Posts written by fallagain

  1. .
    Capitolo Sette: Il Carosello

    «Eccovi! Stavamo per mangiare senza di voi!», rise Grace seduta comodamente a tavola con Prince e Paris. Ci guardavano e avevano un'aria davvero affamata.

    La sala da pranzo era incantevole come tutte le altre stanze della casa. Era enorme, con il parquet scuro e le pareti bianche; due enormi vetrate davano – come per l’ufficio di Jackson – la visuale sul giardino. Vi erano due tavoli dove pranzare: il primo, quello occupato dalla tata e i bambini, era piccolo e a forma circolare; il secondo, invece, rettangolare e ospitava un minimo di otto persone. C’erano due grandi lampadari di oro appesi al soffitto – uno sopra ogni tavolo –, un caminetto, svariate mensole con posate e bicchieri sicuramente costosi e un comò con una strana scultura in legno rossiccio sopra. Due quadri ornavano la stanza: uno ritraeva una mamma con tre figli, seduti su una panchina circondati da siepi verdissime, e un altro ritraeva lo stesso Michael Jackson in compagnia di bambini di tutte le razze, passeggiando felici per un sentiero in mezzo alla natura.

    Mi sentivo un’intrusa in quel mondo fatto di magia ed eleganza.

    Mentre ci dirigevamo al tavolo scorsi un sorriso enigmatico sul viso di Michael Jackson, ma finsi indifferenza.

    Mi sedetti accanto a Grace – poiché ero sicura che fra Prince e Paris si sarebbe messo il loro papà. E così fece, tenendo Blanket sulle gambe per tutto il tempo.

    Quando vidi tutto quel ben di Dio pensai che, se avessi mai vissuto con Michael Jackson, avrei ripreso tutti i chili persi in quegli anni. Il menù era più o meno questo: petti di pollo, purè di patate con sugo, insalata di lattuga e pomodori, pannocchie e focaccine con marmellata e burro.

    Non essere ingorda, mi raccomando, Sarah.

    «Be’, buon appetito!», Jackson sorrise.

    Ringraziai per la mia parte e ricambiai con fare imbarazzato. Da parecchio tempo non mangiavo a casa di estranei – nemmeno con Liza Burton era mai accaduto.

    «Cosa gradisci da bere? Una Diet Coke?», chiese la tata.

    In realtà preferivo l’acqua, ma prima che commentassi Grace mi sussurrò all’orecchio per non farsi udire dai bambini: «Solitamente il signor Jackson nella sua Diet Coke ci mette del vino bianco... ma per gli ospiti abbiamo sempre Coca Cola normali. Cosa preferisci?»

    Puntai Michael, che a sua volta piegò lo sguardo sulle bevande arrossendo vivamente sulle guance. Storsi le labbra in un sorriso trattenuto. Chissà perché, mi chiesi, Jackson nascondeva ai suoi bambini di bere un po' di vino.

    «Prendo solo acqua, grazie».

    Michael mi rivolse un’altra occhiata enigmatica.

    «Daddy, cosa facciamo finita la lezione con Ms. Sarah?», chiese Prince con voce delicata.

    Il padre mi cercò con gli occhi ed io feci lo stesso.

    «Potremmo guardare un cartone», disse Paris addentando una focaccina.

    «Non credo che la maestra sia molto interessata ai cartoni...»,

    «Oh no! A me piacciono da morire!», esclamai con tono più alto del solito, con un’aria a dir poco eccitata. Tutti gli sguardi furono su di me. Mi strinsi nelle spalle. «Sul serio, li adoro... mi farebbe davvero piacere!»

    Jackson mi fissò con palpebre sbarrate, arcuando il sopracciglio destro. Prince e Paris mi rivolsero due ghigni soddisfatti. Blanket, invece, fissava tutti noi con fare spaesato. La tata ridacchiò per quel mio inaspettato exploit.

    Non mentivo, io amavo i cartoni. Mia madre, con il passare degli anni, non faceva che dirmi che non ero mai cresciuta e che li guardavo con la stessa espressione concentrata e presa di quando avevo cinque anni.

    «Magari potremo fare un giro per il parco, visto che la maestra Sarah non l’ha mai visto», propose Grace. Vidi Michael abbozzare un sì con il capo, mentre la sua mente veniva rapita da riflessioni incomprensibili. La donna mi guardò. «Ci sono tante cose da vedere».

    «Sì! C’è lo zoo!».

    «E un teatro!», continuò Paris.

    «E tantissime giostre!»

    «Avete tutto questo?», domandai con sincero stupore.

    I bambini annuirono e mi spiegarono che con un trenino avremmo fatto il giro di tutta quella che loro chiamavano semplicemente casa. Io, piuttosto, l’avrei chiamata “residenza dei sogni”.

    «Penso che sia un’ottima idea, Grace!», proruppe Michael facendo voltare tutti. Sorrideva. «È deciso».

    «Potremmo farle da guida, papà?»

    «Potrete fare tutto ciò che vorrete, se Sarah vi darà il suo permesso», mi diresse uno sguardo inquisitore.

    Assentii. «Certo che potete, mi farebbe molto piacere! Non vedo l’ora».

    *

    Quel pomeriggio andare avanti con le lezioni fu davvero difficile. Io, in alcuni casi più dei bambini, ero emozionata al solo pensiero di ciò che avremo fatto dopo. Non stavo più nella pelle.

    Poco dopo il termine del pranzo Michael decise di fare una particolare ma straordinaria concessione ai suoi figli e a me (cosa che, da quel che avevo capito, non succedeva mai): finire le lezioni alle 15.00, a patto che il sabato mattina si sarebbero recuperate le ore perdute. Era un padre rigidissimo quando si parlava di educazione.

    Ogni quarto d’ora – forse anche di più – non facevo che girarmi verso l’orologio appeso al muro sopra la porta. Mi distrassi dedicandomi alla preistoria con Prince, ai semplici giochi in scatola di matematica con Paris e, nell’ultima parte della lezione – quella dedicata alla lettura –, chiesi ai bambini che tipo di racconto volessero ascoltare: con un sorriso complice concordarono per “Peter Pan”.

    Sorrisi di rimando, arresa.

    Alle 15 precise detti ordine di sistemare ognuno le proprie cose negli appositi scaffali, segnati con un’etichetta col proprio nome in maiuscolo e caratteri colorati, e ci dirigemmo verso l’uscita della residenza. Per la prima volta Paris mi prese la mano. Anche Prince mi stava attaccato, al lato opposto della sorella, pur senza cercare contatto fisico.

    Mi chiesi se sentissero la mancanza di una mamma.

    Davanti all’ingresso c’erano Jackson, Grace e Blanket. Grace era una presenza silenziosa e Blanket non aveva voglia di separarsi dalle sue braccia. Michael, invece, era un po’ distratto. Non mi ignorava, ma nemmeno mi guardava. Era raccolto nei suoi pensieri, protetto da un ombrello nero dal quale piovevano riflessioni torbide e indefinibili.

    La visita si svolse nel migliore dei modi. Ci incamminammo verso quella che i bambini chiamavano "stazione del trenino". Sarebbe stata una lunga passeggiata, perciò proseguimmo con calma chiacchierando del più e del meno. I piccoli, soprattutto, si lasciarono andare ad una conversazione con il proprio papà su cosa e come avessero fatto lezione quel pomeriggio. Quando Paris e Prince gli dissero della nostra lettura di Peter Pan e commentarono dicendo che io non fossi brava quanto lui arrossii violentemente, guardando dritta davanti a me e cercando di non sentirmi osservata da Jackson. Improbabile cosa, visto che poco dopo emise ridacchiando: «Sono sicuro che è molto brava anche lei».

    La stazione era una delle cose più belle che avessi mai visto in vita mia. Era un grande edificio di mattoni rossi con due grande orologi: uno sul punto più alto della costruzione, un altro sul terreno. La scritta a caratteri cubitali gialli – “Neverland” – regnava su tutto. Delle scalinate laterali portavano all’interno della struttura. Rimasi con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca schiusa ad ammirare devotamente i dettagli fino a quando non dovemmo prendere il treno, scortati da un uomo con la divisa blu molto gentile ed educato.

    Sul trenino presi posto vicino a Grace, ancora, e all'inseparabile Blanket; di fronte c'erano Jackson e gli altri due bimbi.

    Nel silenzio la mente si lasciò trasportare dalle riflessioni, perdendosi oltre le colline del ranch. Mi accorsi che Jackson mi stava fissando solo quando arrivammo a destinazione; in realtà non ne ero sicura, visti gli occhiali da sole che indossava, eppure lo percepivo. Non arrossii e non distolsi lo sguardo: gli rivolsi un lieve sorriso e scesi senza rimanere ad aspettare la reazione.

    Visitammo lo zoo, quello di cui mi avevano parlato Paris e Prince durante la pausa pranzo. Con un senso di bambinesca meraviglia li seguii ovunque mi portarono: mi lasciai guidare verso la gabbia degli orangutanghi, delle tigri, degli orsi e delle più belle creature dell'Africa. Rimasi incantata dalla grandezza degli elefanti e dagli occhioni dolci ed espressivi delle giraffe. Ridevamo e scherzavamo fra noi come se anche io, come loro, non avessi mai abbandonato l'infanzia, coinvolgendo perfino la tata e Blanket.

    Jackson invece non disse una parola, limitandosi a sorridere e ad annuire ai discorsi dei figli. Sapevano ogni cosa di Neverland, perciò li lasciò raccontare senza intervenire. Che lo avesse fatto perché aveva preoccupazioni più grandi o perché voleva dar loro la soddisfazione di parlare a qualcuno di estraneo, questo non lo sapevo. Pensai che fosse per entrambe le cose, ma pareva comunque troppo ‘distante’ da quel posto. Era uno straniero nel suo stesso ranch.

    Prima di fare un altro mini viaggetto in trenino mi fecero visitare il serpentario e il recinto dei coccodrilli. Inutile dire che il mio entusiasmo venne ucciso non appena vidi quelle creature. I serpenti mi terrorizzavano e i coccodrilli avevano uno sguardo che mi raggelava.

    Sarei rimasta volentieri con le giraffe e gli elefanti e di questo Michael se ne accorse. Mi propose di prendere in mano un serpente, ma alla vista del mio pallore aveva cambiato idea: mi aveva guardato stupito e in seguito era scoppiato a ridere, seguito a ruota da Grace e dalle facce dubbiose dei piccoli Jackson. Io, detta tutta, non trovavo la questione affatto divertente. Me la stavo facendo sotto.

