Con le braccia tenute strettamente dietro la sua schiena da Anthony, non poteva più fare un granché. Era stata intrappolata di nuovo in uno dei suoi incubi peggiori.
    Desiderò che Michael fosse lì con lei, per cercare di aiutarla. Pregava in un miracolo, nel suo miracolo, ma era troppo tardi. Un flash del suo contatto dolce e delicato sulle sue guancie prese per un momento il posto di quella paura, mentre il ricordo sei suoi occhi lucidi le sollevavano per quel poco il suo cuore.
    Che strano, Michael… Pensavo che fosse tutto un sogno, ma non lo è affatto. E dire che per un momento mi sembrava che fosse troppo vero per un cuore infranto ed innamorato come il mio.
    Quello che successe dopo fu solo un attimo troppo veloce per descrivere.
    Lei che mordeva la mano del padre, per scappare, poi una sua fuga verso la porta. Un urlo soffocato di rabbia alle sue spalle, poi un colpo secco e un tonfo per terra. Sangue che scorreva lungo il pavimento in legno. Passi soffocati verso il corpo a terra, poi una corsa contro il tempo prima che qualcuno si accorgesse del fatto.
    Michael…

    _______________________________________




    Capitolo Dodici.


    A voice pulls me back.
    Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.


    Proseguì di corsa fino a metà della seconda rampa di scale, bloccandosi vedendo la porta aperta della stanza di Sharon e alcuni agenti della polizia all’interno della stanza. Per terra, su un tappeto bianco, una grande macchia di sangue… E, fra le mani di uno degli agenti, in una busta di plastica, il suo stesso cappotto, quello che la sera precedente aveva dato a Sharon.
    Un pensiero di terrore gli bloccò ogni pensiero lucido della sua mente.
    Che cosa… No… Sharon!
    Urlò quel nome nella sua testa, terrorizzato per quello che stava osservando. Dov’era? Perché c’era quella macchia di sangue per terra? Perché c’era la polizia? Perché Sharon non era lì, ad accoglierlo, con uno dei suoi stupendi sorrisi e con quei suoi occhi neri limpidi di quella luce a cui era già affezionato?
    «Mi dispiace, ma non può entrare signore», disse un agente non appena Michael stava per raggiungere l’interno della stanza, senza far particolare attenzione a quello che stava facendo.
    «Dov’è?...», chiese con un filo di voce. Aveva paura di domandare quella richiesta, non voleva sapere. Eppure l’aveva fatta, quella domanda. Con gli occhi ancora fissi sulla macchia rossa cercò di riordinare le idee che vorticavano rumorosamente nella sua mente.
    «Parla della ragazza che abitava qui?», disse alle spalle una voce roca e femminile. Michael si girò di scatto, mentre il suo respiro cominciava a farsi affannoso. Che cosa diavolo era successo?
    Una donna anziana gli rivolse uno sguardo di tristezza, per poi guardare il basso, sconvolta. «L’altra notte un uomo che ha detto di essere suo padre mi ha chiesto il favore di farlo entrare nell’appartamento di Sharon… Mi aveva detto che voleva fare una sorpresa alla figlia… E…»
    Michael non poteva crederci. Era paralizzato dalla rabbia e dallo shock. Aveva paura. Che fine aveva fatto Sharon? La sua Sharon? Non poteva essere… NO! Non lo avrebbe mai accettato questo! Non lei!
    «Cosa? Cosa è successo?!», disse con voce tremante, con tono stranamente alto da parte sua, avvicinandosi alla donna e prendendola per le spalle, comunque con tocco delicato.
    La signora evitò il suo sguardo, non capendo che stava parlando proprio con Michael Jackson. «Un residente a questo piano, vicino alla sua stanza, ha sentito un rumore nella notte e… Oddio!», disse, coprendosi il viso con le mani.
    Michael si allontanò dalla donna, a scatti lenti, sentendo le sue gambe cominciare a cedere. Non… Non poteva… Lei doveva stare con lui! Aveva bisogno di lei! Non poteva lasciarlo!
    «E’ colpa mia! Tutta colpa mia! Sembrava così sincero… Oddio…», riprese la donna fra i singhiozzi.
    «La ragazza è all’ospedale, all’UCLA Medical Center», disse l’agente di prima, ancora accanto allo stipite della porta della stanza d’appartamento. «Non si sa se però riuscirà a resistere… Ha perso molto sangue…»
    Ma ''Michael'' non sentì più niente…

    ***



    Vedevo buio. Nessuna luce ad aprirmi la via. Nessuna salvezza pronta ad aiutarmi.
    Stavo morendo per caso? O ero già morta? Se sì, da quanto tempo? E Ilary? Isabel? John? Sapevano nelle condizioni in cui mi trovavo? Aspetta… Neanche io sapevo come stavo. Non sapevo nemmeno dire se ero ancora viva, o se quello fosse solo un incubo. Di una cosa ero certa: quello non era un sogno. Era troppo reale per essere semplice frutto della mia immaginazione.
    Qualcosa era successo. Ma non ricordavo cosa… Era come se la mia mente si fosse bloccata. Ogni pensiero era bloccato, fermo, immobile. Aspettava un segnale. Aspettava quella luce. Ma qual’era la luce così spettacolare che stavo attendendo così arduamente?
    Mille voci soffocate passavano come fulmini attraverso la mia testa, rendendomi ancora più confusa e stordita. Erano soffocate, perciò non riuscivo a capire che dicevano. Aspettate, volevo dire, parlate una alla volta! Aiutatemi! ...Ma nessuno sembrava ascoltarmi. Nessuno sembrava volermi essere accanto.
    Mi sentivo male. Quasi soffocare. Era una sensazione orribile, ma non avevo paura. Sentivo solo delle fitte, a volte perfino il respiro mancarmi. Avevo paura di smettere di respirare.
    Era troppa buia per me quell’oscurità. Volevo salvare me stessa. Non volevo rimanere intrappolata.
    Mamma… Ti prego, aiutami! Salvami! Voglio la luce!
    Ma d’altra parte a chi volevo mentire? La vita da tanto tempo mi sembrava inutile. Non sapevo per chi vivevo realmente – se per me stessa o per i miei sogni – né se avrei un giorno avrei realizzato le mie aspettative. Mi sentivo sola, quella era la verità. Non potevo nasconderlo.
    Era finita… Era finita per sempre… Ero morta

    Poi, improvvisamente, un lampo – forse una stella, dalla luce splendente e luminosa – attraversò i miei occhi immersi dal buio. Quella energia sembrava piangere. Piangeva lacrime d’aria e fragili.
    «Perché piangi?», dissi, ma dalla mia bocca non provenne nessun rumore. Nemmeno le mie labbra si stavano muovendo. Ero paralizzata, ed il bello era che non sapevo neanche il motivo.
    «Michael?», chiamai, quasi aspettandomi che quella luminosità si chiamasse così.
    Perché, in effetti, quella luce un nome lo aveva… Lo aveva eccome! Un nome splendente quanto la luce della luna, scintillante come ogni stella che brillava in cielo, potente come i raggi caldi del sole.
    «Michael!», urlai. Michael! Dov’era? Che stava facendo? Perché non era accanto a me? Perché non sentivo la sua mano sulla mia? Perché non sentivo il calore sulle mie guancie?
    La mia stella. Il mio sole. La mia luna. Dov’era in quel momento? Dov’era Michael? Dov’era la mia luce di salvezza? Avevo bisogno di lui. Volevo sentire la sua aura accanto alla mia, mentre mi sorrideva.
    Era così bello quando sorrideva… La mia personale via d’uscita da quell’inferno di anime solitarie e indifferente al mio dolore di sempre. Quando sorrideva mi sentivo in Paradiso. Quando mi abbracciava stretta, mi sentivo al sicuro. Quando mi parlava con la sua voce delicata, mi sentivo in un altro mondo. Un mondo diverso da quello in cui vivevo. Un mondo in cui non ero sola.
    Perché io sapevo che mi capiva. Qualcosa mi diceva che, quando gli parlavo, lui capiva. Quando piangevo, non avevo bisogno di altri se non di lui. Nemmeno di Ilary. Lui era la mia fonte di speranza, la mia risorsa di energia. L’unico che era riuscito a colmare quel dolore di un’intera infanzia ed adolescenza.

    Oh... Ora ricordo. E' stato mio padre. Lui mi aveva fatto del male, per un’altra volta nella mia triste vita. Mi aveva uccisa una volta per tutte? Mi aveva lasciata morire come aveva fatto con la mamma?
    Amore, sii forte, tesoro mio… Ti voglio bene…
    …Mamma! La mia mamma... dove sei? Mamma!…

    Stavo piangendo. Una sensazione dentro di me, dentro il mio cuore – se almeno non ero ancora morta -, mi diceva che stavo piangendo. Versavo lacrime invisibili, ma le sentivo comunque.
    Mamma ho bisogno di te! Ti prego, non lasciarmi, non ancora! Ti voglio bene, mamma! Mamma!
    Ma la mamma non mi rispose. Sentii un soffio sulla mia fronte, un brivido scorrermi lungo la schiena. Forse non ero proprio morta. Forse era venuta apposta per indicarmi che il Paradiso poteva ancora aspettare?
    Poi, inaspettatamente, un’altra voce. Era sfumata, con voce rotta, ma comunque dolce.
    «Ti prego, ti prego… Non portarla in cielo… E’ troppo presto…»
    Michael! Oh, Michael! La mia luce era venuta a salvarmi! Pregai Dio perché quello non fosse un sogno. Era indispensabile per me la sua voce! Non potevo stare senza di lui! Non ora!
    «Ti prego…», disse l’angelo di luce. Vedevo la sua immagine nella mia mente – i suoi occhi, i lineamenti del suo volto, le labbra, il sorriso… Volevo raggiungerlo. Volevo correre verso di lui!
    «Sharon…», pronunciò. Nella sua voce, potevo captare gli spasmi di un pianto soffocato.
    No! Michael no! Non piangere! Signore, non farlo soffrire! Non voglio che soffra! Voglio stargli vicino, sempre! Non impedirmi di essergli accanto! Io non voglio rimanga solo!

    Quello che successe dopo, d’improvviso, fu un miracolo: mi sentivo tornare alla realtà da un sonno in dormiveglia. Riacquistai come per incanto il senso del mio corpo. Mi sentivo più pesante di prima.
    Con timore, cercai di muovere quella che mi sembrava la mia mano sinistra. Si mosse. Ero viva! Mh… Troppo presto per cantare vittoria… Un’improvvisa fitta mi attraversò tutta la testa, bloccando il respiro.
    Stava di fatto che dovevo raggiungere il mio angelo. Non potevo lasciarlo da solo, a piangere! Dovevo stargli vicino e tirarlo fuori dalla sua solitudine! Volevo abbracciarlo, fargli sentire che io…
    Una luce abbagliante mi avvolse gli occhi, portandomi a richiuderli. Non potevo darmi per vinta. Ritentai. Quella volta riuscii ad aprirli. Riuscii a vedere, anche se in modo un po’ offuscato, dov’ero.
    Una piccola stanza d’ospedale, dai perfetti muri bianchi, con qualche quadro che raffigurava mari e campagne sui muri. All’angolo alla mia sinistra una porta in legno scuro, chiusa, e alla mia destra due finestre al muro, completamente aperte, con svolazzanti tendine azzurre che ondeggiavano a ritmo della brezza mattutina. Era ancora settembre, ma il caldo c’era, nonostante fosse solo l’alba.
    Stavo in un letto dalle coperte bianco panna; sul braccio sinistro, una flebo pericolosamente infilata dentro la mia pelle, con qualche altro strumento che non seppi riconoscere. Sentii ogni muscolo della mia schiena rabbrividire, più un’altra fitta potente alla testa pervadermi. Portavo, da quel che potevo scorgere, un camice azzurro cielo – il mio colore preferito. All’angolo della parete destra, ci stava una poltrona blu. Era tutto intonato.
    Che fossi in Paradiso veramente?
    D’improvviso sentii un sospiro tremante. Seguendo lenta con il capo da dove provenisse il rumore, vidi finalmente una figura – non molto esile, dai capelli corvini e ricci – seduto in una sedia alla mia destra, illuminato dalla luce candida dell’aurora. Era curvo sul letto, con il volto infossato fra le sue braccia.
    Respirava profondo, ma con fiato instabile. Sembrava piangesse.
    Michael!, volevo dire. Ma dalla mia bocca non uscì se non un sospiro. Una fitta leggera attraversò la mia mente, facendomi chiudere gli occhi per un istante. Riaprendoli, presi un ultimo respiro.
    «M… Mi…», dissi sottovoce. Lui, ancora curvo in quella posizione, sembrò accennare al risveglio, muovendo lentamente le spalle. A meno che non lo fosse già e stesse immaginando di sognare la mia voce.
    «Michael…», pronunciai alzando di più il mio tono di voce, espirando con tutta l’anima il suo nome. Ti prego, guardami. Sono viva. Non stai sognando!
    Ed ecco che l’angelo alzò il suo volto al mio. Quegli occhi… Quel viso… Oddio quanto ne sentivo il bisogno! Ne avevo l’assoluta necessità! Volevo accarezzargli le guance, abbracciarlo e dirgli che stavo bene.
    Aveva gli occhi lucidi, arrossati, e il volto umido di gocce salate che aveva pianto da chissà quanto tempo. Nei suoi occhi l’immagine dello smarrimento, misto alla felicità improvvisa. Il mio angelo aveva pianto.
    «…Sharon!», esclamò Michael, sparendo di scatto dalla mia vista ancora accecata e non abituata alla luce.
    Mi stava abbracciando; sentivo le sue braccia stringermi forte, mentre mi accarezzava la nuca insistentemente. Non mi ero neanche accorta che mi aveva tirato su dalla posizione distesa, con delicatezza, e che era scoppiato a piangere.
    «Grazie a Dio… Sei viva! Sharon… Grazie. Grazie! Dio… Non sai quanto ho avuto paura! Pensavo che non ti saresti più risvegliata! Ti ringrazio Signore!».
    Non potevo vederlo piangere. No… Era un dolore troppo grande da sopportare. «Michael… Oddio…», dissi, fra le lacrime. «Non piangere, per favore. Io… Io sono qui! Non ti lascio!»
    Sentivo fitte impressionati alla testa, dovute alle lacrime che stavano sgorgando copiose dai miei occhi, ma era una sofferenza più che sopportabile. Io non dovevo piangere, perché Michael ne avrebbe sofferto ancora di più. Dovevo stargli vicino, convincerlo che ora era tutto finito!
    Michael prese il mio volto fra le sue mani, appoggiando la sua fronte sulla mia. Rimanemmo in quella posizione per un attimo che mi sembrò voler essere infinito; sgorgavano profonde lacrime dai nostri occhi, silenziose, ed entrambi respiravamo affannosamente. Sentivo il monitor del mio battito cardiaco aumentare i suoni a dismisura, ma non ci feci per niente caso.
    Chiusi gli occhi per un attimo, cercando di smettere di piangere, lasciando palpabile quella sensazione troppo avvicinata delle nostre labbra. Il mio cuore batteva all’impazzata, quasi stesse per andare contro ad un infarto immediato. Respirai a fondo, con l’intenzione di calmare me stessa e il mio sistema cardiaco, prima di andare veramente incontro alla morte quella volta.
    «Mi dispiace. È colpa mia… Tutta colpa mia! Non avrei dovuto lasciare che…», disse sottile, lasciando trasparire una nota di rimpianto dalla sua voce angelica, scuotendo veloce il capo. Io aprii gli occhi, staccando la mia fronte dalla sua di pochi centimetri, guardandolo negli occhi.
    «Michael, no! Non dire così… Nessuno di noi due pensava che… Che…». Feci una pausa, impossibilitata nel continuare quel discorso. Quel ricordo, troppo potente da sopportare subito, mi faceva paura.
    Michael mi guardò, con occhi lucidi di tristezza ed angoscia. «Se tu… Non ti fossi più risvegliata, io non so come… Come sarei riuscito mai a perdonarmelo…», disse, poco dopo che una lacrima gli rigò il viso.
    I miei occhi si fecero lucidi e, d’inconscio, mi propensi a raccogliere quella sua goccia salata con le mie labbra. Gli baciai la guancia, sperando di riuscire a calmarlo. Quell’angelo non doveva soffrire. Mai!
    «E’ tutto passato, sto bene… Non piangere. Io sono viva. Sono qui con te. Perciò non avere il benché minimo rimpianto, tu… Tu mi hai salvato…», dissi, pronunciando quelle parole con tutto il fiato possibile.
    Lui annuì, serio. Con leggerezza, nonostante i dolori generali in tutto il corpo, poggiai una mano – non quella con la flebo, fortunatamente – sulla sua guancia, accennando ad un sorriso. «Credimi, hai fatto molto di più di quanto nessuno abbia mai fatto per me…»
    Lui lasciò il suo volto cullato dalla mia mano, inclinando la testa, accennando ad un’espressione più rilassata. Mi sembrava così tenero, docile… Persino fragile. Un uomo dagli occhi immensamente dolci.
    Mai mi sarei aspettata di trovarmi in una situazione così, soprattutto con lui.
    «…Da quando sei qui?», dissi dopo un lungo attimo di silenzio a guardarci negli occhi, senza accennare ad una parola. Quell’assenza di rumore parlava già da sola, non c’era bisogno di parole superflue.
    «Da un po’…», rispose lui, prendendomi la mano posata sulla sua guancia e unendola con le sue. Io annuii, pensando che in effetti, con tutti i suoi impegni, era ovvio che… «In effetti, da due giorni…», ammise poi.
    Io rimasi sbigottita, strabuzzando leggermente gli occhi. Non stava dicendo sul serio… Voleva dire che per due lunghi giorni era rimasto a vegliare su di me incostante? Non era possibile. Stavo immaginando.
    «D-da quando?!», richiesi, troppo scioccata per dire altro. Lui accennò ad un sorriso imbarazzato, con quei suoi occhi improvvisamente brillanti e luminosi, per poi riguardarmi negli occhi con sguardo serio.
    «Ti hanno portato qua la notte del 4, oggi è il 6. Ho saputo che eri qua la mattina, venendo a prenderti per le…». Poi si bloccò, toccandosi la tasca dei pantaloni. Dall’interno risuonava il suo cellulare.
    Lo prese, lanciandomi un’occhiata di scuse, per poi rispondere. «Pronto?... Sì, sono io Frank... Sì... Non potevo andarmene, era una cosa troppo importante... Lo so... D’accordo, arrivo... A dopo...»
    Chiuse il cellulare con un colpo secco, per poi guardarmi cauto e dispiaciuto. Io gli sorrisi docilmente, capendo quello che sarebbe successo. D’altra parte, non poteva restare con me per sempre dopotutto...
    «Devo andare...», disse con rammarico. «Ma ti verrò a trovare questa sera, prima che tramonti il sole! Te lo prometto!», continuò, lasciandomi senza parole. Il suo sguardo era sicuro, deciso... Era risoluto.
    Io annuii, silenziosa. Michael si alzò dalla sedia, baciandomi di nuovo sulla fronte, come la scorsa serata. Dopo una lunga interminabile ed ultima carezza sulla guancia, guardandomi con occhi lucenti, se ne andò.
    Guardai la porta per lungo tempo, scossa dal silenzio. Un getto d’aria mosse le delicate tende azzurrine alle finestre, portando i miei occhi su di esse e sul panorama al di fuori. La luce cominciava ad estendersi.
    Aspettai solo che se ne andasse Michael, prima di scoppiare in un pianto di paura repressa.




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    Capitolo Tredici.


    Don't wanna hurt you
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Michael?», disse una voce femminile e lieve alla mia destra, attirando la mia attenzione, subito dopo lo scatto secco della porta della stanza d’ospedale dove riposava Sharon. Era Ilary.
    Le sorrisi cordiale, dandole un cenno di assenso con il capo. Dopotutto capivo che, nonostante sapesse chi fossi ormai, provasse un attimo di smarrimento quando dovesse chiamarmi. E, soprattutto, capivo che sembravo un po’ ridicolo a volte, tutto incappucciato nei miei travestimenti. D’altra parte non potevo girare senza sciarpa, cappelli, ecc.
    Mi staccai dalla parete con un leggero slancio della schiena, stando attento a non far cadere qualche petalo del mazzo di fiori che stringevo in mano, dirigendomi verso la ragazza. «Come sta Sharon? Meglio?»
    Ilary guardò con occhiata fulminea prima il mazzo, poi me, accennando ad un sorriso. Io, nel frattempo, mi sentii in pieno imbarazzo, alla vista del suo sguardo furbesco diretto ai fiori.
    «Meglio, diciamo... Gli è appena passata una crisi per fortuna...», disse per poi emettere un sospiro.
    «Una crisi?», chiesi, dubbioso, cominciando a preoccuparmi. Lei sembrò confusa quanto me alla mia domanda, e rispose guardandomi attentamente negli occhi.
    «Sì... Vuoi dire che con te stamattina non ha pianto?», disse, con tono interessato. Io, sbigottito, non seppi inizialmente che dire. Con me non aveva pianto; poi me ne ero andato, e allora...
    «Ha avuto parecchie crisi, soprattutto quando la lasciavo da sola. Per esempio, tornavo poco fa per prendere qualche bibita e qualcosa da mangiare e l’ho trovata fra le lacrime. Mi ha detto che aveva tanta paura di rimanere senza nessuno...»
    Quindi l’avevo fatta soffrire andandomene. Non avevo badato ai suoi sentimenti, per la seconda volta da quei pochi giorni in cui ci eravamo conosciuti, come avevo fatto per quella questione riguardo Vanessa. Perché dovevo ferirla in quel modo?
    «E… E ora come sta?», dissi, visibilmente scosso. Guardavo fisso il pavimento, non nascondendo i miei sensi di colpa. Mi sentivo uno stupido ad averla lasciata da sola, senza nessuno, dopo lo shock subito.
    «Meglio, almeno credo. Purtroppo le ho detto che ora dovrei andare a lavorare, ma che se voleva potevo rimanere con lei per questa notte; lei mi ha detto che non serve, ma non ne sono molto sicura...»
    Poi mi lanciò un’occhiata preoccupata, subito dopo un minuto di spaventoso silenzio, nel frattempo che i miei rammarichi scoppiettavano come fuochi d’artificio nella mia mente confusa.
    «Michael, sarò sincera, molto sincera», disse attirando il mio sguardo. «Io a Sharon voglio tanto bene, è stata l’unica e sola persona a starmi vicino quando ho avuto i miei problemi. L’unica. È come una sorella per me. Non so dirti come, ma ho l’impressione che con te lei stia... Bene...»
    Io la fissai, attento ad ogni minima parola, ripensando ai pochi momenti passati nei giorni precedenti con Sharon; ripensai al suo sguardo – ai suoi occhi neri, al suo sorriso – e riflettei se Ilary stesse dicendo veramente la realtà dei fatti.
    «Non nego di essere un po’ gelosa eh, però... Ecco... Sono certa che ha bisogno di te. Perciò ti chiedo solo una cosa: non starle vicino se non ci tieni realmente a lei», esclamò poi scrutandomi con uno sguardo inquisitore, come se volesse mettermi all’erta.
    Io annuii, incapace di dire niente che potesse essere utile in un momento del genere. Non pensavo che stesse mentendo. Anche io pensavo che Sharon avesse bisogno di amore. Tanto amore.
    «Per favore...», disse poi sottovoce, lasciando trasparire dal suo tono una nota di tristezza, con occhi improvvisamente lucidi. «Non farle mai del male... Ha già sofferto troppo... Io le voglio bene...»
    Vidi dai suoi occhi comparire una lacrima, muta, rigandole il volto. Io, d’istinto, le poggiai una mano sulla spalla, accennando ad uno sguardo angosciato. «Io non ho intenzione di ferirla, Ilary. Non voglio»
    Ilary accennò ad un sorriso d’affanno. Volse il suo sguardo sul pavimento, scioccando lieve la lingua al palato, per poi riguardarmi negli occhi. «Spero che questa sia la verità...»
    In seguito si girò di scatto, diretta verso l’ascensore. Poco prima che stessi anch’io per aprire la porta della stanza di Sharon, la mia attenzione venne di nuovo attirata da Ilary, che mi chiamò con un “Ah” confuso. Io mi voltai a fissarla, stranito, vedendo un sorriso sghembo sul suo volto.
    «A proposito... Se oserai ferirla in qualche modo – sia moralmente che fisicamente, nonostante la tua buona parola – sarò benissimo capace di spezzarti braccia e gambe con un solo gesto del mio corpo».
    Io la guardai scombussolato – cercando di metabolizzare bene il senso di quella frase ironica ma allo stesso tempo davvero preoccupante – per poi sorridere. Lei accennò ad una risata soffocata ed entrò nella cabina dell’ascensore numero due, salutandomi con un cenno veloce della mano.
    Fissai di nuovo la porta di fronte a me, tirando un sospiro stranamente nervoso, stando attento a nascondere bene il mazzo di fiori alla mia schiena. Ovviamente quello doveva essere una piccola sorpresa.
    Bussai alla porta, e dopo la sua voce delicata a darmi il permesso di entrare decisi di farmi avanti. Entrai cauto, quasi avessi paura che lei fosse scomparsa – che quello di questa mattina fosse stato solo un sogno -, e quando me la trovai seduta sul letto, con indosso quella leggera vestaglia azzurrina, con sguardo sorridente, mi sentii improvvisamente sollevato. Un sorriso comparve felice dalle mie labbra.
    «Michael...», esclamò lei, mordendosi un angolo del suo labbro inferiore. Era così tenera, e quei suoi occhi da cerbiatto mi facevano sentire il cuore in gola... Quella sensazione non era normale.
    Improvvisamente il suo sguardo sorridente si fece curioso, curvando il capo in cerca di capire cosa avevo dietro la schiena, nel frattempo che io – finto tonto – la salutavo come se niente fosse.
    «Te l’avevo promesso che sarei venuto... A quanto pare il sole non è ancora tramontato», dissi continuando a sorridere, vedendo il suo sguardo che scrutatore cercava di vedere la cosa che nascondevo.
    «Già, ma... Posso sapere che nascondi là dietro?», disse accennando ad un sorrisetto, aspettandosi che le avrei detto subito la mia sorpresa. Io mi morsi il labbro, avanzando di un passo senza emettere un suono.
    «Mmh... Non penso che te lo dirò... E’ un segreto in realtà, e non so se tu...», dissi, sollevando lo sguardo dal pavimento per valutare bene la sua espressione sbalordita; teneva spalancati i suoi stupendi occhi neri, con in volto uno sguardo immediatamente serio e offeso. Solo a quella visione mi lasciai andare ad una risata. Lei, allora, aggrottò la fronte con una smorfia da bambina.
    «Mi stai prendendo in giro, Michael? Avanti, per favore! Posso vedere cosa hai dietro la schiena? Dai!». Adoravo quando faceva la bambina di tre anni. Era così... Adorabile. Non potevo descriverla.
    Io roteai gli occhi in alto, facendo ancora il perplesso, mentre mi toglievo sciarpa e cappello, tenendo nascosta la sorpresa. «Mmh... Solo se farai la brava e mi prometterai di dirmi la verità su una cosa, prima che ti dia... “L’oggetto nascosto”», dissi, nascondendo il mistero.
    Lei abbassò gli occhi, mantenendo l’espressione imbronciata, per poi guardarmi furbetta. «Non me lo puoi dare prima, quel “L’oggetto nascosto”? Prometto di dirti la verità! Ti giuro!», disse scongiurandomi.
    La guardai, e nonostante cercassi di non arrendermi sapevamo entrambi che aveva già vinto. Il modo in cui mi guardava, come spalancava i suoi occhi preganti... Maledizione! Mi aveva incantato!
    Sbuffai, finto spazientito. «Ok... Tieni...», dissi mostrandole il mazzo, con scatto agile e teatrale. I suoi occhi si fecero luminosi, quasi più della luce del sole stessa, e spalancò le sue labbra in un sorriso enorme.
    «Michael! Oddio...», disse piano mentre glieli porsi, sorridente per averla fatta contenta. «Ti giuro, non dovevi! ...Be’, forse sì. Comunque grazie, davvero!»
    «Eh lo so... Non avrei dovuto in effetti...», dissi assumendo uno sguardo abbattuto, scuotendo la testa. Lei mi lanciò un’occhiata sarcastica, per poi farmi la linguaccia. Io, di riflesso, feci lo stesso, ridendo.
    Rimasi ad osservarla, sereno, mentre lei incantata si prestava a toccare ogni petalo di ogni fiore, con tocco delicato. Era un piccolo mazzo di iris e gigli bianchi, lilla e azzurri. Speravo le sarebbero piaciuti.
    «Ti piacciono?», dissi con un sorriso. Lei alzò lo sguardo, rivolgendomi quei suoi splendidi occhi. Era così tranquillo il suo sguardo... Così pacifico... Non sembrava per niente fosse triste.
    «Certo che mi piacciono! Sono... Sono stupendi!», disse emozionata. Chinò la testa su di essi, ispirando con cura il loro profumo, poi continuò. «Li adoro... Poi i colori... I miei preferiti... Grazie di cuore!»
    Io mi sentii emozionato come un bambino. Ero così preoccupato se quel piccolo mazzo le sarebbe piaciuto o meno, e sapere di aver fatto la scelta giusta mi faceva librare l’anima in cielo.
    All'improvviso mi vennero in mente le parole di Ilary – le sue raccomandazioni, la sua lacrima. Sharon non doveva soffrire. Doveva essere felice, e io non avrei mai fatto niente per farla star male. No. Non volevo.
    «Sharon... Io...», dissi dopo un lungo attimo di silenzio, sedendomi in un angolo del suo letto. Con sguardo curioso mi fece spazio, spostando la sua attenzione dal mazzo verso i miei occhi concentrati. Sospirai, in cerca delle parole adatte da dirle.
    «Ilary mi ha detto delle tue crisi... Mi ha detto che hai pianto spesso oggi». Feci una pausa, alla vista del suo sguardo abbassato. Con una stretta al cuore, le presi la mano. «Sharon, scusa. Non... Non dovevo lasciarti da sola. Posso capire come ti sei sentita, io...»
    I suoi occhi lucidi mi bloccarono. Mi resero immobile. «No, Michael, non è colpa tua... Non deve neanche passarti per la testa un pensiero così. E’ solo che il ricordo... Rimanere da sola... Io pensavo che lui sarebbe potuto tornare a farmi del male...», disse guardandomi, spaventata.
    Portai la mia mano sulla sua guancia destra, accarezzandola con delicatezza. «Non tornerà. Vedrai, ti prometto che non ti farà più del male. Per questo volevo proporti una condizione...», dissi lentamente.
    Lei mi guardò stupita, aggrottando impercettibilmente la fronte. «Che tipo di condizione?», chiese con voce tenue, lasciandomi un lungo brivido pervadermi tutta la schiena.
    «Non mi fido a lasciarti qui, da sola, sapendo che quel pazzo», pronunciai, emettendo un lieve sibilo soffocato. «potrebbe essere ancora in giro... Proprio non posso». Mai avevo provato una rabbia così immensa per qualcuno. Quel sentimento non faceva parte di me. Non era nel mio carattere.
    «Perciò volevo chiederti se vorresti venire in tour con me», esclamai tutto d’un fiato, rimanendo a fissarla con occhi spalancati ed intimoriti.
    Lei strabuzzò gli occhi, lasciando quelle labbra leggermente carnose un poco aperte dalla sorpresa. «Dici sul... No! Sul serio Michael? Cioè... In tour con te? Ballare di fronte migliaia – milioni di persone?»
    Io annuii divertito, mentre la sua espressione si faceva sempre più corrugata; batté qualche volta le palpebre, guardando i suoi fiori per un attimo, per poi osservarmi sbalordita. D’improvviso disse.
    «Ma... Michael, io non ho ancora firmato il contratto di lavoro. E poi, il video non lo abbiamo ancora girato... Non so le tappe, e poi io non ho i soldi per permettermi viaggi...», disse cominciando a preoccuparsi man mano che le parole le uscivano dalla bocca.
    «Ehy...», dissi, posandole pollice e medio della mia mano destra sulla sua bocca, piegando un angolo della bocca in un sorriso divertito. «Non ti devi preoccupare di niente: oggi siamo il 6, il video – se per te non ci sono problemi – lo potremmo girare più avanti, non importa subito. Il tour inizia in Giappone dal 12, quindi dovremo essere là il... Be’, sarebbe meglio essere là almeno dopodomani, se non sbaglio...».
    «Ma i soldi? Non voglio debiti con te Michael... Non voglio dipendere da nessuno, soprattutto da una persona che ha già fatto molto per me. Mi hai già dato troppo del tuo tempo, sarei solo un misero impiccio che richiede lo spreco dei tuoi soldi», disse con sguardo di rammarico.
    «Sharon, te lo dirò solo una volta: tu non mi rechi disturbo. I soldi per me non sono affatto un problema, lo sai, e dare vitto e alloggio ai ballerini è una cosa più che naturale, durante un tour. Perciò non voglio sentirti dire ancora che il mio sarebbe uno spreco, perché non lo faccio perché sono obbligato.», risposi serio, non ammettendo repliche riguardo quel discorso.
    Lei mi guardò seria e non volente a cedere si propense a dire: «Però tu sai quello che potrebbe dire l’altra gente. Non ho intenzione di farti sembrare un ingenuo, e di sicuro non voglio fare la parte di quella che si approfitta di te, perché io non sono assolutamente così. Perciò, insisto: non sei obbligato».
    «Nemmeno tu se per questo», dissi sottovoce, lasciando trasparire una nota di agonia. «E, in ogni modo, non m’interessa che cosa la gente potrebbe pensare. Io so quello che sto facendo, e se quelle persone mi chiederanno il perché delle mie azioni risponderò. Se ci crederanno o no poi saranno affar loro. Tu devi solo dirmi se hai intenzione di accettare o no...», continuai, temendo in una risposta negativa.
    Lei abbassò lo sguardo sui fiori, toccando un petalo bianco di un giglio, mordendosi un labbro. «Michael, perché vorresti che venga con te? Per scopi solo lavorativi o altro?», disse, accennando ad una coloratura scarlatta del suo volto. Arrossii violentemente a quella domanda.
    Io rimasi a guardarla, senza staccare neanche un secondo gli occhi da lei, aspettando il momento in cui lei avrebbe alzato lo sguardo, in cerca di una mia risposta. Quando lo fece, riflettei sul vero perché.
    Quel mio invito valeva per motivi ovviamente di lavoro, ma non solo. Qualcosa in me mi diceva di non lasciarla là, in quel posto, da sola. Era vero però che, essendoci in giro ancora il padre, mi sento più in vena di protezione verso di lei, ma l’avrei fatto anche senza che fosse successo tutto quel delirio? Oppure no? Avrei fatto qualcosa lo stesso per non perderla e non lasciarla in solitudine?
    «Secondo te perché ti ho proposto di venire con me?», chiesi, non rispondendo alla sua domanda. Lei corrugò la fronte, per poi lasciar spazio ad un’espressione vaga, pensierosa. Strinse le labbra, per poi osservarmi con occhi mogi. Un istinto dentro di me di diceva che non era qualcosa di buono.
    «Non lo so, per questo te lo sto chiedendo. Non voglio rischiare di nuovo delusioni inutili, starei solo più male, nonostante credo veramente ti potermi fidare di te. Ma io non sono infrangibile, ho anche io le mie piccole schegge nel mio cuore. Perciò... Vorrei sapere la verità»
    Nei suoi occhi, come due giorni fa, vidi di nuovo la fragilità. Sentii il mio cuore stringersi in una morsa d’acciaio. Mi chinai verso di lei, appoggiando i gomiti sul letto, tenendole una mano con una mia.
    «Non ti farei del male, e anche io ho paura di poter rimanere ferito. Anche io ho sofferto. Anche io posso capire cosa significa sentirsi fraintesi, soli, in mancanza di affetto. Perciò credimi: non ho intenzione di farti del male, sono pronto a donarti perfino il mio cuore. Mi fido di te e voglio che resti con me. Non ho il minimo dubbio: non voglio perderti così facilmente».
    Quelle parole mi scivolarono fuori dalle labbra come l’acqua da una sorgente di montagna, incurante dove fosse diretta, con lo scopo di dissetare un altro cuore solo e bisognoso di qualcuno accanto.
    La mia era una profonda verità. Non volevo – non potevo lasciarla andare. Non se non fosse stata lei a dirmi di no. Io volevo mi seguisse. Mai nessuno aveva provato le mie stesse emozioni, né pensavo che mi sarei affezionato subito a lei. Perché lei qualche cosa dentro di me aveva provocato; un’improvvisa sensazione di calore, alimentata grazie al suo sorriso e ai suoi occhi. Proprio non potevo lasciarla.
    Lei mi sorrise, nel frattempo che quei suoi occhi neri si facevano più lucidi e luminosi, facendo comparire un sorriso sulle mie labbra allo stesso tempo. Sharon mi strinse la mano e io ricambiai, arrossendo.
    Un bussare alla porta ci riportò alla Terra, quasi fossimo caduti entrambi dalle nuvole. La osservai spaventato, mentre lei lasciandomi la mano disse a voce fioca di rivestirmi con la sciarpa, prima che entrasse quel qualcuno. Io, con agile scatto, mi portai mal volentieri ad una delle due finestre alla parete, facendo finta di chiuderla. Sharon, con voce tremante, dette il permesso di entrare.
    Un agente della polizia si fece avanti, accennando ad un sorriso triste, dai capelli corvini e la pelle scura. «Lei è la Signorina Sharon Villa, non è così? Io sono Adam Dixon, agente del Dipartimento Investigativo...»
    Sharon annuii, attendendo che il poliziotto continuasse. L’uomo fece un attimo di silenzio, abbassando lo sguardo, per poi fissarmi con un’occhiata osservatrice. Io, intanto, chiudevo in modo straordinariamente lento ogni finestre, lanciando qualche fugace sguardo alle mie spalle.
    «C’è qualche cosa che deve dirmi?», chiese Sharon, con tono paco, mantenendo un’espressione molto calma nonostante un percettibile movimento aggrottato delle sopracciglia. L’uomo di nome Adam tossì, abbassando un attimo lo sguardo, indeciso.
    «Abbiamo trovato l’uomo, suo padre... Anthony Villa, vero?», chiese l’agente, e dopo un accenno leggero di Sharon continuò. Nel frattempo, mi avvicinai al letto sistemandomi la sciarpa in volto.
    «Ecco... Suo padre è morto. È stato trovato il cadavere questa notte in una stanza d’appartamento, deceduto per overdose e infarto. È stata trovata qualche traccia di cocaina nel salotto e nel bagno...» L’uomo non disse più niente. Trattenni il respiro, lanciando un’occhiata su Sharon.
    Lei non emise un misero suono, e continuò a fissare l’uomo come se quello che avesse detto non fosse mai stato enunciato.


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    Capitolo Quattordici.


    Someone to look up to
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Mio padre era morto. Se n’era andato per sempre, e con lui la sofferenza. Avrebbe finito di farmi vivere nel terrore di rincontrarlo, nella paura che la notte potesse di nuovo farmi del male. Nell’oscurità.