    «Sicura di non volerlo fare? Guarda che non fa nulla!», aveva insistito con un sorriso pieno di divertimento. Reggeva un serpente lunghissimo fra le dita.

    «No, no! Sinceramente non mi va proprio», avevo sussurrato con un ché di risoluzione che aveva fatto apparire il mio tono più buffo e simpatico.

    Michael rise, ma se ne fece una ragione: una mia occhiata torva e cupa lo trattenne quando provò a stuzzicarmi avvicinando l'essere spietato.

    Continuammo il nostro viaggio in treno e quella volta i bimbi mi si sedettero vicino. Erano e desideravano essere delle perfette guide turistiche. Seguì ogni loro spiegazione, ogni indicazione, stupefatta e convinta che quel posto fosse veramente una favola. Mi credevo una bambina e rispondevo alla loro gioia con altrettanta gioia, facendo ridere di gusto Grace e, di tanto in tanto, anche Michael.

    Quando scendemmo i miei occhi scintillarono. Mi calò letteralmente la mascella, perché di fronte a noi vi era un immenso parco giochi. Tutto brillava dei colori dell'arcobaleno. L'atmosfera era rallegrata dalla musica da carosello che echeggiava in ogni angolo del parco... per non parlare delle favolose bancarelle dei dolciumi!

    I bambini accorsero verso la prima giostra all'orizzonte: il percorso con le macchinine. C'erano due inservienti proprio accanto alle piccole automobili; parlavano fra loro come se niente fosse, ma quando videro l'allegra combriccola avvicinarsi drizzarono subito la schiena attendendo ordini.

    Prince e Paris mi chiesero se volessi fare un giro, ma preferii rinunciare. Non ero mai stata brava in quel tipo di gioco. Nei casi migliori andavo fuori strada; in quelli peggiori, invece, rischiavo di ribaltarmi e fare il giro della morte su me stessa. Io e automobile compresa.

    Chiesero al loro papà. Risvegliatosi da un silenzioso torpore accettò con un riso delicato; si lasciò trascinare dai suoi bambini e, con un lieve sussurro, mi chiese di tenergli l'ombrello che usava per ripararsi dal Sole. Mi donò l'ennesimo impenetrabile sguardo.

    Aveva notato come lo osservavo.

    Ero preoccupata. Qualcosa nel suo atteggiamento non mi convinceva e il fatto che evitasse di comunicare con tutti il più possibile ne era una prova.

    Dopo un paio di giri attorno alla pista ci avviamo verso la giostra a seggiolini. Mi sentii morire dentro non appena mi chiesero di provarla. Non ero mai salita su una di quelle perché ero terrorizzata dall’altezza. Sia Michael che i bambini insistettero nel dire che non era pericolosa. Alla fine accettai.

    Le gambe e le dita tremavano come ramoscelli al vento, ma con l’aiuto di un inserviente mi allacciai stretta stretta alla seggiola. Credevo di essere spacciata, destinata a schiantarmi al suolo. Ridevo, certo, ma sembravo in preda ad una crisi di nervi.

    Un attacco d’ansia misto ad una potente scarica di adrenalina assalì il corpo e cercai supporto da Prince e Paris, che se ne stavano proprio davanti; mi sorrisero pieni di eccitazione e mi guardai indietro, alla ricerca di Grace e Michael che avevano deciso di non salire e rimanere in disparte.

    Se avessi conosciuto meglio Jackson probabilmente avrei capito che non era da lui rifiutare.

    Restai qualche secondo ad osservare Michael mentre diceva qualcosa all’orecchio della tata, mirando l’orizzonte e racchiudendola sotto la cupola dell'ombrello. Lei annuiva e lo scrutava con una strana luce negli occhi. Probabilmente quei due, sotto sotto, nascondevano una storia.

    La giostra partì. Mi strinsi affannosamente alle catene che mi sostenevano.

    Forse sarebbe stato meglio rifiutare, pensai all’inizio. Prevedevo già il mio schianto a terra, ma poi, quando iniziai a lasciarmi andare e a divertirmi sul serio, cambiai idea. Scaricai tutta la tensione ridendo assieme ai bambini, soprattutto a causa di Prince che fingeva di essere in Star Wars e urlava nomi di personaggi a caso, scalciando con forza, tanto da farmi venire le lacrime agli occhi.

    Ne era valsa la pena accettare. Ero euforica come non mai.

    Feci cadere la testa all’indietro alzando le gambe come se fossi in altalena e chiusi gli occhi. Assaporai il calore del Sole, la freschezza del vento sulla pelle, i capelli selvaggi e indomiti che si scuotevano in cielo.

    In quel momento, mi sentii libera.

    *

    «Andiamo sul carosello, papà?», Paris gli strinse la mano.

    Prince, Paris ed io avevamo provato altre giostre, fra cui la ruota panoramica. Tutte ad eccezione dello “Zipper”, una specie di ‘ragno’ con i tentacoli: bisognava sedersi in una cabina aperta e questa si alzava, si abbassava e ti sbatteva a destra e a sinistra fino a farti venire il voltastomaco.

    Con in braccio il piccolo Blanket mi voltai verso Jackson, il quale valutò la situazione umettandosi le labbra.

    «D’accordo», disse dopo un breve silenzio. «E dopo ci prendiamo un gelato, ok?».

    Prince e Paris mirarono a due cavallini, uno bianco e uno nocciola, e li conquistarono prima che qualcuno glieli potesse rubare correndo di foga. Grace si sedette su un cavallino dietro di loro, sghignazzando. Io scelsi la carrozza e con mio grande stupore Michael chiese se potesse farmi compagnia.

    Annuii e captai dalla lentezza dei suoi movimenti che era molto stanco. Qualcosa non andava di certo.

    Si lasciò sedere con un sospiro e io ripresi a giocare con Blanket, che voleva assolutamente attirare l'attenzione toccandomi capelli e faccia. Sentii lo sguardo di Jackson su di me e sul figlio per tutto il tempo.

    Le casse del carosello fecero partire una canzone Disney. Senza accorgermene mimai le parole senza far uscire un suono. Era Reflection di Mulan, uno dei miei cartoni preferiti.

    «Ti piace?»

    Lo puntai e scorsi un sorrisetto enigmatico, occhi ancora celati dagli occhiali da sole. Sorrisi e assentii continuando a intonarla a bocca chiusa.

    «Perché non canti ad alta voce? Se ti piace non devi trattenerti».

    Le guance si scaldarono. «Io non ho una bella voce, è meglio che mi cimenti nel mio perfetto playback», ridacchiai curvando gli occhi sul piccolo Blanket.

    «Sbagli, sai?», continuò con aria più addolcita. Inclinò la testa da un lato. «Se ami fare una cosa non devi preoccuparti se non è perfetta. Nella tua imperfezione sembrerà tutto perfetto, perché agisci ascoltando il tuo cuore. Potrai sempre migliorarti nel tempo».

    Concordai fingendo serenità, ma avevo il cuore che batteva come un pazzo per la dolcezza delle sue parole e per il modo in cui le aveva pronunciate. Avevo i brividi sulla nuca.

    «Sì, lo so. Cantare mi piace, è solo che la mia voce non è poi così interessante. Anzi, per niente. E poi mi sembra di stonare sempre. Senza una voce in sottofondo che mi infonde coraggio è ancora più impossibile che canti», borbottai senza guardarlo.

    Per un po’ non dicemmo altro. Mi chiesi cosa sarebbe successo se Michael si fosse messo a cantare all'improvviso, apposta per udire la mia voce. Lasciandomi sbigottita fu proprio ciò che fece qualche secondo più tardi.

    «Who is that girl I see... staring straight, back at me? Why is my reflection someone I don't know? Somehow I cannot hide… who I am, though I've tried…».

    Lo ammirai stupita. Si era tolto gli occhiali da sole e li aveva appesi fra i bottoni della camicia smeraldina. Teneva la testa sul morbido sedile di velluto e canticchiava con una voce limpida e chiara, ombrello chiuso sempre al suo fianco. Sembrava il canto di un usignolo, per non parlare del falsetto. I brividi si diramarono dalla testa alla spina dorsale, serpeggiando con un lento fluire verso le gambe e le braccia.

    Mi adocchiò continuando ad intonare la melodia, sollevando un sopracciglio e attendendo che mi unissi. Scoppiai a ridere e non potei far altro che arrossire e scuotere la testa.

    «Nooo! Non credo proprio!», con l’indice enfatizzai la mia decisione.

    Non l’avrei mai fatto.

    Si bloccò all'istante. La bocca formò una piccola ‘o’ e falsificò uno shock che non provava, per poi incresparla in un riso contorto. Incrociò le braccia al petto e sorrise: «Non mi avevi detto che ti serviva una voce di supporto? Ora potresti anche farlo, ci sono io!»

    «Ma non di fronte a te!», esclamai ridendo a voce più alta. «Tu sei Michael Jackson, sei un cantante famoso! Hai una bellissima voce. Se mi unissi a te sarebbe come mettere insieme... che ne so, il gabbiano Scuttle con Ariel! Pensa te che scempio!»

    Esplose in una candida risata, coprendosi le labbra con una mano nel tentativo di contenersi. Osservai le sfumature che il viso di Michael assumeva secondo dopo secondo. Mi studiò sorridente e sbalordito, mentre negli occhi si accendeva una luce sempre più viva.

    «Questa è davvero bella! Sei grande, davvero», scosse il capo. Nella mia testa, intanto, risuonava il complimento "Sei grande" come un eco. «Scommetto che menti e che in fondo sai di essere brava. E sai che ti dico? Mi hai messo curiosità. Non mollo fino a quando non mi fai sentire la tua voce», incrociò una gamba sull'altra, fronteggiandomi.

    «No ti prego!» risi agitandomi al sol pensiero.

    Michael Jackson in ospedale: timpani brutalmente perforati e lacerati. Questo avrebbero scritto i giornali il giorno dopo. Scherzi a parte, non pensavo di avere una voce orribile, ma per niente paragonabile alla sua. E non avevo mai fatto un corso di canto.

    Mi scrutò seriamente. Ci fissammo. Ognuno convinto della propria opinione, irremovibili. Contorsi la bocca per non ridergli in faccia, cosa che fu difficile. Michael issò un sopracciglio a mo' di sfida. Feci lo stesso alzandoli entrambi. Si appoggiò con un gomito sulla gamba che teneva incrociata sull'altra sporgendosi incautamente in avanti. Trattenni uno spasmo divertito, ma lo provocai mordendomi l'interno guancia e arricciando il naso. Ad un certo punto se ne uscì con una linguaccia. Sbarrai le palpebre. Di risposta gli mostrai la lingua. Assunse una smorfia sbalordita e...