    Michael mi si avvicinò veloce, sedendosi accanto a me con gesti secchi. Mi fissava senza staccare i suoi occhi di dosso dai miei, e sapevo che – anche non guardandolo – mi esaminava con paura. Come potevo dargli torto. Con tutti i miei pianti, ormai avrebbe pensato che fossi una fragile. Sì, aveva ragione, avevo paura, ma non ero debole. Era questo quello che avevo intenzione di mostrare, a lui e a me stessa.
    Continuai a fissare imperterrita e vacua l’agente di polizia, nonostante fossi così stordita da quella notizia non comunque dandolo a vedere. O almeno, pensavo di non darlo a vedere... Non che fossi depressa, o triste, ma tutt’altro. Ero... Be’... Sollevata. Serena. In pace.
    «Quindi se ne è andato?», dissi con voce leggermente tremante, alzando con cenno lieve un sopracciglio. L’agente mi guardò con attimo di smarrimento, poi sbatté gli occhi e rispose con un attimo di indecisione.
    «Sì. Sì, è deceduto. Ehm... Desidera fare il funerale per suo padre? Dovrei saperlo, non solo perché è il suo unico parente, ma anche perché se no verrebbe lasciato in obitorio...»
    Guardai il mio mazzo donato da Michael, aggrottando le sopracciglia. Senza staccare gli occhi dai fiori, risposi: «No, niente funerale. Voi potete... Potete tenerlo là, farne quello che volete... Cremarlo, seppellirlo... Non mi interessa, anche se sono sua figlia».
    Parlai con estrema sincerità, col cuore, e sentii la soffice e grande mano di Michael sulla mia mano. Io alzai i miei occhi su di lui. Mi osservava con occhi lucidi, afflitti.
    «Come desidera», rispose lieve l’uomo, andandosene con un cenno del capo come saluto. Ricambiai il saluto, emettendo un sospiro profondo. Mi sentivo libera.
    «Sharon...», disse con voce sottile Michael, stringendomi la mano. Lasciai cedere le mani, stando attenta a non rovinare neanche il petalo di un singolo fiore. Rimasi ad osservarli, subito dopo un altro respiro.
    «Sai come mi sento, Michael? Mi sento come se mi fossi tolta un peso che è sempre gravato sulla mia vita. Sono serena, Michael. Non ho più paura che la notte torni. Quell’incubo è svanito...»
    Stavo piangendo. Lottavo per non far cadere queste lacrime dai miei occhi, ma non riuscivo a controllare quel maledetto stimolo. Volevo o no mostrare a Michael che ero forte e riuscivo ad andare avanti? Volevo o no fargli capire che ero capace di dipendere da me come veramente facevo? Dovevo o no dimostrargli che in realtà non piangevo perché soffrivo ma invece perché ero felice?
    Michael mi si avvicinò senza neanche lo percepissi, tirandomi con fare delicato contro l’incavo del suo collo. «Shhh... Non piangere, è tutto ok adesso. Non ti farà più male».
    Era come quella notte, quando avevo visto Anthony dopo quasi 10 anni. Era la stessa situazione, ma le emozioni erano completamente diverse. Piangevo perché mi sentivo bene. Non avevo più da temere. Ora la pace era venuta da me, mio padre se n’era andato per sempre. Non mi avrebbe più ferito.
    «Michael... Sono in pace anche io adesso...», dissi con voce soffocata con il mio volto infossato fra il suo collo e la sua spalla. Lui appoggiò la sua testa sulla mia, continuando ad accarezzarmi.
    «Lo so... Lo so», rispose dandomi un bacio sulla nuca, facendomi venire i brividi lungo tutto il mio corpo. Le emozioni che provavo con lui, dopotutto, riuscivano a sorvolare quella mia serenità del momento.
    «Michael, pensi che abbia sbagliato a decidere di non fare il funerale?», chiesi alzando lo sguardo su di lui, tenendo la mano su un lembo della sua camicia blu. «Pensi che sia ridicola a piangere perché sono più serena ora?»
    Lui mi guardò con espressione inizialmente seria, sembrasse stesse valutando ogni minimo particolare dei miei occhi. Poi, con un’occhiata quasi implorante e rammaricata, mi accarezzò la guancia. «No. Per favore, non deve nemmeno passarti per la testa questa cosa. Come potrei pensare una cosa del genere di te? È più che normale che tu abbia deciso così...»
    Ma qualcosa non mi convinceva. Nei suoi occhi, soprattutto, c’era qualcosa che lasciava perplessa. Stava dicendo quello che stava dicendo solo per farmi contenta o perché lo pensava davvero? Ero in dubbio.
    «...Però? C’è qualcosa che non va, qualcosa che non vuoi dirmi, che traspare dai tuoi occhi», dissi, mentre lui mi scioccò un’occhiata ad occhi spalancati. Sorrisi senza provare emozioni di felicità. «Sai, sono brava nel capire quando una persona nasconde delle cose o mente...»
    Lui spalancò ancora di più gli occhi, aggrottando lieve le sopracciglia, continuando a guardarmi negli occhi. «Non sto mentendo, davvero! È solo che... Be’...»
    «Che avresti agito diversamente? Sì, in effetti ero anche io in dubbio. Però, Michael, mi ha fatto del male, e io questo non sarò mai capace di perdonarlo. Ero una bambina – una bambina di sette anni. Non sto qua a dirti che cosa mi ha fatto, a meno che non te l’abbia già detto Ilary, perché non voglio che qualcuno provi pena per me, ma puoi benissimo immaginare», risposi tutt’ad un fiato.
    Lui rimase a fissarmi, questa volta con fronte corrugata ed espressione angosciata. «Io ti capisco... So che è difficile chiedere perdono, lo è stato anche... Anche per me...», dissi con un lungo sospiro.
    C’era qualcosa che aveva intenzione di rivelarmi – lo potevo capire da come parlava – ma era qualcosa che non era facile per lui. Era un nodo alla gola il quale era difficile da raccontare, e nonostante la curiosità che provavo pensavo sapesse che non lo stavo obbligando a dirmelo.
    «Non serve che tu mi racconti i tuoi fatti personali, Michael. Io non ne ho bisogno devi credermi, perché la verità la vedo nei tuoi occhi. So che vuoi dirmi qualcosa, ma è doloroso. Perciò...», cercai di cambiare discorso, trovando una scusa al posto suo per non continuare, ma lui mi zittì.
    «No, voglio spiegarti. Voglio dirti qualcosa che ho raccontato a sì e no poche persone. Voglio che tu sia una di quelle poche. Ti prego...», disse guardandomi negli occhi con sguardo implorante. Sbalordita da quel suo comportamento, mi propensi solo ad accennare con la testa un sì.
    Lui si prestò a sistemarsi comodo nella sedia e guardando il basso passò delicatamente la lingua sul labbro inferiore. Cavolo però... Perché nonostante le situazioni tristi e serie riusciva sempre, con quei suoi gesti troppo sensuali da reggere per me, a farmi uscire fuori di testa? Arrossii per quel pensiero poco innocente.
    Finiscila di pensare così, Sharon... Devi renderti conto che non puoi impedire che ti colpisca quel suo lato così sens... No! Basta! Datti una controllata donna, porca miseria!
    «Anche io ho subito dei maltrattamenti, da mio padre...», disse sottovoce, attirando d’improvviso la mia attenzione. «Non solo io, a volte anche i miei fratelli. Ma io ero veloce, riuscivo il più delle volte a evitarlo e a scappare. Ma quando venivo preso...»
    Michael si bloccò, chiudendo di scatto gli occhi, assumendo un’espressione di dolore. Con gesto istintivo mi ritrovai ad abbracciarlo stretta, questa volta io accarezzandogli la nuca. Dopo un attimo di rigidità da parte sua, lo sentii abbandonarsi all’amplesso, stringendomi a lui di conseguenza. Non so per quanto restammo così, ma per un po’ dalle nostre labbra non uscì una sola parola.
    Lo sentivo sospirare a fatica – quasi fosse reduce da uno sforzo enorme – e lo capivo. Il fatto però, dopotutto, che lui riuscisse veramente a capirmi mi faceva sentire meno sola. Anche per lui quello era stato un dolore molto duro da sopportare, e non volevo assolutamente che a causa mia lo facessi di nuovo star male. Piuttosto sarei bruciata all’Inferno per sempre.
    «Non dire più niente. Quello che hai voluto intendere, me lo hai fatto percepire con i tuoi occhi. Ti credo, e credo nel tuo dolore. Non voglio che continui se ti fa così male, è per causa mia se ne stai parlando».
    «No, non lo dire. Sono io che voglio parlarne. Voglio dirti tutta la mia verità», disse, nel frattempo che il nostro abbraccio si stava sciogliendo. Vero però che le nostre labbra erano un po’ troppo vicine...
    Io annuii, ma sentivo chiaramente il cervello e il cuore andare nel pallone. Per fortuna non c’era quel aggeggio a contare i miei battiti cardiaci, se no penso mi sarei imbarazzata da morire. Quella benedetta quanto maledetta vicinanza mi faceva sentire mille e più brividi lungo la schiena e sulle braccia. Cazzo. Così non andava proprio bene la situazione. Dovevamo smetterla di guardarci così intensamente.
    Sentivo man mano che stavano in quella posizione il mio respiro diventare più affannoso, e il suo non era proprio da meno. Ma che ci stava succedendo? Ero una sua ballerina, non la sua amante, e lui il mio capo! Non potevo permettermi di... Di... Oh mio Dio! Era questa la sensazione che prova chi sta per innamorarsi? Oddio no!
    Le nostre labbra erano vicine, qualche centimetro di distanza. Fronte contro fronte, tenevo una mano sul suo petto caldo, stringendo quella camicia blu leggera. Lui, nel frattempo, mi teneva per la schiena e per un braccio. Mi sentii girare la testa, ma cercai con tutte le mie forze di non badare alla scossa.
    E dire che il dottore mi aveva detto di stare attenta alle forte emozioni, almeno per un po’ di giorni... Come no.
    Due rumori alla porta – un bussare frenetico – e la magia svanì, per la seconda volta. Subito io e Michael ci allontanammo, con velocità straordinaria, senza badare veramente a quello che stavamo facendo.
    «Sì?» chiesi con voce tremante, intanto che porgevo in fretta la sciarpa a Michael. Era strano che nonostante quello stato e gli sguardi fossero sicuramente stravolti, ci venisse da ridere come due bambini.
    «Sono Janet», esclamò la voce al di fuori della porta. Vidi Michael fissare la porta con sguardo prima sorpreso, poi esasperato. Mi chiesi il perché di quelle strane espressioni, ma non feci tempo a guardarlo che la sorella entrò con un sorriso timido, il quale divenne un sorriso a 32 denti non appena vide anche Michael. Chissà perché, qualcosa mi diceva che il fratello le avesse detto qualche cosa...
    «Ciao Janet», dissi spalancando le mie labbra in un sorriso dolce, vedendola che mi si avvicinava con occhi e sguardo sornioni. Non appena mi fu accanto, mi abbracciò stretta. Non riuscii a vedere Michael, ma percepii comunque i suoi su di noi. Un’altra cosa da domandare.
    «Sharon, come stai? Sono stata in pensiero... Quando Michael mi ha telefonato e detto che eri qua non ci potevo credere, ho aspettato che ti svegliassi...», mi disse, con tono rammaricato.
    «Meglio, davvero molto meglio», risposi lanciando una fugace occhiata a Michael, non appena Janet notò il mazzo di fiori. «Esco domani, dato che non ho forti dolori. Devo solo prendere qualche medicinale...»
    «Ne sono felice, davvero. Quindi allora seguirai mio fratello in tournèe?», chiese, ammiccando i suoi occhi furbetti sul fratello. Michael la fissò, con occhiata truce, mentre io soffocai una risata. Michael guardò anche me, questa volta di stucco e dubbioso.
    «Sì, se per lui non è un disturbo». In effetti, ripensandoci, nascondevano qualcosa. Si guardavano, uno con faccia cupa, l’altra con sorriso sghembo. Janet continuò, fissando i fiori.
    «Figurati, sono sicura che non gli creerai nessun tipo di problema. Piuttosto stai tu attenta a lui... Ti dirò, fa il timido ma sotto, sotto...», ammiccò la sorella, lanciando una fugace occhiata al fratello.
    Con sguardo torbido, Michael la interruppe. «Janet...» «... Ma sotto, sotto... E’ ancora più timido!», annunciò lei, con tono teatrale e spettrale. Insieme scoppiammo a ridere, ma fui brava a contenermi. Lui intanto era sull’orlo per applicare una tremenda vendetta su Janet.
    Nello stesso momento che lo guardai, lui mi fissò esasperato. Io gli sorrisi dolce, cercandolo di rassicurare. Non mi accorsi che, già da quando era entrata Janet, una mia mano era unita ad una delle sue. D’inconscio, gliela strinsi, mentre Michael sembrava diventare piccolo piccolo dall’imbarazzo.
    «Comunque sia, partite domani Michael?», chiese la sorella, ormai riprese il controllo. Lui mi scrutò, come se aspettasse che io fossi quella a sputare la sentenza definitiva. Stordita, mi affrettai a rispondere.
    «Io, ehm... Non saprei, Michael. Hanno detto mi faranno uscire dall’ospedale presto, Ilary verrà a prendermi ed accompagnare a casa a fare le valigie – mettendo il caso finisca la sera di sistemare tutto...»
    «Ne sei sicura? Non vuoi rimanere un altro giorno qui per sicurezza? Possiamo chiederlo...», rispose Michael, ignorando gli occhi spalancati della sorella a quella risposta. Io la osservai, ma dovetti trattenermi da una risata quando la vidi con le braccia sui fianchi, a fulminarlo con gli occhi.
    «Sto bene, e poi mi hanno detto che se non ho avuto dei forti dolori per tutto il giorno non è così grave. Davvero, sono ok. Poi mi hanno già dato le medicine e le prescrizioni, la data di uscita da questo posto è domani alle 9,00 a.m.», risposi con sorriso sincero, felice di sapere che me ne sarei andata presto. Odiavo gli ospedali con tutto il mio cuore, fin da piccola.
    «Allora ti verrò a prendere io, verso sera. Pensi di finire verso le 21,30 p.m.?», chiese con fare apprensivo, stringendomi la mano. Io arrossii lievemente – un po’ anche a causa di Janet che ci fissava con un mezzo sorriso soddisfatto – e annuii. Non avevo poi così tante cose da mettere in valigia, solo vestiti, dischi, film e i miei adorati cartoni della Disney. Due immense valigie in tutto.
    «Elettrizzata?», chiese Janet, sorridendo dolce. Io alzai le spalle, con espressione da bambina in volto, sorridendo. In realtà non ci stavo nemmeno pensando che sarei veramente salita su un palco.
    «Mi sembra tutto così irreale, perciò per il momento la prendo con filosofia. Quando sarò lì allora sarò veramente in preda all’agitazione», poi abbassai lo sguardo, un po’ intimidita dagli occhi insistenti dei due fratelli, un po’ pensierosa. «Non pensavo sarei mai riuscita a raggiungere un obiettivo tanto grande. Al massimo speravo di continuare per tutta la vita da non professionista al locale...»
    Ridacchiai imbarazzata. I due mi guardavano: uno con fare dolce, tremendamente e maledettamente sexy da non poter sopportare per più di qualche minuto di fila, l’altra con tenerezza. Sì, erano fratelli. Così simili, anche nelle loro espressioni e nei loro lineamenti era percepibile questo legame.
    «Mio fratello qui presente ha fatto un’ottima scelta. Ancora non ti ho fatto i complimenti per come hai ballato quella sera al locale! Sei davvero emozionante, si vede che ti piace ballare», disse spalancando le sue labbra in un meraviglioso sorriso. Michael la guardò con un’occhiata sorridente e furbesca, prima di tornare ad osservarmi compiaciuto.
    Poi d’improvviso una fitta mi colpì alla testa, perciò chiusi gli occhi di scatto, mentre la mia fronte si corrugava con forte pressione, emanando un sospiro soffocato dalle mie labbra.
    «Che c’è?», chiese immediatamente Michael, stringendomi la mano e con l’aria sfiorarmi la gamba che, per mia fortuna in quel momento, stava sotto le coperte leggere. Di certo facendo così non mi aiutava a farmi passare la fitta che mi stava pulsando in fronte. «Ti fa male la testa?»
    «Una fitta», enunciai con un sospiro, riaprendo gli occhi. Janet mi guardava irrigidita sul posto, mentre Michael mi stava accanto con quella sua amorevole preoccupazione per me. «E’ passeggera, me lo ha detto il dottore che quando sono stanca rischio di più... Forse devo solo riposare un po’»
    Accennai un sorriso di rassicurazione, stringendo di rimando la mano di Michael. Lui mi fissò con fronte corrugata, preoccupato evidentemente per la mia condizione, senza enunciare parola. La paura che stesse per cambiare idea sul fatto di andare con lui in tour mi balenò come un lampo la mente, facendo assumere al mio viso un’espressione di evidente timore.
    «E’ meglio che la lasciamo un po’ dormire Michael. Sono certa che domani di sicuro sarà nel pieno delle sue condizioni, vero?», chiese Janet, lanciandomi un’occhiata preoccupata mista a compiacimento.
    Il fratello la guardò un attimo, prima di tornare ad osservare me. Mi guardava dritto negli occhi, intento a pensare a chissà cosa, mentre io gli strinsi la mano senza pensarci troppo. Sebbene era meglio per la mia salute fisica e mentale che se ne andasse, volevo che rimanesse a farmi un po’ di compagnia. Ma, purtroppo, sapevo che non potevo avere tutto dalla vita.
    «D’accordo», disse Michael annuendo. «Forse è meglio così...» Così dicendo si alzò in piedi, lasciando la mia mano, continuando a scrutarmi. Dalle mie labbra apparve un sorriso lieve e da allora il suo volto si tinse di un sorriso meno preoccupato e più tranquillo. Janet arrivò ad abbracciarmi di nuovo, stringendomi più forte, e quando fu il turno di Michael andai letteralmente in Paradiso.
    La sua stretta ma allo stesso tempo delicata avvolgeva il mio corpo, lasciando dentro di me un senso di calore incomparabile ad altri; le sue mani erano così calde – sempre – come le mie. Potevo sentire il suo profumo così particolare quanto intenso attraversarmi tutta l’anima e desiderai per un momento che quel attimo non svanisse facilmente. Il suo profumo, il suo calore... Tutto di lui sembrava magico a me.
    «A domani, Sharon», sussurrò nel mio orecchio, accostando i miei ricci capelli dietro l’orecchio. Milioni e milioni di brividi m’invasero, rischiando di farmi perdere il senso della ragione. Dopodiché, mi baciò su una tempia e, con un’ultima carezza ai miei capelli, si scostò. Sorridemmo entrambi, intimiditi.
    Fu così che i due fratelli se ne andarono, lasciandomi un bel ricordo in quella giornata che non penso riuscirei mai a dimenticare, neanche fra mille anni a venire.

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    Capitolo Quindici.


    This thing can't go wrong
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Da quando io e Janet eravamo in auto in silenzio regnava sovrano. Lei con mezzo sorrisetto in volto, io invece pensieroso, con la testa da un’altra parte. Precisamente i miei pensieri erano rivolti a qualcuno, ovvio, ad una persona. A lei. Sharon. Chi altri se no?
    Pensavo a quel pomeriggio, da quando ero entrato nella stanza dove riposava; nella mia mente rivedevo il suo sguardo intenso, il suo lieve sorriso, gli occhi neri. Ogni minimo dettaglio era tenuto ben stretto. Avevo perfino paura di riuscire a dimenticarla, se non ci avessi pensato per più di un secondo e se mi fossi concentrato su altro che non fosse qualcosa che la riguardasse.
    Ripensavo alle sensazioni che sentivo quando ero in sua compagnia; ero pacifico, nonostante fossi sempre preoccupato alla sua salute, e per la prima volta avevo avuto l’istinto di confidarmi con lei riguardo anche il mio passato. Non era cosa che facevo con chiunque. Pochissime persone sapevano cosa avevo veramente vissuto, e quel giorno avevo avuto l’istinto di dirlo anche a lei.
    Sapevo che non ero obbligato a far niente – e soprattutto che non avrei dovuto dirlo per privacy -, a dire niente del mio dolore, però era più forte di me. Non riuscivo a pentirmi di quello che stavo per fare. Se solo non mi fossi bloccato... Se solo quel magone non mi fosse tornato in gola per l’ennesima volta... Eppure dovevo dirlo a lei. Me lo sentivo. Il mio cuore diceva che lo voleva veramente.
    You know how I feel, this thing can’t go wrong... I can’t live my life without you...
    Ok, ora la mia mente sta andando completamente in subbuglio! Perché mi era venuta in testa la canzone “I Just Can’t Stop Loving You”? Mi sentii arrossire, ma non mi voltai per vedere se Janet se ne fosse accorta o meno.
    Comunque, sapevo che Sharon veramente capiva come potevo sentirmi – come pochi – e forse aveva passato addirittura peggio. Lei veniva violentata, e non era una cosa da poco. Mi sentivo una feroce morsa dentro quando capitava che ci pensassi.
    Come poteva un uomo averle fatto tutto quel male? Come? … Non a lei.
    Capivo la sua scelta di non volergli fare il funerale, di non volerlo ancora riconoscere come suo padre... Anche io facevo fatica a riconoscere il mio, ma purtroppo era una realtà che non si poteva negare. Anche vero che io dovessi ringraziarlo per il mio successo, però per alcune cose ancora non riuscivo a raggiungere uno soddisfacente stato di perdono verso di lui. Come Sharon, ancora provavo un senso di rabbia a volte.
    Inoltre, quel giorno, le avevo proposto di venire in tour con me... E lei aveva accettato. Ero felice, davvero contento! Non sapevo nemmeno io capacitarmi di tutto quello stato di sollievo. Ero preoccupato solo per la sua salute? C’era qualcos’altro che mi spingeva ad averle chiesto quella domanda?
    Era così graziosa... Stare a contatto con lei mi faceva sentire adrenalinico, elettrizzato. Più la guardavo negli occhi, più li comparavo alla profondità della notte nei quali regnavano mille raggi di luna splendenti. Tutti questi pensieri, sebbene fossero inconsci, mi facevano diventare rosso. Era una cosa più forte di me.
    «Per una volta hai fatto una delle cose più giuste della tua vita Michael, sai?», disse Janet, interrompendo bruscamente i miei pensieri. Nel suo volto un sorriso beffardo mi fece insospettire, ma feci per ovvietà di cose finta di niente. Sapevo già che avesse intenzione di enunciare da quella sua bocca...
    «Di che parli?», chiesi, con tono di voce neutro. Le lanciai un’occhiata fuggevole, fissandola inquisitore. Lei sbuffò, alzando gli occhi al cielo, per poi osservarmi lugubre e silenziosa. Sapevo che quel silenzio sarebbe durato solo pochi istanti.
    «Lo sai di che parlo, e mi sa che solo io posso schiarirti veramente le idee...», disse con fare da esperta, ma io non volevo sentire. Adesso avrebbe ricominciato con i suoi incoraggiamenti e le sue valutazioni...
    «Janet, non iniziare...», le dissi voltando il mio sguardo al cielo. Lei mi fissò a bocca leggermente spalancata, per poi incrociare le braccia al petto.
    «Eh no, non dirmi che non vuoi sentire perché questa volta devi ascoltarmi!», e così dicendo non risposi più nulla, emanando un sospiro esasperato. Già di figure imbarazzanti me ne aveva fatte fare, per di più davanti a Sharon, e più di così non poteva far meglio.
    «Te lo dico chiaro e tondo fratello: a lei piaci! Come devo fartelo intendere? Anche lei lo sa, in fondo, ma non lo ammette per orgoglio, stanne certo...»
    «E un maschiaccio come te sa per certo cosa significa essere orgogliosi, vero?» la punzecchiai con mezzo sorriso fra le labbra, mentre lei mi lanciò stizzita la sua sciarpa addosso a me, intanto che io me la ridevo.
    «Non cambiare discorso, e soprattutto non distrarmi! Lasciami finire...», rispose, per poi rimettersi comoda sul sedile. «In ogni caso, stai tranquillo che ho ragione. Scommetterei anche casa nostra e la nostra famiglia!»
    «Come sei nobile...», accennai divertito, mettendomi una mano a coprirmi le labbra per evitare di scoppiare in una risata fragorosa, non appena vista la sua faccia irritata. Lei mi colpì con il suo cappello.
    «Comunque... Se mi lasciassi finire il discorso... So che anche a te Sharon piace molto, non negarlo», disse facendo assumere al mio volto un espressione scarlatta e attenta. «Avanti, non vorrai dirmi di no?»
    Io non risposi, abbassando lo sguardo imbarazzato e toccandomi istintivamente il mento, bagnandomi il labbro inferiore con la lingua. Quello che diceva era... Era... Era giusto oppure no?
    «Ecco! Lo sapevo!», disse Janet, mezza irata, lanciando le sue braccia al cielo. Io la guardai stranito. «Ho a che fare con due... Ciechi, che per di più non vedono quello che gli succede nel cuore! Ma è possibile che siate così... Ohhh!»
    Janet lanciò un urlo soffocato, incrociando nuovamente le braccia al petto, voltando i suoi occhi fuori dal finestrino. Io continuai a fissarla, completamente stupito da quel suo comportamento così ossesso quanto anormale nei miei confronti e in quelli di Sharon. Saranno stati affari nostri, le nostre sensazioni?!
    Subito pochi secondi riprese, nel frattempo che stavo volgendo di nuovo il mio sguardo alla luna piena. «Adesso dimmi», continuò con fare deciso, fissandomi negli occhi. «Ti piace: sì o no?»
    Io arrossii, non sapendo che rispondere. Non sapevo nemmeno io bene quei sentimenti così confusi che provavo per lei, sia quando le ero lontano sia quando le ero vicino; che risposta dovevo darle? A me Sharon piaceva? Era più di una amica? Più una ballerina per il mio tour?
    My life ain’t worth living, if I can’t be with you...
    «Dovevo immaginarlo. Ho sbagliato. Ho completamente sbagliato!», esclamò Janet, continuando a guardarmi dritto negli occhi; la guardai con terrore, mentre nel suo volto si formava un sorriso. «A te lei non piace... Tu la ami, altroché!»
    Io spalancai gli occhi, cominciando a sentire i sudori sul mio corpo, senza emanare alcuna parola. L’unica cosa che riuscii a fare fu quella di spalancare leggermente la bocca, per poi richiuderla con senza respiro. Vidi mia sorella scoppiare a ridere come una pazza – neanche fosse da ricovero – mentre il calore sulle mie guancie divampava violento.
    Imbarazzato e stizzito per chissà cosa, tornai a guardare fuori dalla finestra. Non dovevo badare a mia sorella. Mi avrebbe messo strane idee in testa, e di confusione ce ne avevo già abbastanza di mio. Se anche avesse avuto ragione, non potevo farmi condizionare; non in quel momento, proprio quando da quel giorno in poi avrei visto Sharon ogni giorno! Avrebbe potuto complicarmi i rapporti con lei...
    «E dai, Michael. Non dirmi che adesso ti sei offeso? Per cosa? Per la verità?», disse lei cominciando a calmare la sua voce divertita. Se solo avesse continuato, pensavo l’avrei uccisa nello stesso istante.
    «Non penso che ti lascerebbe solo... O almeno, secondo me non lo farebbe. Ho visto come ti guarda, come ci è rimasta quel giorno che l’altra tipa è venuta al bar e tu hai detto sì. Non è una brava attrice...», disse mia sorella, con tono di voce calma. Io la tornai ad osservare, con la stessa espressione seria che anche lei aveva in volto.
    «So che non vuoi rovinare il rapporto che hai già cominciato ad instaurare con lei, però personalmente ti do una dritta... Queste tue bugie non dureranno per sempre, soprattutto cederanno quando tu stesso capirai i sentimenti che provi... Ti ricordi? Le stesse parole che dice la mamma».
    La macchina era ferma già da qualche minuto quando finì la frase, ma nessuno di noi due era deciso a scegliere. Non sapevo né che pensare, né che rispondere. Probabilmente Janet non sbagliava.
    Mia sorella mi dette un buffetto sulla spalla, sorridendo furbetta e nascondendo una risata divertita. La guardai di spiego, con un sorriso finto esasperato in volto. Il mio maschiaccio preferito!
    Dopodiché scendemmo, e anche se l’aria fresca di quella notte di settembre mi colpì in pieno volto non riuscì a colmare i miei pensieri confusi.

    Scesi dall’auto veloce non appena la vidi uscire dalla porta di quell’appartamento.
    Con quel volto pensieroso come quello di una bambina piccola, nel frattempo che Ilary la aiutava a portare giù una delle due immense valigie che teneva a disposizione, era... Era l’espressione più tenera che le avessi mai visto nel suo volto da giovane donna.
    «Aspetta, ti aiuto io», dissi aiutando a prendere una delle due grandi valigie di Sharon, mentre lei apriva il cancelletto dell’appartamento, accennando un “grazie” soffocato dal respiro affannato, nonostante le difficoltà nei movimenti, sorridendomi. Con un po’ di forza e velocità riuscimmo a mettere le valigie nella macchina in soli pochi secondi.
    Era così bello sapere che non era più fasciata alla testa da delle bende bianche, e specialmente vedere il suo sorriso e i suoi occhi neri scintillare nella notte era una delle cose più meravigliose che avessi mai visto. Basta, Michael, tranquillo... Rifletti due volte prima di emettere dei pensieri così... Così…
    «Pronta?», dissi, bloccando i pensieri vorticosi nella mia mente appannata. Lei annuii, ma vidi il suo sorriso cominciare a svanire. Mordendosi un labbro rivolse il suo sguardo a terra, poi si voltò verso Ilary.
    Già... Ilary. La sua amica. In effetti non mi aveva rivolto i suoi occhi da quando avevo visto lei e Sharon uscire dall’appartamento. Teneva lo sguardo triste rivolto al basso, e di certo potevo capire il perché...
    «Ilary...», pronunciò sottovoce Sharon, soffocando un respiro tremante. Ero sicuro che la maggior parte delle cose da dire se le avessero già dette, ma ora era venuto il momento dell’addio, dell’arrivederci. Si guardarono per un minuto silenzioso e io le osservai muto. Non volevo interrompere quel silenzio, le avrei lasciato tutto il tempo a loro necessario.
    «Ricordati... Di non dimenticare mai questo posto, il locale... Isabel, John, mio fratello, e...», disse con voce rotta Ilary, non nascondendo dei lucciconi scintillanti provenire dai suoi occhi stanchi.
    «Sarai sempre nel mio cuore», continuò Sharon, facendomi rimanere immobile quando vidi una lacrima rigarle il volto. Ilary scoppiò a piangere e si abbracciarono forte, mentre Ilary soffocava urli di tristezza. Era così angosciante... Così triste un addio. Ma che avrei potuto fare? Avrei dovuto dire a Sharon di rimanere? Mi sentivo un’egoista. Che razza di persona io per dividere la loro amicizia?
    Improvvisamente sentii lo sguardo di Ilary su di me, la quale mi osservò con occhiata di agonia mista a un’altra emozione che non riuscii a decifrare. Voltai lento i miei occhi, evitando di assistere a quello che era un addio sentito e affliggente.
    «Michael...», disse l’amica di Sharon, una volta che si separarono da quell’abbraccio pieno di bisbigli soffocati e lacrime salate. Io portai il mio sguardo ad entrambe, che ancora vicine mi fissavano con espressioni opposte; Ilary mi guardava accennando ad un sorriso ma rassegnata, Sharon con uno sguardo devoto e malinconico.
    «Per favore, prenditi cura della mia Sharon. Ricordati il discorso dell’altro giorno...», continuò Ilary, attirando d’impeto un’occhiata confusa e sbalordita di Sharon. Io annuii semplicemente, lanciando un fugace scambio d’occhiate a Sharon che mi osservava con dubbio. «E’ una promessa, non dimenticarlo».
    «Sì...», dissi con voce bassa. «Manterrò la parola, dovessi morire». Come potevo decidere di ferirla? Come solo potevo pensare che avrei screditato la promessa fatta a me stesso e a lei? Non l’avrei mai fatto.
    Un ultimo sguardo, un’ultima stretta e io e Sharon salimmo in macchina, pronti per arrivare all’aeroporto, sotto lo sguardo lancinante di Ilary e l’angoscia percepibile della persona accanto a me. Mi sentivo male per quello che Sharon era stata obbligata a fare. Tutto per colpa mia.
    «Non sei obbligata a restare per sempre nel tour...», dissi sentendo a quella frase i grandi occhi neri di Sharon su di me, mentre una fitta al cuore mi distruggeva. «Una volta tornati in America potrai tornare da lei... Se ti mancherà e se cambierai idea... Devi decidere tu, io...»
    Mi bloccai al tatto della sua mano stretta alla mia. «Io ho già scelto, e la mia scelta è venire con te in tour, non mi importa. Ho parlato con Ilary, tutto il giorno, e lei è d’accordo con me e...»
    Scossi la testa, nel frattempo che un sorriso di rammarico mi traspariva in pieno volto. «Lo so che tutto questo può negare la tua libertà e il vostro rapporto... Non ti obbligo Sharon... Tu non devi se non vuoi».
    La guardai negli occhi decidendo di non badare molto alla stretta possente al cuore e la mancanza di respiro. Lei mi fissava di rimando, seria, senza una nota di tristezza o felicità. Mi osservava dentro, e io stavo facendo lo stesso con lei per capire quale fosse la sua scelta vera e propria.
    «Tu pensi davvero che io faccia tutto questo perché non voglio? Perché mi sento in dovere? Michael, se c’è una cosa più sbagliata nella mia vita è proprio questa. Io proprio non capisco...», poi mi mise una sua mano sulla guancia, e la mia testa cominciò a girare vorticosamente.
    «Come te lo devo dire che io voglio venire con te non per il successo, non per la fama, non perché voglio scappare, non perché mi sento in obbligo? Io voglio stare accanto a te, Michael, hai capito?...»
    Vidi i suoi occhi farsi più luccicanti di luce, nel suo volto l’espressione di chi veramente sta credendo in quello che dice. Aveva uno sguardo implorante e io non potevo non rimanerne incantato.
    D’inconscio le presi la mano che ancora manteneva sulla mia guancia, portandola ad unirsi con l’altra che tenevo appoggiata al ginocchio. Quanto avevo bisogno della sua vicinanza... Avevo bisogno d’affetto, di quella persona che come lei mi stava accanto in quel modo. Avevo sempre cercato qualcuno così, ancora molto tempo prima di allora.
    Non dicemmo più niente e dopo aver dato uno sguardo veloce alle nostre mani unite ne staccai una da quella stretta e con l’altra, ancora unita alla sua, la tirai con delicatezza verso di me. Avevo bisogno di abbracciarla. Volevo sentire il suo profumo per una terza, quarta, quinta... Ennesima volta!
    Mi ci volle un attimo prima di capire quello che veramente stavo facendo, ma una volta sentite le sue mani legarsi ferree alla schiena, stringendo la mia camicia, emanai un profondo sospiro. Non sapevo nemmeno io le emozioni che stavo provando, né sapevo che nome darle, ma per il momento mi andava bene così. Ero felice e tranquillo così come eravamo.
    Toccai con fare delicato e leggero i suoi capelli ricci e castano scuro, seguendo ogni minimo dettaglio di ogni boccolo presente, studiando la luce della sua pelle alle innumerevoli luci della città che attraversavano i vetri oscurati della macchina. Avevo voglia di toccare la pelle delle sue guancie per sentirne il tocco vellutato, quella seta pregiata e mulatta.
    «Michael, posso chiederti una cosa?», disse improvvisamente, con voce tremante, stando a pochi centimetri dal mio volto. Milioni di brividi attraversarono la mia nuca e le mie braccia che la tenevano stretta. Annuii, guardandola con occhi attenti e curiosi, emozionati.
    «Ecco, io... Volevo chiederti solo un po’ di tempo, prima di raggiungere l’aeroporto... Lo so che non sono cose da chiedere, sei tu che decidi, e so che il mio comportamento è da maleducata...»
    «Vuoi andare da qualche parte prima di partire?» chiesi, capendo subito quale fosse il suo bisogno. Anche io, molte volte prima di un viaggio, soprattutto da piccolo, desideravo prima di partire andare in quei posti speciali per me. Purtroppo per me era impossibile realizzare quei piccoli desideri.
    Sharon mi guardò con occhi spalancati, illuminati di una luce improvvisa. Io le sorrisi. «Possiamo dovunque vuoi andare, abbiamo tutto il tempo che vuoi a disposizione...», dissi poggiandole il palmo della mano sulla sua guancia destra, spostandole un ricciolo ribelle dietro l’orecchio. Entrambi arrossimmo, ma io non ci feci caso più di tanto. Era stato un riflesso istintivo.
    «Davvero?», chiese lei con un sospiro. Io allargai il mio sorriso alla vista del suo candido volto sbalordito e imbarazzato. Ti porterei anche in Europa se me lo chiederesti, Sharon...
    Risposi con un accenno del capo, e dopo aver abbassato gli occhi seria si cinse a rispondermi. «Potresti portarmi alla scuola di danza? Quella dove mi hai fatto fare il provino? Devo ringraziare qualcuno...»

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    Capitolo Sedici.


    Look through your eyes
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Percorsi le scale di marmo bianco insieme a Michael, con passo veloce, il quale se ne stava a pochi centimetri distante da me con occhio serio e, in parte, preoccupato.
    Al contrario io mi sentivo dinamica. Avevo un’energia che mi attraversava le vene al posto del sangue. Paura? No, adrenalina. Decisamente.
    Prima di fare le ultime valigie ero andata con Ilary al locale, avevo salutato tutti; avevo passato una giornata ricolma di pianti e lacrime, piena di rammarico e, a volte, di dubbi. Ma io non avevo intenzione di lasciar stare tutto; chiunque mi avrebbe lasciato, se fosse stato qualcun altro al mio posto. Ormai la vita mi aveva fatto capire bene che nessuno poteva starmi accanto per sempre, compresa Ilary.
    Molte volte avevo compreso la verità di quel fatto – come quando proposero ad Ilary un viaggio con un amico del fratello, la quale accettò, mentre io rimanevo a LA da sola, oppure come quando a volte nessuno arrivava a capire bene il perché della mia solitudine, ritenendomi solo una pazza lunatica. Per questo mi “associavo” dagli altri; se non mi riuscivano a capire, con loro avrei solo sofferto di più.
    E di questo tutti ne erano a conoscenza. Sapevano che la mia decisione non era solo una grande occasione per realizzare i miei sogni “impossibile”, ma anche frutto di alcune loro profonde lacune che mi ebbero lasciato nel cuore. A quanto pare non ero così pazza da continuare a sperare in quell’opportunità che finalmente, dopo tanto tempo, era arrivata.
    Perciò non riuscivo a pentirmi della scelta che stavo prendendo. O almeno, nonostante la tristezza nel lasciare delle persone che per anni mi avevano fatto sentire per quel tanto possibile a casa, non volevo rinunciare.
    Chiunque avrebbe potuto dire che la mia scelta era guidata dalla voglia di diventare una ballerina famosa, ma non sapevano che dentro di me c’era un’altra ragione che mi guidava: Michael.
    Volevo stargli accanto. Volevo continuare a vedere il suo sorriso luminoso più del sole, i suoi grandi occhi brillare e la sua voce vibrare nell’aria delicata come il suono di dolci tintinnii di campanelle. Volevo la sua presenza accanto a me. Con lui non avevo bisogno di altro. Io mi sentivo... Mi sentivo me. Erano indescrivibili le emozioni che provavo quando ero con lui e in fondo intuivo che, se non fosse stato per lui, sarei stata propensa a rinunciare a quell’occasione.
    Perché tutte queste sensazioni con Michael? Perché con lui tutto era diverso e ogni mio “muro” si sgretolava sempre? Non sapevo spiegarmi perché - ogni volta che mi prendeva le mani, mi abbracciava, mi accarezzava i capelli – mi sentivo leggera come una piuma. A volte pensavo che dopo passati quei momenti la morte poteva anche venirmi a prendere per sempre.
    Inconsciamente lanciai una fugace occhiata a Michael, il quale scoprii che mi osservava con timore. A quella faccia risi divertita. «Avanti, Michael! Non ho intenzione di ucciderle o torturale a morte!...»
    Lui guardò avanti, non del tutto convinto. Poi, accennando un sorriso furbetto in volto, aggiunsi guardando anche io dritta davanti a me. «Anche se una botticella non farebbe male a nessuna di loro...»
    Michael mi guardò per un attimo impaurito, ma quando si accorse della mia espressione ironica e sorridente si mise a ridere anche lui. «Di certo prenderanno un colpo vedendoci noi due assieme all’improvviso, come stiamo per fare», disse lui accennando ad una smorfia sarcastica.
    Risi, proseguendo per gli ultimi metri con passo sempre più calmo. Controllai l’espressione del mio volto, cercando di farmi più seria e “innocente” possibile, e quando notai che la porta della sala era aperta sentii un leggero nodo allo stomaco. Quella musica mi ricordava tanto le poche settimane passate in quell’aula, denigrata e isolata, benedicendo il cielo per non essere ancora là con quelle.
    «Vuoi che venga dentro con te?», chiese Michael schioccandomi uno sguardo d’attesa. Io mi fermai pochi istanti prima di oltrepassare la porta, di colpo. Dopo uno sguardo leggermente stordito risposi.
    «Mh… », bofonchiai abbassando lo sguardo ed aggrottando la fronte. «D’accordo, però preferirei che tu ne rimanga fuori, immagino già i commenti... E’ una questione che devo risolvere da me».
    Lui mi fissò con occhi intensi, poi accennando un sospiro annuì debolmente. Solo allora mi voltai verso la porta, tirando un sospiro stanco. «Be’... Tanto vale di liberarsi di questo peso adesso, per sempre». Perciò, con sicurezza degna di me, avanzai verso l’interno della sala, seguita da Michael. Una volta dentro non potevo più tornare indietro e far finta di aver sbagliato stanza.
    Con uno sguardo fugace controllai le persone all’interno, le quali mi fissarono tutte in meno di pochi secondi con occhiate sgomente e indecifrabili tutte assieme; c’erano tutte, ricordavo ogni loro volto, nonostante non rammentassi i dettagli di ognuna. Subito il mio sguardo venne attratto inconsciamente da Jenny e Gloria, le quali osservavano me – e di sicuro Michael – con occhi infiammati di rabbia.
    La musica si spense, così facendo portando la mia attenzione sulla Signorina Phillips, che si avvicinò a me e a Michael con passo lento e occhiate neutre, in postura degna di una ballerina del etoile. Ormai la conoscevo abbastanza da capire che ogni volta che presentava quell’espressione calma in realtà non lo era affatto. Nel frattempo, a placare quel silenzio improvviso, mille bisbigli e gridolini soffocavano l’aria.
    «Mr. Jackson, Sharon... Siamo onorati della vostra visita. A che dobbiamo questa presenza?», e con una mano a palmo spalancato fece tacere le ballerine, le quali si zittirono come tombe. Rivolsi una veloce occhiata d’intesa a Michael, il quale con un cenno di capo si rivolse verso la donna.
    «In realtà sono venuto per accompagnare Sharon qua, vi deve dire una cosa prima di partire per il Bad World Tour», disse sottolineando l’ultima parola. Nascosi un sorriso non appena glielo sentii dire e, dopo vari urletti e voci soffocate da parte delle ragazze del corso, mi schiarii la voce.
    «Sì, in effetti volevo dirvi un paio di cose...», dissi avanzando verso l’interno della sala, placando le bocche di ognuna. «Iniziando col dirvi grazie; senza questa scuola non sarei mai stata presa come ballerina di una persona come Michael».
    Dette quelle parole, rivolsi un mezzo sorriso a Michael, il quale fece lo stesso arrossendo lievemente, sistemandosi sullo stipite della porta con una spalla. Portai il mio sguardo sulle mie mani che tenevo chiuse al petto, una stretta con l’altra, per poi osservare una per una le ballerine.
    «Anche se non è stata proprio una delle migliori esperienze - il venir essere isolata solo perché non sono della vostra stessa classe sociale – sono grata che ne sia valsa la pena». Dopo un attimo di silenzio continuai. «E soprattutto grazie a te, Roxy...»
    Con espressione soddisfatta, osservai tutte le ragazze voltarsi verso uno delle ultime file del gruppo di ragazze della sala. Nel momento che notai i suoi occhi spalancati su di me sorrisi apertamente. «Se tu non mi avessi concesso di prendere il tuo posto per esibirmi, in parte forse non mi avrebbero permesso di ballare».
    Sapevo che stavo sottolineando di gran lunga la discussione avvenuta con la Signorina Phillips quel giorno dei provini, e non mi importava affatto del suo sguardo che cominciava a farsi rancoroso e fiammeggiante di stizza: sarebbe stata la mia ultima volta in quella sala, e dovevo far sentire tutte le cose che mi ero sentita di dire, ma che per mia sfortuna ero stata tenuta a tenere represse.
    Sotto gli occhi spalancati di quasi tutti i presenti, mi voltai con calma innata verso Mrs. Phillips. «Lo so di non essere una ballerina da etoile, né di avere il fisico giusto per esserlo - da quanto lei mi faceva intendere...». Un attimo di pausa, chiusi gli occhi, e il mio sguardo si fece serio e duro. «Però se ho ricevuto l’opportunità di ballare per qualcuno di così importante, forse non sono così scarsa».
    Anche gli occhi della donna di fronte a me si fecero seri, quasi crudeli, e con sibili acuti prese a parlare. «Di sicuro per essere entrata a far parte della compagnia del Signor Jackson ti saranno servite più di semplici attività di ballo», emise con un sorriso in volto che nascondeva un ghigno.
    Sapevo che quella frase aveva un doppio senso, e che di certo non era un complimento. Mi stava facendo passare da un ruolo che non mi apparteneva. Attraverso lo specchio vidi Michael irrigidirsi, guardare la donna con occhi cupi e fulminanti, mettere un piede in avanti indeciso se venire a avanti o no.
    Io, nel frattempo, esposi in volto un sorriso strafottente. «Signorina Phillips, mi meraviglio che pensa a queste sciocchezze, quando è chiaro come l’acqua che qui in questa stanza c’è aria di discriminazione e raccomandazione», dissi schioccando un’occhiata intensa a Jenny e Gloria.
    Entrambe mi guardavano con occhi strabuzzati, e per poco non pensavo che perfino il fumo dalle orecchie le sarebbe uscito dalle loro orecchie. Gloria si fece avanti, mentre Jenny la guardò con sguardo scioccato.
    «Ma come ti permetti?», esclamò sputando quelle parole con rabbia. «Devi esserle solo grata che non ti abbia cacciato fuori da questa scuola molto prima!», poi mi guardò da capo a piedi con sguardo d’odio, soffermandosi sul mio corpo. «Non avrai mai un futuro».
    Alzai un sopracciglio, cominciando a sentire un certo fastidio dentro. «Parli proprio tu? Ah giusto, tu sei una fra quelle raccomandate. Mi ero quasi dimenticata il tuo ruolo da oca giuliva della classe...».
    «Senti cara, abbi un po’ di rispetto per me, mulatta che non sei altro», disse mentre nei suoi occhi si formava un odio e una malignità sorridente e terrificante. «Sei fortunata solo ad essere ancora viva».
    «Abbi tu il rispetto, innanzitutto. Nessuno ti deve aver insegnato le buone maniere in casa tua, nonostante la tua classe, ma solo cosa significhi il tema “discriminazione”», s’intromise Michael, che intanto si era avvicinato al mio fianco. Immobile e meravigliata da quel suo gesto non dissi niente; guardavo solo i suoi occhi cupi e fissi su Gloria che la scrutavano dentro.
    Anch’ella lo fissò con occhi spalancati, mezzi irati e mezzi impauriti da quel improvviso intervento. Nonostante fosse paralizzata, sapevo già che stava per sputare un’altra delle sue sentenze – o almeno l’ha pensava -, conoscendo il suo lato impulsivo e provocatorio. In men che non si dica parlai io, con l’intenzione di impedire di dire qualche cattiveria a Michael... Non a lui.
    «Ricordati una cosa, Gloria. Anzi, ricordatela tutti!», esclamai rivolgendomi a tutte le persone presenti. Michael accanto a me fissava ancora Gloria con sguardo intenso e carico di... Rabbia?
    «La vita non è stata mai facile per una come me, e so che pensavate tutti che fossi solo una pazza con la testa fra le nuvole e dagli inutili sogni. Ma se c’è un consiglio che vi posso dire... Ogni sogno può diventare realtà. Basta crederci».
    Detto questo calò il silenzio. Con un ultimo sguardo analizzai i volti dalle espressioni neutre, indifferenti, attente e talvolta devote di tutte le ballerine. Fissai Gloria con sguardo attento, senza accenni di odio o soddisfazione, poi Mrs. Phillips. Entrambe mi fissavano con odio e rabbia, poi con un veloce scatto d’occhi guardai Michael. Lui capì al volo e, toccandomi leggermente la spalla, ci dirigemmo verso l’uscita.
    «Non sei stata affatto grande...», disse pochi minuti dopo, una volta raggiunta la macchina parcheggiata di fronte al cancelletto dell’edificio. Io lo guardai con occhi scombussolati e spalancati, e una volta in posizione per aprire la portiera Michael si immobilizzò.
    «... Sei stata semplicemente magnifica e con grande stile!», continuò con un sorriso divertito e da bambino in quel volto angelico. Io spalancai ancora di più gli occhi, poi risi sinceramente divertita. Nello stesso momento aprimmo la portiera ed entrammo in macchina. Una volta chiusa parlai di nuovo.
    «Be’, anche tu in effetti... Solo che ti avevo chiaramente espresso di non intrometterti nel discorso...», lo guardai con occhi fra il divertito e il furbesco. Michael mi rivolse uno sguardo preoccupato. «Però per questa volta posso lasciar scorrere. Grazie mille».
    Nessuna persona, al di fuori di Ilary, mi aveva mai difeso dopo così poco tempo da quando mi conosceva, e nessuno mai era stato con l'intenzione di attaccare qualcuno per difendermi. L'avevo percepito dallo sguardo che aveva rivolto a Gloria, e per questo mi sentivo davvero felice.
    Non appena vide il mio sorriso in volto riconoscente, mi prese la mano con dolcezza, abbassando lo sguardo. «Non potevo non dire niente... Ti ha accusato di essere una... Non devono permettersi di dire certe cose!»
    «Tu non mi conosci da molto...», dissi colta da un’improvvisa malinconia, abbassando questa volta io gli occhi sulle nostre mani unite. «E se avessero ragione? Che ne sai tu? Potrei benissimo star recitando, no?»
    Michael mi guardò con occhi intensi e grandi che mi pare perfino di affondarci dentro, fece il suo solito gesto di bagnarsi il labbro inferiore e mi strinse la mano più strettamente. «Hai ragione, magari sto sbagliando io. Forse hanno ragione... Eppure qualcosa mi dice che sei sincera, non mi menti».
    Soffocai una risata non divertita, mantenendo i miei occhi al basso. «E se cambierai idea? Come fai a dire che sono sincera? Da cosa capisci tutto questo...?». La mia voce si era fatta un sospiro, e d’improvviso sentii due dita alzarmi il mento con tocco delicato. Solo allora incrociai quei due splendidi oceani scuri.
    «I tuoi occhi... Riesco a vedere attraverso i tuoi occhi», rispose con voce dolce. I brividi passarono immediati la schiena, rendendo il tocco delle sue dita sul mio mento il tocco di un angelo. «Ora tu dai un’occhiata attraverso i miei; pensi che io non ti stia mentendo?»
    E io lo guardai. Rimasi per un tempo così vasto ed indecifrabile ad osservarlo, proprio come lui fissava me. Forse veramente stavo vivendo un sogno, ma qualcosa mi diceva che veramente lui mi credeva. Quel qualcosa era la stessa cosa di cui lui parlava: gli occhi.
    «No... Tu non stai mentendo», dissi, nonostante fossi così testarda da voler andare avanti col discorso. «Però non voglio che la gente ti metta in testa che io sono una bugiarda, Michael. Io te lo giuro: mai ti mentirei. Mai ti userei. Io... Tu sei l’unica persona che può capire come mi sento...»
    Abbassai gli occhi, cercando di trattenermi dalla commozione per quelle parole che non ero mai riuscita a dire a nessuno che riuscisse a capirmi come faceva lui. Con Michael la vera me si rendeva sempre visibile. «Ti credo, Sharon», disse lui con voce convinta, portando i miei occhi lucidi di nuovo verso il suo volto. Anche i suoi occhi riflettevano quella lucidità. «Mi fido di te...», aggiunse con voce sottile.
    Sorrisi, incapace di dire qualcosa di coerente, e lo fece anche lui. Sembrava che il tempo fosse in grado di fermarsi ogni volta che lo guardassi negli occhi, poiché pochi minuti dopo la macchina si fermò.
    Era evidente che fossimo arrivati all’aeroporto.