    E ridemmo come matti.

    Andammo avanti per alcuni minuti come due squilibrati, spaventando Blanket, il quale volle tornare immediatamente fra le braccia del padre. Ma anche lì, avvolto dal suo calore, si sentì scosso dalla ridarella acuta di Jackson. Frignò perplesso.

    Pur ridendo non riuscivo a smettere di guardarlo negli occhi. Tenevo una mano davanti alla bocca e vedevo Michael cercare invano di arrestarsi nascondendo il viso a sua volta. Invece di smettere sghignazzava sempre di più; la sua risata divenne acuta e altisonante, tant'è che ebbi paura che entro breve avrebbe avuto un attacco di cuore. Quando anch'io mi lasciai andar alla mia vera risata - un misto fra quella di una strega malvagia e una buffa scimmietta - si scatenò l'inferno.

    Nel momento in cui tutto si calmò il suo petto era ancora scosso dai tremori e gli occhi lucidissimi per le lacrime, mentre io tenevo le mani sullo stomaco maledicendo la mancanza di fiato.

    Michael mi fissò maliziosamente. Piegò un lembo della bocca in un cipiglio compiaciuto.

    «Ti va di scendere e fare un giro?»

    Cercai gli altri con gl'occhi. Prince e Paris se ne erano andati da un bel pezzo, chiedendo a Grace di giocare altrove.

    Annuii lievemente.

    Michael mi fece un rapido check-up, rimanendo puntato sui dettagli del mio viso: sembrava voler andar oltre i “confini”, fin sotto la pelle, come se così facendo avrebbe potuto conoscere la mia vera personalità. Mi imbarazzai così tanto che dovetti piegare la testa dalla parte opposta. Nessuno mi aveva mai fissato con quell’intensità prima d'ora.

    Prima che il secondo giro si concludesse Michael si alzò dalla carrozza e scese con Blanket in braccio, dirigendosi verso la tata. Le disse qualcosa di incomprensibile e le consegnò il piccolo; Grace annuì e basta. Parlottò con il piccolo, voltandoci la schiena.

    Jackson ritornò da me. Afferrò il manico dell'ombrello in una mano e protese l'altra facendomi cenno di seguirlo, ed io feci come mi aveva suggerito, sistemandomi la camicetta rossa sui fianchi non appena mi sollevai in piedi.

    Strinsi le sue dita. Erano tiepide, ma in confronto alle mie sembravano addirittura fredde.

    «Sei bollente! Sicura di stare bene?»

    Quando gli fui accanto si chinò sul mio viso. Era quindici centimetri più alto di me. Lo notai soltanto allora.

    «Non ti preoccupare» annuii ridacchiando. «Le mie mani sono così di natura! Sono sempre calda!», sbottai con accento buffo, alzando le spalle.

    Lui rise. Nel frattempo ripensai al piccolo e sottile doppio senso che avevo detto. Sono sempre calda, ma ero scema?

    «Vieni, cerca di stare attenta...», mi strinse nuovamente le dita per farmi scendere dalla pedana.

    Era un'emozione totalmente insensata quella che mi faceva sussultare il petto. Considerando che non ero affatto una persona che si lasciava andare al contatto fisico, non con gli estranei, era un evento straordinario.

    Michael era tutt’altra cosa. Lui sarebbe sempre stato tutt’altra cosa.




    Edited by fallagain - 8/11/2021, 15:33
  2. .
    CITAZIONE (Martina D'Amico @ 5/3/2019, 11:02) 
    Ciao, sono Martina, avrò letto The wish almeno 20 volte, tanto da sapere le battute a memoria, è una delle poche fan fiction che mi sembrano rispecchiare il vero Michael: hai deciso di riscriverla? 😱 con delle novità?

    Ciao Martina :3
    Oddio, ti ringrazio blush Mi fa molto piacere saperlo blush Davvero, è un onore e una soddisfazione sentirselo dire!

    Ci saranno alcune modifiche essenziali original Tre o quattro capitoli (forse anche di più) verranno tolti o riscritti. Ad esempio, il finale rimarrà lo stesso. Verranno cambiati/aggiunti dei dettagli, e punterò a modifiche riguardo il carattere di Sarah (che già si intravedono in questi capitoli :P ).
    La mia intenzione è continuare "The Rebirth." il più presto possibile (qualcosa sto già buttando giù e ho in mente tutta la storia, più o meno), ma per le idee che mi sono venute mi tocca riscrivere alcune parti di "The Wish." :P

    Edited by Everlasting ~ - 6/3/2019, 17:29
  3. .
    Capitolo Sei: Gli Accordi

    «Maestra Sarah, come le sembra questo disegno?», chiese Paris richiamando la mia attenzione.

    Mi sporsi su di lei armata di pastelli colorati. In quel foglio c'era disegnato un grande prato fiorito, con delle montagne sullo sfondo e un sole al tramonto; sparsi sul prato vi erano tantissimi fiorellini colorati e un piccolo laghetto ancora non del tutto dipinto.

    «Bellissimo!» esclamai mostrando entusiasmo. Sorrise alla mia espressione attenta. «Continua così, con un po' di colore in più il tuo lavoro sarà ancora più bello!»

    «Mi piacerebbe fare anche qualche animale...», sussurrò fissando attentamente la sua opera.

    «Be', perché no? Non importa se non li fai uguali alla realtà, lasciati andare!»

    Lei ridacchiò imbarazzata e riprese a colorare. Mi diressi verso Prince, che nel frattempo era intento a colorare una cartina geografica. Stava tutto chino sul suo quaderno con lo sguardo attento e rapito dal monotono movimento della mano.

    «Come va, Prince?»

    Mi scrutò spaesato. «Oh, bene...»

    Erano più o meno le 11.45 e da qualche ora era iniziata la mia prima, vera e propria giornata lavorativa. I bambini non vedevano l'ora di imparare. Desideravano mettersi alla prova.

    Prince era silenzioso, ma ascoltava ogni parola che dicevo studiandomi accuratamente; non parlava molto, esattamente come avevo constatato il giorno prima, ma non peccava di disattenzione: un sorriso sbarazzino abbelliva i tratti del suo volto non appena lo gratificavo. Paris era uguale, solo più spontanea ed eccitata; dalla luce nei suoi occhi si intuiva lontano un miglio quanto godesse dei complimenti fatti. Al contrario del fratello, il quale agli sbagli mostrava un cipiglio crucciato, ad ogni errore raddrizzava le spalle e si intestardiva nel correggersi.

    Erano bambini obbedienti e svegli, educati e posati.

    E, come annunciato al telefono, il signor Jackson – o meglio Michael – non si fece vedere per tutta la mattina.

    La conversazione della sera prima mi aveva fatto riflettere parecchio. Stranamente ricordavo ogni singola parola da lui pronunciata. La sua voce ronzava continuamente nelle orecchie, non c'era modo di scamparvi. L'idea di vederlo mi agitava.

    Quando arrivai a casa Jackson qualche ora prima, Grace mi aveva aperto la porta e come la mattina precedente mi aveva rivolto un sorriso gentile. Mi aveva fatto entrare, appendere il giacchino sull'apposito appendiabiti e posto quelle domande retoriche che si fanno normalmente: "Come sta?", "I bambini sono emozionati e non vedono l'ora di imparare", ecc. Poi, quando avevo cercato in lungo e in largo con lo sguardo, Grace aveva capito al volo i miei pensieri.

    «Il signor Jackson è dovuto uscire molto presto e non può accoglierla. Si scusa per l'assenza, ma promette di esserci verso mezzogiorno per farle firmare i documenti».

    Come programmato.

    In quell'ultimo quarto d'ora di lezione disegnai con Paris e Prince. Pensavo che così facendo avrei avuto l'opportunità di consolidare il nostro rapporto e comprendere meglio il loro carattere. Se mostravo di divertirmi in loro compagnia avrei permesso loro di sciogliersi un pochino.

    Poco dopo qualcuno bussò alla porta.

    «Avanti!».

    La porta si aprì e il mio cuore fece un balzo nel petto: eccolo lì, Jackson, con la testa fra la porta e lo stipite, che scrutava all'interno con aria incuriosita.

    «Disturbo?», chiese con voce tenue, scostando la porta. Rimase fermo sull'entrata, in posa eretta, facendo sì che potessi scoccargli un'occhiata fugace. Fissò i suoi bambini con un sorriso e, in ultimo, con più riguardo, la sottoscritta. «Spero di non aver interrotto qualcosa di importante».

    Quel giorno portava pantaloni neri e una camicia pesante color verde smeraldo. Non stava affatto male, anzi, era davvero molto elegante. Teneva i capelli lisci e neri, niente occhiali da sole e mocassini neri dai quali si potevano scorgere calzini di due colori diversi, uno rosso e uno giallo. Era un abbinamento particolare, ma non mi dispiaceva. Era buffo.

    Se ai figli mostrò un'espressione amorevole, a me ne riservò una piuttosto enigmatica. Non riuscivo a capire quello che pensava, ma dedussi che rifletteva sul giorno prima esattamente come facevo anch'io. E probabilmente si pentiva di ciò che aveva detto.

    Interdetta e presa in contro piede esaminai i miei alunni. Mi scrutavano eloquentemente. Dopodiché adocchiai l'orologio a muro: cinque minuti e sarebbe iniziata la pausa pranzo.

    «Uhm, no, non ha interrotto niente», mirai il signor Jackson e poi Prince e Paris. «Potete andare, finiremo domani mattina».

    «Grazie signorina maestra!», urlarono in coro scendendo dalle loro sedie in fretta e furia, andando ad abbracciare il loro papà.

    Sembrava che quando lo vedevano non capissero più niente. Loro padre era speciale, lo amavano profondamente.

    Mentre raccoglievo i disegni ascoltai involontariamente le loro conversazioni. Tutti e due, uno alla volta, parlarono eccitati di ciò che avevano fatto, anche dei più piccoli dettagli: il signor Jackson li ascoltava con devozione, accucciato sulle ginocchia con le braccia attorno ai loro fianchi e sembrava che esistessero soltanto loro. Sorrisi più volte fra me e me, cercando di non mostrarmi interessata a quello scambio di opinioni concitate; mestamente smistai i fogli nelle apposite cartelline colorate.