    ***


    Nonostante il mio stato confusionale, fui capace di arrivare alla scala d’imbarco.
    Michael per tutto il tragitto mi era stato accanto, tenendomi la mano con quasi la paura di perdermi. Sebbene gli sguardi di ognuno – agenti, guardie del corpo... - fossero concentrati sulla nostra stretta e nonostante mi sentissi emozionata all’idea di decollare, con Michael accanto tutto sembrava diventare tranquillo.
    Qualche volta sentivo i suoi sguardi curiosi su di me e ogni volta che sentiva il mio respiro farsi più agitato o il mio sguardo più teso mi stringeva maggiormente la mano, accarezzando il polso con tocco delle sue soffici dita... E io mi sentivo andare in Paradiso. Una persona così non poteva essere umana, ma bensì una creatura celeste!
    «Michael! Finalmente! Dove caspita eri finito?». Era una voce maschile. Un uomo che stava parlando con gli agenti di volo si voltò verso di noi non appena ci vide, badando più a Michael fortunatamente. «E’ da quasi un’ora che cerco di chiamarti! Siamo in ritardo!»
    Michael accennò uno sguardo di scuse. «Mi dispiace Frank, c’è stato un contrattempo per strada. L’aeroporto giapponese è stato avvisato di questo ritardo?», disse continuando a reggermi la mano.
    L’uomo che capii si chiamasse Frank – dedussi anche fosse il suo manager, a rigor di logica – e non rimase sorpreso ci fossi anch’io; evidentemente Michael gliene aveva già parlato di questa faccenda. Egli mi rivolse una fugace occhiata, esaminandomi in un batter d’occhio, per poi poggiare i suoi occhi sulle mani mie e di Michael unite. Subito ritrasse il suo sguardo.
    Qualcosa in quell'uomo non mi convinceva... Sembrava che la cosa lo lasciasse indifferente, eppure sembrava quasi infastidito dalla cosa... Non sapevo decifrare bene che cosa pensasse veramente.
    «Tranquillo, ho sistemato tutto», poi un’altra fugace occhiata su di me, dopo tutte quelle che già mi fissavano. «Ora è meglio partire, prima che si faccia l’alba». Dopodiché si diresse all’interno dell’aereo.
    Sembrasse che a Michael non gli importasse niente degli sguardi perplessi di tutti, una volta che capirono che non era solo. Anzi, più ci fissavano più stringeva la stretta, cominciando a cingermi al suo fianco. Milioni di brividi invasero il mio corpo non appena sentii la pressione della sua mano trascinarmi verso di lui.
    Muti aspettammo che anche le guardie del corpo salirono, non capendo il perché del suo gesto, in seguito con un sorriso e un cenno del capo mi invitò a salire la scala d’imbarco. Prima di entrare però mi bloccai, spostando il mio sguardo verso le luci dell’aeroporto e della città che si percepivano a distanza. Sarebbe stata l’ultima volta a Los Angeles?
    Michael mi si avvicinò cauto, accarezzando la mia mano che teneva ancora legata alla sua. Sentivo la sua presenza vicina – pregai perché non svenissi in quel preciso istante – e non sapevo realmente se stavo godendo del panorama delle luci oppure se della sua vicinanza.
    Sospirai calma, per poi voltarmi verso Michael. «Sei pronta?», mi chiese lui con espressione attenta.
    «Sì, possiamo andarcene di qui».


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    Capitolo Diciasette.


    The hurt never showed
    Punto di vista: Michael Jackson.


    PPrego», dissi a Sharon, mentre con un cenno della mia mano la invitavo ad entrare nello scompartimento privato dell’aereo. Era il mio jet personale dopotutto, e quindi godevo di un “sipario” diviso dagli altri.
    Eravamo appena saliti nell’aereo, pronti alla partenza, e se prima Sharon era calma come un angelo ora sembrava l’adrenalina in persona. Io, d’altro canto, ero teso, come ogni volta che salivo in un aereo.
    Fin da piccolo provavo un certo timore per l’aereo, soprattutto le prime volte con cui ci avevo viaggiato. Magari qualcuno fosse stato con me, a tenermi la mano, in quei momenti... Perciò avevo voluto che venisse anche lei con me. Con lei riuscivo a pensare a qualcos’altro che non fosse la paura o il timore, mi distraevo da quelle mie perplessità, perciò volevo rimanesse accanto a me.
    La vidi avanzare con passo lento dentro la cabina, spalancando i suoi occhi scintillanti e neri. Evidentemente le piaceva, e di questo ne ero entusiasta. Si guardò intorno con un sorriso meravigliato in volto, osservando con cura ogni dettaglio; nel frattempo io chiusa la porta che divideva il nostro scompartimento con quello dove si trovava il mio manager e alcuni assistenti di volo a chiacchierare.
    «Ti piace il jet?», chiesi curioso, avvicinandomi a Sharon. Lei mi fissò con occhi spalancati, poi mi rivolse un sorriso splendente. A quanto pare la risposta doveva essere di certo un “sì”.
    «Che domande! Io non... Oddio! Non sono mai stata in un aereo simile... E’ bellissimo!», rispose riguardandosi intorno. «E’ uno dei mezzi più particolari e belli in cui sia mai stata».
    «Ne sono felice», dissi con un sorriso guardando anche io l’arredamento dello scompartimento. In effetti dovevo ammettere anche io che era un luogo classico e di buon gusto. Molto più di un semplice aereo.
    Ai nostri piedi un pavimento in legno scuro dalle rifiniture oro, le pareti che circondavano le piccole finestrelle ovali erano di colore bianco panna; al posto delle poltrone dell’altro scompartimento, grazie al fatto di essere vicino alla coda dell’aereo, ci stava un lungo ed immenso divano bianco angolare e tondeggiante a tre piazze, abbastanza grande da appoggiarsi ad ogni parete.
    Oltre il divano c’erano inoltre vari arredamenti, come un lungo tappeto color panna e soffice, alcuni ripiani di legno, uno schermo alla parete divisoria con l’altra cabina, vari pannelli agli angoli di ciascuna parete ai lati che, in realtà, erano dei cassetti ben montati, e tanti altri accessori moderni e tecnici.
    «Michael...», mi chiamò improvvisamente Sharon con espressione dubbiosa. «Ma non ci sono anche gli altri dello staff con noi?». Dal mio viso nascosi un sorriso per quella domanda e risposi con naturalezza.
    «In realtà la maggior parte ha preso l’aereo comune; in questo jet ci siamo solo io, te, il mio manager e alcuni assistenti di volo e tecnici, tutti però nell’altro scompartimento più grande». Feci una breve pausa. «Ti dispiace?»
    Sharon mi fissò con occhi curiosi, poi scosse la testa accennando ad un sorriso dolce. «No, affatto. È solo che mi sembra un po’ ingiusto passare tanto tempo con te, mentre di sicuro anche altre persone vorrebbero avere questa opportunità così speciale. Penso non sarò guardata di buon occhio».
    Abbassai lo sguardo, riflettendo su ogni parola da lei emanata. «In effetti non hai tutti i torti, ma so già le cose che mi chiederebbe la maggior parte delle persone. Sono le cose che tu finora non mi hai mai chiesto. Per tutto questo tempo abbiamo avuto poche situazione per parlare rispetto alle normali aspettative, ma in quelle poche occasioni abbiamo solo parlato di tutto ciò che altri non avrebbero mai pensato di chiedermi».
    Con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni guardai Sharon con fare attento, mentre lei mi sorrise. «Forse perché sento solo il bisogno di conoscere il vero te, e non la tua immagine», continuò in modo pacato, ricambiandole il sorriso.
    Improvvisamente l’assistente di volo al microfono ci dette indicazioni di sederci; stavamo per decollare. Mi sedetti con Sharon in un angolo del divano, mentre nel frattempo lei si sporgeva con una bambina a guardare con occhi lucenti il panorama al di fuori di quella piccola finestra tondeggiante.
    Mi piaceva osservarla. Ne rimanevo completamente preso e riflettevo su ogni suo gesto, su ogni suo pensiero specchio delle sue espressioni limpide come l’acqua cristallina. Osservavo come i suoi occhi studiassero ogni cosa – facendomi capire che fosse un’esperta osservatrice – e come il suo sguardo si trasformasse per ogni minimo cosa che attirasse la sua attenzione. Era una cosa affascinante.
    «Sei mai salita su un aereo?», chiesi con fare sinceramente interrogativo, curioso di sapere più cose che la riguardassero a proposito di esperienze di volo. Lei mi fissò, poi assunse uno sguardo di riflessione.
    «In realtà sì, ma poche volte... E quelle poche non in uno di aerei come questi! Mi ha sempre affascinato viaggiare su questo tipo di mezzo; ogni volta mi emoziono». Sentire la sua voce mi faceva sentire più rilassato, poiché per me quel mezzo provocava più tensione che altro. «A te piace?»
    Sharon mi osservava interessata, in attesa una mia risposta che ovviamente non tardò ad arrivare. «Non molto in realtà. Da piccolo soprattutto ne avevo un po’ il timore, avevo paura precipitasse», dissi ridacchiando imbarazzato. «Però la tua compagnia mi solleva molto l’umore. Mi fai sentire tranquillo».
    Lei mi sorrise con suo fare delicato e luminoso, tornando a sedersi in postura corretta nel divano di stoffa bianca non appena l’aereo cominciò a muoversi, in direzione della pista. «Ti sembrerà strano, ma tutti mi dicono – e mi dicevano – che metto tutt’altro che tranquillità alle persone che mi stanno accanto... E, se devo essere sincera, in parte hanno anche ragione», aggiunse sogghignando.
    «Vuol dire che non sei così tranquilla e pacifica come fai sembrare di essere?», chiesi stuzzicandola con le parole, nascondendo un sorriso furbo. Lei mi guardò ad occhi aperti, alzando a malapena un sopracciglio.
    «Stai scherzando? Sono tutt’altro che calma e pacata di quanto sembri! O be’, non sono così vivace, a volte un po’ pazza, questo è vero, e anche abbastanza lunatica... Però molti – soprattutto le persone con cui andavo “a genio” – si rendevano conto dopo un po' di tempo con che tipo di persona avevano a che fare».
    Feci spiccare un mezzo sorriso dalle labbra, ma il mio stato d’animo venne successivamente coinvolto da un’espressione irrigidita non appena l’aereo cominciò a velocizzare il suo andamento. Fissavo conservando il respiro uno dei finestrini alla parete opposta a noi, fin quando una calda e soffice stretta mi avvolse la mano, portando il mio sguardo prima sulle mani congiunte, poi dritto negli occhi di Sharon.
    La vidi sorridere in modo rassicurante, mentre i brividi si facevano sentire a quel contatto. «Anche io al mio primo volo in aereo ero piuttosto giovane, senza nessuno che mi aiutasse a cacciar via la paura. Immaginavo che accanto a me la mia mamma mi tenesse la mano, e così cacciai il timore...», dissi con voce sottile e imbarazzata.
    Le sue parole echeggiarono nella mia mente spaesata e confusa, rendendo appannato e allo stesso tempo rassicurato ogni pensiero che riuscivo a formulare correttamente, nonostante i lunghi petulanti brividi che invadevano la mia nuca e schiena. La sua voce calda e il suo sguardo intenso rendevano tutto più difficile; mi sentivo stordito, neanche avessi ingerito una sostanza assai più forte di semplice droga.
    Quando l’aereo cominciò ad alzarsi da terra ed in contemporanea gli occhi di Sharon si spostarono fuori dalla finestrella ovale, nel buio della notte, le strinsi la mano in una morsa più energica. Di nuovo il suo sguardo si spostò verso i miei occhi, ricambiando di rimando la presa.
    Era bello sapere di avere qualcuno vicino che capiva i tuoi bisogni, una persona che mi stava accanto con gesti che pochi e nessuno mi avevano mai rivolto. La sua presenza mi sollevava il cuore, percepivo una sensazione che non avevo mai provato così fortemente prima di allora.
    Anche quando l’aereo si stabilì in aria in modo perfettamente orizzontale, non volli comunque mollare la mano di Sharon, pure se non ne avessi oramai più bisogno. Volevo sentire il suo calore legato a me.
    «Grazie Sharon», le sussurrai con dolcezza. «Mi sei stata vicino in questo momento come nessun altro lo è stato prima di te. Nessuno ha capito veramente la mia paura e il mio bisogno di aiuto...»
    Lei sorrise, il suo colore di pelle mulatto divenne più scarlatto sulle guance. «Non devi ringraziarmi. Tu meritavi questo appoggio, forse più di ogni altra persona che io abbia mai incontrato nella mia vita».
    E dopo queste parole, lasciai finalmente vagare il cuore libero e leggero nel cielo blu scuro di quella notte stellata, in quel giorno caldo di settembre.

    «Che vorresti vedere?», le chiesi non appena si avvicinò allo sportello dei film e cassette da scegliere da vedere. Nessuno dei due aveva intenzione di dormire, e di sicuro non penso ci sarei comunque riuscito.
    Avevamo organizzato in pochi minuti tutto; il divano lo avevamo trasformato in un perfetto divano letto, da alcuni sportelli nascosti avevamo trovato varie cose – dolciumi, patatine, bibite... – con cui soddisfarci durante la visione del film che avremmo scelto. Inutile dire che ci stavamo divertendo come due bambini piccoli solo in quei piccoli gesti, cose che per gli altri sarebbero significate cose assurde.
    «Mmh...», rifletté inclinando lieve il capo a sinistra, incurvando le labbra in una smorfia da bambina indecisa. «Non saprei... Il dubbio è se film o cartone, la scelta è vastissima», ammise ridacchiando.
    «Tu preferisci guardare un cartone o un film?», chiesi guardandola in volto, esaminando per un secondo quel solito ricciolo ribelle sulla sua fronte delicata. Sharon socchiuse gli occhi in un’espressione accigliata, mordendosi lieve il labbro inferiore.
    «Ammetto che io amo molto più i cartoni del mio amato Walt Disney, rispetto a tutti gli altri film esistenti al mondo... Perciò la mia scelta ricadrebbe, detta con sincerità, sulla Disney. Te che preferisci?»
    «Concordo», ammisi spalancando le mie labbra in un sorriso divertito. Era strano come potesse anche in un momento come quello pensare a quello che stessi pensando anche io. «Ora però decidiamo quale dei tanti...», sbiascicai improvvisamente perplesso. Era una scelta difficile anche per me.
    Un sorriso spuntò nel volto di Sharon, illuminandola. «Il tuo cartone preferito se non sbaglio è “Peter Pan”, vero? Se non ricordo male...», chiese ricordandosi le parole dette durante la serata passata a cenare da lei, la stessa quando suo padre era tornato come un’ombra improvvisa nella sua vita...
    «Sì, esatto. Anche a te piace molto vero?». Fortunatamente neanche la mia memoria m’ingannava, siccome ricordavo perfettamente quando mi aveva detto che i suoi cartoni preferiti erano “Peter Pan” e “La Bella Addormentata Nel Bosco”.
    Lei annuì e subito intuii la sua idea; presi la cassetta dal ripiano, entrambi con un enorme sorriso in volto sulle nostre facce, e mentre lei si sedeva comodamente nel divano letto, io mi propensi ad inserire la cassetta nel video registratore. Dopodiché la raggiunsi a passo spedito e la musica iniziale del cartone echeggiò nella stanza.
    Per tutta la durata del film entrambi seguimmo ogni pellicola con occhi fissi sullo schermo, distesi a pancia in giù, mangiando e bevendo, ridendo alle battute che recitavamo insieme in alcune scene del cartone. A volte ci tiravamo perfino pop-corn l’uno all’altro, come vere battaglie da guerra di cibo.
    Mi sentivo a mio agio. Con Sharon potevo far uscire la mia parte bambinesca e innocente, poiché anche lei ne possedeva una. Non era come gli altri adulti. Non come quelli che almeno io avevo conosciuto finora.
    Ridemmo alle scene divertenti – soprattutto in quelle dove c’era Capitan Uncino -, ci commuovemmo entrambi – in particolar modo nella scena dove Wendy cantava la canzone della mamma... Ci eravamo calati perfettamente all’interno del film, condividendo i nostri propri commenti su qualche scena particolare.
    «La fine mi ha sempre reso triste...», sbiascicò sottovoce Sharon non appena raggiungemmo la scena dei titoli finali. Si tirò su dalla posizione distesa, rannicchiando le sue ginocchia al petto.
    Con espressione confusa, chiesi; «Perché?». Lei mi guardò schioccandomi un’occhiata dolce e rattristata, con un mezzo sorriso a incorniciarle quel suo volto assonnato e scompigliato.
    «Perché alla fine Wendy torna a casa, non sta con Peter. Ho sempre desiderato che stessero insieme, ma era destino che un giorno si dovessero separare...», si bloccò un attimo, poi riprese con un sospiro. «Alla fine Tinkerbell è stata l’unica a star sempre vicino a Peter dopotutto».
    Rimasi positivamente sorpreso da quella sua teoria, la stessa che più di qualche volte aveva invaso la mia stessa mente. Mi tirai su anche io dalla posizione distesa, incrociando le gambe a farfalla, spostando lo sguardo dal suo volto al video schermo.
    «Hai ragione, ma conta che Tinkerbell è una fatina, non una bambina. Peter pensava a lei come la sua più grande amica, la sua spalla, mentre Wendy... E’ diverso», dissi sentendo il suo sguardo interessato e serio su di me. Lei annuì, voltando i suoi occhi alla ginocchia che teneva vicino al petto, ma capivo che non ne era molto convinta.
    «Non tutte le storie che s’ispirano a “Peter Pan” sono identiche all’originale. In un altro caso forse Wendy sarebbe rimasto con lui, o il contrario», continuai, sapendo che con quelle parole facevo puro riferimento a me stesso, alla mia storia. «M’immedesimo molto in lui. Dentro me sento di essere come Peter Pan per certi versi, ma non vuol dire che quando troverò la mia Wendy la lascerò andare via facilmente».
    Sharon mi sorrise, spalancando le sue labbra in un’espressione di magnifica purezza. Non sapevo come avevo avuto il coraggio di dire quelle parole proprio a lei, e nemmeno sapevo perché stavo cominciando a sentire calore dentro di me, ma di una cosa ero certo: se ci fosse stata una Wendy che avrei desiderato avere accanto, lei lo sarebbe potuta essere.
    Premetti “Stop” sul telecomando, bloccando la visione dei titoli di coda, per poi una volta rimandarla indietro del tutto e metterla nell’apposita custodia. «Ti va di vedere un altro cartone? Che ne so, magari “La Bella Addormentata Nel Bosco”...?», chiesi accennando un sorriso furbesco.
    Gli occhi di Sharon s’illuminarono non appena pronunciai il nome del film, accennando un forte assenso col capo come una bambina emozionata. Con un enorme sorriso sul mio volto estrassi la cassetta dal ripiano e la posi dentro il video registratore. Pochi minuti dopo ci ritrovammo a guardare irremovibili il video, continuando a scherzare e a recitare a memoria battuta per battuta.
    Alla fine del film i miei occhi passarono curiosi su Sharon, la quale scoprii che si era appena assopita. Se ne stava a pancia in giù, con la guancia sinistra appoggiata ad un cuscino, capo rivolto verso di me. Il suo sguardo era angelico, rilassato come mai avevo visto sullo sguardo di altri. La mia bella addormentata...
    La coprii con una coperta e chiusi le luci. Fu una delle serate migliori che passai nella mia vita.

    ***


    «Michael, un dieci minuti e ci siamo. Sveglia», sentii dire una voce lieve e maschile – riconobbi poco dopo che fosse Frank – che mi dava il benvenuto ad un nuovo giorno.
    Aprii lentamente gli occhi, sbattendoli, cercando di risvegliare me stesso dal torpore del sonno. Mi ci volle qualche lungo minuto prima di definirmi veramente sveglio. Mi alzai dal divano letto, badando con cura a non scuotere d’improvviso Sharon. Poco dopo incrociai gli occhi vigili di Frank fissarmi.
    «Siamo quasi arrivati bell’addormentato. Sarà meglio che vi prepariate, tu e la ragazza... Anzi, sarebbe meglio la svegliassi, prima», disse avviandosi veloce verso la porta che portava all’altro scompartimento.
    Poggiai il mio sguardo su Sharon, il cui volto era coperto in parte da piccoli boccoli scuri, la quale non sembrava benché non avesse il minimo accenno a svegliarsi. Mi dispiaceva sapere di doverla destare dal sonno... Era così serena. Una visione delicata, tanto graziosa da farmi avvampare un po’ le guancie.
    Con gesto istintivo le sistemai i riccioli scoprendole il viso con una lieve carezza e toccando quella pelle morbida. La coperta le arrivava a coprire solo le gambe, tanto che mi preoccupai se avesse patito del freddo durante la notte. Possedeva lineamenti marcati, curve visibili che sembravano disegnate col pennello, tanto bastava da renderla bellissima e ancora più unica.
    Mi sentii arrossire, cercai di controllare alcuni pensieri nel frattempo che mi avvicinai per svegliarla. Con un sorriso, la svegliai intonando una strofa de “La Bella Addormentata Nel Bosco”. «So chi sei, vicino al mio cuor ogni or sei tu. So chi sei, di tutti i miei sogni dolce oggetto sei tu... Buongiorno, sleeping beauty»
    Vidi un sorriso dolce cominciare a farsi avanti in quel suo viso addormentato, emanando un sospiro e distendendo i muscoli delle gambe, sbattendo un paio di volte gli occhi prima di aprirli definitivamente.
    «Mmh... E’ il più bel buongiorno che abbia mai ricevuto in tutta la mia vita, sai Michael?», disse trattenendo entrambi una risata imbarazzata e allo stesso tempo divertita.
    Sorrisi. «Ne sono felice. Frank mi ha appena avvisato che fra un paio di minuti arriveremo...», ma non feci tempo a finire la frase che una scossa fece vibrare lievemente l’aereo. «Anzi, siamo arrivati», mi corressi.
    Pochi minuti dopo fummo pronti per scendere. L’ansia dei giornalisti al mio arrivo già mi rendeva più agitato di prima, sciogliendo quel clima di pace che avevo provato tutta la notte.
    Prima tappa... Giappone.
     
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    Capitolo Diciotto.


    Feel strange meetings
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Non appena fuori dall’aereo una scarica di aria fresca m’invase i polmoni, rendendo lucido in modo definitivo ogni mia molecola del mio corpo e pensiero vacuo che alleggiava nella mente.
    Il Giappone. La prima tappa. Il primo posto dove mi sarei mostrata al mondo come ballerina, e non una semplice danzatrice ma bensì una del cast di Michael. Sentii una lieve scossa percuotermi dentro, adrenalina pura, e speravo con tutto il cuore che tutto sarebbe andato per il verso giusto, almeno per una volta nella mia vita.
    «Andiamo», mi disse con gentilezza innata Michael, sfiorandomi la mano che tenevo distesa lungo al fianco. Quando sentii il suo tocco leggero fu come risvegliarmi da un sogno ad occhi aperti, ma il risveglio fu piacevolmente accettato, di nuovo. Il mio angelo...
    Non avevo mai conosciuto persona più dolce. Non avevo mai ricevuto un risveglio così delicato come quello che avevo ricevuto quella mattina. E la serata che avevo passato con lui... Stare con lui era come stare con un’altra parte di me stessa; una parte che riusciva ad essere adulta e anche bambinesca allo stesso tempo.
    Lo seguii scendendo la scala d’imbarco, pochi passi dietro di lui, zitta e muta nel frattempo che il suo manager lo informava su quello che intanto stava avvenendo all’aeroporto. «Ci sono circa 600 giornalisti ad aspettare il tuo arrivo, Mike, per non contare la miriade di massa che ti aspetta implorante...»
    Vidi Michael, nonostante gli occhiali da sole, accigliarsi meravigliato, mentre mi stava accanto a pochi centimetri di distanza. «Addirittura seicento?»
    Seicento?!, fece eco la mia mente sconvolta. Oddio... Non ero psicologicamente pronta per sentire gli scatti di seicento fotografi addosso, anche se dentro di me qualcosa diceva che avrei fatto tutt’altra strada per passare più inosservata possibile, io...
    «Sì, Michael», continuò imperterrito il manager, lanciandomi un’occhiata veloce. «Per non contare i fan. Tutti stanno aspettando il tuo arrivo da due ore abbondanti ormai...».
    Quello che disse poi il signor Di Leo divenne nebbia; troppo impegnata a domandarmi che fine avrei fatto io - dove sarei andata, con chi sarei stata portata nell’hotel e la paura perché qualcosa andasse storto non solo per me, ma anche per Michael -, lasciai scorrere le innumerevoli parole degli estranei a me vicini come una piccola brezza di passaggio.
    Guardavo i miei passi, non distogliendo lo sguardo da terra, e neanche mi accorsi di essere arrivata all’interno dell’aeroporto. Un paio di persone si raggruppò attorno a Michael e, involontariamente, anche a me che gli ero a fianco. Cominciavo a sentirmi come un pesce fuor d’acqua, troppo inesperta per sapere che stava succedendo, troppo confusa per pensare a qualcosa che non mi asfissiasse ulteriormente.
    Strinsi le labbra con gesto ferreo, svoltando il mio sguardo via da tutti gli uomini in giacca e cravatta, soprattutto da quelli che mi osservavano incuriositi.
    Michael stava ascoltando attentamente le parole di un uomo scuro di pelle, abbastanza robusto, e decisi per privacy di farmi indietro. Quelli non erano affari miei e di certo non sarei stata così maleducata da star lì ad ascoltare come una pettegola.
    Perciò, con un deciso passo indietro, mi allontanai da Michael e dal gruppo di uomini tutti intorno a lui. Mi lasciai accantonare in un angolo, incrociai le braccia al petto e guardai alla mia sinistra, verso uno dei tanti corridoi deserti dell’aeroporto. Osservai con attenzione la scrittura giapponese che non riuscivo comunque a capire, nei cartelloni appesi tutt’intorno, con l’obiettivo di distrarre la mia ansia.
    Non decisi d’allontanarmi di più, per paura che non si sarebbero accorti della mia assenza. D’altra parte gli unici sguardi ricevuti erano stati solo di una sporadica curiosità, che immediatamente era svanita negl’occhi di tutti. Mi sentivo sollevata per questo, non essere negli sguardi mirati di giudicatori profani.
    Improvvisamente sentii prendermi la mano con fare tenue. «Tutto bene?», mi disse Michael scrutandomi attraverso le lenti degli occhiali da sole. Aveva una voce talmente soave da riuscire a farmi girare la testa.
    «Sì. Sì...», dissi dopo un momento di smarrimento. Guardai per un attimo di secondo il pavimento, poi di nuovo lui, cercando di controllare il batticuore non solo per la situazione, ma anche per lui. Michael non sembrò comunque convinto della mia risposta.
    Mi sembrava troppo vicino, con quel suo viso perfetto a soli pochi – e dico davvero pochi! – centimetri dal mio volto. Mi mancava l’aria, non sapevo come sarei riuscita a sopravvivere a lungo. Mi faceva sentire un’anima in subbuglio, con la mente completamente nel pallone. Dio quanto era bello... Affascinante... Con quello sguardo intenso e... Oddio... Sarei morta... Era da infarto puro!
    «Ne sei sicura?», disse fregandosene di tutti gli sguardi curiosi e indiscreti che ci osservavano. Mi sentii lievemente imbarazzata, ma comunque non troppo timida dal rifiutarmi di rispondere.
    «Forse sono solo un po’ stanca...», enunciai guardando alcuni che ancora mi osservavano. Michael notò il mio sguardo e si voltò lieve verso loro, i quali subito svoltarono gli occhi da tutt’altra parte.
    Rimasi sbigottita, non aspettandomi veramente che con solo un’occhiata Michael riuscisse a farli voltare tutti. Non sembrava sul serio potesse diventare così autoritario anche solo con un gesto così piccolo, visto il suo carattere così dolce e apprensivo che aveva dimostrato con me.
    Tornò ad osservarmi, accennando ad uno sguardo eloquente di scuse. «Ora ci dirigeremo all’hotel», disse lui. «Mi dispiace solo di doverti far passare un momentaccio, con tutta quella stampa...»
    Rimasi al momento sbigottita – non pensavo mi sarei fatta vedere davanti a ben seicento reporter, visto le cose che potevano scrivere i giornalisti– ma successivamente cominciai a sentire un tenue calore invadermi l’anima. Non mi aveva lasciato nelle mani di ignoti, e questo mi sembrava un gesto amabile.
    «Grazie», dissi subito prima che di nuovo il suo manager c’interrompesse. Michael mi guardò confuso, ma poco dopo – quando capii avesse intuito a cosa fosse riferito il mio grazie – accennò ad un mezzo sorriso.
    Con passo veloce ci dirigemmo verso un lungo corridoio, seguiti da gli stessi uomini di prima, e attraversato un angolo mi trovai di fronte una immensa vetrata che dava all’aperto. Giornalisti in attesa con le loro scure macchine fotografiche e fan urlanti pronti a farmi passare un momento di blocco respiratorio immenso.
    Quando capii che saremmo dovuti passare per quell’uscita - fortunatamente resa più sicura ed accessibile da alcuni agenti di polizia e sbarre varie – mi sentii avvampare; non per il fatto di sentirmi imbarazzata, il fatto era perché circa un migliaio di persone avrebbero visto me con Michael. E se ne avrebbe risentito sulla sua immagine da star?
    Un bodyguard mi porse i suoi occhiali da sole, notando il mio stato di nervosismo, con un lieve sorriso. Non sapevo se c’erano secondi fini a quel gesto, però restituii il sorriso con molta gentilezza, ringraziando. Perciò, un po’ impacciata, me li misi su sentendomi come più protetta.
    Mantenni in ogni caso il mio sguardo verso il pavimento, non volente ad osservare tutta quella gente con un’aria da stordita. Per sembrare nonostante tutto una persona che non aveva paura, mantenni uno sguardo adeguato alla situazione, senza lasciar trasparire particolari emozioni... O almeno speravo.
    Sentii d’improvviso una mano stringere la mia, incrociando le nostre dita in una stretta ferrea. Con uno scatto mi voltai, e con mio stupore mi resi conto che era lui che me la stava stringendo. Rimasi come una scema ad osservarlo, aspettando che contraccambiasse in poco meno di due secondi, ma rimase a guardare un punto dell’uscita. Notai che nelle sue guance cominciava a farsi vedere un colore scarlatto.
    Mi sentii arrossire, per non dire che i sudori cominciavano a farsi avanti incalzanti sulla mia schiena... Cercai di controllare il tenue rossore sulle mie guance caffèlatte.
    E alla fine, come se quel momento fosse durato invece che pochi secondi ma bensì un’ora, riuscii a raggiungere una delle quattro macchine nere sana e salva; non appena lasciato l’edificio si erano levati in aria urli e schiamazzi, sottolineati da continui flash di tutte le fotocamere presenti, e guardai appena quelle facce che, pochi minuti dopo, s’assentarono dalla mia memoria.
    Era stato un attimo veloce e confusionario, e mi stupii dei sorrisi che Michael dava loro senza il minimo senso di paura per quella folla, a volte salutandoli con un cenno della mano.
    Mi sedetti nell’auto con lui e due guardie del corpo che si sedettero nei sedili di fronte a noi.
    Nessuno dei due emanò una parola fin quando non arrivammo alla meta, e solo all’arrivo mi accorsi delle nostre mani ancora legate.

    ***


    «Benvenuto a Lei, Signor Jackson, all’hotel», disse un uomo di mezza età, giapponese, vestito in smoking, non appena Michael, io e il resto dello staff ci presentammo all’interno dell’edificio, nel frattempo che i fattorini si predisponevano a portare i bagagli alla reception.
    Con sguardo curioso osservavo con aria trasognata ogni particolare del palazzo, dalle splendide mobilie ai rustici tappeti, dai candelabri in oro ai lampadari lucenti e sfavillanti; sembrava di trovarsi in una casa reale, con tutta quell’eleganza tutt’intorno. Di sicuro non era per niente un hotel a 5 stelle.
    Michael accennò ad un grazie con un lieve movimento del capo, con sempre la sua strabiliante gentilezza, e nonostante fossimo al chiuso indossava ancora i suoi occhiali da sole, con mio gran stupore. Guardò interessato la mia espressione e, quando m’accorsi mi stesse esaminando, ricambiai l’occhiata con un sorriso sbalordito da tutto quel lusso a noi circostante. A quel punto, sorrise anch’egli.
    «Il servizio è a disposizione vostra e del vostro staff 24 ore su 24, per qualsiasi problema abbiate bisogno. Può star certo che non verrete disturbato da nessuno durante la vostra permanenza qui, sia durante il giorno e sia la notte. Potrete disporre privatamente di una piscina al coperto, palestra e luogo di ristoro riservato, per voi e per le persone a voi vicine», continuò l’uomo.
    «E’ molto gentile, grazie di cuore», rispose Michael con un sorriso. «L’assegnazione delle camere è già stata compiuta?», chiese mostrando la stessa tonalità di voce.
    «Certamente, la reception aspetta solo una vostra firma e poi tutte le valigie verranno portate nell’apposita suite dove alloggerete. La signorina Hanari, al banco, v’indicherà poi tutte le funzioni delle vostre stanze e delle locazioni dei vari settori dell’hotel».
    Parola per parola che veniva enunciata il mio senso di sbigottimento si faceva più grande; avrei alloggiato in una suite. Io?! Non potevo credere a tutta la fortuna che mi stava venendo incontro, e per un attimo temetti che gli effetti del colpo in testa che mi aveva portato all’ospedale fosse la causa di visioni.
    Proseguii meccanicamente, tenendo ancora la mano di Michael legata alla mia, fino alla reception, del tutto assente da quella realtà imminente. Michael firmò una serie di carte e la donna di cui aveva parlato prima l’uomo ci spiegò ogni dettaglio delle nostre stanze, ma non ci avviamo verso di esse.
    «Sarà meglio che andiate a fare colazione, soprattutto tu Michael. Ricordati gli impegni per dopo...», annunciò con tono neutro il suo manager Frank Di Leo. Un punto interrogativo si deformò nel mio volto perplesso, e dopo un cenno d’assenso di Michael con la testa io e lui ci avviammo verso la sala ristoro.
    «Hai già un appuntamento di lavoro?», dissi osservandolo con sguardo serio e rammaricato. Proprio non poteva neanche lui avere i suoi attimi di pausa? Doveva già mettersi all’opera con impegni vari?
    «Purtroppo sì...», rispose sottovoce, tirandosi via gli occhiali dal volto e incastrandoli attraverso la sua camicia azzurrina, facendo sì che rimanessero impigliati senza cadere. «Non ti dispiace se nel frattempo io ti lascio con i ballerini del tour, vero? Per provare le coreografie?», mi chiese con timore.
    «Incontreremo i ballerini?», chiesi con un certo tono vivace nella mia voce. Ero curiosa di sapere con chi avrei ballato, e soprattutto di conoscerli. Magari avrei instaurato dei bei rapporti anche con loro.
    «Certo, proprio adesso. Ho detto a Frank di chieder loro se potevano prendersi cura di te, insegnandoti i passi di alcune coreografie, quando io non ci sono e non posso insegnarvi. Così potrai portarti in avanti».
    «E’ una gran idea! Almeno così eviterò di fare alcune delle mie solite figure alla prima del tour...», dissi ridendo imbarazzata e nervosa. Già pensare alla mia prima vera volta sul palco cominciava a farmi sudare.
    «Non farai figuracce, sei meravigliosa», mi disse lui. Sentii stringere di più la mia mano, e in automatico il mio cuore smettere di battere. Quasi subito arrossii, cercando di controllare il respiro frenetico, ma sorrisi divertita. Lui ricambiò il sorriso con uno dei migliori che avessi mai visto.
    Arrivammo nella sala più veloci del previsto, nel frattempo che lui mi elencava le canzoni che avremo ballato in questa prima sessione del Bad World Tour. Una volta entrati il mio sguardo si avviò immediato verso un gruppo di persone presi a conversare tutti assieme. D’improvviso s’accorsero del nostro arrivo.
    «Ragazzi, vi presento Sharon Villa. Anche lei farà parte di questo tour come voi», mi presentò Michael rivolto a tutti, per poi lanciarmi uno sguardo sorridente. Io sorrisi di rimando, cordiale.
    «Sarà un piacere per me collaborare con voi», dissi aprendo maggiormente le mie labbra in un sorriso più esplicito. Loro mi sorrisero, alcuni con più enfasi di altri, e detti la mano ad ognuno di loro, fino a quando non incrociai lei.
    Vanessa Russell. Vanessa.
    Una fiamma divampò nel mio cuore, intenzionata a ferirmi nel profondo.
    Quindi c’era anche lei. Perché c’era anche lei? Perché Michael non me lo aveva detto?
    Dentro di me qualcosa ruggì – un mostro rinchiuso da parecchi anni nelle segrete della mia anima -, una voce perfida e sibilante, mentre sentivo il mio cuore farsi tormentato ogni più secondo rimanevo ad osservarla. Era una sensazione orribile, però non potevo fare a meno di provarla.
    Lei mi lanciò un’espressione serena e falsamente felice, poiché capivo dall’espressione vacua dei suoi occhi che era rimasta scioccata quanto me; restituii lo sguardo, come il riflesso di uno specchio, e lasciai la mia mente vagare in quelle emozioni di rabbia e confusione.
    Nonostante il silenzio sottile carico di nervosismo che fluttuava nella mia mente, riuscii ad ascoltare le presentazioni, sebbene con difficoltà.
    Michael mi presentò ogni persona una per una, spiegandomi anche i loro propri ruoli all’interno del tour. Ascoltai ogni spiegazione, intenzionata a distrarmi da quella ragazza dagli occhi blu che mi fissava.
    Da come parlavano e si atteggiavano sembravano essere tutti abbastanza spigliati, ma quello che più aveva attirato la mia attenzione era stato ad un primo impatto il ballerino di nome Eddie Garcia; aveva un bel sorriso, ed in più con me si era atteggiato da persona molto gentile, con uno sguardo più buono.
    «Posso?», mi chiese indicando un posto al tavolo circolare dove stavamo per sederci proprio accanto a me. Io risposi con un sorriso sincero e cordiale, con un accenno del capo. Mi sorrise di rimando. Mi sedetti nel posto fra lui e Michael, non potendo di certo non notare che Vanessa casualmente si era sistemata proprio nell’altro posto accanto a lui.
    Togli quel tuo sguardo da diavolo assetato di piacere da Michael, vipera!
    Voltai il capo, non volevo restare con lo sguardo su di lei, prima che una crisi di nervi mi avrebbe portato a chiederle perché cavolo lei fosse là. L’avrei uccisa!
    Tutti parlavano fra loro, spesso a gruppetti, e mi ritrovai ad ascoltare più che altro le conversazioni che si stavano effettuando; Michael parlava tranquillo con il direttore vocale, Greg Phillinganes, e più di una volta incrociai gli sguardi inquisitori di Vanessa. Mi fissava con lieve ostilità nei suoi occhi, ma dava la tranquilla impressione di essere semplicemente curiosa. Ricambiai con uno sguardo glaciale e neutro.
    «Quindi tu sarai la ragazza protagonista nel video “The Way You Make Me Feel”?», mi chiese il ragazzo di nome Eddie, attirando subito la mia attenzione. Lo guardai ad occhi spalancati, ma risposi subito con un sorriso naturale.
    «Sì, sono io. Gentilmente Michael mi ha proposto anche di far parte di questo tour, e ho pensato sarebbe stata una buona occasione per me», risposi con pacatezza. Lui mi lanciò un sorriso sincero.
    «Non vedo l’ora di vederti all’opera allora. Saremo una squadra tutti quanti insieme», rispose. «E per qualsiasi problema sappi che potrai chiedermi quel che vorrai, sperando di aiutarti al meglio».
    Sorrisi. «Sei davvero molto gentile, grazie di cuore».
    «E di che! Mi sembra una cosa importante aiutare una persona che ha bisogno, anche se non sempre tutti sarebbero pronti a ricambiare questo favore dopo un tuo bel gesto. In ogni modo, su di me puoi contare».
    D’improvviso sentii la voce di Vanessa rivolgersi a Michael, con quella immancabile tonalità smielata e crudele allo stesso tempo, portando in automatico i miei occhi su di loro. Proprio in quell’attimo, mi lanciò uno sguardo pungente. Che razza di strega! E Michael non sembrava accorgersi della mia esistenza! Parlava come se niente fosse senza curarsi dei miei sentimenti. Lui era il mio Michael!
    Ero così... Così gelosa! E non sapevo spiegare neanche a me stessa il perché. Era più forte di ogni istinto che risiedeva nella mia anima, sapeva bene come distruggere ogni forma di lucidità. Gli occhi di Vanessa osservavano Michael con adorazione, lui le rispondeva in maniera pacata... Tutto riportava alle emozioni provate la sera quando l’avevo incontrata per la prima volta, forse addirittura più possenti.
    Un sentimento di vendetta e rancore mi portò a reagire; mi voltai verso Eddie e ricominciai a parlare con lui. Mi venne da ridere quando, una volta deviata verso di lui, prima di enunciare parola, lo vidi farmi l’occhiolino indicandomi successivamente con gli occhi Vanessa e Michael.
    Incominciammo così a parlare del più e del meno, quasi fossimo amici da tanto tempo che non vedono l’ora di raccontarsi le cose passate; sentivo sguardi sbalorditi su me ed Eddie – eravamo complici dello stesso fatto - e mi chiesi allora se anche Michael si fosse fermato ad osservarmi. Stava il fatto che non sentii più l’atroce voce di Vanessa risuonare nell’aria... Forse non sapevano con chi avevano a che fare...
    «Volete ordinate?», chiese d’improvviso un cameriere, interrompendo la nostra conversazione. Con la coda degli occhi percepii lo sguardo di Michael su di me, ma non seppi definire bene il suo stato emotivo.
    Sapevo solo che quel ragazzo, Eddie, sarebbe stato una delle persone con cui sarei andata più d’accordo.


    _______________________________________




    Capitolo Diciannove.


    Sweet guilty pleasure
    Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.


    Un caffè macchiato e una brioche alla marmellata per me», sentii dire allegramente da Randy Allaire, uno dei ballerini del mio tour, al cameriere che era venuto al nostro tavolo per le ordinazioni.
    Mi sentivo confuso, agitato da morire, ed il perché erano le due persone alla mia destra sedute al tavolo circolare. Le voci briose di Sharon ed Eddie che aleggiavano nell’aria circostante mi facevano sentire un senso d’angoscia. Sharon si era completamente calata in sintonia con Eddie, e un senso di paura dentro mi faceva temere parlasse più volentieri con lui che con me.
    Perché stava facendo questo? Perché non rivolgeva il suo sorriso a me? Quanto avrei voluto bloccare quella conversazione, poter parlare solo io con Sharon e soltanto io! Che stava facendo? Lo faceva apposta?
    «Due, una brioche alla marmellata anche per me», disse Sharon bloccando d’improvviso ogni mio pensiero con un sorriso felice che risplendeva in quei occhi neri da cerbiatta.
    «Tre», dicemmo in contemporanea io ed Eddie. Gli lanciai un’occhiata penetrante. Rimanemmo per pochi secondi a fissarci negli occhi, io e lui, sotto lo sguardo curioso di tutti. Sharon mi fissava allibita.
    Era una sfida quella che lui mi stava lanciando con la sua occhiata ridente?
    «Quattro», corresse prima che io potessi dire altro, mantenendo quella maledetta espressione soddisfatta. Solo perché Sharon parlasse con lui non doveva emozionarsi così presto...
    «Cinque», disse poi Vanessa, ammiccandomi un’occhiata svelta. Ma io non la stavo guardando. Il mio sguardo passò veloce da Eddie a Sharon, la quale rimase a guardarmi con occhio serio, per poi svoltare.
    Quanto mi sentii morire in quel momento... Una lama che tentava di perforarmi.
    Feci quella colazione nella più totale agonia sentimentale che mai avessi provato da parecchi anni. Sharon continuava a parlare con Eddie, nonostante stesse facendo conoscenza anche con Jennifer Batten e Don Boyette. Io parlavo, cercavo di distrarmi, ma ero assente; speravo che Sharon mi rivolgesse il suo sguardo, mi parlasse.
    Una volta finita la colazione, con rammarico, mi prestai a salutare tutti quanti, compresa lei. Sentivo il mio cuore nel panico più totale, nella paura, e un istante prima di andarmene incontrai i suoi occhi; mi fissavano con tristezza ma allo stesso tempo con amarezza. Erano due emozioni ben contrastanti.
    «E mi raccomando», dissi rivolto ai ballerini, continuando a fissare irremovibile Sharon – la quale faceva lo stesso – mentre gli altri della troupe parlavano fra loro, dirigendosi verso l’uscita dalla sala ristoro. «Affido a voi il compito di aiutare Sharon con le varie coreografie».
    I quattro ballerini maschi annuirono e Vanessa – che assieme a Sharon avrebbe fatto parte, con mio dispiacere e improvvisa scoperta, del corpo di ballo – svolse gli occhi alla sua destra. A quanto pare non sembrava entusiasta che l’altra avrebbe partecipato.
    Con un’ultima occhiata intravidi Sharon, stavolta con sguardo abbassato alla sua sinistra, con mezzo sopracciglio alzato e mordendosi il labbro inferiore. Potevo percepire a miglia di distanza la sua tensione e non sapeva minimamente quanto avrei voluto starle accanto. Dio quanto volevo starle vicino!
    Fu così che me ne andai, a passo lento, verso uno dei miei primi appuntamenti di lavoro lì in Giappone.

    ***


    «Sei sensazionale! Non solo impari in fretta, ma hai dei movimenti tutti tuoi!», disse Eddie a Sharon, i quali si erano ritrovati dopo tutta la mattinata di prove e un pomeriggio pieno e continuo da soli nella palestra. Tutti gli altri se n’erano andati non appena finito di provare le coreografie per il concerto, ma Eddie era stato l’unico a voler rimanere con Sharon non appena lei ebbe detto che sarebbe rimasta ad allenarsi un altro po’.
    Da una parte per Sharon era stato un sollievo; per tutto il tempo da quando Michael se n’era andato quella smielata di nome Vanessa la fissava con aria strafottente, sganciandole più frecciatine possibili non appena nessuno – o quasi – non stava ascoltando. Quanto avrebbe voluto Sharon rovinarle quel viso da dolce angelo della morte... Quanto la odiava! Un odio che le nasceva da dentro le viscere della sua anima.
    Per sfortuna di Vanessa, nessuno dei quattro ballerini uomini la guardavano come osservavano Sharon; era il centro dell’attenzione di tutti. La sua capacità naturale e innata di ballo portavano su di lei gli sguardi di tutti, e forse non solo: Sharon aveva un fisico da invidiare, curvilineo e sodo, dei fianchi e delle gambe che sembravano scolpite da un artista. E Vanessa la invidiava per questo. La odiava.
    Sharon le aveva rubato la possibilità di diventare lei la ballerina del video di Michael; le avevo proibito un sogno di cui secondo lei era più meritevole. Inoltre stava conquistando tutti, e prima di allora era stata sempre lei il centro di ogni attenzione. Stava conquistando Michael, e Vanessa lo sapeva bene; perfino un cieco se ne sarebbe reso conto, e di questo ne era certa.
    Da quando tutti gli altri ballerini se ne erano andati, Sharon ed Eddie avevano provato tutte le coreografie dove lei avrebbe ballato, e ora era curioso di vedere le sue abilità d’improvvisazione nei balletti. Era rimasto incantato da ogni passo da lei ballato, da lei creato con passione.
    «Grazie», disse lei annaspando, con un sorriso, mentre lui le porse un suo asciugamano per asciugarsi il sudore dalla fronte. «Però un giorno voglio vedere anche te improvvisare come ho fatto io».
    Lui sorrise. «Senza dubbio. Se ti piacerà ancora passare del tempo ad allenarti a passo di danza, come ho già detto, sarò al tuo servizio», rispose con gentilezza.

    «Interrompo una discussione importante?», disse una voce all’improvviso in tono autorevole e profondo.
    Sharon ed Eddie si voltarono verso la porta della palestra, ormai spalancata. Lei non aveva dubbi. Era riuscita a riconoscere subito la sua voce, ed infatti aveva ragione.

    ***


    «Michael», disse Sharon con pacatezza. D’istinto dalle labbra di lei spuntò un sorriso amichevole, dolce, ma che non sarebbe mai riuscito a calmare alcuni profondi bollori che stavano bruciando dentro me.
    Rodevo. Rodevo di brutto, molto più profondamente di quanto avessi mai immaginato.
    Quell’immagine di Sharon – la mia Sharon? – che rideva e scherzava con un qualcuno che non fossi io, per di più Eddie, mi faceva venire la voglia di esplodere. Il sorriso di lei era dolce, lui con quelle sue parole smielate prima o poi l’avrebbe portata via da me... No! Non potevo lasciarmela scappare!
    Al diavolo, Michael! Ma a che stai pensando?, mi ripresi mentalmente.
    «Ehy Michael», disse sorridente Eddie, nel frattempo che mi avvicinai a loro. «Hai fatto presto!», ironizzò.
    «Sì», esclamai deciso, rivolgendo un’occhiata mite che, al contrario, dentro di me era solo una maschera di tutto l’odio che stavo provando. «A quanto pare avete fatto presto anche voi per insegnarle i passi».
    Sharon mi guardò con occhio improvvisamente serio, mentre Eddie le lanciò uno sguardo di sfuggita. «Sì, Sharon ha una memoria davvero impressionante, e anche un talento da rimanerne senza fiato! Perciò abbiamo finito più presto del previsto, e le ho chiesto di farmi vedere qualche passo improvvisato...»
    Io annuii, lanciando un mezzo sorriso di facciata, indeciso se fare qualcosa per impedire quella situazione tanto inattesa e imbarazzante quanto carica di tensione. Per fortuna Eddie ne uscì prima che potessi emettere parola io con una puntualità degna di un orologio svizzero.
    «Comunque, io avrei un certo appetito, perciò se non vi dispiace vi lascio», dichiarò battendo un colpo con le mani. Si diresse verso il borsone da ginnastica ad un angolo della sala, e, prima di uscire dalla porta, disse. «A presto», ammiccando uno sguardo furbo prima a me poi a lei.
    Non aspettai altro che se ne andasse per enunciare parola. Un peso gravava sul mio stomaco... Pesantemente. «Siete già molto amici per conoscervi solo da poche ore, da quel che posso vedere...»
    Sharon mi rivolse i suoi occhi neri, sbattendoli ripetutamente. «Prego?»
    Detti un lieve colpo di tosse. «Ho detto che sembrate già molto amici, da così poco tempo...», pronunciai con leggero imbarazzo e rancore assieme.
    «La parola “amici” è una parola molto importante per me. Comunque sì, siamo molto in sintonia», disse Sharon cominciando ad irrigidirsi. «Lo stesso vale per te e Vanessa, questo è certo».
    Rimasi allibito da quella sua improvvisa frase. Quasi mi chiesi se non fossi io ad aver capito tutt’altro di quello che avevo sentito da lei pronunciare.
    «Cosa?», chiesi con sospetto. Che voleva intendere con quella frase? Che le dispiaceva di come mi atteggiavo con Vanessa quanto lei con Eddie per me?
    Spostò lo sguardo alla sua sinistra, non appena captò i miei occhi sbalorditi su di lei. «Anche tu e Vanessa avete un bel rapporto... Non per niente è qui anche lei. Lei sì che è un’amica importante».
    Lei era... Gelosa. No, un momento... Davvero gelosa?
    Mi venne da ridere, ma mi trattenni. Sul serio, non riuscivo a credere che si fosse offesa per quel fatto. Tutto mi sembrò più chiaro non appena mi resi conto che lei fosse arrabbiata con me per quello, e che quel suo improvviso stato di freddezza con me era reduce dalla gelosia.
    «In realtà non lo invitata io, ma Frank. E non siamo così amici, anzi. Quando le abbiamo fatto il provino l’abbiamo scelta per comparsa, però a lui è piaciuta così tanto da volerla inserire all’ultimo minuto nel mio tour». Feci un attimo di pausa, mentre lei mi osservò attentamente. «Sei gelosa?»
    La domanda mi spuntò fuori così d’impulso che non riuscii a controllare il mio istinto. Vidi gli occhi di Sharon spalancarsi, il suo colore delle guance diventare di un colore ben più del semplice scarlatto, per poi scoppiare in una risata scioccata e scandalizzata.
    «Ma che... I-io? Di chi? Perché mai?», disse impacciata spostando lo sguardo, spalancando poi le braccia con i palmi delle mani rivolti all’insù, intanto che io cercavo in tutti i modi di non scoppiare a ridere.
    «Insomma, non ne avrei né il diritto né la motivazione...». Un attimo di pausa da parte sua un mezzo sorriso spuntare immediato dalle sue labbra ora soddisfatte. «Perché? Anche tu sei geloso per caso?»
    Fu il mio turno di imbarazzo; diventai paralizzato come una statua, anche io rosso in volto, i sudori alle tempie e in tutto il corpo, una stretta incombente al cuore. Al diavolo, mi ero messo in trappola da solo!
    «Io...? Ma che stai dicendo?», dissi balbettando. Lei mi sorrise scaltra, avvicinandosi con passo micidiale a pochi centimetri da me. Quella vicinanza era troppa... Troppa da riuscire a tenere a freno...!
    «Non sembra ti stia poi così simpatico Eddie, è quasi lo stesso sentimento che provo io per Vanessa...», rispose ammiccando un sorriso, mordendosi un angolo del labbro inferiore. Non sapevo veramente se quello che stesse dicendo lo stesso dicendo apposta per trarmi in inganno oppure perché lo pensava...
    Stava il fatto che mi stava facendo letteralmente impazzire! Quei suoi occhi così neri come la profonda notte, il sorriso splendente come un sole, gli atteggiamenti provocanti e allo stesso tempo teneri... Dio quanto mi faceva andare fuori di testa!
    Oh Santo Iddio, Michael, vedi di dare una calmata ai tuoi bollori in fermento!
    «Può darsi...», conclusi con un sospiro, facendosi anch’ella seria quanto me. Con fugace occhiata vidi come il suo fisico così perfetto, in semplici jeans a mezza gamba e maglietta a maniche corte, si notasse e potesse portarmi fuori da una meta di pensiero decente. Era ovvio il perché le donne la odiassero mentre gli uomini impazzissero per lei...
    Ci guardammo fisso negli occhi per un tempo che per me sembrò durare un’eternità, mentre la lontananza dei nostri volti veniva sempre più colmata. Non me ne resi conto, ma ero vicino alle sue labbra più di quanto mi sarei mai immaginato di essere.
    Dentro di me sentivo crescere attrazione, l’istinto di toccarle quella sua pelle caffèlatte aumentava ogni secondo di più che passavo a guardarla negli occhi. Era irresistibile, un dolce e colpevole piacere che non riuscivo a tenere sepolto! Le mie dita volevano proseguire a toccare ogni contorno del suo viso, dalle morbide labbra al collo. Le sue labbra... Per un momento, un lunghissimo istante, le bramai con tutto me stesso.
    Ma a che diavolo stavo pensando! Possibile che dei pensieri così poco casti affollassero a milioni la mia mente?! Dovevo smetterla, non potevo... Io non...
    Eppure non potevo farne a meno. Non potevo smettere di pensarci.
    «Michael finalmente!», interruppe bruscamente una voce. Fu come ricevere una secchiata di acqua gelata nel pieno del sonno. Sia io che Sharon trasalimmo con leggero sussulto. Subito ci voltammo. Era Vanessa...
    «Oh, ehm, scusate... Ho interrotto qualcosa di importante?», chiese con voce sottile e, come al solito, dalle sfaccettature tutt’altro che dispiaciute. Sentii a pochi centimetri di distanza Sharon irrigidirsi.
    «Dimmi pure, Vanessa...», dissi ignorando la sua domanda. Da una parte ero contento che avesse interrotto quella situazione e le mie emozioni a dir poco eccitate, però da un’altra non lo ero affatto... Anzi, ero piuttosto agitato per questo, soprattutto del fatto che fosse stata proprio lei ad interrompere. Perché proprio in un momento come quello?
    «Ecco, in realtà volevo solamente parlarti di alcune cose, ma se disturbo possiamo discuterne di sicuro un altro giorno...», disse con un sorriso gentile.
    Qualcosa mi diceva che lo avesse fatto apposta. Interrompere quella circostanza... Infastidire Sharon... Non mi stupivo di cosa potevano fare le donne, soprattutto se si trattava di una donna come Vanessa. Di sicuro non provava tutta questa simpatia e rispetto per Sharon. Ero abbastanza bravo da capire quanto amasse apparire come la prima donna, il suo curriculum mi aveva già dato conferma molto tempo prima del suo carattere senza pietà. Per il successo avrebbe ucciso, e Sharon era una minaccia.
    Per conquistare me soprattutto, superstar mondiale che ero. Io, Michael Jackson. Sharon le aveva rubato l’opportunità di farsi conoscere al mio fianco nel video, ma questa cosa non sarebbe cambiata. Frank l’aveva raccomandata come ballerina del mio tour, perciò in parte il suo successo sarebbe comunque aumentato. Che bisogno c’era allora di cercare di distruggere Sharon? Era una minaccia tanto grave?
    «Che tipo di cose devi chiedermi?», chiesi mantenendo il mio volto impassibile.
    «Di coreografie. Ho qualche dubbio su dei passi di...»
    «Sì, forse è meglio riparlarne un altro giorno. Scusa», dissi immediato. Sentii su di me lo sguardo di Sharon, meravigliato, nel frattempo che vidi l’espressione di Vanessa farsi da stupita a offesa. «Anche perché adesso io e Sharon avremmo un impegno importante da rispettare...»
    Un attimo di pausa, rimasi ad osservare gli occhi gelidi di Vanessa farsi luccicanti di una luce che, al contrario di quella che rivedevo negli occhi di Sharon, era il riflesso delle cattive intenzioni.
    «Puoi sempre chiedere agli altri ballerini. In realtà, mi chiedo perché tu non abbia tirato fuori questo problema quando vi stavate allenando questa mattina...», dissi mettendo il dito nella piaga. Vidi gli occhi di Vanessa ridursi per un istante di secondo in due fessure, poi assumere un’aria finta dispiaciuta.
    «Scusa, Michael, hai ragione. Il fatto è ho pensato che sarebbe stato meglio farmi spiegare il passo da colui che lo ha creato, e non dai suoi sottoposti», disse con voce tanto nobile quanto sottile di doppi sensi. «In ogni modo, farò come hai detto tu».
    E così dicendo si avviò fuori dalla stanza con camminata altezzosa e frivola. Rimasi ad osservare la porta, dopodiché spostai i miei occhi curiosi su Sharon. Non batteva ciglio. Mi osservava mezza sconvolta.
    «Dici che sono stato troppo severo?», pronunciai con un tono di voce tra il divertito e il curioso, frattanto che lei spostava il suo sguardo fisso sulla porta.
    «Diciamo che nemmeno lei – e nemmeno io, fra l’altro – ci aspettavamo una tua reazione così secca e diretta... Ma la cosa mi fa particolarmente piacere», rispose lei con un lieve sorriso soddisfatto sul volto.
    Io annuii. Nessuno si aspettava mai che riuscissi a tirare fuori la grinta e che fossi capace reagire anche io, quando volevo. Ero gentile, umile, ma non ero un santo. Non mi piaceva l’immagine che qualcuno dava di me, quella di un uomo troppo mite e, a volte, santarellino. Io non ero così. Ero solo un umano. E, come tutti gli umani, come tutti mi arrabbiavo, odiavo, amavo, piangevo. Eppure era difficile da credere.
    «...E non capisco quale sia il nostro impegno importante ed urgente da rispettare», disse ripetendo più o meno le mie parole, lanciandomi uno sguardo furbesco e interessato. La guardai con un sorriso sornione.
    «Tu non lo sai, io sì». Non aspettai nemmeno che rispondesse, né esitai per osservare ogni lineamento del suo volto cambiare espressione; la presi per la mano, nello stesso tempo che il mio cuore sobbalzò di felicità improvvisa al calore della sua, e le sussurrai su un orecchio: «Vieni con me, adesso».
    Lei mi guardò con occhi da cerbiatta spalancati, ma non aspettai una sua risposta udibile. Il suo sguardo s’illuminò d’improvviso, e allora con un sorriso la portai fuori dalla porta della sala prove.
    «Michael... Ma dove...?», chiese con voce lieve ed emozionata, non finendo la frase, indecisa se ridere o rimanere senza fiato. Mi voltai a guardarla, non risparmiai una risata soffocata.
    «Oggi non ti devi preoccupare di niente, devi solo goderti il relax», dissi con voce entusiasmata. La realtà nascosta di quella sorpresa era che volevo stare con lei, solamente con lei. Non avevo bisogno di altro.
    Perciò, spinto da quel desiderio che si faceva sempre più possente dentro di me, proseguii fino ad un corridoio di marmo rosato; attraverso l’aria che respiravo potevo già sentire l’odore leggero del cloro. Cominciai a rallentare, non appena a distanza vidi una porta di legno bianco. Due donne asiatiche ci indicarono di entrare con un gesto della mano, dopo averci dato la buona permanenza in quella sala in inglese, per poi chiudere la porta alle loro spalle. Ambiente davvero magnifico.
    «Ma questa è...», sbiascicò lei con fare sottile, ad occhi aperti ed increduli.
    «Benvenuta alla piscina privata al coperto», dissi con un sorriso. Sarebbe stato davvero un pomeriggio indimenticabile quello.
    Non ne dubitavo.


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    Capitolo Venti.


    Now I can remember
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Mi vennero i fremiti non appena vidi la stupenda piscina al coperto. Tutto questo che stava accadendo era incredibile, troppo meraviglioso perché potesse succedere ad una persona normale come me.
    C’erano splendidi soffitti color del cielo blu della notte tappezzati di varie e minuscole luci che davano l’impressione di essere stelle della notte; svariate colonne in stile moderno, pavimenti di marmo bianco e soprattutto un’immensa piscina dalla forma tondeggiante e disegnata senza schema preciso. Una lunga scalinata in marmo ad un lato della piscina entrava fino l’interno dell’acqua, mentre in un angolo vicino a vari sdrai di legno una piccola discesa permetteva di poter stare comodamente seduti anche a riva piscina. In un altro lato, c’era perfino l’idromassaggio.
    Alla sinistra della porta da cui io e Michael eravamo entrati si proseguiva per un piccolo corridoio a piastrelle celesti che portavano dritte ognuna ai rispettivi spoiatoi, illuminato da brillanti luci arancioni e gialle. Nella parte opposta della stanza da cui ci trovavamo, verso la destra, una serie di vetrate trasparenti dava la magnifica visione del giardino al di fuori di quel magnifico salone. In stile tipico giapponese, osservandolo potevi percepire un innato senso di pace.
    Non avevo mai visto un posto così bello. Era... Era un paradiso! Il sogno di qualunque persona che sognasse da tanto tempo un luogo così straordinario, creato dalle mani dell’uomo. La stanza era immensa, l’odore del cloro filtrava ogni mio poro corporeo, l’enorme piscina rifletteva il colore blu e azzurro dato dalle piastrelle che la costituivano... Ma rimaneva un problema. Anzi, due.
    Il primo problema: non avevo né costume, né qualcosa con cui asciugarmi dopo e cambiarmi. Di certo una volta fatto il bagno – se l’avrei fatto, da cui deriva poi il secondo punto – non mi sarei rimessa mica i vestiti sudaticci che stavo indossando. Inoltre non mi sarei certo fatta vedere in biancheria intima... O peggio... Solo il pensiero mi faceva divampare di rossore!
    Secondo punto, il più importante: avevo paura di nuotare nell’acqua fonda. No, non paura: vero e puro panico! In passato non avevo avuto una bella esperienza, tutt’altro che emozionante, all’età di 15 anni, e da allora ebbi paura di nuotare da sola nelle immensità dell’acqua, nonostante io l’amassi sempre e comunque. Vivevo per l’acqua, ma non per quella fonda e alta da non riuscire a toccare con i piedi. Mi faceva un certo timore, il pensiero di rifare quella stessa esperienza.
    Ma come glielo avrei detto a Michael? L’avrei deluso se, una volta entrata in acqua, mi sarei rifiutata di immergermi nell’acqua fonda. Chissà quanti sforzi aveva dovuto fare per avere la piscina tutta privata, solo per lui e una come me che, di certo, a deduzioni sicuramente logiche, non se la meritava per niente.
    «Che ti sembra?», disse lui con un sorriso – uno di quelli suoi magnifici e splendenti, grande come il sole d’estate capace di riscaldare anche la pietra più fredda di tutte. Io continuai a guardare la piscina, troppo impotente per reggere il suo sguardo e volgere la mia attenzione via da quello spettacolo artistico.
    «E’ una cosa incantevole! Io davvero non ho parole!». Feci una pausa, d’improvviso seria. «Io tutto questo non lo merito. Non merito di essere qui con te, a godere di questo benessere, soprattutto perché io...»
    Non appena mi bloccai, ritraendomi leggermente su me stessa, lui mi guardò con preoccupazione. Non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi, avendo così paura della sua espressione di delusione. Oltre ogni mia aspettativa, però, lui mi strinse la mano.
    «Non ti piace?», disse con una voce da cucciolo, da bambino. Io allora lo guardai con dispiacere immenso, e vidi lui osservarmi con trepidazione. Mi sentii sbriciolare il cuore in mille residui di polvere.
    «No! No, Michael, non dirlo nemmeno!», risposi io immediata, voltandomi verso di lui stringendo anche l’altra sua mano. Lui mi fissava inquieto. «Io ho... Ti giuro non è facile per me da dire, me ne vergogno molto... Il fatto è che io... Ho paura dell’acqua fonda...»
    Così dicendo lanciai un’occhiata di profondo terrore alle oscurità di quella piscina, rabbrividendo leggermente. Lui gettò il suo sguardo su di essa, per poi tornarmi a guardare. Incapace per ancora una volta di osservarlo, dopo tutti i miei sensi di colpa, abbassai gli occhi.
    «E’ la verità, Sharon?», chiese lui con tono pacato. Non risposi, così angosciata da sentire il mio cuore distruggersi, ma lui con un dito subito alzò il mio mento verso il suo viso, così da essere occhi negli occhi. «Hai paura veramente o il problema è un altro?»
    Non si possono neanche immaginare le sensazioni che provai in quel momento. Avevo paura, ma allo stesso tempo stavo bene. Tremavo, ma non perché fossi così sconvolta, ma perché la causa era lui. Il modo in cui si rivolgeva a me faceva rabbrividire ogni capillare del mio corpo, dalla punta dei piedi a quella dei miei ricci capelli.
    Quell’uomo mi avrebbe fatto scoppiare il cuore, prima o poi!
    Senza neanche far passare il tempo per pensare a quel che stavo per dire, parlai. «Ti giuro, Michael, non ti mentirei mai! Non sai come io voglia, in questo momento come in altri, sperare che questo non sia solo un sogno come immagino che sia! Io verrò comunque in piscina con te, se almeno non hai cambiato idea, ma il fatto è che mi dispiace di non poterti seguire anche in quella fonda... Non potermi divertire con te».
    Non ero mai stata così convinta come in quell’attimo. Lo guardavo con occhi imploranti, pregavo perché credesse che la mia era la verità e che non volesse cambiare immediatamente programma e fare retro front. Se non gli avessi fatto quel discorso prima, probabilmente avrei fatto la figura della stupida dopo.
    Lui restò a studiarmi, mentre io impassibile continuai, cominciando come al mio solito, da perfetta idiota che ero, a gesticolare con le mani. «Scusa, forse ho sbagliato a dirtelo in modo così schietto senza pensare al probabile sforzo che hai dovuto fare per prenotare privatamente questa...»
    Non finii la frase, il pollice della mano con cui Michael aveva alzato il mio mento verso i suoi occhi mi bloccò la parola, lasciando le altre dita accarezzare la mia guancia. Non mi ricordo se arrossii, sta di fatto che mi mancò il fiato necessario per respirare e la capacità di riuscirci. Dio quanto era affascinante...
    «Non dire così, sono sicuro che stai dicendo il vero. Non ho intenzione di dubitare di te. Sono riconoscente che tu me lo abbia detto subito, invece, perché così mi dimostri che non hai intenzione di mentirmi...»
    Dio... Sto per morire. Come faccio a parlare se mi... Se mi rende così rincoglionita?!
    «Ti insegnerò io, Sharon», continuò con voce pacata e dolce. Spalancai gli occhi, incredula, voltando il mio viso veloce per un fugace secondo verso le oscure voragini di quell’acqua bluastra, indietreggiando di un piccolo passo. Lui mi strinse la mano non appena commisi quel movimento impaurito.
    «Tranquilla, non succederà niente. Ti aiuterò io, ti insegnerò a volare anche dentro l’acqua, non solo in aereo, con le poche cose che so», proseguì. Gli lanciai uno sguardo di paura, ma di rimando lui mi osservò con un sorriso rassicurante. «Ti fidi di me, Sharon? Pensi che io ti lascerei senza darti una mano?»
    «No...», sbiascicai sottovoce, frattanto che con un altro passo tornai ad avvicinarmi verso di lui. «Io mi fido di te, lo giuro», continuai sentendo il mio cuore cominciare a sollevarsi.
    Lui sorrise, per poi con la mano portarmi verso le sue braccia. Mi abbracciò con un calore che non avevo mai sentito prima sulla mia pelle, una sensazione incomparabile a tutte le altre che avevo mai provato con qualcuno. Con il mio volto affondato nel incavo del suo collo, dopo una linciata all’acqua blu, mi sentivo sicura di quella prova che, con lui, avrei cercato di superare.
    Strinsi d’istinto con la mia mano libera un lembo della sua camicia rossa, ispirando il profumo di cui odorava... Ora riuscivo a distinguere quell’odore... Sembrava profumo di sandalo...
    Miseriaccia a me se continuo così... Però è così indescrivibile... Mi porta fuori di testa...
    Con un gesto lento, ci staccammo entrambi nello stesso momento. Chissà perché, ma anche lui sembrò essere scosso quanto me. Mi lanciò un lieve sorriso. «Ora è meglio che ci andiamo a cambiare», rispose accompagnandomi al corridoio fino al momento in cui dovevamo separarci, per raggiungere ognuno lo scompartimento giusto.
    Staccammo le nostre mani, provando un senso di sbigottimento dentro a quella piccola separazione, guardandoci con un’occhiata esitante. Con coraggio, mi spinsi ad arrivare allo spoiatoio, dove trovai costume e accessori all’interno per il dopo-piscina. Sorrisi divertita.
    Aveva preparato tutto al meglio, organizzando ogni minimo particolare.
    Grazie Michael.

    ***


    Una volta preparata mi prestai ad uscire dallo spoiatoio, coperta da un accappatoio lilla pastello, fino ad avviarmi fino a fuori del corridoio. Qualcuno – dedussi fosse stata qualche inserviente – mi aveva lasciato non solo uno stupendo vestito leggero di seta nero, dalle sottili spalline e dalle fasce svolazzanti, completo di scarpe perfettamente in tinta, ma anche un costume stupendo; era intero, non troppo provocatorio, di una tinta pervinca. Perfetto, nonostante la misura mi fosse forse solo leggermente stretta.
    Un istinto mi diceva che Michael c’entrava qualcosa con la scelta dei colori...
    Con mia sorpresa, scoprii Michael già fuori dal corridoio, vicino al bordo piscina, toccare con un piede l’acqua. Lo sguardo che rifletteva nell’acqua era così profondo che poteva superare ogni immensa voragine blu notte dell’oceano più profondo al mondo. Ero quasi indecisa se risvegliarlo dai suoi pensieri oppure no. Chissà a che stava pensando.
    Sottofondo a quell’ambiente così rilassante, si era aggiunta una musica soffocata dalle melodie vagamente familiari, così soffice e delicata come una meravigliosa notte d’oriente. Ero quasi sicura che fosse stato lui, poco prima, a mettere quella musica, poiché non avevo sentito poco prima quella melodia.
    Mentre mi avvicinai con passi inudibili a lui, scrutai tutto il suo fascino. Era bellissimo. Non avevo parole per descriverlo. Se fossi stata una sua fan sfegatata, di certo sarei potuta svenire – non che non ne fossi a rischio, questo è certo.
    I suoi capelli ricci e neri arrivavano fino a toccare le spalle, incorniciando quello splendido viso angelico che si ritrovava; i lineamenti maschili ma con quel qualcosa da bambino, pur sempre stupendo; l’accappatoio, di colore pastello come il mio, risaltava alla perfezione il suo fisico, ogni suo muscolo. Sebbene non fosse un modello, o possedesse un fisico da uomo da riviste di moda, possedeva quel fascino e sex appeal da poter stendere una donna. Era, in poche parole, sexy. Dannatamente sexy. Dio se lo era!
    Potevo solo immaginare quante reazioni perverse potesse avere una femmina, continuando a guardarlo come stavo facendo io. Pensa quando lo vedrai solo in costume, Sharon, disse una vocina nella mia mente, lì cosa farai? Morirai direttamente fra le sue braccia?
    Frattanto che quel pensiero mi vagò in testa, lui si voltò a guardarmi, rivolgendomi un sorriso. Arrossì d’impeto, maledicendo me stessa per dei pensieri poco casti che cominciavano ad attraversarmi le vene al posto del sangue come scosse d’elettricità.
    Avevo così voglia di accarezzare quel suo viso, toccare i riccioli neri che scendevano candidi sulle spalle, godere del tatto con la sua pelle che, non ne avevo dubbi, fosse morbida come quella di un bambino.
    Ma come diavolo poteva avere un effetto così anfetaminico? Non avevo mai fatto caso prima al suo charme maschile, quando ancora non lo conoscevo di persona, e ora avercelo davanti... Era una cosa più forte di me. Mi faceva venire i sudori in tutto il corpo. Era da svenimento, da morte imminente!
    «Sei stata veloce», mi disse lui allargando enormemente il suo sorriso. Bofonchiai imbarazzata, voltando i miei occhi verso l’acqua, per poi alzare le spalle come se niente fosse.
    Sentii la sua risata cristallina arrivare con imminenza alle mie orecchie, portando il mio sguardo curioso verso di lui. Perché stava ridendo? Lo osservai con fare interrogativo, lasciando trasparire nel mio volto corrugato un mezzo sorriso divertito da quel suo gesto.
    «Niente, sta tranquilla...», rispose lui alla mia domanda silenziosa che aveva intuito subito trapelare dai miei occhi neri, portandosi la mano sinistra a toccarsi il mento, con fare timido, svoltando i suoi occhi verso l’acqua della piscina, ancora con il sorriso e tossendo per cercare di controllare a stento la risata.
    Anche in queste situazioni... Puramente sexy! Perché diavolo ridesse io non lo sapevo. Probabilmente ero così impacciata e ridicola da farlo ridere di me. In effetti ero molto brava a far ridere la gente grazie ai cambiamenti che assumeva il mio volto nelle espressioni che assumevo, Ilary me lo diceva sempre.
    «Iniziamo, ehm, il corso?», dissi soffocando una risata nasale. Il sorriso di lui cominciò a farsi sempre più inesistente, fin quando in volto non gli apparve uno sguardo serio. Subito mi preoccupai di aver detto qualcosa di sbagliato, che non andasse bene.
    «Prima però ti devo dire... Far vedere una cosa, in realtà», disse corrugando la fronte in quella che era uno sguardo terribilmente serio e preoccupato; non mi considerava con gli occhi, fissava solo ed in esclusiva le piastrelle del fondo piscina. Cominciai ad essere in ansia anche io.
    «Che cosa devi farmi vedere?», chiesi con voce tremula, inclinando la testa e avvicinandomi a lui. Lui non mosse gli occhi. «Se non vuoi non sei obbligato, davvero, puoi mostrarmi cosa si tratta un altro giorno...»
    Lui scosse la testa docile, e chiuse per un minuscolo istante i suoi occhi, poi appoggiando i suoi occhi e incatenarli ai miei. «Non... Non riguarda te, riguarda me. È una cosa del mio fisico, una brutta cosa... Terribile...»
    Un fremito mi passò per tutta la spina dorsale, il mio sguardo attento e in attesa non faceva una piega. La tonalità di voce che stava usando era preoccupante, non capivo quale fosse questo grande mistero. Cosa poteva c’entrare con lui questa cosa che lui definiva “terribile”?
    «Promettimi che non ti spaventerai, che non mi penserai un mostro...», continuò con occhi fissi e impauriti su di me. «Tutti quei pregiudizi insensati da parte dei media, di tutti... Sono sbagliati, Sharon. Non sanno cos’ho. Ma tu, se io ti mostro quel orribile segreto, mi crederai... Non mi lascerai, vero?», mi prese la mano, quasi con foga come se avesse paura che, da un momento all’altro, potessi scappare.
    «Michael, che succede...?», chiesi io con voce oscillante. Non stavo capendo più niente, la mia mente era sul punto di attraversare un punto di delirio senza ritorno. Il suo tono era così atterrito, così angosciato...
    Fu in quel momento che si tolse l’asciugamano... E io per poco non ci rimasi secca.
    Vedevo il suo fisico, nessun mostro, tutt’altro: sembrava l’arte fatta viva. Quella visione sì che confermava le mie teorie! Mi mancava il respiro, le parole, l’aria per continuare a respirare. Era una vista troppo grande da sopportare... Da restare saltargli addosso letteralmente...
    Santa Maria, Sharon... Controlla i tuoi ormoni, non pensare a delle riflessioni così... Così idiote! Non prive di senso, ma idiote...! Sei un’idiota Sharon! E’ troppo bello per essere vero. Cielo...
    La mia mente e il mio cuore erano praticamente in palla. Come facevo a resistere – come?! – davanti ad un figo come quello? Se non bastasse per l’animo puro che possedeva, i suoi occhi grandi e intensi, ora ci si metteva anche il corpo a far aumentare le mie calure? Ad aumentare la mia pressione? Dio, mi ero appena rimessa dall’ospedale da solo 48 ore! Continuando così sarei decisamente svenuta in acqua!
    Michael mi gettò uno sguardo remissivo, di dolore e rabbia assieme, aprendo le braccia a mo’ di rassegnazione. «Che cosa vedi, Sharon? Dimmi, che cosa
    Vedo un figo della Madonna, troppo irreale per essere qui accanto a me, contento? Vedo la causa di un mio futuro infarto o crepacuore, se continuiamo ad andare avanti così!
    Risposi comunque, scartando il mio precedente pensiero con una leggera scossa del mio volto. «Io non... Non vedo niente, fuorché te, normale così come sei...». Lui sospirò e allora proseguii con tono più alto. «Michael, smettila di fare il vago! Dimmi cosa c’è, ti prego».
    Il mio tono era praticamente implorante e allora lui, schioccandomi un’occhiata insicura, mi porse la sua mano. Con lentezza, fissandolo accuratamente negli occhi, gli porsi la mia e mi lasciai trascinare verso di lui da una lieve pressione della sua mano. Sentii in quel momento le mie guance bollire di rossore. Vicino a lui, a quei pochi centimetri di distanza, in costume?! Stavo sognando...
    «Guarda qua, osserva con particolare attenzione. Con cura», disse lui, rabbrividendo al mio tocco, indicandomi un punto del suo avambraccio destro. Io allora osservai, - cercando di concentrarmi con tutte le mie forze - e scrutai con cura ogni centimetro di quella sua pelle soffice.
    All’inizio non notai niente, poi dopo pochi secondi di studio vidi delle leggere macchie più chiare sparse. Era strano, ma io delle macchie così le avevo già viste prima in vita mia. Era tutto molto confuso...
    «Ti sei mai chiesta come io fossi diventato così chiaro da scuro che ero? Ti sei mai domandata se quello che dicevano i giornalisti sul mio cambiamento di colore era vero? Se ero io che volevo cambiare?»
    Non risposi, lasciai la mia mente tornare ad alcuni tempi in cui, sui giornali, su quello che scrivevano i tabloid su lui. Dicevano che si era voluto cambiare il colore di pelle, voleva diventare un bianco. Non ci avevo mai fatto caso, in qualche modo non ci credevo molto a quelle cose. Per mia fortuna, ero abbastanza intelligente da diffidare della stampa.
    «Io non ho mai voluto cambiare. Io... Io sono costretto», pronunciò con labbra serrate dalla rabbia, con voce veramente irritata. «Queste dannate macchie che ho sul corpo mi obbligano a mettere della crema per renderla omogenea con la mia pelle... Questa è...»
    «Vitiligine...», dissi io rimanendo a fissare costantemente le macchioline leggere, coperte da – ora me ne rendevo conto – dei strati possenti e duraturi di crema. Ora ricordavo. Tutto stava tornando indietro a me.
    Eccome, le avevo viste quelle macchie. Le avevo viste su qualcuno a me vicino. Come potevo non riconoscerle. Sapevo tutto su quella malattia, ogni effetto, ogni sviluppo, il fatto che colpisse solo il 2% della popolazione mondiale... Sì, mi ero molto informata, ancora tanti anni fa...
    Sentii il suo sguardo sbigottito su di me, scioccato, e solo allora lo fissai di rimando. Ora capivo. Tutto. Lui aveva la vitiligine. Era quello il mostro. Quella malattia alla pelle...
    La vitiligine...


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    Capitolo Ventuno.