    «Non dovete finire di mettere a posto la vostra roba?», disse Jackson.

    Sollevai l'attenzione percependo i suoi occhi puntati sulla mia figura. Arrossii ma non parve notarlo: quando il calore avvampò sulle mie guance, osservava di nuovo i suoi bambini.

    «Non potete lasciare che sistemi la maestra per voi, dovete essere responsabili. Dopo che avrete finito andremo tutti a mangiare».

    Tutti?

    Guardai Jackson con un sopracciglio alzato. Il volto esibì una smorfia piuttosto contrariata, visto che la sera prima avevo ribadito che non sarei rimasta. Quest'ultimo mi cacciò un'occhiata di sbieco, ma non sembrò avere il coraggio di mantenerla per la prima volta da quanto ci conoscevamo.

    Così, con una velocità pazzesca, misi libri e quaderni nella borsa a tracolla e accorsi verso la porta: proprio mentre passavo di fianco di Jackson una scia del suo profumo mi attraversò l'olfatto. Irrigidita, guardai i bimbi e ignorai loro padre.

    «Ci vediamo più tardi, bambini... signor Jackson... buon pranzo a tutti».

    Fuggii di corsa ma qualcosa mi bloccò neanche un secondo più tardi.

    Grace, la tata, ci stava venendo incontro. In braccio teneva un bambino molto più piccolo di Prince e Paris: aveva la carnagione più scura degl'altri due, capelli neri e corti, occhi grandi e scuri. Aveva sì e no due anni, probabilmente anche meno, e qualcosa nei suoi lineamenti mi ricordava molto Jackson. Solo quando Grace mi fu accanto e sorrise il bambino mi notò. Era l'altro figlio di Michael.

    Mi osservava silenzioso, labbra strette in un'espressione che gli faceva risaltare le guanciotte morbide. Era un bambino bellissimo, con tratti veramente raffinati, e non riuscivo a trattenere la voglia di sgranocchiarlo.

    Sentii una voce maschile alle mie spalle. Mi voltai.

    «Lui è Blanket, il mio terzo figlio...».

    Jackson mi squadrò intensamente.

    La mia curiosità verso quel piccolo bignè di dolcezza era implacabile. Blanket non la smetteva di fissarni. Non capivo se gli stessi simpatica o meno, ma ignorando quel dilemma mi sporsi per accarezzargli la testina e i morbidi capelli di velluto.

    Quando allontanai la mano dalla sua testolina, cominciò a sgambettare. Stese le gambe, dandosi una spinta come se volesse alzarsi in piedi. Stupita da quel gesto la tata mi si avvicinò. Il piccolo allungò una manina verso di me, aggrottando le sopracciglia ed emettendo soavi borbottii di parole incomprensibili.

    «Vuoi andare in braccio alla signorina Morris?», sussurrò Grace con un sorriso complice.

    La tata mi porse delicatamente il piccino ed io lo presi in braccio ignorando la presenza del padre. Lo tenni saldamente fra le braccia, poggiando una mano sulla schiena e una un po' più sotto, per farlo sentire protetto e al sicuro. Cominciò a toccarmi il viso per poi sentirsi magicamente attratto dai miei capelli. Con una manina prese una ciocca e tirò.

    «Nooo! I capelli no!», intervenne Grace.

    «No, Blanket! Non si fa!», disse Jackson in tono severo, celando un sorriso di divertimento e sorpresa. Mi scrutò per decifrare la mia reazione, un po' preoccupato, ma io non facevo altro che ridere e lasciarlo fare.

    «Non mi sta facendo male, non c'è problema».

    Gli feci una carezza sulla schiena.

    Prince e Paris comparvero sulla porta. Si avvicinarono al loro papà e quando videro quello che loro fratello stava facendo rimasero sorpresi.

    «Perché Blanket vuole mangiare i capelli della maestra?»

    «Perché sono appetitosi, Prince», sogghignò.

    In quel momento ruotava tutto intorno a me e a Blanket. Gli sguardi dei presenti erano rapiti da noi e dall'immediato feeling che io e quella piccola creatura avevamo provato l'uno per l'altra. Per un attimo riuscì a farmi dimenticare la timidezza, quella che provavo quando venivo fissata da tutti. Soprattutto da Michael Jackson.

    Non che lui mi facesse paura, anzi, ma la profondità del suo sguardo mi rendeva minuscola per la maggior parte delle volte.

    In poco meno di un minuto mi ritrovai a dare qualche bacino amorevole alla fronte del piccolo. Lo facevo senza rendermene conto. Mi veniva sorprendentemente naturale.

    «Be'... penso che Blanket abbia un profondo interesse per te e per i tuoi capelli», esclamò Grace. Arrossii. «Hai fatto proprio colpo».

    «Da anni non mi capitava una cosa del genere», affermai con sincerità.

    Solo a quel punto mi ricordai della presenza di Jackson. Lo mirai di sfuggita. Osservava me e il figlio in silenzio, muto come un pesce. Con una mano si reggeva il mento - niente fronte aggrottata o sbalordimento visibile, solo un cipiglio intenso e meditabondo.

    Quando si accorse del mio interesse si ridestò. Lasciò che un enorme sorriso gli si formasse in volto.

    «Non credo che ti lascerà più andare ora che ti sei proposta di tenerlo fra le braccia», arcuò le sopracciglia.

    La sua espressione fu molto eloquente e un sorrisetto compiaciuto mi fece intuire che non avevo alcuna via di fuga. Sarei dovuta rimanere a pranzo, volente o nolente.

    Jackson si umettò le labbra. cercando l'approvazione di Prince e Paris. «Voi volete che la maestra Sarah rimanga a pranzo?»

    Perfetto, mi dissi, ora chiama anche i bambini a raccolta.

    Non volevo farlo, ma non vedevo l'ora di passare un po' di tempo con quella famiglia. Mi faceva stare bene, vivendo un calore che non sentivo più da moltissimo tempo. Il mio orgoglio si dimenava ferocemente. Chiunque sano di mente avrebbe accettato alla prima occasione, ma io ero testona. E orgogliosa.

    E lui era veramente cocciuto, forse anche più della sottoscritta.

    «Io non credo di poterlo fare...».

    Benché le mie parole sembrassero confermare la mia decisione, sapevo che la mia voce esprimeva tutto il contrario: non ero più così decisa e risoluta come la sera precedente.

    «Perché?» disse Prince con una nota di dispiacere. «Non ti piace stare qui con noi?»

    Il cuore si sbriciolò. «No! Neanche per sogno! Non è per quello, ma non sono gli accordi che ho preso con il vostro papà...», fulminai Jackson con due parole.

    Tiè.

    «Papà, perché non può rimanere?»

    Paris era imbronciata e ignorava lo sbigottimento di Jackson, il quale – dopo la mia frase ad effetto – rimase qualche secondo abbondante a pensare.

    Mi fissò, schiuse gli occhi e ostentò un sorriso sornione. «In realtà, uh...» emise uno spasmo di risata, «io ho insistito molto, ma la vostra maestra è davvero testarda e non si lascia convincere».

    Forse vorrai dire che non si lascia concedere facilmente, mi dissi.

    Sorrisi esterrefatta.

    La sua insistenza mi faceva divertire. Era una scena davvero buffa se vista dall'esterno: eravamo come due bambini che si strattonavano un giocattolo urlando "Ho ragione io, è mio!".

    «Comunque non vi preoccupate, resterà», mi osservò con due occhi illuminati da una luce poco convincente. «Resterà a pranzo con noi e, per farsi perdonare, anche a cena, non è vero?»

    Sbarrai gli occhi.

    Mi aveva fregato. Letteralmente fregato.

    Iniziai a provare un sentimento nuovo per lui: la forte brama di strozzarlo con le mie stesse mani.

    Feci una strana smorfia, arresa, e scuotendo la testa alzai gli occhi al cielo. Sospirai e annuii, accettando la proposta perchè non avevo altra scelta.

    In fondo ero contenta, ma avevo anche paura. Avevo timore all'idea di affezionarmi troppo a quella famiglia, o che loro si affezionassero troppo a me – e magari non sarei durata più di tanto. Non volevo illudere quei tre bambini che, da quel che avevo potuto intuire, non avevano altra figura femminile nella loro vita ad eccezione di Grace.

    «Allora possiamo andare a mangiare! Prince, Paris, andate con Grace. Io e la maestra vi raggiungiamo tra poco... Grace, forse è meglio che Blanket venga giù con noi, non credo che voglia staccarsi da Sarah».

    Presa da parte, mentre gli altri tre si dirigevano in bagno a lavarsi le mani, fui scortata altrove. Con un cenno del capo Jackson mi invitò a seguirlo e io feci ciò che mi aveva ordinato senza obiettare. Entrambi rimanemmo silenziosi per tutto il tragitto, tranne per Blanket, che continuava a parlottare con me.

    Arrivammo allo "studio" di Michael in un battibaleno. Era una stanza grande ed elegante. La prima cosa che mi saltò all'occhio furono la scrivania, altrettanto enorme e spaziosa. Sul tavolo di legno scuro e pregiato vi erano fogli sparsi, fascicoli, una lampada con gradevoli decorazioni barocche e perfino alcuni oggetti in stile Disney - tra cui un portapenne di Buzz Lightyear, un fermacarte di Pinocchio, alcuni giocattoli di Biancaneve e l'immancabile Peter Pan. Dinanzi alla scrivania vi erano due poltrone rosse; dietro, invece, due finestre che davano sul giardino. Al lato destro della stanza era situata una libreria a muro; alla sinistra, invece, scorsi un caminetto spento, con una mensola sulla quale vi erano posti diversi candelabri e, sul muro, un quadro che ritraeva Michael Jackson circondato da angeli.

    «Vieni...», mi invitò cordialmente, aspettando che oltrepassassi la porta per richiuderla con delicatezza. «Siediti pure, ma non penso che ci staremo molto».

    Feci come mi aveva detto e mi si sedette di fronte. Si chinò verso un cassetto alla sua destra, lo aprì e nel silenzio tirò fuori vari documenti. Riconobbi il mio curriculum e fra questi anche il contratto di lavoro.

    Sorrise imbarazzato. «Di solito sono i miei manager ad occuparsi di queste faccende burocratiche. Ma i miei figli sono i miei figli. Voglio sapere con chi avranno a che fare, perciò me ne occupo io».

    Mi lanciò un'occhiata penetrante e lessi fra le righe. Ripensai alla conversazione della sera prima, alle sue parole riguardo le accuse del '93.