    Get out the nightmare
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Esatto... Vitiligine», dissi. Rimasi immobile, a guardarla con occhi spalancati di stupore e stordimento.
    Come se quella situazione fosse già abbastanza incredibile per me – averla così vicino, così affascinante che era, solamente stesse indossando solo l’accappatoio, mi faceva mancare l’aria nei polmoni -, ma sapere che lei conosceva quella malattia mi confondeva ancora di più. Era strano, in un certo senso, ma in parte... Non sembrava sconvolta da quella visione, né impaurita o schifata, semplicemente dispiaciuta e dubbiosa. Questo mi rincuorava.
    Ma il punto principale fisso in testa era un altro: come conosceva il nome della patologia?
    Aggrottai impercettibilmente la fronte. «Come fai a...?»
    «A sapere il nome di questa?», disse lei riportando gli occhi ancora su quelle piccole macchie visibili, soffocando una risata tutt’altro che divertita. Nei suoi occhi si stava facendo spazio un’ombra di tristezza trafitta. «Perché ne soffriva mia zia, una delle due sorelle di mia madre»
    In quel momento mi venne da pensare quando fosse assurdo e strano il destino; per la prima volta nella mia vita avevo conosciuto una persona che avesse a che fare con la patologia – anche se indirettamente. Il fatto era che questa persona era stata proprio lei, Sharon, e questo scombinava ancor più la mia mente.
    Dalle labbra di Sharon udii un sospiro. «Parecchie volte mi è capitato di sentire parlare mia madre Alicia e la sorella Ashley di questa malattia. Spesso udivo mia zia piangere, lamentarsi con la sorella più grande della famiglia sul come impedire di essere presa in giro dalle sue compagne di scuola per queste sue macchie in contrasto col suo colorito scuro...»
    «Che persone orribili», dissi sprezzante, pronunciando quelle parole rivelando tutta l’amarezza per quella gente che, per ovvietà di cose, non sapeva cosa significasse sentirsi diversi. «Prendere in giro solo per la malattia che soffre...»
    «Già... Mia madre fu una delle poche persone, compresa l’altra sorella, a cercare di risollevare il morale a mia zia, a cercare di trovare una via d’uscita. Un giorno, spinta da una curiosità imminente, nella biblioteca comunale feci una ricerca dettagliata. Studiai a fondo l’argomento per molto tempo, cercai di trovare anch’io un rimedio per aiutarla, ma fu inutile... Non c’era una cura, e se anche ci fosse stata a quel tempo sarebbe costato troppo per una famiglia poco privilegiata come la nostra.. Ma parliamo di tanti anni fa»
    Nel suo tono di voce c’era il senso dell’impotenza. Teneva gli occhi fissi sul mio avambraccio, toccava con le sue dita affusolate e delicate la mia pelle, con la testa inclinata un poco verso destra. Percepivo nelle sue parole la sua sensibilità, la voglia reale e piena di aver voluto aiutare, e sentivo il mio cuore farsi piccolo, piccolo, di fronte a questa constatazione.
    «Tu non potevi far niente, hai cercato di trovare comunque una soluzione... Sei una delle persone più meravigliose che io abbia mai conosciuto, credimi», dissi con voce affievolita. Lei mi osservò con un sorriso, per poi portare la sua mano ad accarezzarmi una guancia.
    «Non doveva succedere a te...», continuai con le poche parole che mi rimasero in gola.
    «Forse più che a me questo non doveva succedere né a mia zia né a te...», disse amabilmente. «Ma vedrai che forse troveranno una cura, riuscirai a guarire, non tutto è perduto, e...»
    «Non c’è cura, Sharon», pronunciai chiudendo istintivamente gli occhi per un millesimo di secondo, bloccandole la parola. «Le creme sono la mia unica speranza. Non ci sono altre vie d’uscita...», dissi con afflizione.
    «C’è una via d’uscita, invece», disse lei con lieve sorriso. Io la studiai, con curiosità e attenzione, stando attento a controllare i miei brividi. «Le creme possono aiutarti, ma quello di cui tu hai più bisogno è una cosa sola: amore. Chi ti ama ti accetta per come sei, chi ti giudica non cerca neanche di capirti».
    «Ma sono io a non accettarmi! Fino a quando non lo farò da me nessuno potrà amarmi...», esclamai.
    «Michael, aspetta...», cercò lei di bloccare le mie parole, cercando di fermare il dolore che fluiva come lo scorrere veloce di un fiume in piena.
    «Provo orrore, capisci? Per me stesso! E nel caso in cui tu decida di non starmi accanto, ora che ti ho detto cosa provo, ti capisco. Non posso fare peso anche te di questo mio stesso panico... Ho paura a mostrare queste cose perché la gente poi mi rifiuti
    Ero in completo subbuglio emotivo. Sentivo che non potevo sopportare l’idea che lei, da quel giorno, mi evitasse, ma da una parte la potevo comprendere. Non avevo il coraggio di dirle che, se se ne fosse andata, io avrei sofferto tantissimo, ma nemmeno volevo lasciarla andare. Sharon doveva rimanere con me. Come avrei fatto senza la sua compagnia? La sua sensibilità? Il suo sorriso? I suoi occhi? Senza il tutto?
    «Michael, adesso smettila!», echeggiò lei. Io rimasi immobile, dandole le spalle che avevo voltato nel frattempo che stavo parlando. Non avevo il coraggio di girarmi, fissavo il pavimento.
    «Guardami negli occhi, per favore...», disse con voce smorzata, ma io non ubbidii. Ero troppo codardo, avevo troppa paura per vedere la reazione del suo viso, specchio dei suoi sentimenti. Poco dopo neanche mi accorsi che era venuta di fronte di me, con le mani sul mio volto, portando i miei occhi dritti nei suoi.
    «Ascolta», continuò con calma. Nei suoi occhi vedevo severità e rabbia, ma allo stesso tempo una strana luce... «Quello che dici non è vero. Non ho mai sentito dire dalla tua bocca cose più cattive di queste! Davvero pensi che per me questo sia un peso? Credi che, se tu mi facessi così tanto orrore e ribrezzo, non me ne sarei già andata? Non avrei trovato una scusa? Pensi davvero che io sia così?»
    Il suo fiato era soffocato. I suoi occhi ricolmi di un luccichio sempre più vivo, formandosi alle estremità inferiori dei suoi confini... Lei stava piangendo. L’avevo fatta piangere!
    «Io so cosa significhi essere diversi, sentirsi osservata e sapere che nei pensieri altrui ci sono solo brutte considerazioni. Pensi che io non abbia mai provato sensazioni così? Non solo sono stata denigrata, come tu ben sai, e isolata... Be’, sta a guardare».
    Con gesto rapido e irritato si tolse l’asciugamano di dosso, gettandolo sul primo lettino che vidi a distanza di quasi due metri. Quasi mi venne un blocco respiratorio, misto agli ormoni scombussolati che cominciarono a vaneggiare, simili agli scoppiettii dei popcorn. Era bellissima... Dio quanto lo era... Fisico perfetto, curvilineo... Mi ci vollero minuti prima di riprendermi, ero troppo attontito dalla sua presenza.
    Calma, Michael, respira a fondo e non distrarti... Controlla i tuoi istinti...
    Mi si avvicinò con passo rapido, ma ad ogni modo con la camminata degna di una donna sensuale... Non seppi come feci a resistere, una volta che mi fu accanto a quasi venti centimetri dal mio corpo.
    «Guarda le mie gambe, qua», disse indicandomi un punto preciso verso l’interno. Era una tentazione troppo grande da tenere a freno, per un momento temetti fosse un puro attacco alla mia sanità mentale. Eppure c’era qualcosa di strano...
    «Vedi queste sottili linee bianche? Sono smagliature, niente di grave sembrerebbe. Inizialmente si manifestano col colore rosso, ma poi diventano visibili e lucide... Sono cicatrici perenni, non sono curabili», disse, lasciandomi evidentemente stupito. Ne aveva per quasi tutta la fascia interna.
    «E qua, guarda», disse indicandomi la coscia esterna, dopo altri vari punti sulla pancia e sulle fianchi. «Sono dovute alla poca flessibilità della cute e sono indelebili. Non ci sono cure per eliminarle...»
    Non spiccicai parola. Ero troppo sbigottito per dire qualcosa di decente. All’inizio non le avevo viste, ma da quando me le aveva fatte notare le riconoscevo con chiarezza... Non sapevo esistesse questa cosa...
    La sentii soffocare una risata senza divertimento. «Pensa che si vedono molto più chiaramente su chi ha la pelle scura, o mulatta, come me... Sebbene non è un male così grande – poiché ne esistono di peggio – ho sofferto molto a causa loro... Mettiti nei miei panni: secondo te è bello far vedere il proprio fisico alla gente, magari in spiaggia, col costume, coperto da queste linee? Che penserebbero mai le persone di me se dicessi “ehy guarda il mio corpo, ho perfino le striature, oltre che ad essere una mulatta”? Pensi che non mi senta orribile per gli altri?»
    «Sharon...», sbiascicai inerme. Non sapevo che pensare. Quei lemmi che stava proferendo dalle sue labbra mi ferivano come piccole lame d’acciaio...
    «Ovviamente io non ho i tuoi stessi problemi, me ne rendo conto; io non sono famosa, e so che la gravità del mio problema non è come il mio...», continuò incrollabile.
    Cercai di bloccarla in qualche modo, ma non ci riuscii. Mi faceva star male quella situazione, e mi sentivo colpevole. Stava mostrandomi quelle cose perché io le credessi, perché io smettessi di farmi male... Mi stava mostrando i suoi punti deboli, le sue paure fisiologiche, cose che non avrebbe di sicuro mai rivelato a uno sconosciuto. Sapevo che queste problematiche che aveva la facevano soffrire dentro. Stava facendo la stessa cosa che avevo fatto io.
    «Per favore, basta... Io ho...», dissi, ma non finii il discorso che mi si bloccò il respiro, ma non perché era una emozione troppo bella per il mio cuore... Con una mano appoggiata al suo fianco, mi fissava. Una goccia le era scesa rapida rigandole una guancia.
    «Probabilmente sto facendo la figura della vittima nei tuoi confronti... Non ti sto mostrando i miei difetti perché tu mi possa compatire; è davvero l’unico modo questo per farti capire che io ci tengo a te, non importa le malattie o problemi che hai? Anche io ho paura che la gente, una volta saputo i miei difetti, mi abbandoni... Mi guardano come se fossi un’aliena... Tutte le persone a cui rivelavo le mie angosce, usavano queste contro di me, o peggio, mi abbandonavano... Ero sola, sempre...».
    Il mio cuore si stava sbriciolando. Se c’era una cosa che non avrei mai desiderato era che qualcuno piangesse per causa mia. E io avevo ferito proprio lei... Sharon...
    «Vieni qui...», sussurrai prendendole la mano, spingendola con più forza di quanto immaginassi verso le mie braccia. Lei si lasciò andare a quella presa, mentre un’altra lacrima cominciò a scenderle dall’altra guancia. Mi faceva così tanta tenerezza, la mia Sharon...
    «Scusa... Non volevo arrivare fino a questo punto», le sussurrai con delicatezza in un orecchio, frattanto che mi rendevo conto della nostra attuale situazione. La stavo abbracciando... Ed eravamo in costume?!
    Oh mio Dio, stavo arrossendo! Tutta questa mia dannata timidezza...! Eppure sembrava stesse svanendo come polvere, al contatto con la sua pelle. Per un’ennesima volta, con grande piacere, potei sentire appieno il suo profumo, l’essenza così provocante e dolce che emanava. Sarei potuto rimanere lì in eterno, con le mie braccia che la tenevano stretta al mio petto, ma non so quanto avrei resistito alla tentazione.
    Il suo calore a contatto con il mio faceva sembrare tutto così irreale, non credevo neanche stessi vivendo davvero. Nonostante fosse in costume, potevo percepire il suo aumentare e diminuire del respiro nel suo petto, incostante, come il mio. Quello che stavamo vivendo – le emozioni che stavamo provando – erano le stesse? Provava nel cuore quel senso di innalzamento verso il cielo che provavo me medesimo?
    «Sono io che ti devo chiedere scusa... Non ho capito che la tua è solo paura, un terribile timore che io possa scappare...», la sentii dire dall’incavo del mio collo nel quale nascondeva il suo viso. Era il suo posto preferito dove nascondere il suo volto, ogni volta che l’abbracciavo. «Ma io non ho intenzione di andar via, a meno che tu non lo voglia... E non dirò mai niente a nessuno»
    Discostai dal suo volto i riccioli castano scuro dei suoi capelli, guardando attentamente ogni dettaglio del suo viso ancora adagiato sull’incavo. «Io non ti caccerò mai lontano, e mi fido della tua parola data... Ho la certezza inspiegabile che posso fidarmi di te. Sei una delle poche che riesce a capirmi veramente per quello che sono, per il Michael che esiste nella realtà, non per la star chiamata “Michael Jackson”. Solo Michael...»
    Lei mi guardò con un sorriso, cominciando a staccarsi dalla posizione in cui ci trovavamo. Solo quando si separò da quella stretta ne percepii l’immediata mancanza, l’imminente imbarazzo dei nostri due corpi troppo vicini.
    Il mio cuore stava battendo come un pazzo nel petto, tanto che temetti di non riuscire più a farlo calmare. Ad un certo punto lei aprì le braccia, alzando le spalle, in un gesto secco e bambinesco.
    «Quindi, sbaglio o dovevi aiutarmi a nuotare nell’acqua fonda? Hai per caso cambiato idea?», disse arrossendo. Io le sorrisi – ebbi paura di sembrare un cretino, un ebete a quel sorriso a 32 denti che mostravo, evidentemente infatuato – ma cercai di riprendermi.
    «No, anzi», dissi sfregandomi le mani. «Iniziamo proprio adesso. Vieni...», le dissi avvicinandomi al bordo piscina, in un angolo dove era evidente che non si toccasse. La guardai e la vidi scrutarmi con timore.
    «Che c’è?», chiesi con espressione divertita a quel suo sguardo scrutatore e intimidito. I suoi occhi erano un continuo vagare fra l’acqua e me; in parte non riuscivo a capacitarmi di come potesse avere così tanta paura dell’acqua fonda.
    «Non vorrai mica farmi fare un tuffo, vero?». Non appena le annuii tutto sereno e calmo che ero, i suoi occhi si spalancarono. «Ma è fonda... E se non riesco a tornare su? Non ho nemmeno provato ad entrare dentro e cercare di stare a galla, figuriamoci se ho il coraggio di tuffarmi...»
    «Tu sai nuotare, hai paura solo di ricommettere lo stesso errore di rischiare di affogare. Hai detto che sapevi galleggiare bene, prima di quel incidente», dissi con convinzione. «Facciamo così, io mi tuffo per primo e poi tu ti butti. Una volta che sei dentro, ti tengo io a galla... Ti fidi di me?»
    Sharon rimase con lo sguardo fisso sull’acqua, poi mi osservò mite con assenso del capo. Sorrisi e, dopo una breve rincorsa, non esitai a buttarmi. Il contatto con l’acqua fresca fu stupendo, istantaneo e puro, e servì molto a rinfrescare i miei ormoni bollenti. Ancora riuscivo a vedere il corpo e il volto bellissimo di lei nella mia testa ad occhi chiusi, e quel momento sperai che l’acqua vincesse su quegli implacabili istinti.
    Come potevo resistere a lei? Tutto di Sharon mi attraeva. Per chiunque lei poteva sembrare una ragazza qualunque, dal bel fisico, ma oltre all’aspetto c’era il suo carattere meraviglioso a rendere Sharon ancora più speciale. Era unica. E questo era uno degli altri motivi a rendermi pazzo, a farmi uscire terribilmente fuori di testa.
    Lei era riuscita a capire... Sharon andava al di sopra di ogni schema, al di fuori delle regole delle persone che si vedevano in giro e con la quale mi ritrovavo ad avere contatti. Era diversa da tutti, poiché tutti erano diversi da lei. Sharon come me non amava i pregiudizi, leggevo attraverso i suoi occhi quando era triste, amareggiata, arrabbiata, allegra, felice, serena...
    Era solo una questione di feeling la nostra? Io non credevo. Ci doveva essere qualcosa di più, qualsiasi altra cosa che andava fuori da ogni schema ordinario delle leggi della terra e della normalità. Dentro di me una voce diceva che il nostro incontro, tanto normale quanto scontato, era invece stato un segno. Un qualcosa donato dal divino, da Dio forse. Se era per caso così, ancora di più dovevo tenerla stretta a me e ringraziarlo.
    Riemergendo dall’acqua, ancora ad occhi chiusi, mi apprestai subito a tirarmi i capelli bagnati dietro il capo, per poi dopo rivolgere il mio sguardo curioso verso Sharon. Mi guardava immobile, con le guance un poco scarlatte, senza spiccicare parola. Mi apprestai allora a rivolgerle un sorriso.
    «Avanti, ora tocca a te», dissi con espressione schietta, come se fosse una delle cose più naturali al mondo che si potesse compiere. Lei aggrottò la fronte, appoggiando entrambe le mani sui suoi fianchi.
    «Parli tu. Per te è una cosa da poco...», disse avvicinandosi in modo molto cauto – addirittura schivo - sul bordo piscina, toccando con la mano destra l’acqua tiepida. La vidi rabbrividire, per poi lanciarmi uno sguardo rassegnato. «Davvero mi prenderai?»
    «Te lo giuro, a costo di morire seduta stante», promisi con fare solenne e sincero. Sharon si piegò dalla posizione accucciata in cui si trovava, voltando un suo imminente sorriso divertito verso il basso, ad occhi chiusi. Era sempre magnifico il suo sorriso, in ogni maniera in cui lo manifestasse.
    «Vedi di non giurare il falso, ne va della tua incolumità...», continuò drizzando la schiena e inarcando un sopracciglio da finta scettica.
    «Dai, buttati», la incitai sfiorando il velo dell’acqua con le mani. «Altrimenti sarò costretto a bagnarti con le maniere manuali o venirti a prendere io stesso...»
    «Non ce la faresti...», mi provocò lei, mostrandomi la lingua. Mostrai un’espressione di sfida, falsamente scioccato da quello che lei mi aveva appena detto. Davvero pensava non ne avrei avuto il coraggio?
    «Dici sul serio? Guarda che ti vengo a prendere, non osare provocarmi...», dissi mite.
    Lei sorrise furbescamente, socchiudendo gli occhi. «Ne sono convinta al 100%. Non lo faresti mai. M.A.I.»
    «Oh, come vuoi, ma questa te la sei voluta tu...», e così dicendo m’immersi fino a raggiungere il bordo piscina, l’angolo vicino alle scale di marmo che portavano all’esterno. Una volta fuori, Sharon sorrise decisamente sconvolta, cominciando ad allontanarsi ad ogni passo che percorrevo verso lei.
    «No... Non ci provare nemmeno, Michael... Non ti avvicinare...», bisbigliò lei con tonalità di voce sempre più squillante man mano che mi approssimavo a lei. I nostri occhi non erano incollati l’uno a l’altro, e fra le mie labbra comparve un sorriso sornione.
    «Volevi provocarmi? Adesso ne subirai le conseguenze...». Così dicendo aumentai la velocità dei miei passi fino a correre verso di lei. Sharon urlò mezza divertita mezza spaventata, con l’adrenalina nelle vene, scappando a gambe levate da me. Era abile, dovevo ammetterlo, ma io ero più capace di lei... E, senza ombra di dubbio, più scattante.
    Nonostante i via vai attraverso i vari lettini a sdraio – entrambi avevamo le lacrime agli occhi da tanto stavamo ridendo –, riuscii a prenderla. Con agile scatto la presi per una parte nella schiena, dall’altra per le gambe, e la portai sopra la mia spalla destra come un sacco di farina. Non era leggera ma nemmeno pesante, non mi costava poi così tanta fatica l’impegno di tenerla sulle mie spalle.
    «Michael! Lasciami!», disse ancora con occhi lacrimanti, lanciando calci e manate senza la minima potenza verso di me. Ero sicuro che non voleva farmi male, perciò con convinzione la ignorai, sfoderando un sorriso enorme, e mi portai sempre più vicino al bordo da dove mi ero tuffato. Là l’acqua era abbastanza fonda da riuscire a non farle male in caso di imprevisti, ma neanche troppa da farla affogare.
    «Oddio no! Michael! Oddio!», cominciò a esclamare, alzando la voce, non appena si accorse delle mie intenzioni, nonostante il suo capo fosse rivolto alla mia schiena. «Scusa! Ti chiedo umilmente scusa!»
    Una volta che fummo vicino alla piscina, le feci cambiare posizioni e la riportai comodamente sulle mie braccia ad una posizione abbastanza confortevole. «E’ troppo tardi per pentirsi», dissi ridendo non appena mi accorsi del suo sguardo intento se ridere o disperarsi.
    «Pronta per un buon tuffo in piscina come inizio corso?», Sharon mi lanciò uno sguardo fulminante.
    «Lo prendo come un sì», esclamai divertito, e subito dopo spiccai il salto.
    La sua presa attorno al mio collo si fece più possente una volta che ci ritrovammo a mezz’aria, ma quando fummo dentro fui io a stringerla. Come le avevo promesso, non la lasciai affogare, e quando tornammo incolumi con il volto fuori dall’acqua scoppiai dalle risate a causa di quella sua espressione scombussolata.
    Risi così tanto che non seppi nemmeno dire io quando smisi. Silenziosamente, con un sorriso sardonico, Sharon si sistemò i capelli bagnati via dal volto, dato che ero praticamente io che la tenevo a galla, in braccio a me. Ora che eravamo in acqua la fatica veniva ancora meno. Senza che lei se ne accorgesse, arrivai in un punto dove potei toccare anche io, almeno per il momento.
    «Com’era il tuffo? Emozionante?», le chiesi, mentre lei mi lanciò uno sguardo sorridente e diabolico. «Vedi, alla fine non era poi così terribile! Ho anche mantenuto la promessa, tu che eri scettica»
    Lei sorrise, più tranquilla di prima. «Grazie, sei stato gentile. Non ho sentito mancare la tua stretta nemmeno un secondo...», rispose con lentezza mordendosi un angolo del labbro inferiore.
    Il suo respiro caldo poco lontano dal mio volto e le sue mani strette in una morsa delicata attorno al mio collo... Dentro di me, il cuore aveva ripreso a battere a ritmi troppo accelerati per essere solo una lieve palpitazione anormale.
    Più cose stavano prendendo chiarezza dentro la mia anima e il mio cuore... E dentro la mia mente.


    _______________________________________




    Capitolo Ventidue.


    Lose direction of my mind
    Punto di vista: Sharon Villa/Michael Jackson.


    Mille tremori m’invadevano – braccia, testa, schiena avevano mai perso il contatto con gli impulsi nervosi del cervello – e il fiato si faceva ogni secondo sempre più esitante. Non sapevo nemmeno come il mio cuore potesse ancora battere, a dispetto di quel dato di fatto.
    Potevo sentire l’adrenalina della nostra vicinanza, ogni centimetro che divideva i volti l’uno dall’altro emanava una palpabile sensazione di stordimento inaudito. La situazione era inaudita. I sentimenti che stavo provando erano insensati, troppo coraggiosi per dovere ad un batticuore di circostanza.
    Non seppi quanto tempo rimanemmo così, ma per me sembrò che si fosse fermato per sempre. Le sue mani grandi a tenermi ferramente la schiena, le mie d’istinto legate al suo collo con delicatezza, accarezzate dolcemente dai suoi riccioli neri bagnati... Occhi negli occhi, potevo scrutare nei suoi quelle profondità scure e intense la ricchezza di una luce molto più brillante di quella che mostrava ogni momento in cui mi capitava di osservarlo. Guardai ogni contorno, ogni minimo lineamento di quel viso troppo inumano per appartenere ad un uomo qualsiasi.
    Ero sul punto del non ritorno. Il mio cuore stava procedendo senza tener conto dei rischi di cui mi stava avvertendo la mente. Avevo perso la direzione della mia testa, non m’importava più a cosa sarei andata contro, volevo solo avvicinarmi a lui... Volevo essere più vicino alle sue labbra, accostarle alle mie desiderose di un qualcosa che non credevo sarei riuscita mai a provare nella mia vita con nessuno. Neanche la unica parte lucida della mia coscienza ormai poteva farmi riprendere da quei pensieri!
    Con respiro fermo in petto, mi strinsi al suo petto in contemporanea al momento in cui lui restrinse le sue mani più possentemente dietro la mia schiena. In automatico, portai il mio viso nel solco del suo collo, lasciando un inudibile sospiro fuoriuscire dalle mie labbra socchiuse.
    «Adori stare con il volto sull’incavo destro del collo...», constatò lui con voce sottile, affievolita da un respiro soffocato che gli uscì da quelle labbra perfette. Con le poche forze che avevo in corpo, le quali a quell’abbraccio sembravano essere scomparse, riuscii a sorridere.
    «Penso sia una cosa ereditata fin dalla mia infanzia», dissi riprendendo voce alle mie corde vocali. «La mia mamma mi diceva sempre che amavo rimanere così, soprattutto quando mi prendeva in braccio, in ogni occasione si ponesse di fronte, ma che lo facevo solo con poche persone...»
    «Chi erano queste persone?», chiese con sincera curiosità, cominciando ad accarezzarmi i capelli. Se non fosse stato lui a reggermi per la schiena, pensai che sarei sprofondata a picco immediatamente. Quel momento era troppo eccitante – lui era troppo eccitante! – da riuscire a tenere a bada.
    «Be’... Mia madre... Mio cugino... Solo due, tre cioè con te...», risposi prendendo lunghe pause con l’intenzione di tenere sotto controllo il respiro. Sentii la presa alle mie spalle farsi più stretta, aumentando in automatico la pressione delle mie mani legate al suo collo e il contatto sentito fra i nostri corpi. Stavo trattenendo il respiro...
    «Allora posso considerarmi di gran lunga fortunato...», rispose con sorriso sulle labbra. Feci lo stesso e, con un coraggio che non seppi da dove provenisse, spostai la mia fronte sulla sua scapola. Lo sentii addirittura irrigidirsi, trattenere il fiato come avevo fatto io poco prima, ma non ero decisa a muovermi.
    «Perché ti definisci così fortunato? A molti non interesserebbe neanche se questo mio gesto è ereditato o no, o se è solo un vizio...», ribadii seria, lasciando per il momento da parte le mie calure, osservando ogni contorno di quella sua spalla destra che sembrava scolpita.
    Michael mi osservò serio, con delicatezza riportò con sole due dita il mio mento verso il suo viso, cosicché i nostri occhi fossero ancora incatenati gli uni agl’altri. Eravamo nella stessa posizione iniziale, quella prima che io spostassi il mio capo sul suo collo, e tenevo le mie mani sul suo petto.
    «A me interessa la ragione del tuo gesto, è vero, ma sei tu in realtà che mi coinvolgi; voglio scoprire ogni cosa che ti riguarda... Ogni sofferenza, ogni segreto, ogni passione, ogni cosa che non sopporti o ami... Voglio conoscere in tutto e per tutto la persona di cui io mi sto...»
    «Michael, ti devo parlare», intervenne una voce maschile. Con gesto secco mi allontanai pochi centimetri dal suo volto, guardando l’uomo che mi ritrovavo di fronte. Chi altri era, se non il suo manager?

    Michael voltò quasi totalmente il capo verso le sue spalle, all’inizio stranito, poi osservando con sguardo serio - e dedussi anche un po’ irritato – il signor Di Leo, il quale rimase neutro a guardarci... Anzi, guardava lui. Io ero invisibile.
    Preoccupata che Michael poi potesse risentire di quella situazione con il suo manager o chiunque altro, cercai di allontanare la presa che mi teneva legata al suo petto. Contro ogni mia aspettativa, lui non si decise a slegare le sue mani attorno alla mia schiena ma a stringermi ancora di più al suo corpo. Potei dire di essere stata rossa in viso come non mai, totalmente imbarazzata da quel suo modo istintivo che non prevedeva di lasciarmi andare in ogni maniera.
    «Frank», iniziò lui con espressione distaccata. Vedere Michael non sorridere era una strana sensazione, soprattutto se in un’occasione del genere. «Se si tratta di lavoro, ne possiamo parlare domani in privato...»
    «Non si tratta di lavoro, solo due parole... Ti rubo cinque minuti del tuo tempo libero», rispose immediato lasciando quegli occhi vacui senza il minimo cambiamento. Michael sospirò affranto, abbandonando la presa con cui mi teneva, e mi rivolse un’occhiata amareggiata.
    «Torno subito, te lo prometto», mi sussurrò in un orecchio, accompagnando i miei piedi ad appoggiare il fondo della piscina. «Qui si riesce a toccare, non muoverti e non... »
    «Forse è meglio smettere qua», dissi, ignorando lo sguardo perplesso che mi lanciò non appena enunciai quelle parole. «Vai a parlare, prenditi tutto il tempo che vuoi... Possiamo benissimo fare un altro giorno».
    «Forse faresti bene ad ascoltarla, Michael», disse l’uomo a bordo piscina. Ah, mi dissi mentalmente indecisa se mostrare uno sguardo irritato, adesso esisto?
    Vidi Michael gettargli un’occhiata fulminea, senza voltare le spalle, affinché l’altro non riuscisse a percepirla, dopodiché mi studiò con attenzione. «D’accordo, però tu intanto vai a cambiarti e a farti con tutta calma una doccia. Le mie sorprese non sono ancora finite...».
    Senza esitazioni annuii, obbedendo agli ordini da lui richiesti. Non so se lo fece apposta o perché gli venisse naturale, ma mi prese la mano e con passi lenti ci ritrovammo entrambi fuori dalla piscina. Ora che ne avevo una visione più ravvicinata potevo scorgerlo più sensuale di sempre, forse anche più di prima di quando l’avevo visto bagnato la prima volta, corso fuori dall’acqua per buttarmi dentro con lui.
    Non riuscivo proprio a capacitarmi di quanto potesse deviare la mia mente. Vedevo il suo fisico, e il mio cuore accelerava ogni suo battito, rischiando di andare in iperventilazione. Ancora non mi ero abituata a quel ben di Dio... Soprattutto se bagnato d’acqua, con quel costume nero a sottolinearne le curve...
    Oh Cristo di Dio! Sharon!, mi rimproverai mentalmente, in meno di un secondo in cui un pensiero poco casto mi balenò in mente, scuotendo la testa percettibilmente con una smorfia.
    Prendemmo i nostri accappatoi - frattanto che Frank svolse perfino il capo da tutt’altra parte piuttosto di non vederci - e mi lasciai guidare da Michael lungo il corridoio di luce arancione, ignorando egli stesso se il manager gli fosse dietro. Non sapevo come si sentisse Michael, ma potevo percepire dalla sua stretta che fosse per ovvietà di cose abbastanza sull’attenti. In parte, mi sentivo perfino osservata da quell’uomo robusto chiamato Frank Di Leo. Fu così che poco dopo, dopo un’ultima carezza sulla mia mano, poco prima di separarla dalla sua, lo vidi avviarsi con l’altro allo spogliatoio maschile.
    A passi trascinanti, mi diressi in quello femminile, facendo come mi aveva detto Michael. Mi spogliai, mi feci una rapida doccia per togliermi via quel tanto mancato quanto nostalgico odore di cloro dalla mia pelle, indossando il vestito che avevo trovato assieme al costume, quasi una buona mezz’oretta prima.
    Presi tutto il tempo per riprendere i battiti e respiri mancati, e, nel frattempo, l’apatia cominciò a fluttuante nei miei pensieri.

    ***

    «Tu sei completamente impazzito, ti rendi conto?», disse Frank, abbastanza agitato, squadrandomi dritto negli occhi, irrigidito. Io battevo i piedi a terra, con lo sguardo verso il basso, guardando ogni piccola gocciolina d’acqua che cadeva giù dal mio corpo bagnato d’acqua clorata, cercando con tutte le mie forze di lasciar perdere ogni sua parola o discorsetto che stava per rivolgermi.
    «Non capisco di cosa parli, Frank. Io sono assolutamente normale, come ogni giorno», risposi cercando di sviare il discorso, con tutte le intenzioni di chiuderlo e recuperare il materiale per farmi una doccia, cosicché da non far aspettare molto Sharon. Immaginavo già le cose che si era preparato in testa da dirmi e, detta tutta, proprio non mi interessava quello che pensava, nonostante fosse il mio manager.
    «Sì che lo sai, e riguarda appieno quella ragazza che prima era abbracciata a te e che tu tenevi stretta al tuo petto!», continuò con gli occhi sbarrati ad ogni parola che gli usciva dalla bocca. Sbuffai stanco.
    «Non c’è niente di cui discutere. Vuoi sapere perché eravamo in quella situazione? Vuoi sapere perché l’ho portata qua con me in piscina privata, nonostante ti avessi già avvisato di starne fuori? Be’, non sono affari tuoi», dissi convinto, dandogli le spalle alla ricerca del balsamo fra tutti quei prodotti proposti.
    «Invece sono affari anche miei, anche sulle ragazze che decidi di portarti a letto in un futuro prossimo o che, invece che essere delle ballerine e basta, come da contratto, si comportano da tutt’altra cosa!», esclamò portandosi le mani sui fianchi.
    Mi voltai di scatto, irritato, alzando un sopracciglio sconvolto. «Frank, starai scherzando spero?! Non posso credere che tu possa dire certe cose, non posso credere che tu le pensi veramente!»
    «Invece sì, Michael, e sono convinto che sotto quella maschera da bambola caffèlatte ci sia una persona pronta a ferirti. Avanti, tutti vogliono stare con te solo per la tua fama, per quello che potrebbero diventare a stare un solo secondo sotto i riflettori con te! Credi che lei sia diversa da tutti?»
    «Frank, non mi servono i tuoi pregiudizi insensati e ridicoli, visto che, per prima cosa, tu non la conosci nemmeno un poco per quel che la conosco io; secondo, in questi giorni che ho passato con lei non sono stato bene, ma stupendamente! Sono riuscito a essere solo Michael, un uomo senza quella solita maschera che deve usare con tutti per proteggere sé stesso!»
    «Lei ti procurerà dolore come tutti gli altri, stanne certo! E poi non sai quanto sia capace di mentire bene una persona come lei, non ne dubito visto che è bravamente riuscita a stregarti in questo modo...»
    «Sharon non mente, lei è sincera! È sincera, ha provato mie stesse paure che altri non riescono nemmeno ad immaginare, compreso tu! Suo padre la picchiava, come anche mio padre con me; ha paura di rimanere sola e di venire ferita un’altra volta nella sua vita, proprio come me!... Ma che sto a parlare a fare con te di queste cose! Non puoi capire...» dissi cominciando a camminare nervoso avanti e indietro per la stanza.
    «Ascoltami, Michael, tu non sai assolutamente dei problemi con cui stai andando incontro con lei...», fece per continuare Frank, ma la mia pazienza era già ridotta in granelli di polvere pronti a scomparire. Mi stava rovinando tutta l’enfasi di quel delicato momento passato con Sharon...
    «No, tu ascoltami!», dissi con rabbia e fermezza, puntando l’indice della mia mano sinistra in alto, a pochi centimetri dal mio viso. «Io so a cosa sto andando incontro, non sono un bambino inesperto su queste cose, e so che di lei posso fidarmi. Ho vissuto da quando avevo cinque anni nel business. Potrò riporre in lei la mia fiducia e lealtà per sempre! Lei non è come gli altri. Perciò, se a te questo sta bene, ne sono felice... Altrimenti non mi interessa! Non ascolterò nessuno se non il mio cuore e la mia di testa...»
    «Michael, stammi ad ascoltare!..», disse lui avvicinandosi a me con una calma snervante con lo scopo di tranquillizzare i miei nervi. Come poteva, ora che aveva scatenato l’inferno dentro me?
    «...E terzo», dissi alzando la mia voce a risuonare di qualche nota sopra la sua. «Non voglio che parli di Sharon in quel modo, per nessuna ragione! Non m’importa cosa pensi, lasciala in pace. Lasciami in pace!»
    Nello sguardo di Frank vidi una luce di paura misto ad un sentimento di rabbia repressa farsi avanti, nonostante il vuoto di quei suoi occhi scuri. Ignorando quell’occhiata di rancore, proseguii prendendo con gesto irritato e secco il mio cambio di vestiti per dopo.
    «La mia vita sociale la controllo da me, se sbaglierò ne pagherò le conseguenze! Tu e tutti gli altri dello staff non siete pagati per controllare le mie relazioni affettive, quello è esclusivamente compito mio».
    Frank fece per dire qualcosa, ma con gesto ferreo chiuse le sue labbra in una stretta irata, per poi passarsi una mano a massaggiarsi il collo. «Ne riparleremo domani, Michael. Magari sarai abbastanza rilassato da poterne discutere con calma, una volta passata la sbornia causata dalla presenza di Sharon...»
    «Non ci sarà bisogno. Non c’è nient’altro da dire, non voglio più sentire una parola su questa faccenda a meno che non sia per questioni veramente importanti!», dissi freddamente. «E ora, se permetti...»
    «Ci vediamo, Mike...», disse Frank non aggiungendo altre parole, voltando i tacchi verso l’uscita dello spogliatoio prima che gli potessi chiedere di andarsene. Non appena ne fu fuori, sentii il bisogno di sfogare quella estenuante pressione che mi aveva provocato. Rimasi immobile e in silenzio per pochi istanti. Poco più tardi, con fare rude presi il mio accappatoio che mi ero tolto poco prima di immergermi nelle docce e lo buttai a terra con rabbia. Loro – nessuno di loro! – avrebbe potuto capire quello che provavo...
    Sharon non era come Frank pensava che fosse... Io ne ero convinto... Io sapevo dentro di me che non mi avrebbe mai fatto del male... Dio me lo aveva confermato, molte volte; in ospedale per esempio, o quel giorno. Lei me lo avevo confermato, con la sua dolcezza, e con situazioni in cui avevo potuto scoprire, pezzo per pezzo, alcuni dettagli importanti della sua anima.
    Per lunghi istanti lasciai lo scorrere fresco della doccia prendere il sopravvento sulla mia anima, placando i bollori della rabbia appena avuta... Forse era vero che ero stato un po’ troppo aggressivo, ma non tolleravo che si potesse pensare e/o offendere in quel modo Sharon... Proprio non lo tolleravo!
    No, lei no... Non Sharon. Lei era quella ragazza. Quella che io stavo cercando... Solo lei...

    ***


    Con il battere del mio piede destro sulle piastrelle bianche, aspettavo in ansia Michael. Il signor Di Leo doveva essersene già andato, prima che io avessi finito di cambiarmi e tutto il resto. Con mia fortuna, non lo avevo neanche incrociato.
    Frattanto che aspettavo che Michael arrivasse, potei trastullarmi con il vestito nero che indossavo. Era un capo magnifico; due fasce di seta – con lieve apertura fra esse - mi tenevano strettamente il seno, legate entrambe dietro il mio collo, mentre uno stretto bustino scendendo prendeva la forma di una gonna dai mille veli che, girando, si aprivano lasciando un po’ scoperte le gambe. Ai piedi, indossavo delle ballerine intonate all’abito, basse, con un fiocco in ognuna di esse ad incorniciare ciascuna scarpa.
    Per una volta nella mia vita possedevo qualcosa di principesco; era il mio sogno di quando ero molto piccola indossare un qualche capo d’abbigliamento simile, allo stile Marilyn Monroe, e finalmente ne avevo avuta la possibilità, almeno per un’ora soltanto mi sarebbe bastato.
    Mentre mi svagavo allegramente come una bambina di pochi anni per quella mia piccolo soddisfazione personale, rispecchiando il mio riflesso nell’acqua limpida della piscina quieta, sentii d’improvviso una forza sollevatrice alzarmi da terra alle spalle. Due mani mi presero per il busto, legate assieme in una presa solidissima, facendomi girare senza che i miei piedi toccassero terra. Risi per quella sorpresa inaspettata, proprio mentre mi faceva roteare. Chi era se non Michael?
    Stupendo come sempre, indossava pantaloni stretti - da crepacuore - e neri e una magnifica camicia rossa. Era incredibile, ma ogni cosa che si metteva lo faceva risaltare ancora più paradisiaco di quanto non lo fosse già! Anche vestito di stracci, per me lui sarebbe rimasto sempre un incanto...

    «Ti ho fatto aspettare molto?», disse lui facendomi fare mezzo giro guidato da una sua mano su me stessa, in modo che potemmo essere di nuovo uno di fronte all’altra, occhi incatenati agli altri. Non appena vidi il suo sorriso grande su me, non potei che allargare a dismisura il mio.
    «No, non tanto...», risposi con fare da furbetta, gettando un’occhiata al vestito. «E’’ stato un tempo necessario per riuscire a godermi un abito che ho sempre sognato d’indossare... Grazie di cuore!»
    Lui prese la mia mano sinistra adagiata sul mio fianco con così tanta dolcezza che temetti di potermi sbriciolare come un biscottino, nel frattempo che i suoi occhi si riempirono di un qualcosa d’indescrivibile.
    «Tu non devi ringraziarmi di nulla, davvero. Ti meriti queste cose come nessun altro. E’ il mio primo regalo per te...», poi, ignorando la mia espressione sbigottita, divenne più serio e preoccupato. «Hai per caso incontrato Frank...?»
    Io scossi la testa, rassicurandolo con un sorriso mite, e allora lo sentii sospirare sollevato. Chissà cosa si erano detti... Di sicuro, però, ero convinta che avessero parlato di me. Il mio sesto senso non mi ingannava mai – o quasi – e negli occhi di Michael riuscivo a scorgere scintille opache di pensieri cupi.
    «Qualcosa non va, Michael?», chiesi istintivamente inclinando il capo coprendo il punto a terra cui li stava fissando. Lui m’osservò dapprima confuso e stranito, in seguito si aprì in un altro di quei sorrisi angelici.
    «No, stai tranquilla», rispose scuotendo poco il capo. Successivamente, dopo avermi guardato con un’altra delle sue occhiate sbarazzine prese la mia mano e mi fece girare di nuovo su me stessa, divertito. «Sei bellissima, leggermente di più di quanto lo sei già sempre e comunque...»
    Sentii le mie guance il torpore di un’imminente coloratura scarlatta sulle mie guance e ogni pensiero dal minimo senso logico frammentarsi. Non credevo possibile che potesse esistere una persona così dolce, capace di rompere in solo poco tempo le mie barriere di diffidenza verso gli altri, create dopo tanti anni di duro impegno emotivo, e rendere così frastornata la mente.
    Sorrisi, con ogni istinto a reprimere quel calore che provavo dentro. «La questione vale anche per te, solo che tu sei sempre bellissimo», sbottai recitando una smorfia da bambina piccola.
    Nonostante si mise a ridacchiare, continuai a parlare. «E comunque, grazie. Non ricevo molto spesso complimenti, il più delle volte solo critiche...», ammisi abbassando lo sguardo con un sorriso rassegnato.
    Nel frattempo che gli mostrai un’espressione birichina – per non pensare a tutte le belle parole mai ricevute nella mia vita – lui mi guardò amorevolmente. «Allora ci penserò io a dirti tutte le cose che le altre persone non ti hanno mai detto. A cominciare da questo...»
    Così dicendo, senza che potesse passarmi per l’anticamera del cervello che potesse fare una cosa del genere, mi si avvicinò baciandomi delicatamente la guancia sinistra. Un fiume di tremendi brividi senza pietà m’invase tutto il mio corpo, il quale non aveva né la forza né l’intenzione di muoversi dalla posa fossilizzata in cui si trovava. Il mio cuore non batté fino a quando Michael si staccò con lentezza dal mio viso arrossato e bollente di un sentimento che non sapevo al momento descrivere.
    “Oh. Mio. Dio. Abbi. Pietà. Di. Me.”, fu questo l’unico pensiero istantaneo che mi balenò nel cervello, echeggiando in tutto il mio spirito sottosopra. Ero intontita fuor di maniera, neanche avessi usato di sostanze stupefacenti con effetti irrimediabilmente gravi.
    Intanto che io pensavo alla straordinarietà di quel gesto così tenero e senza confronti, vidi Michael studiarmi con sguardo attento e curioso, serio ma negl’occhi una piccola luce di soddisfazione brillava.
    Senza pensarci su, parlai. «Lo sai che questo te lo meriteresti anche tu, dopo tutta la sopportazione che hai avuto nei miei confronti?», sbiascicai inerme di fronte alla sua presenza, a sopracciglio inarcato e sorrisetto.
    Michael rise divertito, lanciandomi un’occhiata di evidente felicità. «In effetti sì, ma non adesso. Abbiamo altre cose da fare; come ti ho detto già prima, altre sorprese... Prima fra tutte, ti devo far conoscere qualcuno che, da quando siamo arrivati, non ho potuto farti conoscere...»
    Lo guardai con aria interrogativa. «Davvero? Ma non è parte dello staff del tour?»
    Sorrise. «In realtà non lo è affatto. È una mia amica davvero speciale, una delle poche importanti che ho...»
    E adesso sta qui chi è?, mi chiesi sentendo quelle solite spine di gelosia infilzarmi il cuore, accorgendomi che il mio volto doveva aver cambiato espressione. Fortunatamente, Michael non se n’accorse nemmeno!
    Neanche mi lasciò il tempo per reagire o rispondere a quella sua frase, che con la sua solita risata cristallina e lieve mi portò fuori dalla stanza della piscina privata, ancora mano nella mano, in una direzione a me conosciuta.



    SPOILER (click to view)
    Pochi capitoli e avrò spostato tutta la storia ;) Quando troverò presto il tempo per spostare anche gli ultimi, li metterò volentieri. :love:
     
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    Capitolo Ventitre.


    Love everything you do
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Percorsi con Sharon, mano nella mano, ancora per un’ennesima volta in quella lunga giornata piena di emozioni, corridoi e ascensori di corsa, non vedendo l’ora di arrivare nella mia suite. Ignoravo tutti gli occhi sconcertati di chi capitava incontrare, in quel momento l’unica cosa importante era sorprendere...
    Arrivammo al 25esimo piano dell’edificio ansimando - nonostante avessimo preso l’ascensore per salire tutti quei piani – davanti alla porta della stanza 502, la mia. Tirai fuori da una tasca dei pantaloni la chiave e, proprio mentre stetti per infilarla nella serratura, Sharon parlò.
    «Non ci posso credere», disse con voce stupita. Io la guardai curioso, con una mano pronta per aprire la porta. Sharon prese dalla sua borsetta nera una chiave, simile alla mia, sventolandomela di fronte agli occhi con un sorriso. «La mia stanza è la 503»
    Sorrisi, rimanendo al momento immobile per quel caso a me tanto apprezzato, ridendo per quella sua espressione ingenuamente meravigliata che aveva in volto. Quindi pochi erano i passi a dividerci, dato che le nostre due camere erano vicine... Chissà come mai, ma ero più felice di quanto potessi immaginare!
    Con uno scatto, aprii la porta della suite. «Aspettami qui, solo un momento. Devo vedere se è già dentro...», dissi frattanto che lei annuì, lasciandola poi fuori ad aspettare per qualche secondo.
    Quando fui dentro, vidi la mia cara amica arrivarmi accanto, con quei bei occhi sgranati che possedeva. Sorrisi, prendendola in braccio e sussurrandole nell’orecchio. «Mi raccomando, fai l’educata con Sharon. È una persona molto importante per me, siamo intesi?»
    Lei annuì soltanto e quando fece per emettere un suono con la bocca, portai l’indice alle labbra, in segno di non emanare un fiato. Lei subito chiuse le labbra, zitta e muta, e la misi giù.
    «Ti ricordi il piano? Tu nasconditi, poi ad un certo punto vieni fuori facendole una bella sorpresa. Sarà contenta di conoscerti!», dissi bloccandomi ai continui segni di assenso del suo capo. Mi chinai sulle ginocchia, l’accarezzai e poi uscii con il sorriso fra le labbra. Una volta fuori, Sharon mi rivolse un’occhiata improvvisamente curiosa.
    Io le sorrisi da dietro la porta socchiusa, che lentamente spalancai senza lasciar intravedere l’amica. «Penso che ora posso fartela finalmente conoscere...», dissi con fare vago. Anche nelle sue labbra comparì un sorriso furbo.
    «Speriamo di andarle “a genio”...», accennò lei, nel frattempo che mi spostai dalla posizione in cui ero per farla entrare nella suite. Con abile scatto, chiusi la porta a chiave, salutando educatamente con un cenno del capo un’inserviente che era appena uscita da una camera più lontana da quella mia, la quale mi osservava ad occhi strabuzzati.
    A passo quasi saltellato, mi posi di fianco a Sharon. La vidi osservare la mia stanza con occhi scintillanti di una luce di contentezza, stupita positivamente da quella bellezza immobiliare. Per un momento, rimasi ad osservare la stanza anch’io.
    Tutta la stanza era avvolta da un che di delicato, forse era la posizione dei mobili perfetti e ridisegnati a rendere tutto più magnifico; c’era un grande divano in mezzo alla stanza, mobili in legno, candelabri curati e ridefiniti, un enorme tappeto panna stile moderno, un pavimento in legno che saliva in una piccola scalinata di sì e no due gradini. Una volta salita quella piccola scala di roccia calcarea, avevi di fronte a te le grandi finestre che portavano al terrazzo, alla tua sinistra una porta che portava al bagno – con completo di idromassaggio – e alla tua destra le due uniche stanze da letto, ovviamente una per me e una per... per la mia amica. Proprio quando entravi in quella stanza, nella stessa posizione in cui eravamo io e Sharon, potevi vedere tutto l’arredamento da un punto di vista più bello e stupefacente.
    Pochi secondi dopo, però, la vidi guardarsi intorno confusa. Quella suite aveva incantato anche me. «Michael, ma io questa amica non la vedo mica...», dissi cominciando ad arrossire scarlatta sulle guance, mentre anch’io mi prestai ad osservarla con un’espressione divertita all’estremo. «OhmioDio!», urlò poi.
    Quasi fece un salto dallo spavento, una volta che la mia Bubbles le posò una sua manina sul polpaccio della gamba destra. Già, era lei la mia amica speciale. La mia adorata scimpanzé da compagnia... Chi altri?
    Io mi tappai la bocca con una mano per non scoppiare a ridere, vedendo lo sguardo spaventato e allo stesso tempo sorridente di Sharon e la sua mano appoggiata al petto dall’improvviso spavento preso.
    Sharon mi guardò con un sorriso sempre più sconvolto e stranito. «Quindi era lei la...», io annuii soltanto, incapace di emettere parola, e lei riposò i suoi occhi su Bubbles. «Ahhh... Ora ho capito!», disse con voce sottile.
    In quel attimo scoppiai letteralmente! Le espressioni nel volto di Sharon parlavano da sole, indescrivibili come al solito, e lei si voltò a gettarmi un’occhiata beffarda. Mi aveva fatto nel modo più assurdo e completo, morir dal ridere. Contagiai anche Bubbles, la quasi mi venne incontro affinchè la potessi prendere in braccio ridacchiando.
    Anche una volta che fu sulle mie spalle gli spasmi della risata continuavano a coinvolgermi. Sharon guardò entrambi con le mani appoggiate sui fianchi, in volto una smorfia sardonica. «Ridete, ridete... Che intanto è la qui presente ad aver fatto un salto dalla paura!»
    Io allora mi avvicinai dandole un buffetto sulla guancia, mentre lei incrociò le sue mani al petto cercando di trattenere una risata, spostando il capo da tutt’altra parte.
    «Ad ogni modo...», dissi dopo un altro colpo di tosse per riprendermi. «Ti presento una mia carissima amica. Sharon, questa è Bubbles. Bubbles... Lei è Sharon.», e così dicendo misi la misi a terra.
    Bubbles la guardò indecisa, lanciandomi occhiate indagatrici, e io con un cenno del capo la indussi ad avvicinarsi a Sharon. L’altra, dolcemente, si accucciò a terra, con sorriso innocente e puro, a ginocchia a terra.
    «E’ un piacere conoscerti, Bubbles», disse allargandosi in un sorriso ancora più aperto. Bubbles allora le si avvicinò, dapprima con lentezza poi sempre più incuriosita, scrutandola.
    Le girò intorno una volta, mentre Sharon mi lanciò un’occhiata divertita e, ovviamente, ricambiata con altrettanto sorriso. Ero curioso su quello che sarebbe successo, perciò mi chinai anch’io a terra.
    Dopo quel piccolo giro, Bubbles mise una sua piccola manina sulla guancia di Sharon. Quest’ultima le sorrise, accarezzandola nel capo con fare molto dolce. Bubbles mi lanciò un’occhiata, e poi riallacciando i suoi occhi in quelli di Sharon le saltò praticamente addosso.
    Quasi mi venne un colpo quando lo fece; Sharon scoppiò a ridere non appena Bubbles le si lanciò in braccio, dovendosi però tenere con una mano a terra per non scivolare. Io guardai scioccato prima Sharon – che ancora sorrideva divertita - poi Bubbles, la quale m’ignorò.
    «Bubbles, così non si fa!», dissi con tono di rimprovero. Bubbles mi lanciò un’occhiata docile, poi tornò a stringere al collo Sharon. Ella non poté far altro che ricambiare la stretta, con un sorriso a 32 denti Con un sospiro richiamai di nuovo Bubbles, questa volta con più autorità. Alla fine cedette a guardarmi di nuovo, con occhi quasi imploranti, per poi osservare perpetuamente Sharon, la quale si sciolse a quei suoi occhioni grandi.
    Ecco, lo sapevo... Bubbles ha affascinato anche lei...
    O forse era il contrario?
    «Bubbles, vieni qui», le dissi con un gesto della mano. Bubbles sembrò stringere la presa attorno al collo di Sharon, ma quando alzai un sopracciglio si apprese a staccarsi da lei e venire verso di me con passi appesantiti.
    «Michael, dai, non ha fatto niente di male...», mi disse pregante. Ma io non avevo alcuna intenzione di sgridare Bubbles, anzi. Per farglielo capire a Sharon, le lanciai di sottecchi un’occhiata ridente e allegra.
    Quando Bubbles mi fu di fronte, le parlai. «Ti avevo detto di fare la signorina educata... Erano questi i patti...», dissi lieve mentre la mia amica scimpanzé abbassò gli occhi colpevole. Tirai un sospiro. «Vai, abbracciala pure...»
    Con un gesto delle mie mani le feci capire le mie parole – a qualcosa servivano i libri che avevo comprato per educarla – e allora lei si rigettò di nuovo sulle braccia di Sharon, la quale le venne perfino da lacrimare dal ridere.
    «Ma che scimmietta carina che sei...», disse sottovoce Sharon. Mai avevo visto Bubbles gettarsi così dopo pochi minuti di conoscenza nelle braccia di qualcuno che non fossi io. Ero contentissimo per questo, davvero felice!
    Le lasciai lì per qualche istante, nel frattempo che io mi alzai per controllare il materiale fuori nel terrazzo. Per fortuna nessuno poteva vederci, visto le tende di seta di lino messe in ogni colonna a coprire la visione, in tutte quelle gran file di balconi enormi. Controllai che tutto fosse come avevo chiesto e programmato, e ne fui soddisfatto.
    Tutto era stato esaudito correttamente nei minimi dettagli... Ora dovevo aver bisogno solo dell’ospite d’onore.
    Sfregandomi le mani agitato, portandole al viso, mi decisi a fare quello che dovevo compiere. Perciò, mi avvicinai a Sharon e Bubbles – quest’ultima si divertiva a toccarle il viso e i capelli ricci – e con un sorriso mi prestai a parlare.
    «Vieni, Sharon, ti devo mostrare una cosa...», dissi porgendole la mano. Lei mi guardò curiosa, ancora di più sbigottita quando Bubbles all’improvviso si staccò dalle sue braccia e se ne andò silenziosamente verso la sua camera privata.
    Bravissima Bubbles, mi complimentai con lei a mente, va tutto secondo i miei piani...
    «Non so che diavolo stia per succedere, ma mi lascerò guidare dal mio istinto e da te, poiché mi fido», disse Sharon prendendo la mia mano. Sorrisi e, con una decisa pressione, la feci alzare fino ad arrivare a pochi centimetri dal mio.
    Eravamo così poco distanti, le nostre labbra vicine di soli pochi soffi d’aria... Pensavo che sarei potuto morire in una situazione così, o peggio, arrendermi agli istinti, ma una lucidità assai impressionante in me mi disse che non dovevo. O almeno, non in quel momento.
    «Ora, chiudi gli occhi...», dissi in un soffio. La vidi emanare un respiro soffocato, poi spostando il suo sguardo le venne da ridere imbarazzata. Mi voltai verso la direzione che indicavano i suoi occhi, confuso. Poco dopo soffocai anche io una risata. Era Bubbles, la quale ci osservava dallo stipite della porta con occhi curiosi e silenziosi.
    «Bubbles...», dissi io con tono di rimprovero. Lei se ne andò in uno scatto velocissimo, chiudendo la porta. Riportai il mio sguardo su Sharon, che fece lo stesso, bagnando il mio labbro inferiore in modo rapido e conciso. Ero in ansia.
    «Aspetta un momento... Ehm, chiudi gli occhi intanto», continuai andando a prendere in camera l’unica cosa che potesse sembrare ad un fazzoletto, lanciando un fugace sguardo sardonico su Bubbles che stava appoggiata alla porta, con occhi in continuo vagare fra me e Sharon. Uscito, aspettai che Bubbles chiudesse la porta.
    Vidi Sharon ancora con occhi chiusi, con lieve sorriso sulle labbra, e le legai il fazzoletto in viso per coprirle la visione. Stette per dire qualcosa, ma io con un sussurro leggero sull’orecchio la bloccai in un batter d’occhio.
    «Shh... Non dire niente per ora... Adesso fatti guidare da me...», dissi tenendola per le spalle, facendole fare qualche piccolo passo in avanti. «Ti fidi di me, vero?»
    Lei soffocò una risata ironica. «Come non potrei, dopo che mi hai dato prova della tua parola questo pomeriggio in piscina?»
    Risi piano, e alla fine un passo alla volta la portai fin fuori dalle vetrate coperte che davano alla loggia. «Ferma qui, un secondo», dissi avvicinandomi ad uno stereo appoggiato a terra vicino a una delle colonne bianche.
    «Michael?», mi chiamò lei intanto che io sistemai delicatamente un Cd nel lettore. Mi voltai a risponderle.
    «Sono qui, tranquilla...», le dissi, e solo allora la vidi rilassarsi da una posizione irrigidita. Si toccava la seta del vestito, cercando di capire dove fosse e cosa stesse per accedere.
    Finalmente la musica, quando schiacciai il tasto “Play”, cominciò a risuonare nell’aria, candida e leggera. Subito alle prime note Sharon capì chi fosse, e subito si aprì in un sorriso felice.
    «Frank Sinatra... E’ un mito... Come hai fatto a...?», chiese immediatamente. Io sorrisi soddisfatto, con espressione furba e divertita.
    «A capire che fosse il cantante giusto per questa serata? Be’, ho visto quel giorno a casa tua molti Cd suoi, ho pensato che ti piacesse davvero molto per avere una collezione così ben intatta...»
    «Lui è uno dei miei cantanti preferiti... Da piccola me ne ero perfino innamorata...», disse con un sospiro imbarazzato.
    «Allora è adatto ad una occasione del genere...», dissi mettendomi di fronte a lei, dopo aver soffocato una lieve risata, la quale aveva ancora il fazzoletto a coprirle la vista. Sharon mostrò uno sguardo esitante spiccare da quel suo volto caffè latte.
    «Michael, mi fai paura... Qual è l’altra sorpresa per questa lunga giornata?», disse con mezzo sorriso. Con altrettanta espressione, con un gesto rapido e teatrale le tolsi la benda.
    «Questa», dissi spostandomi dalla sua visione. Subito i suoi occhi assunsero un’aria al di là di ogni semplice stupefazione del momento. «E’ questa la sorpresa...»
    Il loggione era completamente illuminato di candele, poche ma belle luminose. La notte scura ormai raggiunta riusciva ad oscurare per quel poco di più la visita di qualche occhio curioso ed indiscreto, oltre alle tende di lino nero svolazzanti a coprire ogni angolo del balcone, attaccate elegantemente sulle colonne. Un tavolo in mezzo, con un candelabro a tre candele in mezzo, era già bandito con la cena di quella giornata.
    Sharon si portò lentamente le mani a coprirsi il viso, emozionata a tal punto da commuoversi. «Non ci posso credere... Tu hai fatto tutto questo...? Per me?», chiese con voce rotta da quella smisurata felicità che provava.
    Io annuii, ma non appena feci per dire qualcosa sentii una stretta calda avvolgermi. Sharon mi stava abbracciando. Stava abbracciando me...
    Non mi fidavo delle donne; molte situazioni in passato mi avevano fatto avere un senso di diffidenza verso loro, ma con lei era totalmente diverso. Non riuscivo nemmeno io a capire come mai avesse quell’effetto su me. Io ero timido, ma con lei sembrava riuscissi ad acquistare il coraggio per farmi avanti. Mai avevo fatto qualcosa di mia iniziativa – prendere per mano una ragazza, abbracciarla, ecc. – e con Sharon tutto sembrava possibile. Assieme a lei niente era impossibile, niente era prevedibile, soprattutto le mie reazioni.
    Sentivo il cuore in petto martellarmi a ritmi irregolari e veloci, mentre con delicatezza ebbi l’istinto irrefrenabile di stringerla, sfiorando la pelle liscia e sensibile della sua schiena mezza libera. Dio... Mi sentivo avvinghiare dal desiderio...
    Sentivo l’odore di pulito della sua pelle attraversarmi dentro, cosicché riducesse ogni poro del mio corpo in fibrillazione. I suoi capelli ricci e ribelli erano così belli da accarezzare, da toccare... Lei era magnifica. Come nessun altro prima lo era stato per me quanto lei.
    Neanche tanto quanto Tatum, né Brooke, né nessun’altra donna che nella mia vita avessi mai abbracciato, fuorché mia madre. Mia madre però era una cosa totalmente diversa – era la mia mamma! – ma Sharon era così caratteristica già anche nel modo in cui ti sfiorava... Se avessi potuto, l’avrei riconosciuta anche fra milioni di persone diverse.
    Forse ero solo io che ero così infatuato del suo fascino, ma non la pensavo così. Bastava vedere con quali occhi ricolmi di desiderio un uomo la osservasse; avevo notato questa cosa da subito, da quando aveva ballato al bar quella notte, la stessa in cui era comparso suo padre.
    «Grazie Michael», mi disse sottovoce, con voce quasi inudibile a orecchio umano. Docili, ci allontanammo da quel abbraccio, guardando lo specchio di ognuno negl’occhi dell’altro. Era così graziosa, così soave... Non era umana.
    Rimasi ad osservarla, inerme, senza parole sufficienti da dire, troppo impotente alla sua presenza. L’unica cosa che riuscimmo a fare entrambi fu sorridere, e fu allora che, sempre in silenzio, le presi la mano e la accompagnai a sedersi in una sedia del tavolo, accompagnati solo dalla bassa musica. Le note di “Angel Eyes” era già abbastanza per colmare i nostri sguardi silenziosi e carichi di sentimenti profondi non detti.
    Neanche facemmo tempo per prendere un boccone, che d’improvviso ci accorgemmo degli schiamazzi di alcune persone. Alcuni erano urli dalle stanze vicine – forse meglio dire fischi d’incoraggiamento – e altri erano gli urli dei miei fan dal piano terra.
    Io e Sharon ci guardammo ad occhi spalancati, per poi scoppiare a ridere imbarazzati. Non era possibile... Proprio nel più bello di tutte le situazioni dovevano interrompere?
    «Mi sa che mangeremo a mezzanotte se continuiamo così...», disse Sharon sdrammatizzando l’inconveniente. Dopo una breve risata di entrambi – carica per lo più d’imbarazzo – lei mi guardò. «Vuoi dare un saluto ai tuoi fan? Aspettano che tu li saluti credo...»
    «Non capisco come abbiano fatto a capire che, fra tutte le logge coperte che ci sono in questo hotel, abbiano riconosciuto quella mia...», dissi con tono sardonico.
    «Istinto, Michael. I fan se la sentono dentro questo genere di cose», disse gettandomi un’occhiata piena di sottointesi.
    Risposi a quello sguardo furbo con altrettanta furbizia. «Sembri quasi un’esperta, da come parli...» Lei rise. «Be’, certo, tutti almeno una volta nella vita abbiamo ammirato qualcuno...»
    «E chi sarebbe?», chiesi curioso, appoggiando i gomiti al tavolo. Lei ammiccò un’occhiata ridente.
    «Vuoi nomi e cognomi? La maggior parte dovresti saperli... Ehm... Whitney Houston, U2, Barbra Streisand… Tu...»
    «Eri anche una mia fan?», chiesi interessato, nonostante sapessi già in fondo la risposta – non avevo dimenticato quel giorno a casa sua, alla vista dei miei album risalenti perfino ai Jackson 5 - mentre lei mi rivolse una smorfia divertita.
    «Anche, e lo sono ancora... Diciamo di sì...», dopo una pausa, guardò verso le tende di lino del terrazzo. «Forse è meglio che li cerchi di placare un po’, altrimenti andranno avanti tutta la notte...»
    «Ben detto», dissi io alzandomi scattante dalla sedia. Mi dispiaceva per i fan, ma non volevo sprecare nemmeno un secondo di quella mia serata con Sharon. Anche perché, di sicuro, non sarebbe stata la prima notte a cui sarebbero venuti ai piedi dell’hotel.
    Mi diressi verso la sala, alla ricerca di carta e penna, poi sentii bussare alla porta della stanza. Sbuffai spazientito e andai ad aprire. Ovviamente, era Frank e due altri membri dello staff. Il mio umore si ritrasformò, e il ricordo di quasi una mezz’ora prima divenne chiaro come l’acqua.
    Dio... Non in quel momento! Non ora!, urlai spazientito nella mia testa. Fortunatamente, Sharon non si accorse della loro presenza – o forse aveva fatto finta di niente e basta -, frattanto che si apprestava a guardare con discrezione fuori dal terrazzo, attenta a non farsi vedere dai fan.
    «Michael, meglio che tu faccia qualcosa per calmare i bollori dei tuoi fan, altrimenti andranno avanti tutta la notte», disse Frank con voce bassa, non appena entrò all’interno della suite.
    «Non ti preoccupare, ci penso io... », risposi cercando di chiudere il discorso e di affrettarmi a mandarli fuori di lì. «Avete per caso carta e penna? Scrivo un messaggio per loro, così almeno forse li posso calmare...»
    Uno dei tre del mio staff si apprese a chiamare un inserviente fuori dalla porta, per chiedere quello che avevo domandato, ma subito lo bloccai. «Fa niente, non ti preoccupare... La prossima volta che verranno...»
    «Sei di fretta, Michael?», disse Frank lanciandomi uno sguardo indagatore. Io ricambiai con lieve freddezza, per poi svoltare i miei occhi verso gli altri due collaboratori che mi guardavano ad occhi ben attenti e curiosi.
    Non avevo voglia di dirgli che Sharon era con me, e non perché avevo paura dei loro giudizi; non volevo possedessero inutili pregiudizi su lei, che non se li meritava affatto! La cosa doveva essere privata, se avrei parlato avrei soltanto finito per mandare a monte tutta la mia serata organizzata bella e perfetta!
    «Mi arrangio io per questa situazione; mi farò vedere alla loggia, li saluterò, e dopo vedrete che si calmeranno... In passato si tranquillizzavano sempre in quel modo, e di sicuro dopo quel gesto decideranno di tornare a casa...», dissi con agitazione irrequieta. I due annuirono, Frank continuò a fissarmi accuratamente. Io lo fissai impassibile.
    «Be’, forse meglio andare. Michael ha ragione...», disse uno dei due, alla destra di Frank, dopo pochi minuti di silenzio. Gli altri annuirono e alla fine se ne andarono. Sbuffai irritato, con le mani suoi fianchi, e solo una volta che mi voltai vidi Sharon osservarmi dalle vetrate.
    «Stanno diventando sempre più irrequieti, lo sai?», disse, chiaro e pieno riferimento ai fan. Accennai ad un sorriso stanco, essendole grato che non avesse tirato fuori argomento “Frank & Co.”, benché ero sicuro li avesse visti e sentiti. Con passo veloce mi ritrovai di nuovo accanto a lei e, sempre più sbrigativo, mi portai fuori da una delle tende di lino nero per salutare i fan.
    Odiavo andare in tour, ma mi piaceva salutare i miei fan e stare a contatto con loro. In quel caso, però, avevano interrotto un’occasione importante, ma dopotutto non era colpa loro... Nessuno di loro si sarebbe immaginato che con me ci fosse Sharon, e tanto per essere precisi non potevano sapere neanche chi fosse.
    Non appena mi portai alla loro visione un coro di urli si fece più alto, e sorridendo li salutai ancora di più con un cenno della mia mano. Vari residenti delle suite si erano prestati a vedere la situazione, anche quelli che come me avevano avuto l’idea di mettere le tende di lino a coprire la visuale da sguardi indiscreti.
    Dopo quasi mezzo minuto di saluti, scomparvi nuovamente dietro la tenda.
    Sharon mi guardò sorridente, che io ricambiai con occhi pieni di scuse. «Scusa, ora possiamo proseguire con la cena...»
    Lei scosse la testa, lanciandomi un’occhiata rassicurante. «Non ti preoccupare, hai fatto bene a salutare le persone che ti amano, anche se solo per un secondo...»
    Detti un buffetto tenero sulle guance di Sharon, dandole un bacio in una tempia. Lasciai scorrere lentamente il brivido a quel contatto delle mie labbra sulle sue pelle in modo da potermelo gustare con ogni mio senso del corpo... Com’era dolce la mia Sharon...
    Grazie a lei, forse, i miei tour sarebbe stati meno vissuti in solitudine, o meglio... Forse la mia intera vita...
    Quando ci sedemmo nel piccolo tavolo tondeggiante, in posizione uno di fronte all’altro, a qualche metro dalla balconata che dava al piano terra, ebbi un forte istinto che non seppi contenere. D’improvviso sentivo il gran bisogno di voler sapere ogni dettaglio della sua vita; per tutto quel tempo, sapevo solo di quanto aveva fatto suo padre su di lei e sua madre e che era sempre stata sola. Io volevo sapere tutto.
    Per nostra fortuna – o più per la sua – delle vellutate tende svolazzanti di sera rendevano l’ambiente più privato cosicché non potesse sentirsi imbarazzata...
    «Dai, dimmi tutto», dissi, neanche dopo due bocconi di pasto ingeriti, nel frattempo che Sharon mi fissò curiosa e stranita.
    La guardai con uno sguardo attento e in attesa di una sua risposta, o domanda.


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    Capitolo Ventiquattro.


    Ain't ever fell so fast
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Tutto cosa?», chiesi con mezzo sorrisetto. Lui mise un gomito appoggiato al tavolo, mentre con l’altra mano portava una forchettata vicino alle sue labbra.
    «Tutto quello che riguarda te. La tua vita. Ogni cosa che hai passato. Tutto, insomma», rispose lui alzando un po’ le spalle come un bambino. Per un momento rimasi a guardarlo ad occhi aperti, poi mi aprii in un sorriso.
    «La mia vita non è poi così interessante da ascoltare; sono sicura che, se ti racconterò la mia intera storia di una vita, di sicuro poi penserai che non è proprio avvincente come la fai sembrare...», dissi poggiando gli occhi in basso.
    Dopo aver ingurgitato quel poco di cibo sulla forchetta, Michael rispose. «Vuoi scommettere?»
    Lo fissai a lungo, poi entrambi sorridemmo nello stesso momento. Come una bambina, mi lasciai trasportare da quella scommessa infantile. «Sì, scommetto ogni cosa che tu voglia!»
    «Davvero?», mi chiese lui alzando un sopracciglio. Subito arrossii, venendomi in mente un pensiero poco casto che, senza prevederlo, mi era passato per la mente. «Allora se vinco io tu dovrai promettermi solo una cosa...»
    Neanche un secondo a quella domanda continuò, come se non avesse notato il doppio senso della mia frase e il mio rossore istantaneo. Probabilmente le luci non mettevano del tutto in risalto il colore scarlatto delle mie guance…
    «Che cosa?», chiesi prima di addentare un boccone della mia cena. Lui mi sorrise dolce, è stavolta fu lui ad arrossire pian piano sulle gote, appoggiando le posate che teneva in mano per massaggiarsi le mani.
    «Che ogni giorno ceneremo insieme in privato, in questa suite», disse timidamente. «E che non rifiuterai qualsiasi regalo che ti proporrò in futuro».
    Entrambi ci facemmo rosati sulle guance, mentre sentivo il sangue scorrermi sotto la pelle e diventare sempre più caldo e fluente. Non sapevo come si potesse sentire lui in un momento del genere, ma di sicuro io ero a rischio di infarto imminente. Michael voleva cenare ogni sera con me. Lui voleva perfino che glielo promettessi.
    E voleva che accettassi ogni suo dono futuro... Ma me ne aveva già fatti così tanti! A cominciare con l’averlo al mio fianco, soprattutto in un momento del genere... Mi sarei sentita viziata, soprattutto avevo paura che sarei stata presa di mira perché lui fosse pensato un’idiota, a cadere nelle loro spregiudicate avance di una 26enne.
    Ma io non ero così. Perciò forse non dovevo temere. Avevo Michael al mio fianco, e fino a quando lo sarebbe stato non avrei avuto paura... E se un giorno mi avrebbe abbandonato? Avrebbe creduto alle parole vili che qualcun altro un giorno gli avrebbe detto di me?
    Sebbene una parte di me avesse così tanta paura del futuro, un’altra invece non vedeva l’ora di rispondere... E vinse, per l’appunto, proprio quella piccola grande parte di me stessa. La parte che per anni avevo cercato di placare. Ma ormai lo sapevo bene... Michael aveva buttato giù qualsiasi muro io avessi costruito per proteggere la mia anima.
    «Accetto le condizioni», esclamai convinta, nascondendo tutte quelle perplessità davvero molto bene rispetto ad ogni mia previsione. «Ma se in tal caso vincessi io... Sarai dopo tu a raccontarmi tutta la tua storia – e intendo non quello che so già, ma quello che non so di te – e non sarai obbligato a farmi nessun regalo che io non accetti».
    Lui rimase abbastanza soddisfatto da quelle mie parole, con comunque qualche perplessità dietro quegl’occhi scuri, e dopo un attimo di riflessione rispose. «D’accordo, e così siano i patti. Non si può più tornare indietro, da adesso».
    Mi porse il mignolo della sua mano destra e, sentendo un gran calore a quel gesto così bambinesco e pieno di puro affetto innocente e sincero, gli porsi anche il mio mignolo. Stavo così bene con lui...
    «Dai, comincia», m’incitò lui fissandomi con occhi grandi da cerbiatto. Io sorrisi e così cominciai a raccontare di me, come se invece che parlare stessi scrivendo la mia biografia di una vita.
    «Sono nata il 17 maggio 1961, in un piccolo sobborgo del sud California chiamato Monterey. Là mio padre e mia madre s’incontrarono e vissero per un paio d’anni; lei abitava lì fin da quando era nata, lui era in vacanza con amici. Alicia, mia mamma, non mi ha mai spiegato come s’incontrarono e come mai decisero di sposarsi, ma so solo che un anno dopo il loro incontro nacqui io. Nata da padre per metà italiano e per metà americano e da madre americana di origini spagnole...». Poi, d’improvviso, la mia voce cominciò ad affievolirsi.
    «Vivemmo là per qualche anno; stavo bene là a Monterey, anzi, forse direi che quelli furono gli anni più belli della mia vita, per quel tanto che io riesco a ricordare...».
    Feci attimo di pausa – guardando, con la mente da un’altre parte, le tende di seta nera che coprivano la visuale del panorama -, e poi ripresi.
    «Abitavo con mio padre e mia madre in pace, eravamo una famiglia felice allora, e strano ma vero non pensarono mai di aver un altro figlio. A loro bastavo io... Ad ogni modo a Monterey non avevo di alcun problema, ero felice, ed in più avevo accanto a me persone meravigliose quali erano i parenti di mia madre, di cui mio cugino Jake...»
    «E’ il cugino di cui parlavamo prima?», disse Michael incuriosito, con occhi sfavillanti di una luce messa in risalto ancor di più dal baglior delle candele. «Uno delle due persone con cui...?», disse sfiorandosi con le dita l’incavo del collo. Io sorrisi dolcemente divertita.
    «Sì, è lui! Jake ed io avevamo un legame molto particolare, non sembravamo neppure cugini...», Michael inclinò il collo leggermente di lato, mentre il mio sorriso cominciava ad aprirsi maggiormente alle sue espressioni interessate. «La gente addirittura ci diceva che fossimo come fratelli. Nonostante fossimo diversi d’aspetto...», dissi accennando una risata divertita. «Quante volte avevo sentito dire “Tu e tuo cugino Jake sembrate davvero fratelli!”...»
    A dir la verità, una volta ci avevano detto perfino che sembravamo una coppia di fidanzatini, ma questo era meglio non dirlo; sarei scoppiata dal ridere come una scema, e volevo evitare di far la figura della schizzata! In effetti però non avevano torto...
    «Descrivimelo», disse Michael sistemandosi meglio sulla sedia, non staccando gli occhi da me. «Com’era? Che tipo è?»
    «Oh be’, in realtà non lo vedo da tanto, ma non penso sia cambiato molto...», ammisi sogghignando, stupita da quel suo strano interesse nel scoprire come fosse Jake. Lui aspettò in silenzio e in attesa che parlassi.
    «Uhm... Era... Era abbastanza alto, sarà stato 1,77, più alto di me di sicuro... Rispetto agli altri fratelli – in tutto sono quattro, figli di mia zia Ashley – lui era piuttosto chiaro di pelle, ma comunque mulatto. Era molto intrigante, aveva dei bei occhi blu, e non mi stupisco perché tutte le ragazze della zona gli girassero intorno come sanguisughe...», dissi soffocando una risata.
    «Con me è sempre stato dolcissimo, forse per la distanza di età che ci divideva o forse non so, ma mi trattava come una piccola principessa; avevo un debole per lui, lo consideravo un punto di riferimento nella mia mente, e lui non mi allontanava mai. Non si è mai rifiutato di starmi accanto. Mai...», dissi con voce addolcita da quei ricordi delicati.
    Michael abbassò lo sguardo pensante sul piatto, per poi rivolgermi un sorriso sereno. «Da come lo descrivi sembra una persona buona. Non mi stupisco perché vi siate voluti così tanto bene...», disse con voce bassa e amabile.
    Arrossii lieve sulle guancie, non tanto per il complimento, ma per la delicatezza della sua voce, e dopo un istante di smarrimento continuai la mia storia.
    «Purtroppo per me, all’età di sei anni dovetti trasferirmi con la mia famiglia – il fratello gemello di Ant... cioè, di mio padre, era ammalato di cancro – e dovetti dire addio alla mia adorata Monterey...», dissi con tono rassegnato e malinconico. Michael continuò a fissarmi senza dire una parola, abbassando per un secondo lo sguardo e storcendo le labbra in una smorfia mesta.
    «E per il resto, penso che la storia la sai abbastanza...», continuai sempre più con voce indebolita. «Anthony cominciò, alla morte di suo fratello gemello, a bere e cadere in depressione, così tanto da riuscire ad abusare di me e mia madre fin quando non me ne dovetti andare di casa».
    Michael mi lanciò un intenso sguardo agonico, mentre io glielo restituii con altrettanta tortura e freddezza allo stesso tempo. «Di quella parte del mio passato – dalle elementari alla fine del liceo – ho solo brutti ricordi. Il mio rendimento a scuola era perfetto - al di sopra di ogni media, lodata dagli insegnati e presa come studente modello nonostante le ripetute assenze -, ma i miei rapporti sociali erano inesistenti. Spesso i coetanei che mi fissavano e vedevano i lividi lasciati da mio padre provavano compassione per me, o addirittura odiarmi e deridermi, ed io sinceramente non ne potevo più. Volevo andarmene via per sempre da quell’inferno. Ero sola in quella miriade di persone che non facevano altro che giudicare».
    Dissi quelle parole con così tanto disprezzo da voler piangere di rabbia. Era strano avere di nuovo a che fare col passato, soprattutto dopo tutti quegl’anni a cercare di seppellire nelle segrete della mia anima tutti quegli orribili ricordi di un’infanzia e adolescenza del tutto privi di felicità e di tutto quello che avevo sempre sognato per me.
    D’improvviso soffocai una risata tutt’altro che euforica. «Sai, Michael, dopotutto quelle difficoltà però mantenni un lato positivo dentro di me; continuai a sognare, a sperare. Da sola ero riuscita a trovare il coraggio di affrontare le oscurità della solitudine, mi ero costruita le mie barriere di freddezza ed ero riuscita a mantenere un distacco da tutte quelle persone vuote e prive della capacità di riuscire a sognare. Non volevo abbandonare l’unica ragione di vita che mi rimaneva, anche una volta che morì mia madre...»
    «Sì... Ilary mi raccontò cosa successe al funerale di tua madre, quando eri stata portata in ospedale...», disse lui accennando un’espressione vaga di rancore e ira. Nello stesso momento ci guardammo negli occhi senza più staccarli.
    Intanto, nella mia mente, continui flash portarono immagini confuse e sfuocate di un passato che volevo dimenticare; la chiamata del ospedale, le lacrime che fredde rigavano il mio viso impallidito, il corpo privo di anima di mia madre nella bara, la sepoltura, mio padre da lontano a guardare, io infuriata e mio cugino che mi tratteneva nel andare a farlo a pezzi dalla rabbia... La mia fuga da quel maledetto posto...
    «Ti ha raccontato anche dell’infarto che ebbe a cui mio padre non cercò neanche di salvare? Che non ebbe nemmeno l’istinto di chiamare l’ambulanza, avendola comunque ai suoi piedi nel momento della sua quasi morte?», chiesi con voce tremante di rabbia e stizza, un odio che solo al ricordo mi veniva voglia di spaccare qualsiasi cosa mi capitasse per le mani. «Se lui avesse fatto qualcosa, lei sarebbe stata ancora viva!»
    Strinsi le nocche della mani sotto il tavolo così strettamente da farmi male, mentre i miei occhi cominciavano senza controllo a mostrare i segni evidenti di un imminente pianto. «Hai mai provato l’istinto di... di uccidere qualcuno? Di far patire la tua sofferenza e quella di chi ti stava a cuore alla persona responsabile di tutto quel dolore? Be’, io sì… Così tante volte...»
    Michael mi guardò con occhi agonici e d’impulso, prima che io potessi versare una benché minima lacrima, lui s’alzò dalla sedia e mi raggiunse ai lati della mia sedia, inginocchiandosi alla mia destra. Dovetti abbassare lo sguardo per guardarlo negli occhi, mentre non m’accorsi che una sua mano scivolò veloce ad accarezzarmi la guancia.
    «Ho provato anche io una sensazione così, credimi... Però ora è tutto passato, adesso sei al sicuro, quello che si è meritato si è meritato. È stato punito a dovere. Hai vinto, Sharon, hai vinto la tua battaglia! Sei una persona magnifica, non piangere...»
    Diavolo, stavo piangendo... D’istinto voltai il mio viso da tutt’altra parte. Non volevo farmi vedere, non se sapevo che così avrei fatto star male Michael... Ma io non piangevo perché ero triste, ma perché provavo un odio che non riuscivo a cancellare.
    «Sono... Sono così arrabbiata, non potrò perdonarlo mai! Mai!», dissi con voce bassa e sibilante. Con uno scatto, subito dette quelle parola, lanciai a Michael un’occhiata rancorosa per quel mostro che mi aveva rovinato la vita. «Prima di dare il mio perdono a un mostro come lui, preferirei rimanere all’inferno. Io non posso, non ce la faccio!»
    «Shh... Ora basta... Respira», mi disse accarezzandomi i capelli, avvicinandosi al mio volto con delicatezza. Io rimasi ad osservare il basso, sulla pelle la sensazione dei suoi occhi profondi su di me. Si alzò dalla posizione accucciata. «Vieni, forse è entriamo...»
    Annuii soltanto, e benedii il fatto che entrambi avessimo già finito di cenare. A dir il vero, non me ne ero neanche accorta... Eravamo noi ad essere stati veloci o era la serata ad essere passata troppo in fretta?
    Lentamente, accompagnata da Michael, mi alzai dalla sedia e ci dirigemmo verso l’interno della suite, mano nella mano. Un lieve senso di giramento di testa affannò la mia mente, ma riuscii a riprendermi non appena un soffio d’aria fresca attraversò d’impatto fulmineo i miei polmoni al passaggio dall’interno della suite all’estero. Grazie al cielo...
    Non appena fummo dentro, Michael si apprestò a chiudere le vetrate del terrazzo, chiamando con il telefono di servizio della stanza inservienti che potessero portare via il gran d’affare per la cena avvenuta. Mentre chiamava, con muti gesti gli chiesi se potessi andare in bagno; con un lieve sì convinto della sua testa mi diressi allora nella lussuosa e pulita toilette.
    Portai un po’ d’acqua fredda sul mio volto, in tutti i modi con l’intenzione di risvegliare i miei sensi, e mi detti una lunga occhiata allo specchio. Non ero poi nelle mie condizioni peggiori, forse solo un po’ stanca... Il cambio d’ora in effetti mi stava un po’ scombussolando... Almeno l’acqua mi aveva un po’ risvegliato da quel torpore.
    Quando uscii dal bagno, sentii chiudersi la porta d’entrata della suite, con Michael che fissava un punto vuole a mani sui fianchi. I camerieri erano stati veloci a pulire, o ero io ad essere stata in bagno per tanto? Non mi stupivo se fossi stata io ad essere lunga con i tempi...
    Accorgendosi di me, s’avvicinò. Era serio, molto pensieroso... Lo avevo ridotto io con la mia storia in quel modo? Ero davvero così deprimente? Ecco, forse lui era la ragione che mi spiegava perché non avessi amici...
    Lo vidi sedersi sul divano, frattanto che io immobile l’osservavo in ogni suo movimento; con un colpetto sul divano indicò anche a me di accomodarmi. Così feci e, una volta seduta, sospirai di getto, non sapendo definire se il mio fosse un respiro di sollievo oppure no. Subito poco dopo sentii la mano di Michael poggiarsi sulla mia nuca ed accarezzarmi il capo. Meccanicamente lasciai la testa adagiata e trattenuta dalle sue dolci e grandi dita affusolate, inclinandola, lasciando il mio cuore alleggerirsi da un peso. Strano ma vero, ma a quel contatto provai un immenso piacere e pace…
    «Forse è meglio che finisci di raccontarmi la tua storia, per stasera...», disse a tonalità vocale bassa e soffocata. Con quel poco di lucidità riacquistata soffocai una risata che lui ricambiò con sguardo serio e attento.
    «Ti ho fatto cambiare idea?», dissi ironica. «Ti ho depresso abbastanza?»
    «No, tu non mi hai depresso, anzi...». Il mio sguardo si fece scettico, tanto che lo guardai fisso per capire se mi prendesse in giro o dicesse sul serio.
    «Non sembra... E’ colpa mia che ora sei così serio...», bisbigliai con una smorfia, arrossendo sulle guance per rimorso. Michael mi guardò dapprima sbigottito, poi con un’espressione più dolce e affettuosa.
    «Ti sbagli... Stavo solo pensando da che punto iniziarti a raccontare la mia, di storia...», e così dicendo tirai su la testa dalla tenera presa della sua mano che mi teneva il capo.
    «Quindi ho vinto la scommessa?», chiesi con tono acceso ma allo stesso tempo demoralizzato.
    «No, affatto. La tua storia m’interessa ancora, ma ho pensato che è meglio fare un poco ciascuno, non trovi?», mi disse con un sorriso brillante quanto il sole. «E poi niente cambia, so già che gran persona meravigliosa tu sei...»
    Arrossii sulle guance, accennando un sorriso. «Anche io però ho capito come sei tu... So già che sei una persona fin troppo paziente e amabile...»
    Michael sorrise affabile, un colorito rosso tenue gli avvolse le gote facendolo ancora più tenero di quel che era, mentre si inumidì il labbro inferiore con delicatezza. Quanto era... Figo, quando faceva così!
    «Be’, in realtà so più cose private io su di te che tu su di me, e questo non è proprio giusto... Quindi, se a te non dispiace, potremmo far un po’ alla volta. Abbiamo tanto tempo per parlare...»
    «Già, tutta la durata della prima sessione del tour, almeno se non mi caccerai prima...», dissi notando il suo sguardo improvvisamente stizzito da quella frase. L’avevo provocato di nuovo, e intanto me la ridevo soddisfatta con un sorriso furbo in volto.
    «Sharon, non mi provocare... Lo sai che posso essere terribile se voglio...», mi disse studiandomi a mezzo sorriso.
    «E dimmi, quale sarebbe la mia “punizione” se continuerei a provocarti?», chiesi inclinando la testa in un lato.
    Lui abbassò lo sguardo, ridente, per poi lanciarmi un’occhiata lunga e profonda... Mmh... Qualcosa nel suo sguardo aveva un ché di diabolico quanto bambinesco... Non poteva farmela pagare...
    «Questa!», esclamò all’improvviso a suon di solletico, attaccandomi senza che io me ne potessi ben accorgere subito. Con una mano riuscii a neutralizzarmi un polso mentre, con l’altra, si dava da fare a farmi morire di ridarella facendomi gran solletico sui fianchi. Stavamo ridendo entrambi, ma quella che era a rischio d’infarto ero io!
    «Non... Non vale!», dissi per poi emettere una sempre più fragorosa risata. «No!... oddio, basta!»
    Avevo le lacrime agli occhi, in tutti i modi stavo cercando inutilmente ti trovare qualcosa con cui distrarlo dal farmi il solletico; d’improvviso la mia borsetta alle mie spalle cadde e per me fu il momento migliore per reagire. Michael rimase un secondo ad osservarla, smettendo per un attimo di farmi il solletico, e fu là che andai all’attacco!
    Con gesto fulmineo mi liberai dalla sua presa, il quale mi guardò confuso e di stucco, e mi apprestai a fargli il solletico sui fianchi come lui aveva fatto a me. Lo sentii emettere gridolini acuti, risate soffocate dalla mancanza di respiro, e io intanto sadicamente me la ridevo divertita.
    «No!... Pietà!...», m’implorò, ma non gli detti retta. Troppo tardi tornare indietro adesso, caro! Per cinque minuti abbondanti continuammo a farci il solletico; collo, fianchi, collo... Un continuo via vai! Fu solo quando sentii una musichetta familiare che entrambi ci bloccammo. Con gesto rapido voltai il collo verso terra, dove risiedeva la borsetta: Bubbles era lì – neanche l’avevo notata – e aveva aperto il mio carillon, uscito accidentalmente dalla borsa.
    «Bubbles!», disse Michael non cambiando posizione, tenendo le mani legate ai miei polsi. In effetti non avevo notato in che posizione noi... «Metti giù, dallo a Sharon...»
    Ma che diavolo mi fregava del carillon, piuttosto era come eravamo messi che mi faceva venire i sudori!
    Michael era sopra di me, con il volto a pochi centimetri dal mio, e teneva i miei polsi rigidi distesi sul piazzale del divano, poco lontano dal mio viso, affinchè non potessi attaccarlo; le mie gambe, ancora per metà con i piedi appoggiati a terra, erano a stretto contatto con le sue... I nostri corpi erano davvero vicini, uniti... Solo io seppi quanto mi mancò il fiato!
    Quando anche lui se n’è accorse, voltò lieve il capo verso il mio; le sue guance si fecero rosse, entrambi i nostri respiri erano soffocati e temibili. Ogni centimetro del mio corpo percepiva il contatto con ogni parte del suo, e temevo che il mio respiro potesse diventare quasi un gemito soffocato. I nostri sguardi vagarono alla ricerca delle labbra dell’altro, e Dio!, sono sicura che entrambi lo volevamo veramente!
    Non eravamo mai stati così vicini... Quella vicinanza era troppa... Oh no, io non potevo! Non dovevo!
    Bubbles ci interruppe prontamente stringendo la manica della camicia di Michael, cercando di attirare la nostra attenzione, emettendo un suono acuto dalla bocca; a quanto pare doveva essere parecchio gelosa del padrone... Sia io sia Michael la rimanemmo a fissare senza dire nulla, poi dopo un’ultima occhiata negli occhi imbarazzata da morire ci mettemmo ad una posizione... Ehm... Normale, come ogni persona che se ne sta decentemente sul divano!
    Subito Bubbles con un balzo salì sul sofà, in mezzo a me e a lui, porgendomi con uno sguardo indecifrabile il mio carillon; era un oggetto fatto d’oro bianco - assumeva quasi una forma ovale – e aveva delle rifiniture preziose e piccole rose blu disegnate in esso, ricoperto in alcune parti da preziose pietre brillanti e luminose. Sulla parte superiore del carillon, uno zaffiro descriveva chiaramente la forma di due rose appena sbocciate.
    Grazie ad una piccola chiavetta a forma di minuscola farfalla, girandola per il verso esatto, si riusciva ad alzare il coperchio del carillon e in automatico far echeggiare la dolce musica. Una volta aperto, si potevano osservare una principessa e un principe ballare in riva ad un laghetto, e sul coperto, un incantevole cigno e apriva le sue ali bianche.
    Rimasi ad osservare incantata l’oggetto, non osando nemmeno guardare Michael sapendo che come me lui era rosso da morire e imbarazzato per la situazione precedente...
    «E’... E’ un carillon?», lo sentii balbettare tutt’un tratto, mentre Bubbles gli si avvinghiava in braccio con fare possessivo. Io non ci badai molto a quel gesto, anche se un pizzico di gelosia...
    «Sì... Era di mia madre, è uno dei suoi regali più preziosi. Varrebbe una fortuna, se solo lo si vendesse. Lo porto con me in ogni situazione, non mi separo mai...», poi una risata lieve affiorò dalle mie labbra. Ricordi dolci e affettuosi invasero il mio cuore dolcemente...
    «La melodia riporta ad una canzone che mi cantava sempre, ogni volta che ero triste o dovevo andare a dormire... La canto sempre... E’ il mio rimedio contro la tristezza e la solitudine»
    «Me la canteresti?», chiese d’improvviso Michael con occhi curiosi, frattanto che Bubbles lo studiava in viso. Io arrossii abbassando la testa, imbarazzata. Io che cantavo di fronte a Michael Jackson? Gli avrei fatto solo pena...
    «Non canto bene... Ti avviso», dissi lanciandogli un’occhiata d’avvertimento. Lui alzò le spalle e mi allora arresi ai suoi occhi imploranti. Sarebbe riuscito a convertirmi in tutto con quegl’occhi...
    Con un sospiro carico di adrenalina, dopo aver girato per bene la manipola del carillon, presi a cantare.