    Sorrisi altrettanto dolcemente ponendomi Blanket sulle ginocchia. Quest'ultimo non si voleva proprio staccare; se ne stava con la testolina appoggiata al mio seno e senza protestare.

    Jackson mi tese i documenti.

    «Questo è il contratto, puoi prenderti tutto il tempo che vuoi per leggerlo» tenne gli occhi chinati sui fogli. «Non è molto lungo».

    No, dissi fra me e me, solo una ventina di pagine, non è lungo, ma gli detti ascolto.

    Gran parte del contratto illustrava le condizioni di lavoro, le norme che accettavo firmando – fra cui la normativa della privacy, che riguardava esplicitamente il mio rapporto con la star e il resto del mondo – e ciò che avrei dovuto fare con Prince e Paris lungo il periodo di insegnamento. Ad un certo punto, sfogliando le ultime pagine, notai che veniva accennato un cambio di residenza da parte mia in casa Jackson verso la prima metà di febbraio. Aggrottai le sopracciglia e rilessi per ben due volte. Lo esaminai con fare meditabondo.

    «Che cosa intende con "Trasferimento presso l'abitazione di famiglia entro febbraio 2004"?», chiesi sperando che non intendesse ciò che intendevo io.

    Restò qualche secondo in silenzio, prese il foglio e - tenendolo un po' lontano dal volto - lesse le righe che gli avevo indicato strizzando le palpebre. La sua faccia era indubbiamente neutrale e si stava comportando come se non sapesse cosa ci fosse scritto. Continuando a studiare il documento mi parlò.

    «Significa che dovrai trasferirti, sì. Qui o in qualsiasi altra abitazione in cui si troverà questa famiglia».

    «Non erano questi gli accordi», dissi schiettamente, mantenendo un tono gentile ma fermo.

    Mi osservò inflessibile. «Lo so, ma Neverland non sarà per sempre».

    Non capii il senso di quella frase. Jackson notò il mio stupore e, umettandosi il labbro inferiore, proseguì allacciando le dita delle mani sopra la scrivania.

    «Non credo che resteremo qua per molto... purtroppo non credo che avrò più una dimora fissa. Prima vieni a vivere con la famiglia, prima sarai abituata agli spostamenti continui».

    Non ribattei. Non comprendevo ancora perché volesse andarsene, tuttavia non mi sentii di chiederglielo. Contrassi le labbra in un'espressione stirata e ripresi il foglio che Jackson aveva letto.

    Continuai a leggere senza dire una parola, capendo che Jackson non si sarebbe aperto riguardo alla faccenda. Erano cose che voleva tenere per sé, ma sarebbe stato meglio se avessi saputo il perché dei traslochi, visto che da quel giorno la mia vita avrebbe ruotato attorno a lui e ai suoi figli.

    Quando terminai di leggere sollevai il viso in direzione di Jackson, pronta a chiedergli una penna. Solo allora lo scoprii guardarmi: mi studiava intensamente, probabilmente concentrato sulle cose che aveva detto poco prima, con le mani allacciate davanti alla bocca. Arrossii.

    «Posso una penna?».

    Me ne consegnò una e rimase a vedermi firmare, mentre un Blanket curioso cercava di afferrare ciò che tenevo fra i polpastrelli. Sentivo il peso dei suoi occhi su di me.

    Firmai le carte, le sistemai in una pila unica – tenendo la mia copia – e gliele riconsegnai. Mise tutto nel cassetto.

    Dopodiché si appoggiò allo schienale della poltrona, dondolando sovrappensiero. Fece vagare le iridi scure da me a suo figlio – che giocherellava con i miei capelli – e viceversa.

    Jackson mi sorrise malizioso. «Alla fine ho vinto io».

    Capii esattamente a cosa si stesse riferendo.

    Sbuffai allegra. «Solo per questa volta. L'ho fatto per non deludere i bambini. Ha vinto la battaglia, ma non la guerra».

    Ridacchiò ponendosi le mani sulla pancia.

    «Sì, ho capito che sei tenace...», mi scoccò un cipiglio indecifrabile.

    Mi imbarazzai, ma feci finta di niente. Lasciò cadere il silenzio e mirò il figlio.

    «Gli piaci molto... come piaci molto a Paris e Prince...»

    «Sì...», sussurrai timidamente. «Verso pochi bambini mi sono sentita così attratta –».

    «Evidentemente avete un feeling particolare», sottolineò Jackson. Notai che in quella frase c'era una scintilla di curiosità e stupore sincero. «I bambini, soprattutto quelli più piccoli, sono capaci di vedere e percepire l'anima di una persona, la parte più divina e pura. Ho sempre creduto a questa teoria... se hai questo effetto su Blanket, anzi, su tutti e tre, allora devi essere davvero speciale».

    Sogghignai negando con il capo. «Non penso che si possa comprendere se una persona è speciale o meno attraverso la prima impressione. Molte persone sbagliano, perché si legano a gente sbagliata per colpa di emozioni derivate da un primo impatto. Non tendo a credere a questo genere di cose...»

    «Ti legavi a persone sbagliate?», domandò centrando il punto della situazione, dedicandomi uno sguardo profondo.

    Annuii, mantenendo l'attenzione sul piccino. «Quasi sempre».

    Michael fece cadere il discorso come se non avesse più voglia di entrare nella mia anima.

    Fissai Blanket, il quale sorrideva al suo papà. Jackson ricambiò i sorrisi e, ad un certo punto, fece delle strane smorfie al piccolo. Blanket rise ed io con lui. Michael mi adocchiò di sfuggita.

    Michael Jackson era davvero un padre amorevole. Amava i suoi figli e questo affetto era ricambiato con altrettanta devozione. Era un papà dolce e affettuoso. Sebbene non lo conoscessi da molto, ci mettevo la mano sul fuoco che avrebbe fatto di tutto per loro: avrebbe sacrificato ogni cosa. Nei suoi occhi, ogni qualvolta li guardasse, compariva una lucentezza che in altre occasioni – anche quando parlava con me – non veniva mai fuori. Da una parte invidiavo quei bambini, perché ricevevano l'amore incondizionato di una persona apparentemente magnifica; era l'affetto che, un giorno, speravo anch'io di trovare e donare a qualcuno. Prima o poi, forse.

    Erano dei bambini davvero fortunati, ma me ne sarei resa conto soltanto con il tempo. Quando avrei appreso a pieno la grandezza del cuore di Jackson, sarei riuscita a rendermi conto che il suo amore era una benedizione per tutti coloro che gli stavano vicino.

    Dopo un paio di minuti alle prese con le sue strambe espressioni, Blanket si sporse verso il papà. Sia io che Michael ci alzammo e colsi l'occasione per porgerglielo. Jackson, come una mamma, lo prese in braccio e lo strinse amorevolmente; lo baciò più volte, accarezzandogli la nuca e chiudendo gli occhi ogni qualvolta le sue labbra entrassero in contatto con le guance del bimbo.

    Rimasi incantata da quella scena, tant'è che non riuscii a muovermi di un millimetro.

    «Ora è meglio andare», Michael sorrise timidamente. «Altrimenti si preoccuperanno, non credi?».

    Annuii e lasciammo lo studio.

    In silenzio realizzai una cosa importantissima: Michael Jackson era una persona che avrebbe richiesto del tempo per essere scoperta. Non era un soggetto semplice da analizzare e la volontà di conoscerlo aumentava sempre più, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Era un uomo che, per quanto misterioso apparisse, aveva il magico potere di attirarti a lui senza volerlo. Era indecifrabile, eppure credevo di conoscerlo da una vita. Era criptico, eppure credevo di avere in mano la soluzione prima ancora di averla scoperta. Credevo di essere impazzita, ma soltanto nei mesi a venire avrei compreso che Michael era molto più di quanto la mia immaginazione avesse fantasticato.

    Tutto ciò che sentivo per lui era strano. Non capivo che era soltanto l'inizio di un nuovo viaggio... un mix di emozioni, belle e brutte, che ancora oggi non mi pento di aver provato.



    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:28
  4. .
  5. .
    arf2
  6. .
    Capitolo Cinque: I Due Stranieri

    Sono Michael, aveva detto.

    L'idea che mi avesse cercato mi donò un senso di piacevole adrenalina, lo ammetto, nonostante mi ripetessi più e più volte di mantenermi coi piedi per terra.

    «Oh...».

    Cos'altro avrei dovuto dirgli? "Ciao Michael, come va? Mi fa piacere che tu mi abbia chiamato"?

    Con la cornetta fra l'orecchio e la spalla, inclinai appena il capo a destra per guardare l'orologio sopra la porta del salotto. Erano le 22.20, abbastanza tardi per chiamarmi per una semplicemente questione lavorativa.

    Rispose con un lieve spasmo di risata. «In teoria dovresti rispondere adesso. Anche un "Ciao Michael", o un "Buonasera"».

    Mi scossi.

    Michael Jackson mi stava canzonando.

    Arrossii.

    Ero fortunata che non mi stesse di fronte: avrebbe riso più del necessario ed io e la mia timidezza saremmo svaniti dalla faccia della terra con un sonoro e rapido puff.

    «Sì, ha ragione, mi scusi» delineai un sorriso.

    Mi aveva disorientata. Non sapevo come ribattere.

    Mi accaldai maggiormente ricordando la frase che mi aveva detto due giorni prima: "Sei un po' permalosa, vero?". Più che essere permalosa – e ammetto che lo ero – mi prendeva sempre in contropiede. Solitamente ero una persona diretta e schietta, pur cercando di mantenere una buona dose di tatto e rispetto. Ma ogni volta che Jackson mi parlava mi stupiva e mi lasciava senza fiato. Mi faceva sentire stupida agli occhi di me stessa.

    «La mia testa non è qui al momento», dissi ridacchiando. Un momento di pausa e poi ne venni fuori con un sonoro e determinato (e quasi buffo) «Buonasera!»

    Il signor Jackson restò in silenzio. Per un tot di tempo credetti di averlo perso per colpa della linea. Invece, qualche secondo più tardi, lo sentii emettere quello che definii un risolino molto soffocato e dopodiché un «Mmh...» piuttosto scettico. Poi, ancora, un lieve risata.

    «Buonasera... e dov'è che avresti la testa?», chiese facendo il finto tonto.

    Si divertiva a stuzzicarmi.

    «Ovviamente sul lavoro».

    Ridacchiò. «Sul lavoro?»

    «Certo. Sono una brava insegnante e mi sto preparando per domani», mentii con finta pomposità, gattonando e sedendomi sul divano bianco.

    «Uhm...» rispose con il tono di chi la sa lunga. Rifletté per qualche secondo. «Non ne dubito, ma non credo che il lavoro faccia sempre bene. Devi distrarti un po', non credi?»

    Immagino che stiate pensando la stessa cosa che dedussi anch'io in quel momento: questo qui ci sta provando. Ci sta provando spudoratamente.

    Difatti, alla risposta data, avevo assunto un'espressione visibilmente stordita. Innanzitutto, quel "non ne dubito" era stato pronunciato con troppo candore... e, seconda cosa, anche quel "devi distrarti un po'" non era molto convincente. Anche quel pomeriggio pareva avesse flirtato, ma quando aveva capito dov'era fuggito il mio pensiero si era imbarazzato da morire; perciò ero arrivata alla conclusione che dicesse quelle cose con ingenuità, piuttosto che con tono volutamente malizioso. Poteva anche darsi che volesse soltanto parlare, o capire se la persona che avrebbe educato i suoi figli fosse una facile o una seria e devota al suo lavoro e basta. Questa seconda teoria mi risultò più logica. Tuttavia...

    «Certo, non c'è miglior riposo che leggere un buon libro. O guardare un film, ascoltare della musica...», mi distesi in posizione supina. «Ma il lavoro non è nemmeno iniziato, non quello duro almeno».

    Jackson meditò. «Sono le cose che ti piacciono fare di più? Guardare un film, leggere...?»

    «Sì, non amo troppo la vita sociale», risposi senza peli sulla lingua, ridendo.

    Era vero. Non ero particolarmente socievole, ancor meno avevo una compagnia con cui passare il tempo. L'avevo avuta, al college, mi ero fatta degli amici con cui mi sentivo ancora a distanza, ma con il lavoro molti contatti si erano affievoliti. Mi rimanevano solo quelle due o tre persone che, dopo tutto quel tempo passato, ci tenevano a me e non mi avevano mai dimenticato. E io non avevo dimenticato loro. Mi bastavano poche ma buone persone. Tuttavia, trasferendomi a Los Angeles, le cose si erano rivoluzionate totalmente.

    Per di più non ero una ragazza che amava uscire sempre – sebbene fossi una patita della serie tv Friends, questo non significava che volessi vivere come i protagonisti di quel telefilm. Non amavo passare sempre il mio tempo fuori casa. Non era nel mio carattere desiderare di stare con tanta gente. Ero introversa. Amavo la mia quiete sebbene qualche volta la solitudine si facesse sentire, soprattutto a LA.

    «Oh», replicò Jackson con uno strano tono. «E non hai amici? Sei sola?»

    Avrei voluto vedere la sua faccia. Credevo che, intelligente com'era, provasse una certa diffidenza verso di me; io la sentivo per lui, perciò non mi sarei affatto stupita se per Jackson fosse stato lo stesso. Ciò nonostante mi disse quelle parole in maniera molto dolce. Mi voleva analizzare e scoprire. Pareva interessato alla mia persona e proprio non riuscivo a capire perché – se lo era, dato che la mia era solo un'impressione.

    «Beh», sospirai. «Sì, uhm, per ora sì. Al college avevo una cerchia di amicizie piuttosto carina, fra studio e lavori part time avevo trovato con chi passare il tempo. Ma i veri amici li conti sulle dita di una mano e questi vivono tutti molto lontano da me adesso. Qualche volta li sento ancora, ma è normale che con la lontananza tutto si affievolisca. Però sì, dai, posso confermare che qui a LA non ho ancora nessun amico».

    «Non ti piace stare in compagnia?»

    «No, non è esattamente quello... è che sono selettiva. Mea culpa, lo ammetto. Non mi piace stare con chiunque. Voglio essere libera di scegliere con chi stare e chi mi sta vicino deve farmi sentire bene, non male. Questa è una cosa che ho imparato con l'esperienza. Meglio da sola che con tutti», dissi fissando il soffitto e arrotolandomi una ciocca di capelli tra le dita. «Mi piacerebbe stare in mezzo a tanta gente, dico davvero, ma sono un tipo difficile».

    La sua unica risposta fu un semplice «Capisco». Scommisi che Jackson aveva sicuramente degli amici o che almeno ne avesse avuti (soprattutto prima delle accuse). Dopotutto era una star di grande importanza. Io, invece, ero tutto fuorché un animale sociale. Per di più non ero mai stata veramente fortunata con le amicizie, anche se questa cosa non gliel'avevo ancora detta. Ci credevo veramente, per me era un valore di fondamentale importanza, ma non era facile trovare qualcuno con cui sentirmi veramente legata.

    Non tutti possono andare d'accordo con te e il tuo carattere. È una dura verità, ma bisogna accettarla. Non puoi essere amato da chiunque e non tutti ti capiranno mai veramente. Lo stesso lo proveranno gli altri nei tuoi confronti. Questo non significa che non esiste qualcuno che, prima o poi, entrerà nella tua vita e ti farà sentire davvero amato e considerato.

    Le delusioni mi avevano sicuramente reso sola come un'eremita, ma ero conscia che non era sempre stata colpa degli altri.

    «Ti comprendo, davvero» continuò notando il mio tacere, «so cosa si prova. Ti ritrovi a preferire il silenzio piuttosto che le persone. Perciò ti isoli, per non rischiare che qualcuno fraintenda ancora e ancora. Nonostante tutto, al contrario delle apparenze, stai continuando a cercare qualcuno che ti ami per quello che sei». Pausa. «È triste...».

    Era chiaro che stesse parlando di se stesso più che di me, ma capii il suo bisogno di parlarne.

    «Sì...», ribadii amareggiata, «anche quello è vero».

    Restammo zitti per un altro po'. Era un silenzio carico di pensieri e sensazioni, ma stavo bene anche così. Non sentivo il bisogno di parlare, che la mia bocca si spalancasse e la voce fuoriuscisse forzatamente dalla gola.

    Era la prima volta che mi succedeva con una persona che conoscevo soltanto da poco, soprattutto se costei era una star mondiale e mio "superiore": sentirmi a mio agio anche in silenzio. Ma in quella conversazione nessuno pareva "superiore" a nessuno: eravamo due anime eguali, normali. Mi sentivo bene, molto serena e non più tesa come lo ero stata fin dal giorno in cui lo avevo conosciuto.

    «I was wandering in the rain, mask of life feeling insane... swift and sudden fall from grace, sunny days seem far away...», lo udii dall'altro capo della cornetta.

    All'inizio pensai che stesse parlando con me, ma quando mi accorsi che la voce di Jackson era guidata da un'inudibile melodia, capii che stava cantando. Mi sembrò bizzarro che si mettesse a cantare di punto in bianco, ma ne fui rapita – immediatamente rapita. Tra una frase e l'altra riflettevo, aspettando con ansia il continuo.

    «How does it feel? When you're alone and you're cold inside?»

    Percepii una lieve stretta allo stomaco.

    Smise di cantare.

    «Scommetto che non sai che canzone è».

    Nonostante il tono sardonico scommisi che voleva mettermi alla prova.

    «In realtà no», ammisi con uno spasmo di risata. «Come si chiama?»

    «Human Nature».

    «Oh», continuai incuriosita, arricciando la fronte. Quel nome mi diceva qualcosa. «E chi è il cantante?».

    Che domanda cretina.

    «Io».

    Pausa.

    «Oh».

    Aveva detto quel "io" in maniera secca e decisa, così tanto che avevo pensato di averlo offeso. Delle volte sembravo veramente matura, altre volte apparivo proprio una sempliciotta.

    «Mi scusi...», pigolai dispiaciuta.

    A quel punto lo udii ridere rumorosamente. Si scatenò una risata acuta che mi attraversò da un orecchio all'altro, facendomi fare un 'salto' dallo spavento.

    Mi chiesi se ai suoi occhi apparissi davvero tanto ridicola, o piuttosto un caso patologico incurabile. Soltanto con lui facevo queste figure.

    «Davvero, non immaginavo che non sapessi nulla di me», sogghignò. Da come pronunciò la frase sembrava sinceramente meravigliato. «La canzone si chiama Stranger in Moscow, non Human Nature», lo percepii sorridere.

    «Quando dico una cosa sono sincerissima», borbottai tingendomi di rosso cremisi, «ad ogni modo, è molto carina».

    «Beh» disse con soffocando una risatina, «è una delle canzoni più autobiografiche che abbia mai scritto». Fece una pausa. «L'ho scritta tanti anni fa, a Mosca, nel periodo in cui mi accusarono per la prima volta di pedofilia... era il 1993, in tour».

    «Capisco...», mormorai piegando lo sguardo sui miei capelli, accarezzandoli con cura. «Perciò... non è la prima volta che viene accusato?».

    Sapevo che non era la prima, me l'aveva già detto, ma volevo sapere di più. Mi morsi la lingua e mi pentii nell'immediato: fu una cosa che non riuscii a controllare. Anch'io volevo metterlo alla prova. Anch'io volevo scoprire chi fosse per davvero.

    Trattenne il fiato.

    «No, non è la prima. Sono già stato accusato ma non ho mai affrontato un processo... il padre del bambino è stato pagato affinché tutto si risolvesse in fretta, sotto consiglio dei miei manager. Non è stato un atto coraggioso. Allora credevo che tutto potesse risolversi, concludersi e non ripetersi mai più. Invece le cose sono perdurate per molto, fino ad ora». Fece una pausa. Inspirò a bocca aperta. «Ho aspettato troppo a lungo e ho fatto degli errori che avrei potuto evitare... avrei dovuto essere più forte e compiere le mie decisioni seguendo l'istinto, non la paura, e ora mi ritrovo ad essere deluso da me stesso e dalla situazione in cui mi trovo».

    L'inclinazione della sua voce rispecchiava il dolore che provava dentro. Avvertivo la sua fragilità e il modo in cui si sentiva piccolo, debole, come se temesse di non riuscire a sopportare una situazione del genere – di per sé grave e terrificante per qualsiasi essere umano realmente innocente.

    «Vede... forse non sono la persona più giusta per far prediche e morali agli altri. Non so cosa stia provando – non lo so minimamente – ma posso dirle ciò che ho imparato dalla vita. Si può cercare di sfuggire alle proprie paure, si può cacciarle lontano e si può cercare di soffocarle fingendo di star bene. Ma tutti, prima o poi, dobbiamo buttarci in battaglia. Dobbiamo affrontarle se vogliamo stare meglio.