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    Capitolo Venticinque.


    A moment like this
    Punto di vista: Michael Jackson.


    Non canto bene, ti avviso...», mi avvisò Sharon con occhi agitati ed esitanti. Io continuai ad osservarla, estremamente curioso di sentire la canzone, e con un secco gesto delle mie spalle le feci intendere che non m’interessava.
    Volevo solo sentirla cantare. Volevo sentire la sua voce, non importava se non era brava oppure no, e ascoltare quelle parole accompagnate dalla dolcissima musica di quel carillon. Ero così interessato di sentire quella voce che, la prima sera al “Saturday Night”, non ero riuscito ad ascoltare per via di altri impegni di lavoro.
    Vidi Sharon poggiare i suoi sul carillon e, con un sospiro, girare la piccola chiavetta a forma di farfalla bianca. In automatico pochi secondo dopo il coperchio si aprì e la lieve musica partì. Che bel carillon... Era stupendo.
    Ed ecco che Sharon cantò...

    « What if I told you it was all meant to be
    Would you believe me? Would you agree?
    It's almost that feelin’ we've met before
    So tell me that you don't think I'm crazy
    When I tell you love has come here now...
    »

    Teneva gli occhi chiusi, un’espressione sentita in quel volto caffèlatte, e la sua voce che usciva dalla sua bocca come l’acqua che scorre in un torrente di montagna, limpida e cristallina. Una voce capace di incantare, di emozionare...
    Sia io che Bubbles – la quale si era nel frattempo calmata a quelle note – la guardavamo ad occhi aperti.

    « A moment like this Some people wait a lifetime
    For a moment like this
    Some people search forever
    For that one special kiss
    Oh, I can't believe it's happening to me
    Some people wait a lifetime
    For a moment like this...
    »

    Era così calda e profonda quella voce, riusciva a raggiungere elegantemente note basse e perfino falsetti, una potenza di suono notevole e fiato altrettanto stupefacente. Era dolce, ma in alcune parti sembrava ruggire.
    Ero strabiliato. Mi sentivo così avido nel voler sentire e risentire la sua voce risuonare nell’aria, volenteroso di cantare con lei quella canzone sconosciuta...
    Finita quella strofa, Sharon smise di cantare, aprendo gli occhi e fissando il suo carillon; un principe e una principessa che ballavano si muovevano a tempo di quella magnifica ninna nanna. Sentii un balzo al cuore che non seppi descrivere nemmeno a me stesso, e parlai con voce fioca e bassa solo pochi minuti dopo che finì di cantare.
    «Canta ancora...», chiesi non essendomi accorto che ero ad occhi chiusi. Pian piano li aprii, notando lo sguardo sbalordito di Sharon che mi osservava confusa. «Ti prego... Non smettere di cantare... Canta questa canzone ancora...»
    Lei accennò ad una vaga espressione sul carillon, aspettando le note giuste dove riprendere la canzone...

    «Could this be the greatest love of all?
    I wanna know that you will catch me when I fall
    So let me tell you this...
    Some people wait a lifetime
    For a moment... Like this
    Some people search forever
    For that one special kiss
    Oh, I can't believe it's happening to me
    Some people wait a lifetime for a moment... Like this...
    Ohhh... Like This... A moment like this...
    »

    Fu così che la melodia finì, con quei versi il coperchio del carillon si chiuse, lasciando spazio al silenzio.
    Dentro la mia testa e la mia anima la voce di Sharon continuava a riecheggiare, assieme a quella melodia dolcissima, rendendo ogni mia emozione e pensiero del tutto offuscati. Quella voce, quella meravigliosa voce...
    Non solo sapeva ballare come una dea, ma anche cantare divinamente come un angelo. Lei era un talento. Una persona che non era destinata a rimanere non conosciuta, a rimanere in un piccolo quartiere di LA... Non era lei che avrebbe dovuto subire tutte quelle cose brutte sulla sua pelle e dentro di lei, non era giusto. Non era giusto...
    «E’ bellissima...» dissi intanto che entrambi guardavamo il carillon. Lei annuì con lieve cenno del capo, mentre un dolce sorriso le si aprì fra le labbra, per poi prendere la sua borsetta da terra e rimetterlo dentro con cura.
    «L’avete scritta tu e lei?», chiesi con nota di curiosità nella voce. Lei mi guardò scuotendo dolcemente la testa.
    «No, la scrisse lei da giovane per quel qualcuno che lei credeva fosse il vero amore», rispose amareggiata e cinica allo stesso tempo, alzando impercettibilmente un sopracciglio.
    Una domanda istintiva mi spuntò fuori dalle labbra, rendendomi più rosato in volto e partecipe del timore di ricevere la risposta sbagliata a quella domanda. «E tu... Hai mai trovato il vero amore? »
    Lei abbassò lo sguardo arrossendo un poco sulle guance e scosse la testa. «Mia mamma disse che, quando anche io avrei trovato il “vero amore”, in quel momento avrei pianto quando avrei cantato questa canzone» disse con sguardo perso nei suoi pensieri. Poi, schioccò la lingua, emettendo una risata vagamente amareggiata. «Ma quel attimo tanto atteso non è mai arrivato...»
    Aggrottai la fronte in un’espressione pensierosa, nonostante fossi abbastanza alleggerito dal peso di quella risposta negativa sul fatto “vero amore”. Sembrava scettica sull’esistenza del vero amore, quasi avesse smesso di credere in una favola in cui aveva sempre creduto.
    «Non credi che esista la persona che possa portare “vero amore”?», chiesi scrutando ogni suo gesto. Sharon aggrottò le sopracciglia, per poi stringere le labbra in una morsa dispiaciuta e irrigidita. Successivamente mi guardò seria.
    «No, io ci credo. Il fatto è ormai mi sono convinta che arriverà per tutti tranne che per me. Sono io che sono il problema in tutta questa faccenda...», rispose con voce cinica.
    «Non sei tu che devi farti fisime, piuttosto tutte quelle persone che hanno perso una persona speciale come te...», le dissi con lieve sorriso. Lei era veramente speciale, e mi pareva una cosa da pazzi farsela lasciare scappare!
    Sharon restituì il sorriso, sistemandosi più comodamente sul divano. «Io non sono speciale, Michael... Sono solo un’umana che tutto il mondo pensa sia pazza...».
    «Che strano, sembra proprio che tu stia parlando di me», dissi soffocando una risata. Lei mi guardò alzando un sopracciglio sorridendo, per poi scuotere la testa come a dire “questo non ragiona”.
    «Tu non sei pazzo. La gente dice così perché non ti conosce e...»
    «E perché non ci amano», dissi con un sorriso, interrompendola. «Siamo in due ad essere considerati pazzi...»
    Anch’ella soffocò una risata, voltando il capo e sistemandosi una ciocca dietro l’orecchio. Per un attimo nessuno dei due disse più niente e poco dopo ci ritrovammo a guardarci occhi negli occhi. Era come essere attirato da una calamita, da un qualcosa di innaturale che mi portava a non staccare più i miei occhi di dosso da Sharon. Sembrava magia, e io credevo nella magia.
    Quell’incantesimo era troppo forte però... Non aveva spiegazioni logiche!
    Non ricordai per quanto rimanemmo in quella posa, ma che solo ad un certo punto Bubbles ci interrompesse prontamente tirandomi per un lembo della maglia, prima che il mio cuore cominciasse a smettere di battere per quel nostro profondo sguardo.
    «Senti Sharon...», dissi poco dopo, guardandola dritto in quegl’occhi neri e con quella luce particolare dentro di essi. «Vorrei chiederti una cosa, una cosa a cui stavo pensando proprio adesso...»
    «Dimmi...», rispose con voce piana e profonda. Io allora presi un respiro e, dopo essermi passato fugace la lingua sul labbro inferiore, parlai.
    «Vorrei che non solo ballassi, durante i concerti...», dissi notando sempre di più gli occhi di Sharon farsi grandi e sbalorditi. «Ma vorrei che cantassi con me la canzone “I Just Can’t Stop Loving You”... Vorresti?»
    Sharon rimase stordita e sbigottita a quella richiesta, tanto che per qualche minuto mi guardò come paralizzata. «Ma... Ma Michael», disse balbettando. «Io non... Non sono così brava a cantare. Ballare è una cosa, ma cantare...»
    «Non è difficile», esclamai supplicante avvicinandomi a lei prendendole le mani in un’unica stretta. «Fallo per me, per favore! Prendilo come un mio regalo, ti scongiuro...», le chiesi con voce implorante.
    Lei mi lanciò un’occhiata intimidita, quasi paurosa, per poi guardare le nostre mani congiunte. Era preoccupata, potevo capirlo, e forse ero io egoista a chiederle un simile favore, ma la voglia di cantare insieme a lei era troppa. Troppa... Non potevo riuscire a placare quella sete di note e musica che sentivo di voler far risuonare nell’aria assieme.
    «Sharon...», dissi alzandole il mento verso il mio volto con due dita della mia mano. Non mi ero neanche reso conto che Bubbles era in mezzo a noi, a guardarci curiosa. «Ci sarò io là, se avrai paura, basta che mi guarderai negl’occhi!»
    «Non è questo il problema», disse lei con sguardo afflitto, «Che cosa diranno le persone che stanno vicino a te? Che ti manipolo. Che ti sto manipolando. Immagino quello che ti dicono di me, quello che oggi Frank ti ha detto, e non voglio crearti danni... Non voglio... Perciò è meglio che io non canti! È già abbastanza che sia qua a ballare, credimi...»
    «No, no...», dissi io cercando di placarla da quel suo parlare agitato. «Non dire così. A me non interessa e non deve interessare neanche a te. Ti prego, non ascoltarli. Loro non sanno la verità, te l’ho già detto tante volte...»
    Sharon non mostrò segni di serenità negl’occhi, perciò portai una mano ad accarezzarle la guancia. «Ti prego... Mi faresti un grande regalo, sul serio! Un regalo magnifico... Voglio cantare questa canzone solo con te!»
    Lei sospirò, forse più calma di prima, e mi rispose con debole voce. «Non ne sono sicura... Ma accetto...»
    «Davvero?», chiesi io trattenendo un sorriso emozionato. Lei abbassò lo sguardo, annuendo e mostrando un’espressione vinta. Non so come riuscii a trattenermi dal non esultare di felicità, ma l’abbracciai emozionato.
    Non seppi controllarmi. Avevo la gran voglia di saltare sul divano come un bambino, esplodere in un canto di felicità, intonare già da subito la canzone, essere già con lei nel palco a cantare! Era tutto così stupendo! Ero contento!
    «Grazie! Grazie davvero!», le dissi in un orecchio, con un sorriso a 32 denti. Lei ricambiò la stretta, abbandonandosi. Mi ci vollero pochi istanti per realizzare il mio gesto, quello che mi era venuto naturale fare... La stavo abbracciando, tenendo stretta alle mie braccia, sentendo il profumo... Dovevo riprendermi, prima che facessi qualcosa di stupido!
    Con uno scatto secco e dolente per la mia anima, quasi risvegliato da un sogno, prontamente le proposi se volesse guardare un cartone con me. Avevamo entrambi i volti arrossati, poco distanti, e per un minuscolo e lungo secondo ebbi l’istinto di... Di... Di baciarla...
    Con un entusiasmo degno di una bambina, dopo un attimo di smarrimento, accettò la proposta, avvisandomi che però potesse starne a vedere solo uno, non avendo ancora sistemato i bagagli. Con un strano senso di dispiacere momentaneo, però, accettai. Mi sarei accontentato anche di quello, piuttosto che niente!
    Le ore con lei riuscivano a scorrere senza sentirmi solo, senza pensare alla solitudine... Quello che stava al di fuori dal mondo – ogni cosa – per me perdeva valore. Per tutte le volte che stavo con lei, mi sembrava di vivere in un’esistenza a parte. Non erano abbastanza le parole per descrivere simili sensazioni.
    Con lei giocavo, mi divertivo, non fingevo, ero sincero, non dovevo aver paura di dire qualcosa di scorretto... Mi faceva sentire l’innocenza di un bambino, quella che molte persone lungo durante la loro vita perdevano. Ero me.
    Per tutta la durata del film sentivo un’elettricità fra di noi, un impulso a cui non riuscivo a resistere; spesso e volentieri, quando lei era troppo incantata al video per accorgersene, i miei occhi vagavano su di lei, studiando ogni suo lineamento del viso. Eravamo vicinissimi, uno accanto a l’altra, e quando capitava di sentire la sua spalla a contatto con la mia il mio cuore palpitava d’emozione. Era una sensazione che non riuscivo a descrivere.
    Quando purtroppo finì il film, le dovetti dare la buonanotte. L’accompagnai alla porta, seguito da Bubbles che teneva la mano sia a me sia a Sharon, dondolandosi avanti e indietro divertita. Quando fummo davanti all’uscio, la salutai.
    «Buonanotte Sharon...», dissi con voce sottile. Ero inquieto perché non volevo mi lasciasse solo, non riuscivo a pensare al senso di vuoto che avrei dovuto sopportare una volta che se ne sarebbe andata...
    «Buonanotte Michael», rispose con lieve sorriso. Tutto quello che volevo fare, ma che purtroppo non riuscivo a dire, era che rimanesse con me. Volevo dirle: “Ti prego, resta... Non lasciarmi”, ma non ce la facevo proprio. Non potevo però privarla della sua libertà, non potevo obbligarla a restare... L’avrei rivista domani…
    Quando fu sul punto di uscire – ormai con le spalle voltate e la mano sulla maniglia della porta – si bloccò di scatto. Soffocò con labbra socchiuse un “Ah” sorpreso, quasi come se avesse perso qualcosa di importante.
    «Mi stavo dimenticando una cosa...», disse voltandosi di fronte a me con espressione amabile. Accarezzò con un gesto dolce il capo di Bubbles, chinandosi a darle un bacio in fronte, poi si apprestò a darmi un lento bacio sulla guancia.
    Stetti per morire. Quel tenero contatto delle sue labbra sulla mia gote sinistra, poco distante dalle mie labbra, mi provocò un blocco al cuore, la mancanza di respiro, una miriade di brividi ed emozioni che m’invasero palpitanti. Mi era già capitato di sentire le mie guance un suo bacio, ma in un’occasione del genere tutto sembrava più bello e straordinario. I miei pensieri perdevano di lucidità e la mia anima si librava nell’aria assieme alle stelle della notte.
    «Te lo dovevo questo... Buonanotte ancora», disse con voce sottile sul mio orecchio. Separandosi da me mi rivolse un ultimo sorriso, per poi sparire oltre la porta socchiusa. Una volta che la riuscii a chiudere, rimasi immobile nella mia posizione.
    Bubbles mi tirò per la manica emettendo un verso basso, cercando di richiamare la mia attenzione, ma io non mi mossi. Con lentezza, pochi minuti dopo, portai una mano sull’angolo dove Sharon mi aveva baciato e di seguito sul cuore; stava ancora battendo all’impazzata e il fiato non si decideva a calmarsi...
    Mi stava facendo diventare pazzo. Pazzo di lei, di ogni cosa che facesse, di ogni parola emanasse dalle sue labbra che tanto bramai in quel momento, di nuovo. Mi stava facendo andare fuori di testa, e le sensazioni erano le stesse che si potevano provare solo quando una persona s’innamora. Perché io sapevo cosa fosse l’amore, lo avevo provato, ma non così. Era tutto così pazzesco, tutto così anormale...
    Abbandonai la mia schiena appoggiandola alla porta, lasciandomi trasportare a peso morto a terra, con la mano ancora adagiata al petto. Sharon era l’unico pensiero e lo fu per tutta la mia notte insonne.

    ***

    Bussai alla porta, e mentre aspettavo aprisse detti vari colpi di tosse per rischiarire la mia voce. Mi sentivo agitato e non capivo nemmeno io il perché... Non vedevo l’ora di rivederla! Non appena aprì la porta, Sharon mi rivolse un gran sorriso. Era già cambiata, per lo meno non l’avrei imbarazzata se l’avessi trovata in pigiama.
    «Michael, che ci fai...?», chiese con espressione stupita.
    «Qui? Dimentichi le prove che abbiamo oggi, tutto il giorno?... Mmh... Male, male...», dissi ironizzando. Lei strabuzzò gli occhi: si era per ovvietà di cose dimenticata della sessione di prove. La mia adorabile sbadata...
    «Oh mio Dio, è vero! Aspetta, no anzi, entra!», disse lei lasciandomi la porta semiaperta. Risi fra me e me per quel suo comportamento tutto agitato e ansioso e a passi lenti entrai nella suite. Assomigliava alla mia, se non per qualche cambiamento di mobilia...
    «Prendo il borsone e arrivo, un momento!», la sentii dire da una stanza. Io ridacchiai divertito, guardando nel frattempo tutta la stanza. Ad un certo punto sbucò fuori con la testa dalla soglia della porta della camera da letto.
    «E la colazione quando la facciamo?», chiese con fronte corrugata. Io la guardai con un sorriso misto fra la dolcezza e il divertimento. Quanto si preoccupava quella piccola sbadata...
    «Stai tranquilla, la faremo là. Non ho intenzione di lasciare il mio staff a morire di fame», risposi con sorriso sornione.
    Lei rispose con un “Oh” soddisfatto, scomparendo di nuovo dalla mia vista e ritornando poco dopo verso di me con il borsone con all’interno completo di asciugamano, bibita, ecc. Con un cenno del capo da parte mia, uscimmo dalla stanza, dirigendoci verso la hall dell’hotel. Là ci aspettavano tutti, guardie del corpo comprese, pronti a partire verso il gran stadio. Appena si accorsero tutti della presenza mia e di Sharon un coro di saluti cominciò a levarsi nell’aria, bloccando per un lieve istante il chiacchiericcio frenetico che stava avvenendo nel gruppo, prima del nostro arrivo.
    Non appena arrivammo, vidi Eddie rivolgere un gran sorriso a Sharon, dirigendosi come se niente fosse a salutarla. Uno strano blocco attorcigliò il mio stomaco per un momento, fino a quando non lo vidi rivolgermi anche a me un gran saluto. Facendo finta di niente, salutai di rimando, anche se con meno entusiasmo di quanto lui avesse fatto.
    Proprio non riuscivo a digerirlo, quando stava così vicino a Sharon...
    Anche Vanessa mi si avvicinò provocante, salutandomi con fare felino, e la salutai con un sorriso di facciata. Di certo non volevo che Sharon stesse male, perciò con una veloce occhiata portai i miei occhi su ella; la vidi osservare Vanessa con sguardo vacuo, per poi svoltare gli occhi. A quanto pare la odiava veramente tanto...
    Dopo i vari saluti ci dirigemmo con varie auto allo stadio; il viaggio durò per quasi una decina di minuti, ma a me parve che lo scorrere del tempo si fosse fermato; a malincuore finii in una macchina separata da quella di Sharon, assieme al mio manager e il direttore musicale.
    Quasi mi venne un blocco respiratorio quando, una volta arrivati, notai fosse stata nella stessa auto con Eddie e... E Vanessa.
    Ma lei sorrideva, Eddie le stava dicendo qualcosa di particolarmente divertente... E lei rideva! Perché rideva? Volevo sapere... Volevo che non stessero vicino! Per un attimo mi preoccupai di me stesso; come facevo ad essere così geloso e possessivo da morire? Non avevo nulla da temere, vero? Eravamo solo amici, io e Sharon... Già...
    Non facemmo colazione appena arrivati, poiché si pensava fosse meglio farla più tardi, per non affaticare il corpo di sforzi inutili, e così fu; ero un bel stadio, all’aperto, e il sole già a quell’ora risplendeva alto sulla città. Non faceva poi così freddo, perciò la maggior parte delle persone si era ritrovata subito in maniche corte.
    Mentre i coristi cominciavano a riscaldare la propria voce, gli addetti alle luci e sistemazioni varie facevano le loro prove generali e io riscaldassi i miei muscoli coi ballerini, più volte schioccai occhiate agoniche su Sharon, la quale – quasi fosse percepisse all’istante i miei occhi su di lei – mi riosservava di rimando con uno di quei tanto amati sorrisi dolci... Eppure la situazione non mi placava poi così tanto... C’era sempre quel piccolo peso sullo stomaco...
    «Michael, aspetta, ti devo parlare», disse d’improvviso Frank bloccando con lieve tocco sulla spalla, poco prima che salissi anch’io sul palco insieme agl’altri ballerini e troupe per provare le varie canzoni. Chissà che aveva da dirti...
    «Certo, aspetta...», poi mi rivolsi di scatto all’intera troupe, linciando con lo sguardo impercettibile Eddie e Randy, un altro ballerino, che se ne stavano tutti contenti e divertiti accanto a Sharon. «I ballerini facciano un po’ di riscaldamento con la canzone “Wanna be startin’ something” intanto che sono occupato. Quando i musicisti e i coristi sono pronti, provate con la musica...»
    Tutti mi risposero con un assenso, frattanto che io mi rivoltai verso Frank dopo aver lanciato un ultimo sguardo a Sharon, la quale stava stiracchiando le braccia con un’espressione persa. Per un attimo mi venne da sorridere.
    «Dimmi tutto», esclamai ritornando alla discussione con Frank. Lui non parlò di niente che riguardasse Sharon, ma solamente dei prossimi impegni con cui avevo a che fare quei giorni in Giappone. Non la guardò neppure. Meglio così.
    Poi d’improvviso, nel frattempo che una chitarra cominciava a suonare i primi accordi della scala, successe qualcosa che non mi sarei mai aspettato succedesse. Una voce fra tutte risuonò all’inizio, per poi una marea che cercavano di placare un’imminente evento.
    «Che diavolo...?», disse Frank, posando il suo sguardo sul palco inizialmente con fronte corrugata, per poi spalancare gli occhi in un’espressione allibita. Tutto un gruppo di persone guardava la scena fra lo sconvolto e lo stranito, domandandosi il perché di quel trambusto. Anche io mi voltai e spalancai gli occhi.
    Sharon, trattenuta per le spalle da Eddie e Randy, con le lacrime agli occhi e un’espressione di odio profondo e rabbia che le rivolgeva parole piene di ira, e Vanessa, trattenuta invece da LaVelle e Dominic – gli altri due ballerini -, che le rispondeva di rimando, creando il caos più totale che avessi mai potuto immaginare accadesse. Tutti cercavano di calmare le due, ma non potevano fare niente.
    Subito io mi precipitai a raggiungere il gruppo sul palco, seguito a pochi passi dietro me da Frank, e una volta arrivato su non sapevo ancora delle vere conseguenze che ne sarebbero uscite da quella situazione...


    _______________________________________




    Capitolo Ventisei.


    Such an amazing liar
    Punto di vista: Sharon Villa.


    LL’avevo sentita. Avevo percepito ogni parola che avesse emanato da quella sua disgustosa e sudicia bocca, ogni sillaba di quella sentenza spregevole e pregiudicata di quella viscida serpe.

    «Che ridicola meticcia, sgualdrina ed ordinaria...»

    Aveva detto così. Ne ero sicura. Non ero sorda, e non ero nemmeno l’unica ad avere le orecchie per sentire. Non avevo sbagliato. Lei aveva detto quelle precise parole, sottovoce, lanciandomi un’occhiata ricolma di odio, sapendo che io la stavo ascoltando ma pensando che fossi stata l’unica ad udire. Voleva farmi arrabbiare... E ci era riuscita.
    Il sangue mi stava bollendo diretto al cervello, le mani mi tremavano dal nervoso, sentivo il cuore battermi ricolmo di rabbia e ira in pieno petto. L’odio mi attraversava ogni capillare del mio sangue, ogni vena.
    «Ma come ti permetti?! Lurida...», esclamai non finendo la frase, andandole incontro con fare aggressivo. Eddie e Randy mi avevano bloccato in tempo prima che finissi agile su di lei, mentre lei mi venne incontro con fare arrogante.
    «Come osi chiamare lurida me? Qui la viscida sei tu, carina, non far finta di niente!», disse facendo la parte della vittima di turno. Non seppi che faccia avevo, ma sentivo che mi veniva da piangere dal nervoso. Da sempre reprimevo la rabbia con le lacrime, ma non volevo dargliela vinta. Come si permetteva quella stronza?
    «Io?! Pulisciti la bocca e fatti dei begl’esami di coscienza, e tu non mi chiami “carina” con quel tono strafottente, hai capito?!», le dissi quasi strillando. Lei spalancò le braccia a mo’ di sfida, squadrandomi da capo a piedi.
    «Fai tanto la coraggiosa, eh?! Tu non sei nessuno, datti una calmata e vai a farti un giro!», esclamò. Ero così incazzata che tutte le voci che cercavano di placarci erano del tutto inesistenti. Il mio obiettivo era distruggerla.
    «Tu non dici “vai a farti un giro”», dissi imitando la sua voce, mentre lei mi lanciò un’occhiata piena d’odio. «Impara a rispettare gli altri, e a non insultare a priori dando della puttana chi non conosci!»
    Ma lei coprì la mia voce, urlando. «Sei solo tu che senti queste cazzate! Sei fuori, sei invidiosa, vuoi farmi passare per la stronza? Ma brava! Complimenti!...»
    Non ci vedevo più. Dovevo picchiarla, farle qualcosa per farla stare zitta. Mi ero completamente dimenticata dove fossi e, proprio mentre stavo per aprir bocca per saltarle nuovamente addosso, fui bloccata dalla voce di Michael.
    «Ehy! Che succede qui? Si può sapere?!», disse urlando, gelando completamente sia me sia Vanessa. Entrambe lo guardavamo con occhi sbarrati – i miei erano lo specchio della rabbia – e lui osservò tutti con occhi seri e autorevoli. Nessuno disse più niente e quando le acque sembrarono placarsi guardò prima lei poi me.
    Aveva uno sguardo così duro... Degna di un vero e proprio leader... Eppure una luce nei suoi occhi sembrò chiedermi che diavolo fosse successo per farmi arrivare a farmi avere una reazione così violenta come quella.
    «Michael, è una pazza! Davvero, ha cominciato ad attaccarmi come una schizzata!», esclamò con sguardo scioccato Vanessa. «Ha cominciato ad insultarmi e a provocarmi! Ho dovuto difendermi!...»
    «Ma che... cavolate stai dicendo?!», dissi squadrandola in viso con occhi di fuoco. Mi voleva far passare per quella dalla parte del torto. «Sei stata tu! Tu mi hai attaccato!», continuai sibilando. L’altra mi rivolse un’occhiata di ghiaccio.
    «Tu sei fuori, ragazza, f-u-o-r-i!», disse provocandomi. Di nuovo, quando stavo per emettere parola contro di lei, Michael ci bloccò entrambe mostrandoci con i palmi delle sue mani di stare zitte.
    «Basta», disse emettendo un sibilo acuto per riprendere il controllo. Un attimo di silenzio, sospirò, e con espressione persa nel vuoto e mani nei fianchi continuò. «Che cosa è successo. Qualcuno me lo sa spiegare in modo civile
    Sebbene da una parte provassi una tal rabbia capace di spaccare ogni cosa che mi capitasse a tiro, da un’altra stavo male; avevo paura che Michael mi prendesse per pazza, che assumesse una freddezza per quel mio gesto impulsivo da sgretolare il nostro rapporto creatosi in quel periodo. Non volevo mi sgridasse. Non così. Non per quella cosa!
    «Sharon ha sentito non delle belle cose pronunciate sul suo conto da parte di Vanessa...», intervenne Eddie in mia difesa, continuando a tenermi per un braccio in caso non decidessi di saltare addosso alla frigida. «Le abbiamo sentite sia io che Randy, che in quel momento eravamo vicini a Sharon».
    «Stavamo per partire con la musica per provare la coreografia, e proprio mentre Vanessa le è passata accanto ha sussurrato... “Che meticcia sgualdrina” o qualcosa simile...», continuò Randy studiando l’espressione irata e sconvolta di Vanessa. Ero quasi sicura volesse uccidere entrambi.
    Michael spalancò gli occhi, rimanendo chiaramente scioccato da quelle parole, lanciando un fugace sguardo prima a me e poi a Vanessa. Nessun altro disse niente, tutti tenevano gli occhi bassi o cercavano di distrarsi con altro. Solo in pochi sembravano veramente interessati alla faccenda e a come stessero le cose veramente.
    Era una soddisfazione per me sapere che Randy ed Eddie erano dalla mia parte, che mi stavano appoggiando, e che le mie orecchie non avevano udito male. Quella era una prova inconfutabile, Vanessa non poteva smentire.
    «E’ vero?», disse dapprima allarmato Michael. «E’ vero? Hai detto veramente... Quelle cose orribili, Vanessa?», chiese più autorevole, fissandola con sguardo duro e, avrei osato dire, anche un po’ furioso. Mi credeva allora?
    «Michael, non vorrai mica pensare che io abbia...! No! Michael, ma siamo fuori?! Non mi permetterei mai!», disse con viso da innocente. Se si metteva perfino a fare la commedia del finto pianto disperato, non sapevo se sarei riuscita a controllare i miei istinti omicidi... Era una bugiarda! Una falsa!
    Una risata sadica e soffocata mi uscì naturalmente dalla mia bocca, attirando l’attenzione di tutti. Non osavo guardare Michael, i miei occhi non riuscivano a spostarsi dalla figura di Vanessa – una leonessa che fissava per lungo tempo la sua preda, non lasciandola perdere nemmeno un secondo e aspettando il secondo giusto per saltarle addosso.
    «Ora vuoi anche smentire? Ti hanno sentito anche Eddie e Randy!», dissi con un suono che poteva sembrare perfino un ruggito rabbioso. La stretta al braccio di Eddie si fece più forte vedendo che avevo fatto un passo in avanti verso Vanessa. «Sono dei bugiardi anche loro?»
    Lei rise. «No, solo infatuati», disse con tono strafottente. Allora stava proprio insinuando che fossi io qua la puttana, altroché! Io che avessi stregato Eddie e Randy? Che cosa voleva farlo sembrare questo, un complotto?
    Sentivo lo sguardo insistente di Michael, scrutarmi dentro, e per un attimo lo guardai. Quel secondo fu fatale. Peggio di ogni altro colpo di pistola o botta per la mia sicurezza morale. Era così indeciso, così dubitante... Sembrava perfino valutare se le mie parole erano vere o no... Ogni parola sincera che aveva sentito dalla mia bocca non gli era bastata? Non mi credeva abbastanza?
    Dubitava di me? Non potevo credere di vedere in quei suoi occhi quella luce di dubbio... Mi stavo sbagliando. Sì.
    D’improvviso vidi Frank avvicinarsi al suo orecchio, sussurragli qualcosa di indecifrabile, il quale mi lanciò un’occhiata indagatrice e con un ché di... Di divertito. Sembrava perfino divertito, il suo manager ovvio, che io mi trovassi in una situazione del genere! Forse era la rabbia del momento che mi faceva vedere tutto nero e negativo...
    «Sì, forse è... E’ meglio...». Che cosa? Cosa era meglio? Michael sospirò, continuando a fissare il basso a sguardo vacuo e con un ché di sofferente. «Voglio la verità, ragazze, perciò è meglio che chi menta dica la sua. Non voglio si creino problemi inutili. O mi dite la verità...»
    Con agile scatto, di seguito portò la mano sinistra a toccarsi una tempia, per poi emanare quelle sussurrate parole di gelo e distacco che mai mi sarei immaginata. «...O sarò costretto a non farvi esibire durante il tour».
    Il cuore mi si congelò in petto. Non sentivo più il mio respiro. Ero una statua di ghiaccio, una pietra, e potevo percepire che anche Eddie e tutti gli altri si erano irrigiditi. Soprattutto la persona che avevo di fronte a me, Vanessa.
    «M-Michael... N-Non puoi!», esclamò sull’orlo di una crisi di nervi. Teneva le mani così strette da far diventare le nocche bianche, fuori di sé, e i suoi occhi sembravano quelli di una persona assatanata, terribilmente posseduta.
    Michael sistemò di nuovo le mani appoggiate sui fianchi e la guardò con uno sguardo misto fra seriosità e agitazione. «Invece sì che posso. Lo so che può sembrare un gesto troppo drastico, ma come mi ha appena detto Frank è l’unico modo per far saltare fuori la verità! Non mi piacciono i ricatti, ma questo sembra essere necessario...»
    Improvvisamente la mia vista divenne fatua. Ero vuota dentro. Un qualcosa dentro di me aveva cessato di battere; forse questa cosa era proprio la speranza. I sogni per il mio futuro, grazie a Vanessa, si erano frantumati come tanti granelli di polvere. Quello che sarebbe avvenuto dopo lo avevo capito subito dopo che quelle frasi erano state dette.
    Ballare per quello che avevo sempre sognato ora sembrava di nuovo una realtà troppo lontana. Era destino forse quello. Non avrei mai dovuto accettare... Non se il premio sarebbe stato le mie speranze infrante.
    «No, Michael! Questo non è necessario!», esclamò Vanessa ad occhi sbarrati d’ira. Poi, con occhi ancora più carichi d’odio, mi fissò. «Avanti, digli la verità! Digli che sei tu quella che ha provocato! Avanti
    Mi stava incitando a dire qualcosa che non era vero, ed io non avevo intenzione di mentire. Lei non avrebbe mai ammesso che era lei la causa. I bugiardi non dicono mai la verità, fanno passare sempre te per quello che mente. Impassibile, quasi come se la mia anima fosse scomparsa e il mio corpo fosse assiderato, risposi meccanicamente a quelle parole intimidatorie. Tutti aspettavano una mia risposta, fissandomi in viso con occhi carichi di attesa, ma guardai solo la stronza che aveva rovinato i miei sogni.
    «Io la mia verità l’ho già detta», dissi con tonalità di voce neutra e sguardo fisso in un punto a caso del viso di Vanessa. «E piuttosto che dire una bugia e poi chiedere scusa a te, strisciando ai tuoi piedi, preferisco tornarmene direttamente a Los Angeles col primo aereo in partenza».
    Il viso di Vanessa assunse un’espressione sempre più stizzita e demoniaca; mai avevo sentito un’anima di una persona emanare tutta quella cattiveria, l’odio dell’angelo della morte, in tutta la mia vita. Ma sinceramente, in quel momento, poco m’importava. Volevo andare via da là, tornarmene in hotel e, se mi fosse stato chiesto, me ne sarei anche tornata a Los Angeles. Mi sarebbe dispiaciuto lasciare quelle due persone che mi avevano dato fiducia... E Michael...
    Già. Michael. Lui aveva fatto la cosa giusta. Ma a che prezzo? Perdere due ballerine così? Stava facendo il gioco di Frank e di tutti gli altri. Se avesse detto però che credeva a me piuttosto che a Vanessa, però, sapevo a che cosa sarebbe andato incontro: tutti gli avrebbero detto che era stato infatuato da me, che lo avevo coinvolto in chissà quale subdolo ricatto o, peggio, che avessi perfino venduto il mio corpo a lui per diventare famosa.
    Ormai io non mi stupivo più di niente. Sapevo quanta cattiveria e ipocrisia potesse possedere la gente – nella mia vita ne avevo subite fin troppe e avevo avuto le dimostrazioni di come una persona potesse essere infida – e perciò quei giudizi non erano poi così impossibili. Non volevo rendergli problemi.
    Ma lui mi aveva detto che non gl’interessava quel che gli altri avrebbero detto, che “le persone non sanno la verità” e che non gl’importava. Già, come no... Non gli fregava niente. E allora mi chiesi: dato che riponeva tutta quella fiducia in me e che non contava quello che le persone dicessero, perché dubitava? Perché era stato diffidente non solo con me, ma anche nonostante le parole di due testimoni? Erano corrotti dal mio “fascino”?
    «Allora non mi resta altra scelta...», soffocò Michael con occhi bassi e preoccupati. Non seppi nemmeno se mi stesse guardando oppure no; fissavo il vuoto, non sapevo nemmeno cosa di ben preciso. «Voi... Voi non farete parte del tour».
    Eddie mi strinse il braccio, lanciandomi una lunga occhiata. Anzi, potrei dire che sentii lo sguardo di tutti su me.
    Vanessa scorse giù dal palco, a gran passi ben distesi e pesanti, prendendo la sua borsa e dirigendosi con fare brusco fuori dallo stadio. Non salutò nessuno, non si prese nemmeno la briga di dire una parola se non un grido soffocato, poco prima di scendere giù dalla scaletta laterale sinistra del palco. Per un lungo istante un silenzio tombale, poi sibili echeggiarono nell’aria.
    «Avanti, è tempo di provare», disse il direttore musicale con tono leggermente sconvolto, cercando di risolvere la situazione voltando l’attenzione dei presenti su altro. Tutti allora si misero in movimento, tranne che io e Michael.
    Con i polsi ben stretti e irrigiditi lungo i fianchi, guardava il basso; io lo fissavo. Volevo guardarlo negl’occhi. Volevo vedere se provava un minimo di rimpianto, un senso di colpa per aver per un solo istante dubitato di me. Tutte quelle parole che ci eravamo detti – tutti i “mi fido di te”, “sono sicuro tu sia sincera” – non avevano alla fine avuto valore?
    Finalmente Michael mi guardò. Il suo sguardo era pieno di rammarico, pieno di scuse, preoccupato e agitato. Non mi bastava uno sguardo, non in quel momento, ma solo bisogno che dimostrasse che, le parole dette, avessero effettivamente un certo significato. Ma non mi disse niente. Non tentò nemmeno di avvicinarsi.
    Allora hai paura di quello che pensa la gente, Michael? Mi hai mentito?
    «Sharon...», disse Randy attirando la mia attenzione. Staccai il mio sguardo neutro e freddo da Michael, guardando lui ed Eddie che mi stavano vicino. «Ci dispiace tanto... Noi abbiamo tentato...»
    Io sorrisi dolce, guardandoli con tenerezza. «Lo so. E vi ringrazio. Mi avete dimostrato che non avete paura di quello che gli altri pensano... Grazie per la vostra sincerità...»
    Sapevo che Michael stava ascoltando a distanza e che ci stava osservando, e lasciai che le mie parole echeggiassero nell’aria. Nonostante feci finta di niente, percepii il suo irrigidimento anche da quei metri che ci dividevano.
    Eddie e Randy mi sorrisero, quest’ultimo dandomi un lieve buffetto sulla guancia. Mentre mi diressi a passo lento e testa alta giù dalla scaletta, sotto qualche sguardo curioso, Eddie mi chiamò. Mi voltai leggermente stordita.
    Entrambi i due si guardarono con un sorriso, poi Randy disse; «Te ne stai andando con onore e a testa alta, sei grande così come sei!». Evitai di arrossire inutilmente, svoltando il mio capo con una lieve risata. Che dolci scemi!
    Michael mi stava guardando, non riuscii a trattenermi che ad osservarlo un secondo. In quel esatto momento, spostò i suoi occhi verso il basso. Il suo petto s’innalzava e s’abbassava in base ai battiti pesanti che emanava. Sembrasse stesse per piangere, per dire qualcosa per bloccare la situazione, ma il mio cuore mi diceva di andare. Via da lì...
    Così presi borsone e mi diressi con un auto dello staff all’hotel. Per tutto il viaggio in auto la mia mente fu attratta dal paesaggio, il vuoto totale nella testa per cercare di respingere ogni ricordo di quello che prima era avvenuto.
    Mi feci dare la chiave della stanza dalla reception, una volta arrivata all’hotel, e mi diressi di corsa nella suite. Volevo solo rintanarmi dalle persone, estraniarmi dal mondo. Con mani tremanti aprii la porta e la chiusi subito con un botto potente. Respirai a fondo, con fiato inesistente, e appoggiai la schiena alla porta, lasciandomi trascinare verso il basso.
    Tutta l’ansia che avevo cercato di reprimere non era riuscita a rimanere trattenuta e controllata.
    Guardai il terrazzo, a sguardo vuoto e privo di emozioni descrivibili, e ricordai la sera prima. Ricordai tutto. Ricordai il provino alla scuola di Los Angeles, il locale, le prime prove della canzone “The Way You Make Me Feel”, la serata nel mio appartamento a ballare “The Greatest Love Of All”, mio padre, l’ospedale, l’angelo che piangeva vicino a me, i suoi occhi, l’ultimo saluto alla scuola, il viaggio in aereo, la piscina, la cena...
    E improvvisamente sentii il mio cuore stringersi in una morsa che mi fece lacrimare. Piansi senza singhiozzare, le silenziose lacrime rigavano il mio viso senza che la mia bocca o il mio respiro ne subisse le conseguenze.
    Che bella soddisfazione aver passato del tempo con quel bellissimo bugiardo...