    Alcune di queste paure saranno i nostri fantasmi per tutta la vita e saranno cicatrici che ci porteremo dentro per sempre. La vita è fatta così. Bisogna accettare di avere paura e non reprimere. Va bene sentirsi deboli. Va bene sentirsi fragili e incapaci di risalire in superficie. Sei umano, puoi permettertelo. Anche se un tempo ha cercato di ignorare questo problema e allontanarlo col denaro e ora è tornato con tutte le complicanze del caso, non significa niente. Ha fatto un errore, come tutti. Deve cercare di perdonarsi. Deve volersi abbastanza bene da dirsi che, anche se adesso sembra tutta una merda (perdoni il termine), questa non è la fine. Perché non lo è. Se lei sa di essere innocente non deve temere niente. Le persone giuste resteranno al suo fianco e la proteggeranno.

    Si faccia forza, mi raccomando, e non pensi mai di abbandonare la lotta prima ancora di essere sceso in campo. Ho visto come la guardano i suoi figli. Pensi a loro. Pensi a tutte le persone che le sono vicino. Pensi a se stesso. E se vincerà, se riuscirà a venire fuori da tutto questo schifo e la gente comunque non vorrà credere alla verità, allora vuol dire che non hanno nemmeno provato a conoscerla. E le assicuro che non ci avrà perso niente».

    Feci un respiro profondo e mi placai.

    Dissi tutte quelle cose senza neanche accorgermene. Avevo detto e fatto tutto quel discorso alzandomi e camminando avanti e indietro per la stanza, infervorata.

    Per tutto il tempo in cui avevo parlato era rimasto muto come un pesce; non aveva emesso nemmeno una sillaba, non sembrava neanche stesse respirando. Forse aveva attaccato la cornetta, pensai, o forse aveva avuto una crisi di pianto. Forse era troppo meravigliato dalle parole di una ventottenne svalvolata che cercava di atteggiarsi come una donna molto più matura della sua età, che in fondo aveva ancora molto da imparare dalla vita. Eppure, nonostante la stranezza di tutta quella situazione, percepivo la sua attenzione.

    Il silenzio si fece sempre più palpabile e mi chiesi se avessi fatto bene a dire la mia.

    «Tutto ciò che hai detto è incantevole, ragazza...», sussurrò. «Le tue parole hanno la bellezza di un cristallo, lo sai?»

    «Cosa?»

    «Sì, un cristallo...», ripeté tutto preso dai suoi pensieri, mentre io lo ascoltavo basita. «Proprio nel momento in cui tu mi parlavi e io rimanevo ad ascoltarti, nella mia mente è comparsa l'immagine di un cristallo».

    Mi sa che lo svalvolato è lui.

    Restai con le orecchie tese senza dire una parola, immobile al centro del salotto, interrompendo la mia camminata impettita e senza senso. Sapevo che era un complimento di cui essere fieri – essere definita un cristallo –, ma non credevo che me lo stesse dicendo sul serio. Sembrava quasi mi stesse prendendo in giro.

    «So che questo discorso può sembrarti un po' strano, ma ciò che hai detto è stato così puro che mi ha trasmesso pace. Le tue parole sono cariche di calore. È come se mi avessi donato una parte di te», sussurrò facendo un'altra lunga pausa.

    Arrossii. Con la testa china in direzione del tappeto m'incamminai verso il divano lungo e bianco. Ridacchiai impacciata, cercando qualcosa di appropriato con cui rispondere.

    «La ringrazio molto... sul serio, è un bel complimento».

    «Non è un complimento infatti», disse uccidendo la mia felicità per un attimo, «è la verità».

    Sorrisi.

    «Be', ad ogni modo... grazie».

    Nessuno dei due riprese il discorso. Mi torturai una ciocca di capelli rimanendo in piedi, con i polpacci che toccavano il bordo del divano.

    Non ero mai stata una persona di molte parole. Un po' matta, questo è vero, ma non una chiacchierona – se non, appunto, quando cercavo di tirare su il morale a qualcuno. Avevo sempre paura di annoiare gli altri con i miei silenzi. Tuttavia con Jackson non era affatto un disturbo. Anzi, era piacevole stare in sua compagnia anche così. Molto, molto piacevole.

    «Domani sarò via per quell'impegno di lavoro, ma soltanto in mattinata», disse improvvisamente autoritario. Affilai l'udito. «Gli orari di lavoro sono dalle 8.30 alle 16.30. Prince e Paris fanno paura merenda alle 10.30 per una mezz'ora. Il pranzo è dalle 12.00 alle 13.30. Domani sarò a casa prima di mezzogiorno, così da farti firmare il contratto. Ok?».

    La sua dolcezza era svanita per dare un tono più serio alla conversazione. Non era arrogante, tantomeno aggressivo, ma nella sua voce calma e inaspettatamente profonda avvertivo una serietà degna di un uomo di quasi mezz'età, un padre e un business man di un certo calibro.

    «Sì, nessun problema».

    «Mmh?».

    «Sì», corrugai la fronte, chiedendomi se stesse facendo finta di non capirmi o se fossi stata io a non essermi spiegata bene. «Gli orari sono perfetti. L'aspetterò prima di tornare a casa per la pausa pranzo».

    «Oh, non preoccuparti per quello, pranzerai qui, a Neverland» esclamò gentile. «Non ci sarà bisogno di andartene. Sarebbe una scomodo e maleducato».

    «Scommetto che sarebbe più maleducato se restassi ed approfittassi di voi, sign...». Mi bloccai prima di enunciare "Signor Jackson". «Restare non mi sembra appropriato».

    Ero molto testarda quando mi puntavo, niente mi faceva cambiare idea. Eppure un qualche soffocato istinto dentro di me urlava «Resta! Resta!» e scalciava scalpitante. Gioivo del fatto che potessi godere del lusso di stare in quella casa, soprattutto di conoscere meglio gli inquilini che ci abitavano; però la mia dignità e la mia voglia di fare bella figura e non essere sfacciata riusciva a placare quel desiderio, anche quando udivo il signor Jackson sbuffare dall'altro capo del telefono.

    «Insisto. Non c'è bisogno che tu te ne vada. Non sei maleducata in alcun modo, sono io che ti invito a restare. Lo saresti se rifiutassi la mia proposta, risultando anche un po' ingrata».

    Ingrata? Ora sì che mi offendevo.

    Era bravo a rigirare la frittata (dovevo concedergli quest'abilità).

    «E io insisto a dire di no, mi dispiace», continuai sorridendo, mostrandomi irremovibile. «Non è così che sono stata educata a lavorare. Sono una testa dura».

    «Si vede», schioccò la lingua al palato.

    Gli angoli delle labbra si piegarono maggiormente all'insù.

    Rimase qualche secondo a riflettere – alla ricerca di una scusa per farmi restare, pensai –, ma per mia sorpresa non lo fece.

    «Ora devo proprio lasciarti».

    Mi lasciai cadere sul divano con un piccolo tonfo.

    Il signor Jackson – per quanto fosse buono e amichevole – non era di certo stupido, di questo ne ero certa. Anzi, lo trovavo molto acuto e perspicace.

    «Sì, anche io», lanciai un'occhiata torva alle scatole del trasloco, quelle che non avevo ancora sistemato e smistato.

    «Ti piace la tua nuova casa?».

    Spalancai gli occhi allontanando l'orecchio dal ricevitore. Per un attimo credetti che mi avesse letto nel pensiero.

    «Sì, è molto confortevole. È traslocare che non mi piace», borbottai mordicchiando le pellicine del pollice. Lo udii ridacchiare di rimando. «Non ho una casa fissa dove stare. Non posso vivere con questa certezza, con il lavoro che faccio. Di per sé non è brutto il trasloco – amo cambiare aria di tanto in tanto, viaggiare –, la vera noia è fare e disfare i bagagli». Un secondo di silenzio, per poi sbrigarmi a chiudere la conversazione in fretta. «A domani. Chiedo scusa se mi congedo così, ma non ho nemmeno cenato...».

    In effetti era vero, non lo avevo ancora fatto.

    Espirai a fondo, picchiettando le dita sulla coscia e fissando il soffitto.

    «La ringrazio per la chiamata».

    «Grazie a te, Sarah» disse lievemente. «Oh, a proposito. Non serve più quel tono formale, non con me».

    Fui basita per la sua pacata schiettezza. Non ero soltanto io ad aver notato la mia freddezza costante.

    «Ok».

    «E come mi devi chiamare?» cantilenò con fare bambinesco.

    Sbuffai e sibilai la parola «Michael...» avvampando.

    «Brava... pian piano imparerai, vedrai. Dovrò insistere molto per fartelo entrare in testa».

    Dubitavo fortemente che si facesse chiamare semplicemente "Michael" da tutti i suoi dipendenti. Ok, forse la tata era un'eccezione, ma lei era una questione diversa.

    «Insistere?», sghignazzai sollevando un sopracciglio, spostando il peso del torace in avanti. Ressi il capo sulla mano libera, il cui gomito puntava al ginocchio. «Un giorno si renderà conto che sono un caso perso e allora deciderà di arrendersi».

    Lo udii ridere. «Sono un bravo maestro, credimi», disse abbassando la voce di un'ottava, ritornando serio ma sorridente. «Sarai tu ad arrenderti a me, prima o poi».

    Arrossi imponendomi di ignorare il doppio senso. «Lo vedremo. Io sono una tipa tosta!», risposi fingendomi una dura. Mi accorsi – con mio enorme stupore – che era la prima volta che stavo parlando senza usare alcuna formalità.

    «Mmh, sono paziente per tua sfortuna. E mi piacciono le questioni difficili da risolvere. Ho vinto ogni battaglia. Tu non sarai un'eccezione alla regola».

    Sorrisi fra me e me, stupefatta, ma non risposi.

    «Well», ridacchiò. «Credo proprio di dover andare».

    Trovai il coraggio per esprimere i miei sentimenti senza fare scena muta.

    «Anch'io. Mi ha fatto molto piacere parlare con... al telefono...».

    Che sforzo enorme.

    «Stavi per rivolgerti a me con formalità, non è vero?», era stranamente allegro.

    «Colpevole, sì», replicai stringendomi nelle spalle, storcendo la bocca in una smorfia sbarazzina.

    Sogghignò dall'altra parte del ricevitore.

    «Comunque, anche per me è stato un piacere», respirò piano attraverso la bocca socchiusa. «È stato davvero molto illuminante ciò che hai detto... perciò, grazie. Grazie davvero, con tutto il cuore. Ti voglio bene davvero».