    ***

    Passai un intero pomeriggio nella suite, senza mettere piede fuori, con la voglia di far niente.
    Ordinai il pranzo con il servizio in camera, stetti sul divano con gli stessi vestiti con cui ero rientrata in hotel senza nemmeno aver la voglia di cambiarmi, guardavo la tv distrattamente senza far riferimento alle immagini che veloci attraversavano lo schermo.
    Nessuno bussò alla porta, nessuno mi cercò. Da una parte ero serena così, almeno non avrei rischiato di sentire il mio stomaco vorticare rumorosamente in una morsa senza fine, ma da un’altra ero in agonia. Davvero ero sola, davvero a qualcuno non interessava come mi sentissi? Che sciocca... Ancora mi lamentavo che mi lasciassero in pace.
    Dopo un po’ di navigazione nei canali giapponesi e indecifrabili per me, mi apprestai a guardare i miei cartoni Disney; passai ore a guardarli – sentii perfino un senso di nausea nel vedere la cassetta di Peter Pan, per un istante – ma non servirono a placare il mio animo. Non ero arrabbiata – con una persona con Vanessa, ormai, avevo capito non ne valesse la pena – solamente delusa. Delusa e rattristata. Rancorosa.
    Dopo quel pianto mi ero tranquillizzata o, per lo meno, mi ero rassegnata. Non sapevo come, ma ero riuscita a darmi il coraggio per lasciar scorrere. Mi sarei goduta la suite che non avevo mai avuto, la pace... Almeno fino a quando sarei rimasta chiusa in quella stanza... Il vero problema sarebbe stato poi uscirne, tornare a casa...
    Verso le cinque di pomeriggio, con un balzo al cuore, sentii la porta bussare. Indecisa se alzarmi o no dal divano, per qualche intenso secondo rimasi a guardare la porta come paralizzata. Non volevo aprire.
    Invece sì, disse il mio cuore in subbuglio. Invece no!, diceva la mia testa.
    Di nuovo bussarono alla porta, più vigorosamente di prima. No... Non era Michael. Non avevo bisogno delle sue spiegazioni; avevo già capito tutto, ogni cosa che non era riuscito a dirmi veramente dal profondo del suo cuore.
    Non si fidava delle mie parole...
    Bene.
    Non gli importava di quello che gli altri potessero pensare...
    Io non la pensavo così.
    Non si era fatto sentire...
    Le prove dovevano essere durate a lungo, ma erano quasi le sei di sera.
    Non si sarebbe fatto sentire...
    E a me non sarebbe interessato!...
    Che bugiarda.
    Con un coraggio non da me mi avviai veloce alla porta, rischiando di inciampare nel parquet di legno lucido, ma riuscii ad arrivare alla porta sana e salva. Un respiro profondo, poi aprii la porta con uno scatto così veloce da far paura.
    «Eddie...», dissi accennando un sorriso dispiaciuto. Perché mai dovevo essere dispiaciuta, io? Perché in realtà volevo che, oltre quella parete, ci fosse Michael; un Michael sorridente, che mi avrebbe chiesto scusa e mi avrebbe convinto che quello che avevo visto nei suoi occhi era tutta una mia sbagliata concezione. Ed invece non era lui.
    «Posso entrare?», chiese con un sorriso cauto. Io spalancai l’uscio socchiuso della porta, facendogli spazio. Lui entrò accennando un lieve “Grazie” e, nel frattempo che richiudevo la porta, si voltò a fissarmi. Quando ebbi i suoi occhi nei miei, lui mi parlò.
    «Non ti sei fatta vedere oggi a pranzo... Posso immaginare il perché», mi disse abbassando gli occhi. Io soffocai una risata, e dirigendomi sul divano, una volta seduta, gli feci segno di venire a sedersi. Lui eseguì e mi ringraziò, per poi il silenzio piombare sulla stanza.
    «Io... Io ti ringrazio, Eddie», esclamai lieve guardandolo negl’occhi. «E anche Randy, ovviamente. Mi avete difeso, avete sentito quello che ha detto e avete parlato... Vanessa è stata così...», l’aria si bloccò in petto per alcuni secondi, facendo risalire quell’ira soffocata che, durante quel fatto avvenuto, avevo provato per lei.
    «E’ stata una stronza, punto!», esclamò lui con un’espressione così impettita da farmi ridere. Lui mi studiò stupefatto, non nascondendo un sorriso furbesco e divertito. «Sul serio! E non so nemmeno come abbia avuto ancora il coraggio di negare l’evidenza...»
    Di nuovo silenzio. Entrambi osservavamo il vuoto, poi, con istinto naturale, gli porsi una domanda sincera.
    «Perché sei venuto qui?», chiesi poco dopo. Sapevo che se era qui c’era un perché ben più oltre di una semplice visita di cortesia, per controllare se ero veramente ok; ero abbastanza brava da capire che c’era qualcosa nell’aria di strano.
    Eddie mi guardò stupito, volse i suoi occhi in basso e tornò a emettere parola quasi con una nota di rimpianto. «Ti dovevo dire una cosa... E... Non so se ti farà veramente piacere sentirla...».
    Bene, mi dissi, un’altra brutta notizia; certo che per te Sharon non c’è mai pace, eh? Mai un attimo di relax?
    «Che cosa è successo?», chiesi lentamente e con neutralità. Eddie mi lanciò uno sguardo preoccupato, poi passandosi una mano fra i capelli emise un sospiro. Che diavolo stava per succedere? Cosa poteva esserci di tanto grave ancora?
    «Ecco... Non è vero che tu e Vanessa non vi esibirete sul palco». Un attimo di esaltazione mi piombò in pieno petto, ma allora perché era così terribile questa notizia come la faceva sembrare? «Vanessa canterà “I Just Can’t Stop Loving You”, assieme a Michael, per tutta la tournèe».
    No. Non era vero.
    Michael mi aveva mentito! Mi aveva detto che voleva cantare quella canzone soltanto con me, voleva sentire la sua voce risuonare assieme alla mia. Mi aveva scongiurano con quei suoi gran occhi grandi e scuri, con quella tonalità di voce che sarebbe stata in grado di sciogliermi come il sole fa con la neve. Tutto mi aspettavo tranne quello.
    In effetti ci avevo pensato per quel pomeriggio. Mi ero preoccupata. Mi ero detta: “Al massimo la canterà con Sheryl Crow, non certo con me oramai, né tantomeno con Vanessa... Non farà una cosa del genere”.
    E mi aveva dato la prova del contrario. Aveva scelto lei! Lei!
    Non sapevo nemmeno io che pensare. Ero sul punto di non ritorno da una crisi di rabbia. Non sapevo che espressione avesse assunto il mio viso contratto, solo che Eddie mi guardò veramente inquieto. Ero fuori di me, e come quella mattina le mie mani stavano tremando; il mio respiro era sempre più affannato e l’odio ricominciava ad invadermi.
    «Sharon, sei... Sei arrabbiata?», disse lui a bassa voce. Subito, sebbene non ne avesse colpa, lo fucilai con uno sguardo.
    Come facevo a non esserlo? Quel... Quel bugiardo! Davvero io non... Come era arrivato fino a questo punto?! Pensavo che, se tanto non voleva far esibire entrambe, prima o poi mi sarei rassegnata all’idea. Pensavo: “Oh che persona corretta, almeno non è così infido da fare differenze”! Parlava di questo sistema poi il corrotto era lui?!
    Ero furente dentro, cercai di non urlare le parole che stavo per pronunciare.
    «No... Sono furiosa...»
     
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    Capitolo Ventisette.


    The end... or not?
    Punto di vista: Michael Jackson/Sharon Villa.


    Era lì, stupenda e perfetta come sempre, in quella palestra dove l’avevo vista con Eddie solo ieri, a ballare solitaria una musica movimentata e fluida. Non penso riuscisse a vedermi, così concentrata com’era.
    La guardavo sorridente e per un momento dimenticai il motivo che mi avesse spinto a cercarla; tutto quello che era avvenuto quella stessa mattina che non doveva essere accaduto, le cose che Sharon aveva sentito sulla sua pelle non erano vere... Sapevo che Vanessa mentiva, ma ero stato zitto. Non l’avevo difesa, non quanto Eddie e Randy avessero fatto per lei, e mi ero sentito in colpa per tutto il pomeriggio passato... Non avevo preso nemmeno un passo corretto.
    Era arrabbiata con me? Forse sì, ma magari, chiedendole scusa e spiegandole le sincere motivazioni che mi avevano portato a quel modo di agire, mi avrebbe perdonato. E se non avrebbe accettato le mie scuse? Mi sarei sentito male, una persona orribile. Sarebbe stato troppo tardi, ma avrei cercato di impedire che se ne andasse!
    Non volevo andasse via... Non volevo... Avevo dovuto escluderla dal tour, però c’era ancora una possibilità di rimedio; poteva ancora cantare con me. Non sarebbe stato lo stesso che ballare, però... Però quella era l’unica cosa che le avrebbe permesso di restare al mio fianco!
    Mi si bloccava il fiato al solo pensiero che mi avrebbe abbandonato lì, da solo, e non avrei rivisto il suo sorriso... I suoi occhi... Parlare con lei non era parlare con tutti gli altri, stare con lei non era come stare con le persone che mi erano accanto. Aveva lo stesso effetto che mi faceva la musica: lei era la ragione per cui sapevo che il tempo, che il giorno e la notte ancora esistevano. Con lei potevo trascorrere la mia vita gustandomela in ogni piacevole sapore.
    Era strano come paragonassi ogni dettaglio in lei come qualcosa di sensazionale; il suo sorriso splendido come la luce dell’alba, gli occhi come la notte nere... Se Sharon se ne fosse andata... Io che avrei fatto? Io... Io l’amavo.
    Proprio nel momento in cui quel pensiero m’attraversò, percependo uno scintillare incombente nel mio cuore e nei miei occhi, lei si fermò in mezzo la stanza, ignorando la musica che alta continuava a risuonare nell’aria.
    La osservai dritta negli occhi, come lei stava facendo con me, la quale subito svoltò il suo sguardo verso l’impianto stereo. Si avvicinò ad esso, spense la musica... Tutto senza dirmi una parola. Sebbene mi sentissi morire dentro per quel gesto, era più che ovvio che fosse offesa e non volesse rivolgermi la parola...
    Con passo lento e trascinato mi avvicinai al centro della stanza, chiudendo prima la porta della sala. «Mi... Mi dispiace di averti interrotto, e solo che... Dobbiamo parlare, Sharon», dissi a voce pacata e prudente.
    «Oh, sta’ tranquillo, quello di cui dobbiamo discutere già lo so», rispose lei immediata con sopracciglio alzato e sorriso sardonico. «E, se vuoi la verità, non pensavo veramente potessi essere così subdolo...»
    Che stava dicendo? Subdolo? C’era un pezzo che mi stava sfuggendo... Che verità stava citando? Il suo tono di voce era così aspro, arrabbiato... Qualcosa non andava. C’era di sicuro qualche cosa di non chiaro in tutta quella faccenda.
    «Sharon, ma che stai dicendo?», chiesi con fare interrogativo e dubbioso.
    «Che cosa sto dicendo io?», disse per poi emettere una risata soffocata ed irritata. «Tu che diavolo fai, piuttosto! Non ho bisogno delle tue scuse adesso, e neanche delle tue bugie! Pensavo “oh che persona corretta, alla fine però c’è caduto nella trappola di quella serpe”!»
    La guardai scioccato, sconvolto da quelle sue parole e gesticolazioni furiose che stava sfogando contro di me. «Non capisco, Sharon...»
    «Oh certo! Che diavolo, perché non c’ho pensato prima io?!», disse spalancando le braccia in un gesto scomposto e impettito, alzando gli occhi al cielo per poi, infine, rivolgermi un’occhiata di fuoco. «C’è bisogno anche che ti faccia il verbale?! Di certo non pensavo che la tua memoria fosse così corta!...»
    «Sharon...», cercai di fermarla, avvicinandomi a lei sbigottito e scioccato. Non capivo. Non capivo e, per di più, mi sentivo uno vero schifo senza sapere il perché! Quel suo atteggiamento... Non l’avevo mai vista così arrabbiata...
    «Oh beh in effetti la tua memoria, dopo tutto quel che è successo e tirando ben bene le somme di tutto, è corta! Pensavo che dicessi sul serio quando mi dicevi che non ti importava di quello che avrebbero detto gli altri, ma a quanto pare non lo è affatto! Ed in più!, con quello che sono appena venuta a sapere, davvero “non posso smettere di odiarti”».
    I suoi occhi erano specchio di rabbia e odio allo stesso tempo, quella mia adorata luce non c’era più, e la sua calda e amabile voce si era trasformata in migliaia di sibili sprezzanti e gravi. La guardavo sconcertato; più parlava e più io mi sentivo traumatizzato dentro da quelle accuse. “Non posso smettere di odiarti”... Da dove l’aveva tirata fuori questa? Perché stava dicendo quelle assurde cose senza senso?
    «Sharon, ti prego, ascoltami: che cosa stai dicendo?», ma quando le dissi queste parole e cercai di prenderle dolcemente un polso, lei scattò all’indietro. Io la guardai ferito, a bocca semiaperta dallo sconforto, in cerca di qualcosa che mi avrebbe dato la conferma che ero io che stavo immaginando tutte quelle cose assurde.
    «”Che cosa stai dicendo”? Michael, vedi di smetterla di prendermi in giro! Ho smesso da tanto tempo di scegliere di venire umiliata moralmente, e né tu né la tua amichetta riuscirete in questo obiettivo!...», e così dicendo si diresse a passo veloce verso il borsone della roba di ginnastica, in fondo alla palestra.
    «Sharon, aspetta...», le dissi, sentendo il dovere di correrle incontro. Ma lei mi sfuggiva, non mi ascoltava, né aveva la minima intenzione di rimanere là per ulteriore tempo con me. Guardava fisso il suo gran daffare da sistemare dentro la borsa nera, ignorandomi meglio che poteva, mentre il suo volto assumeva sempre più un’espressione irritata.
    «Sharon!», esclamai infine indeciso se essere stizzito o ancora più sconfitto.
    D’improvviso, senza avere l’istinto di controllare ogni mia azione, le presi i polsi e la portai con un frenetico impulso vicino a me. I suoi grandi occhi neri si spalancarono deliziosamente, fissandomi con quelle sopracciglia che sottolineavano un leggero sdegno e dubbio. Sebbene quello non fosse un gesto da me – sapevo che la pensava alla stessa maniera -, non lasciai la presa dei suoi polsi. Sentii i miei occhi incatenarsi ai suoi in un legame invincibile.
    «Spiegami, per favore, spiegami che cosa diavolo è successo!», dissi con tono alto, per poi prendere un respiro, cercando di controllare i miei nervi. «Davvero io non so di cosa stai parlando...»
    Lei roteò gli occhi in cielo, emettendo un sibilo con le labbra che faceva capire quanto fosse scocciata. Dopo aver roteato il suo sguardo lungo tutta la stanza, mi linciò con un’occhiata di fuoco. Mi odiava. Mi sentivo morire.
    «Eddie mi ha detto tutto...», disse tremante, mordendosi il labbro inferiore. «Mi ha detto che Vanessa canterà con te, mi ha spiegato tutto... “Miss falsità dagli occhi glaciali” canterà “I Just Can’t Stop Loving You”... Davvero, tu sei... Sei un’idiota, un grande idiota, e io che pensavo di...»
    Si bloccò, stringendo le labbra in una morsa e immobilizzandosi, ma non disse niente. Nel suo volto quel sorriso sardonico non accennava ad andarsene, la rabbia non sembrava in grado di placarsi. Era furiosa. Di un odio incontenibile.
    Vanessa aveva detto in giro che avrebbe cantato con me. Chi le aveva permesso di dire tale menzogna? Sentivo la rabbia bollirmi nel sangue in una maniera impressionante, non potevo credere che avesse fatto una cosa del genere! Ed in più a causa sua Sharon era arrabbiata con me! Il mio cuore non riusciva a sopportare un così grande peso... Come potevo sapere che lei non voleva più saperne di me, dato che io l’amavo a tal punto da volerla sempre con me?
    «Ma ormai quel che è fatto è fatto, no? Canta con lei, credile, fai quel... Quel cavolo che vuoi! Non mi importa! Io me ne torno a Los Angeles, visto che non faccio parte del tour. Anzi, sai cosa? Non penso nemmeno di averne mai fatto parte... Neanche della tua vita...», disse sprezzante.
    «Che cosa stai dicendo?!», dissi irritato. Come poteva dire una cosa simile? Lei non aveva mai fatto parte della mia vita?
    Dio, io ti amo Sharon, non vuoi proprio capirlo?
    «Tu... Tu non sai niente...», continuai deluso e furente.
    «Non so niente, eh?», disse lei staccandosi dalla presa dei miei polsi facilmente. Spalancò a malapena i suoi occhi, con un sorrisetto provocatorio sulle labbra. «Be’, mi sembra che tu sia stato bravo solo a parlare, perché quando c’era da credermi nel momento più opportuno e starmi vicino mi sembra proprio non ci fossi! Sei stato molto convincente quando dicevi “Non mi importa di quello che dicono gli altri”, “Mi fido di te”, bla, bla, bla...!»
    «Cavolo, Sharon!», urlai scocciato. Mi resi conto che era la prima volta che alzavo i toni con lei, e che era la prima volta che stavamo litigando... Sentii un grave peso sullo stomaco, ma non smisi di parlare. «Io credo nelle cose che ti ho detto, proprio non riesci ad arrivarci?! Cerca di capire perché ho agito così! Non pensi che fossi interessato a proteggere te invece che me?! Ti rendi conto di quello che avrebbero detto se ti avessi difeso a spada tratta?! Pensi davvero che io sia un falso?! Davvero non sei riuscita a capire i miei motivi?»
    Entrambi rimanemmo in silenzio. Mi fissò con occhi semi spalancati, la bocca serrata, il petto che saliva e scendeva in base ai suoi respiri affannati. Com’era bella... Anche in una situazione così, piena di rabbia e risentimento, il suo splendore risaltava ai miei occhi come un diamante in mezzo ad un mucchio di carbone.
    Quanto avrei voluto dirle la verità, così come stava... Dirle che l’amavo, l’avevo amata da tanto tempo, ma non me ne ero mai accorto. Quando era stata all’ospedale l’avrei voluta baciare nel sonno, allora non mi rendevo conto del perché. Il suo modo di atteggiarsi, la sua personalità dolce e tenace... Mi ero accorto di essermi completamente innamorato di lei solo quando la lontananza era il vero modo per riuscire a separarci per sempre.
    L’amavo tanto. Il mio cuore impazziva quando la vedevo, la mia anima lasciava il corpo e andava in uno stato di ecstasy allo stato puro.
    Quanto vorrei dirtelo... Vorrei avere il coraggio di dirti quanto ti amo... Ti amo...
    Inaspettatamente, senza più il controllo di me stesso, feci qualche passo indietro, continuandola a scrutare negli occhi neri come la notte. La sua espressione non mutò, e nemmeno la mia. M’allontanai da lei e voltai le spalle, dirigendomi fuori dalla palestra.
    Dovevo chiarire le mie idee.

    ***

    Maledizione. Quella parola sì che sapeva descrivere i miei amari sentimenti.
    Ero così arrabbiata con lui, con me stessa, con Vanessa, con tutti! Ero furiosa con tutti ma in realtà odiavo solamente ed unicamente me stessa! Mi ero comportata da schizofrenica con Michael, convinta che avessi ragione – non che avessi del tutto torto alla fine però -, e quando lui per la prima volta mi gridò contro tutti i sentimenti mi fece dubitare di me stessa. Mi fece dubitare dei miei pensieri, dei miei pregiudizi.
    Eppure non potevo sapere se quello che mi aveva detta fosse vero oppure no. Non mi aveva comunque dimostrato niente. Niente che potesse farmi capire se la sua era verità o bugia. Diavolo. La mia testa non ci capiva più niente! Il cuore mi urlava di credergli, il mio cervello invece no!
    Cazzo.
    Vedi? Questo significa innamorarsi della persona sbagliata!
    Io lo amavo. Dio. Io lo amavo! Ed ero nei pasticci. Lo avevo amato da quella sera a cena a casa mia, mentre ballavamo lenti e cullati dalla mia canzone preferita. Lo avevo amato tutte le volte che mi avevo preso fra le sue braccia e mi aveva lasciato sfogare ogni mia lacrima. Mi ero innamorata di lui e sentivo il mio cuore sobbalzare ogni volta che lui mi guardava. Il suo sguardo magnetico mi aveva fatto cadere nel vicolo cieco dell’amore.
    Amore crudele, amore bugiardo, amore dolce, amore passionale... Perché vuoi farmi cadere nella strada senza fine cui conduci i tuoi schiavi? Sono forse tua schiava d’amore anch’io? Sono stata anche io catturata nel tuo dolce labirinto? Sei tu che mi hai rubato il cuore e donato per sempre a lui?
    Mi affacciai al terrazzo della suite che – per il momento – restava ancora mia. Era l’ultima serata che avrei passato in Giappone. L’indomani sarei partita per tornare a casa. Avevo preso un biglietto proprio quel pomeriggio, chiedendo prima informazione di dove potessi prendere un biglietto d’aereo a quello della reception dell’hotel.
    Respirai a fondo, godendomi l’attimo. Non che avrei fatto poi tanto sacrificio, di posti al mondo ce ne erano di migliori, ma era sempre il primo viaggio fuori dagli Stati Uniti che avevo compiuto, perciò sarebbe rimasto sempre fra i miei ricordi, nel bene e nel male... Di nuovo ricordai la ragione del mio viaggio e la persona che mi aveva condotto a questa tortura emotiva.
    Ti sei divertito, Michael? Sei contento di aver stregato il mio cuore? Eppure ti amo e non so neanche il perchè...
    Di nuovo – chissà che novità per quel giorno – una lacrima scese lungo la mia gote. Sentivo un enorme voragine nel petto cominciare a riaffiorare a contatto con la sua immagine, lacerando il mio cuore pezzo per pezzo e ogni suo puro e gentile sentimento.
    Cazzo.
    Quante volte avevo già detto e pensato quella parola?
    Sentii bussare la porta. Svogliatamente mi voltai ad osservarla – sebbene fossi fuori dalla suite avevo una vista abbastanza acuta – e sul momento non volli sbilanciarmi ad andare ad aprirla. Bussò un’altra volta e, contrariata, decisi di dirigermi verso essa e aprirla. Borbottai un “Arrivo” svogliato e quasi insensibile a orecchio umano e feci una mezza corsetta per arrivare prima che bussassero una terza volta.
    Non guardai l’uscio. Non ero nelle condizioni mentali per mettermi a pensare chi fosse.
    Aprii.
    Lo guardai fisso, prima sorpresa, poi amareggiata. Il mio cuore batteva nel petto come se volesse scoppiare da un momento all’altro, un istinto di buttargli le mie braccia al collo fu represso dal cervello e dall’orgoglio che ancora non voleva arrendersi all’evidenza dei miei sentimenti interiori. Il mio respiro si fece solo un sospiro.
    «Posso entrare?», chiese Michael con sguardo serio ed indagatore. Abbassai lo sguardo e dopo qualche secondo acconsentii col capo. Tanto meglio di così non sarebbe proprio potuto andare!
    Gli feci spazio per passare, mettendomi di lato, e lui passò oltre di me evitando di sfiorarmi anche con solo la stoffa dei suoi vestiti. Per quel gesto, per quanto insignificante che fosse, sentii il mio cuore emettere un silenzioso “crack”. Il primo di quella che si preannunciava una situazione degenerante e decisiva per i nostri destini.
    Lo fissai, ma il mio respiro esitò a uscire. Michael guardava il pavimento, con le mani sui fianchi, si umettò le labbra e poi mi rivolse un’occhiata straziante quanto decisa. Non lo avevo mai visto così... Combattivo. Sembrava sull’orlo di fare una guerriglia!
    «Ho parlato con Vanessa..»
    Nel mio cuore un altro “crack” irruppe rumorosamente.
    «Ha detto che sei stata tu ad inventare quest’altra assurdità...», continuò lui impassibile.
    Terzo “crack”. Perfetto. Gli aveva creduto. Ancora?
    «Abbiamo parlato nella mia stanza, ha...», emise un sospiro arrendevole, chiudendo per un attimo le palpebre in un’espressione quasi schifata. «Ha cercato di sedurmi, ma non mi sono arreso. Alla fine mi ha detto che era lei che stava mentendo, proprio mentre pensava che io ci stessi provando con lei...»
    Oddio... L’hai baciata? Ti ha detto tutto questo perché l’hai baciata? Fino a che punto siete arrivati?
    Quarto “crack” per il mio cuore. Si stava sbriciolando più in fretta che mai non sperato.
    «E io l’ho... L’ho fatta uscire per sempre dalla tournèe... Le ho impedito di fare qualunque cosa, non mi ha baciato, nè abbiamo fatto... Altro...»
    Questa volta la sua voce era più pacata, il suo sguardo mite e apprensivo verso la mia reazione. Non sentivo quasi più le gambe e temevo che sarei svenuta entro poco tempo. I miei occhi erano spalancati, ogni muscolo irrigidito. Sembravo un iceberg dell’Oceano Atlantico, duro e irremovibile dalla sua posizione ferma.
    «Scusa se non sono stato capace di difenderti. Quelle cose che ti ho detto stamattina erano vere, però ammetto di essere stato... Geloso, quando Eddie e Randy ti hanno difeso così a spada tratta. Non sopporto l’idea che loro ti ronzino intorno...», disse arrossendo violentemente sulle guance. «Io... E’ difficile da dire, ma...»
    Dillo... Dillo per favore... E la tua ultima occasione... Impediscimi di fuggire via, impediscimi di odiarti per sempre e dammi la possibilità di amarti per sempre, fino alla fine dei miei giorni e oltre. Ti prego, Michael...
    «Sono innamorato di te... Dal primo momento in cui ti ho visto ballare, io sentito... l’attrazione. Ho sentito che tu eri diversa da tutte le altre che io abbia mai incontrato in questa mia vita. Ho... Ho desiderato tante volte in questi ultimi giorni di abbracciarti, di tenerti la mano ancora come quel giorno in aereo o in ospedale, ho desiderato... Ho desiderato dirti tutte queste parole perché ti amo. Ti amo come non ho mai amato nessun’altra, non sono mai riuscito a esprimere a nessuna questi miei sentimenti così chiaramente come ho fatto con te!»
    Tremavo. Tremavo e sentivo il cuore scoppiare. Lo sentivo pronto a esplodere come una bomba atomica. Tutte quelle cose... Quelle dichiarazioni... Sentivo il cuore così pieno di felicità che non pensavo mai sarei riuscita a sopportarla. Michael mi scrutò con le lacrime agli occhi, ora anche lui silenzioso e con il petto che si alzava e abbassa a seconda del suo respiro.
    «Michael...», dissi con voce vibrante. Riuscii a pronunciare il suo nome che scoppiai in un pianto soffocato.
    Mi misi le mani a coprirmi il volto, nel frattempo che i singhiozzi si facevano più rumorosi e le lacrime bagnavano tutto il mio viso e palmi compresi. Non riuscivo a descrivere la mia felicità, non riuscivo a capire come avesse potuto il mio desiderio avverarsi.
    Mi resi conto di tutto. Mi resi conto di quanto l’amavo, di quanto fosse importante per me. Era ogni cosa per me. Era la ragione del mio sorriso, la luce che brillava nei miei occhi, l’ispirazione che veniva non appena muovevo un passo. Era la mia musica. Era la persona a cui avevo donato per sempre il mio cuore.
    «Ti prego, non piangere...», mi disse lui, prendendomi i polsi e levandoli delicatamente dal mio viso.
    Mi guardò intensamente mentre io continuavo a piangere come una bambina, mi baciò le nocche delle mani e mi abbracciò. Posi il mio volto nell’incavo del suo collo, portando le mie braccia dietro la sua schiena. Il suo profumo, il suo calore... Strinsi possentemente la sua maglia fra le mie dita. Non volevo abbandonare quel momento. Io volevo...
    Spostai il mio viso e lo appoggiai sulla sua fronte. Entrambi i nostri respiri erano flebili, soffocanti. Sentivo il contatto del suo petto col mio, non volevo lasciarlo andare. Volevo amarlo, volevo sentirlo sempre accanto a me...
    Un momento come quello... Il bacio speciale... Il vero amore.
    Capirai il significato della canzone quando, al momento della verità, piangerai assieme al tuo vero amore...
    «Michael... Ti amo anch’io...», dissi in un sussurro, avvicinando la mia bocca alle sua, con le nocche della sua mano che accarezzavano la mia gote delicatamente.
    Lui trattenne il respiro e, nello stesso istante che emisi un gemito sottile, le nostre labbra si congiunsero in un’unione che avrebbe sempre disegnato il nostro futuro e il nostro vero amore.

    ***

    Il contatto con le sue labbra... Quante volte l’avevo sognato questo momento... Quante...
    Così tanti momenti mi ero ritrovato a pensare di poter accarezzare quelle sue labbra carnose, in un misto di piacere e dolcezza infinita, segnandone i contorni con le mie stesse labbra. Era una sensazione mista di passione, amore e tenerezza. Quello che provavo non poteva essere espresso se non con quel bacio.
    Ne desideravo ancora. Non volevo separarmi. Non volevo perderla. Non potevo lasciarla andare lontano da me...
    «Ti amo di più...», dissi con la stessa tonalità di voce sua, in un sibilo basso e asfissiato dall’amore.
    Vidi con la coda dei miei occhi ancora socchiusi le sue labbra piegarsi in un sorriso e pensai che fosse il più bello che le avessi mai visto in tutto quel periodo in cui ci conoscevamo. La mia Sharon era così bella, dolce... Era mia e solo mia.
    Sentivo di doverle ancora dire tutte le altre emozioni che provavo dentro di me e che non ero riuscito a finire di raccontare, ma le nostre labbra non volevano separarsi. Erano attaccate da un filo invisibile che le univa e non le permetteva di staccarsi l’una dall’altra.
    Le sue mani arrivarono fino in alto alla mia schiena, sfiorandomi i capelli ricci che scendevano sulle spalle.
    Con un gemito confuso fui pervaso da una scarica di adrenalina e la presi in braccio, controllando però la mia forza per evitare di farle male. Lei reagì provocando un altro gemito dalla sua bocca, e grazie a quello e all’immediato contatto che ebbi con il suo corpo una forte scarica di non so ché mi fece reagire. Sentivo l’amore attraversarmi le vene al posto del sangue perfino, dare la forza a ogni mio arto a reagire.
    La portai nella sua camera, la feci distendere e mi misi sopra di lei. Le sfiorai i suoi capelli, i contorni del suo viso, e pian piano ci ritrovammo in preda a quello che io definivo piacere. La volevo perché l’amavo. Non importava quanto sbagliato fosse, quanto dura sarebbe stata.
    «Ti amo...», le dissi con un altro gemito questa volta acuto e sibilante.
    La mia vita la volevo passare per sempre con lei.
    «Dillo ancora...», chiese implorante sotto di me. Lei mi apparteneva. Io a lei. Ci saremo appartenuti per sempre, come un’unica persona.
    «Ti amo... Per sempre...» L’amavo e lei era l’amore della mia vita. Per sempre...


    _______________________________________




    EPILOGO FINALE.


    The end of this chapter
    Punto di vista: Sharon Villa.


    Una musica lieve cominciò a farsi timidamente avanti nell’aria, dando il via a centinaia e centinaia di fan di accendere i loro preziosi lumini, candele, o qualsiasi altro oggetto che potesse illuminare quella magica serata.
    Ed eccola, finalmente, la sua voce. La voce tanto attesa da i suoi ammiratori, quel soffio che poteva riuscire a cambiare i sentimenti di coloro che lo ascoltavano non appena emetteva parola. La voce di un angelo caduto dal cielo, a volte amato e a volte odiato, a volte denigrato e a volte venerato. La sua...

    «Each time the wind blows I hear your voice so I call your name...
    Whispers at morning, our love is dawning, heaven's glad you came
    You know how I feel, this thing can't go wrong, I'm so proud to say I love you
    »

    Lo guardavi dall’ombra avanzare nel punto illuminato del palcoscenico. Sorrideva lui, ma potevi rimanerne certo che, sotto i suoi occhi e quel suo sorriso perfetto, ci fossero nascosti sentimenti più profondi ed intensi di quanto desse a vedere.
    Ed improvvisamente riuscivi a sentire la voce di una donna, una ragazza la quale anch’ella sarebbe uscita dalle oscurità del palco per farsi vedere al mondo a fianco di una persona quale Michael Jackson.

    «I hear your voice now, you are my choice now
    The love you bring, heaven's in my heart at your call I hear harps and angels sing. You know how I feel This thing can't go wrong, I can't live my life without you
    »

    Lui la guardava, ascoltando la sua voce fino a sentirla in fondo all’anima. I fan erano estasiati da quella scena, da quell’atmosfera di magia che donava a tutti un gran senso di dolcezza nel cuore, incantando anche le persone più scettiche e riluttanti che ci potessero essere.
    Già, quella sensazione era degna di due innamorati.
    Era il soffice sentimento che può farti sentire la vera felicità, le frasi erano parole rivolte ai due amanti, due persone che provavano l’uno per l’altra un affetto profondo che mai li avrebbe separati, nemmeno la morte.
    Quella canzone era amore. Nient’altro.
    Si avvicinarono, lentamente, si sorrisero, cominciarono a lasciarsi andare a quella meravigliosa melodia. Tutto era perfetto. Niente poteva essere sbagliato. La loro vita poteva essere forse imperfetta?
    Michael fissò la ragazza con dolcezza, le si avvicinò con fare felino e allo stesso tempo docile, mentre lei intonava altre parole e frasi d’amore.
    I fan cominciarono ad emozionarsi, ad urlare, a spalancare gli occhi. Come non avrebbero potuto, d’altronde? Era una delle scene più belle che i loro occhi potessero vedere. Quella era felicità forse?
    Già...

    Ma quella non ero io...

    ***

    Che cosa dici...?», disse Michael guardandomi con gli occhi lucidi. Le mani gli tremavano, le labbra vibravano in base al suo respiro irregolare, mentre la sua voce tremava nell’aria.
    Silenzio. Non risposi.
    Era troppo sofferente quel momento perché potessi dire qualcosa, qualsiasi cosa, e se solo avessi esternato i miei sentimenti sarei sicuramente rimasta distrutta dal dolore. Non volevo piangere, non in quel momento, non di fronte a lui.
    Il mio cuore era a pezzi, e i pezzi cominciavano a bruciare nella sofferenza di un amore troppo impossibile per essere reale. Non rimaneva altro che aspettare che questo amore sarebbe stato portato via come il vento porta via con sé la cenere di un focolare spento e carbonizzato. Io non ero la persona per lui. Lui non era la persona per me.
    Quella era la realtà, e mi annientava.
    Erano passati mesi da quando ero segretamente ed ufficialmente la sua fidanzata, giorni e giorni di una passione innocente e troppo pura per non rimanerne incontaminata dalle malizie e cattiverie altrui. Era passato un sacco di tempo da quel giorno in cui mi aveva confessato il suo amore, e io avevo rivelato il mio.
    Quella notte ci unì per l’eternità, ma non bastò a tenerci legati per sempre.
    Per quanto il nostro potesse essere un amore vero, non sarebbe mai durato. La nostra non era una relazione. Non avrebbe mai potuto esserlo. Lo avevo capito solo quel giorno. Quel stramaledetto giorno.
    Lui aveva il suo lavoro, aveva la sua fama da gestire e da portare avanti, non poteva curarsi di una come me, e io non potevo restare all’ombra, in silenzio, ad aspettarlo inerme a Neverland – la grande casa che si era costruito – e rimanerne una reclusa per tutta la vita.
    Andavo in tour con lui, ero sempre la sua ballerina, ma era sempre assente. La sua mente e il suo cuore non potevano curarsi di me nemmeno durante gli istanti passati insieme, non come avrei sperato. Lui doveva mantenere il suo posto nel mondo dello show business.
    Ero un peso per lui.
    Avevo cercato di adeguarmi alla sua vita, ma non era mai facile abituarmi alle sue assenze sempre troppo lunghe per me. Io desideravo che si dedicasse a me, corpo e anima, come una storia d’amore che si ritenga tale. Lo volevo per me, ero troppo immatura per accettare quella verità. Ero egoista.
    I nostri mondi erano diversi, le nostre personalità erano diverse.
    Il nostro amore non sarebbe mai potuto andare avanti...
    «...Perché?», ripeté lui con la voce rotta dal pianto. Una lacrima gli solcò il viso, veloce e fulminea, causando un’altra crepa dentro di me.
    Basta ti prego... Smettila di fare così... Mi rendi tutto più difficile...
    «Io...», dissi con un soffio, guardando il vuoto con occhi vacui. «Io... Non posso...»
    «Cosa non puoi? Cosa?!», chiese disperato prendendomi le mani e unendole alle sue. Quel tocco così caldo, così rincuorante... Mi sarebbe mancato più della mia stessa anima. «Dimmelo ti prego! Io non posso vivere senza di te, non posso! Qualsiasi cosa che non puoi fare io la realizzerò per te, sono qui per te! Il mio cuore è per te, non capisci? Ti amo...»
    Mi prese il viso fra le mani e congiunse le nostre fronti. Sentivo il suo respiro teso e veloce pervadermi con una morsa di dolore e piacere, facendomi ricordare ancora una volta che cosa stavo per perdere.
    «Ti prego...», soffocò lui, baciandomi dolce sulle labbra. Una lacrima mi scese per tutta la gote e solo allora lo guardai negl’occhi.
    Il nostro amore era unico, dolce, sensuale, comprensivo, ma il destino non desiderava che noi stessimo insieme per tutta la vita come ci eravamo promessi tanto tempo prima.
    «Non posso...», dissi di nuovo, cominciando a scuotere il capo con scatti secchi e rapidi. Lo baciai per l’ultima volta, premendole a lungo alle sue. Sentendomi ricambiata aumentai la pressione, ma non servì a riempire il vuoto che poi mi avrebbe invaso per un periodo di tempo che io definivo “sempre”.
    Mi separai da lui, sciogliendo quell’ultimo bacio, indietreggiando a passi piccoli. Lo sguardo di Michael si fece sempre più struggente e supplichevole, la sua mano che teneva la mia mi stringeva in una morsa tanto potente quanto mortale.
    Ma più mi allontanavo più si faceva debole.
    Il nostro amore si faceva fine quanto un fragile pezzo di spago che, con un solo secco colpo, si spezzava troppo facilmente, più di quanto si potesse immaginare.
    Lasciai la sua mano.
    Lui continuò a stendermela, non l’abbassò.
    Un’altra lacrima rigò i nostri visi in contemporanea.
    «Ti amo anch’io...», dissi sottilmente.
    E come nella storia originale, Wendy lascia Peter per diventare grande e crescere senza di lui. E lui se ne torna all'Isola Che Non C'è. I momenti passati non torneranno più, ma rimaranno sempre nei cuori di Wendy e Peter. Per sempre. Ti amo troppo...

    ***

    Chiusi la tv appena la lacrima solcò il viso, evitai con tutte le mie forze di vedere quel momento del suo concerto e di sentire quella canzone che, non molti mesi prima, avevo cantato migliaia e migliaia di volte assieme a lui.
    Quel che era passato era passato, ma i ricordi e le memorie sarebbero rimaste. Perchè l'amore non si cancella, non si può rimuovere così facilmente, non si può pretendere che se ne vada quando chiedi e torni quando lo chiami. L'amore è un sentimento che non si può eliminare.
    E in quel caso avevo ragione.
    Il frutto dell'amore lo avevamo portato avanti, avevamo coltivato ogni sentimento e desiderio per noi assieme, ma purtroppo io ero dovuta andarmene e portarne via una parte - quella più importante - e avrei dovuto custodirla per sempre, dentro di me.
    Li avrei tenuti sempre con amore, con delicatezza accarezzati e coccolati, e con le lacrime avrei ricordato il suo viso in ogni sfacettatura a lui simili.
    Portai una mano sul ventre e li accarezzai, i miei dolci angioletti. Chissà da chi avrebbero preso, se qualche caratteristica sarebbe stata simile a quella del loro papà, o della loro mamma.
    Ma tre cose di sicuro sapevo:
    Erano gemelli - due bellissimi bambini, un maschio e una femmina, monozigoti e già così uniti nella pancia della loro mamma...
    Erano amore, l'amore che io e Michael avevamo provato, il ricordo reale e vivo della nostra storia assieme, la prova che noi ci eravamo amati e che non avevamo finto.
    Inoltre, avevo già un progetto per i loro nomi.
    Per la femmina, sarebbe stato perfetto il nome Alicia Katherine, e per il maschietto...
    Michael...
    Li sentii improvvisamente muoversi nel grembo, e con cura spostai la mano nello stesso punto in cui avevano scalciato, accarezzando e pronunciando sussurrate frasi d'amore e affetto.

    Quello che venne dopo vorreste sapere?
    Be'... Non si può dire, non ora.
    Quella è un'altra storia...


    Fine.

     
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    Brava Ambra, ho appena terminato di leggere il tuo racconto e da esso traspare tutto l'amore che provi per Michael. Potrei sbagliarmi ma anche in Sharon mi pare tu abbia messo del tuo.
    Hai una capacità di raccontare invidiabile, si vede che lo scrivere è una tua passione ed i pochi errori presenti (ho letto la versione di EPF quindi non so se questa sia diversa :ehm: ) passano in secondo piano :kiss2: .
    CITAZIONE
    Quello che venne dopo vorreste sapere?
    Be'... Non si può dire, non ora.
    Quella è un'altra storia...

    Ecco...sì, mi piacerebbe saperlo :ehm: ...a quando l'altra storia? :D
    Scherzo, fai con comodo, ma continua a coltivare questa tua passione perchè :clap: :clap: :clap: sei brava.
    E poi attende un nuovo sogno.
    Un abbraccio :kiss2:
     
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    CITAZIONE (patma @ 7/5/2011, 09:39) 
    Brava Ambra, ho appena terminato di leggere il tuo racconto e da esso traspare tutto l'amore che provi per Michael. Potrei sbagliarmi ma anche in Sharon mi pare tu abbia messo del tuo.
    Hai una capacità di raccontare invidiabile, si vede che lo scrivere è una tua passione ed i pochi errori presenti (ho letto la versione di EPF quindi non so se questa sia diversa :ehm: ) passano in secondo piano :kiss2: .
    CITAZIONE
    Quello che venne dopo vorreste sapere?
    Be'... Non si può dire, non ora.
    Quella è un'altra storia...

    Ecco...sì, mi piacerebbe saperlo :ehm: ...a quando l'altra storia? :D
    Scherzo, fai con comodo, ma continua a coltivare questa tua passione perchè :clap: :clap: :clap: sei brava.
    E poi attende un nuovo sogno.
    Un abbraccio :kiss2:

    Grazie, patma :**:
    Sono felice che tu abbia di nuovo ri-letto la mia storia, e ti ringrazio per tutti i bellissimi complimenti che hai fatto. Purtroppo questa storia oramai la vedo come una fase della mia evoluzione, e credimi che per me rileggerla è... be', mi vergogno di tutto ciò che ho scritto Non so perchè, forse perchè quando scrivo mi lascio andare e non penso a ciò che faccio...
    Sono contenta che con questa storia sia riuscita a farti percepire il mio amore per Michael, ma sono sicura che avrei potuto fare di più. Avrei potuto lavorare e darci sotto con maggiore passione, soprattutto per il finale, ma alla fine sono felice per quella che è =)
    La versione su EFP è uguale, non temere :D
    La continuazione la farò - se riuscirò - una volta che avrò finito un'altra mia storia che sto spostando, The Wish. Quando avrò finito e concluso quella, vedrai che mi occuperò di tutte le altre storie che ho lasciato in sospeso - sono un'apprendista piuttosto pazzerella, io :asd:
    Grazie ancora di cuore per il tuo sostegno, ti voglio bene!!! :hug:
     
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23 replies since 11/1/2011, 19:32   1198 views
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