    Percepii una strana sensazione, un misto fra incredulità e felicità. Da una parte percepivo una sorta di "disagio" per quei complimenti – che credevo di non meritare affatto – e per quelle parole cariche di affetto; d'altra parte, però, gli ero molto riconoscente. Come se il mio cuore si fosse alleggerito dal peso di un mattone.

    Era abbastanza stravagante come tipo, ma... non sapevo come spiegarmelo. Tutto ciò che faceva sembrava così naturale e sincero che non riuscivo a non credergli. Percepivo la profondità di quelle parole, di quel "Ti voglio bene davvero" rivolto praticamente a un'estranea. Non mi conosceva ancora per ciò che ero, eppure sembrava fidarsi. Era una cosa del tutto irragionevole, ma credevo di provare lo stesso per lui.

    «Grazie» sussurrai pettinando i capelli con le dita.

    Non riuscii a ricambiare le sue parole, ma sperai che potesse percepirlo dal mio tono di voce. Fin da piccola non ero stata per niente abituata a esprimere apertamente le mie emozioni.

    «A domani».

    «Buonanotte... a domani, Sarah».

    Accennai un sorriso. Chiusi la conversazione con un 'click' del polpastrello.

    Così ci congedammo, intorpiditi da quella strana chiacchierata che – almeno me – aveva travolto come l'alta marea. Solo più avanti nel tempo mi sarei accorta degli effetti che Jackson era in grado di scatenare nei cuori delle persone: una volta che lo si faceva entrare nella propria vita non c'era più modo di liberarsene.

    Avrebbe sempre trovato l'assurda maniera di conquistarmi.



    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:22
  7. .
    Capitolo Quattro: L'Eterno Bambino

    Quella era famiglia. Il concetto ideale di famiglia, genitori e figli legati da uno dei più fantastici doni che la vita potesse regalare: l'amore. Quello di una purezza e innocenza inestimabile, un semplice sguardo che vale più di ogni singolo discorso o parola enunciata. Esattamente quell'amore che non tutti sono fortunati di ricevere.

    Lui era un pedofilo? Michael Jackson, che abbracciava i suoi figli in modo tan sentito, la star che era e che non avevo mai avuto la possibilità di conoscere, che io in quel momento avevo la fortuna di osservare in un intimo rapporto familiare? Lui era un molestatore di bambini? Lui, che accarezzava con dolcezza infinita le teste dei bimbi, lui era un pedofilo?

    Qualcosa mi diceva: “chi crede che sia un molestatore non ha mai provato veramente a conoscerlo”. Forse avevano ragione, forse ero una sciocca, o forse il loro era un pregiudizio guidato dalla cattiveria.

    Se Michael Jackson possedeva anche solo un minimo di quella tenerezza con tutte le persone del mondo, allora era tutto sbagliato. Se la sua bontà era reale e sincera, allora Michael Jackson era stato condannato in modo crudele da una popolazione che non sapeva più distinguere cosa fosse il buono e il cattivo.

    «Ora è meglio che continuiate la lezione, che ne dite?», sussurrò ai piccoli dopo averli baciati sulle tempie uno alla volta.

    Mi osservò scusandosi con lo sguardo. Adocchiai Paris e Prince, che mi stavano pregando con gli occhi per finire la lezione immediatamente. Guardai l’orologio a muro. Mancava meno di dieci minuti alla pausa pranzo. Per una volta avrei fatto un’eccezione.

    «Oh, non si preoccupi», dissi con espressione eloquente, «abbiamo finito per questa mattina... e abbiamo parlato molto. Si sono comportati da bambini molto educati».

    Feci loro l’occhiolino, storcendo le labbra in un sorriso furbesco. Prince e Paris ricambiarono con rigorosa complicità.

    Il signor Jackson alternava sguardi scuri e meditabondi, dedicati alla sottoscritta, a spasmi di risata per le continue suppliche dei figli, che gli chiedevano se potessero andare. Prima che questi si volatilizzassero si girarono, mi salutarono con beneducata cortesia e corsero via. Sia io che Jackson li guardammo scomparire da oltre la porta.

    Il signor Jackson, che prima non aveva mostrato minimo accenno di spossatezza fisica, si stiracchiò sul posto. Scorsi una lieve difficoltà nel compiere quel atto, ma l’uomo nascose il dolore socchiudendo le palpebre e serrando le labbra per soffocare il respiro.

    Lo studiai con apprensione. Non era un uomo anziano... anzi, dal fisico sembrava in forma per avere... uhm... di sicuro non più di quarant'anni. O quarantacinque, al massimo.

    «Mi dispiace non averla accolta, stamattina, ma avevo un impegno importante», mi esaminò con le sue grandi iridi scure.

    Si mise una mano sulla spalla, massaggiandosela, avvicinandosi un passetto alla volta.

    «Non si preoccupi».

    Ed era meglio che fosse arrivato tardi, mi dissi, così almeno avevo evitato una figuraccia.

    Capii subito che quel giorno aveva la mente altrove. Il suo sguardo vacillava da me alle varie parti della stanza ambiguamente. La schiena era fin troppo rigida. Intuii che il punto in cui teneva la mano fosse quello che gli provocasse molto dolore, ma non volli iniziare il discorso per non essere indiscreta.

    Solo allora mi concentrai sullo smoking elegante che indossava, completamente nero con camicia viola sotto. Aveva un profumo di fresco addosso.

    «Oh», disse ad un certo punto, interrompendo il silenzio sempre più palpabile, «mi sono dimenticato il contratto... mi dispiace...», si scusò.

    All’inizio non risposi, troppo persa nell’osservazione del suo volto. Aveva qualcosa di particolare che nemmeno io sapevo definire. C’era qualcosa in lui che mi dava una strana sensazione nel cuore: un misto fra incanto e malinconia. I suoi occhi erano vigili, ma vuoti. Sembrava che, quando non veniva distratto da emozioni forti come l’amore per i suoi bimbi, la luce che possedeva gli si spegnesse in un istante. Cercavo insistentemente di capire cosa provasse.

    «Non importa» risposi abbozzando un sorriso, «dico davvero. Per questi giorni posso anche insegnare senza averlo firmato nulla. Così potrà decidere se vado bene o meno per questo ruolo. È meglio così, piuttosto che firmare un contratto per bruciarlo qualche giorno dopo».

    Come ogni normale lavoratore era ovvio che volessi firmare quel documento al più presto. Ma decisi di volermi fidare e concedergli tempo. Non sembrava che stesse inventando scuse.

    «Oh no, io ho già scelto!» rispose in fretta e furia. Spalancò le palpebre, stupefatto dalle mie parole. «E tu sei perfetta per questo lavoro».

    Issai gli angoli delle labbra con imbarazzo, curvando lo sguardo verso il basso. Sussurrai un «Grazie» così leggero che temetti di non essermi fatta sentire. Mi diressi verso il tavolo e iniziai a raccogliere tutte le mie cose.

    «Uhm...» mormorò lui. Non si mosse di una virgola, ma si massaggiò la fossetta sul mento con la punta del pollice. «Come ti sembrano i miei figli?»

    «Molto teneri», risposi senza indugio, sorridendo e sistemando i quaderni nella valigetta. Percepivo le sue occhiate cariche di curiosità, ma non ricambiai. «Li trovo molto attenti e di sicuro non manca loro la voglia di imparare. Per quel che ho potuto capire di Paris, beh, è molto tenace. Sa quello che vuole ed è testarda. Quando vuole imparare una cosa mi sa tanto che non la ferma più nessuno»

    Michael Jackson annuì, ridacchiando e chinando il capo. «Oh sì, Paris è molto determinata. Ha una natura curiosa».

    «Prince invece tende a essere pacato e silenzioso. Così su due piedi sembra molto più… mmh... insicuro rispetto alla sorella, ma non per questo manca di scaltrezza. È un acuto osservatore», continuai fissando il quaderno di Prince che tenevo fra le mani.

    Il signor Jackson non disse nulla per qualche istante, ma percepii che mi stava scrutando ancora. Poco dopo parlò: «Sì, è vero. Prince è più introverso, ma anche lui è molto giocherellone e solare. Ha solo bisogno di entrare in confidenza con chi ha davanti».

    Improvvisamente si incupì, corrugò la fronte e mi puntò dritto in faccia.

    «Posso chiamarti Sarah?»

    Con quella frase mi sentii cadere dalle nuvole. Lo puntai immediatamente. Mi sembrava di avere gli occhi tre volte più grandi del solito, più di quanto già non li avessi di natura, a causa della meraviglia suscitata da quella domanda.

    «Come preferisce, sì!» esclamai annuendo e farfugliando assieme.

    Sorrise tenendo il mento abbassato, mirandomi da sotto le ciglia lunghe e scure. Per un attimo lo trovai molto affascinante.

    «E tu» sottolineò con vigore, inebetendomi un istante, «mi chiami Michael?»

    Un attimo di confusione. Poi sghignazzai imbarazzata. «Preferirei...»

    Alzò un sopracciglio, aspettando che continuassi.

    Voleva una conferma, non un rifiuto.

    Sospirai e scostai l'attenzione dal suo viso. «Ci posso provare... anche se non approvo tutto questo».

    «Perché no?», chiese increspando nuovamente la fronte, braccia incrociate dietro la schiena, avvicinandosi di più.

    Risposi dicendo che chiamare il mio capo con il suo nome di battesimo mi pareva una mancanza di rispetto. E lui non era una persona qualunque. Non sapevo che Michael fosse una persona molto più semplice e gioviale di quanto appariva.

    «Non è una mancanza di rispetto se mi chiami Michael... almeno, a me non importa se può sembrare così. “Signor Jackson” mi fa sentire anziano. E non mi piace sentirmi vecchio».

    «Preferirebbe rimanere giovane per sempre?», gli sorrisi divertita.

    Lui mi squadrò e si lasciò andare ad una risata delicatissima. Con le orecchie ben tese mi godetti quel risolino fino a quando non scomparve; calò gli occhi sul pavimento e quando smise di ridere mi osservò a testa alta con innocente fierezza.

    «Io sarò sempre giovane dentro. Io sono Peter Pan. E Peter Pan non invecchia mai».

    Lo adocchiai incredula, la bocca schiusa e le sue estremità incurvate verso l’alto. Era davvero stupefacente. Non sapevo perché, ma quella frase continuò a risuonare nella mente e nel cuore per tutto il resto della giornata, come fa ancora oggi.

    Michael Jackson, una star che diceva di essere Peter Pan, l’eterno bambino che vive nella sua Neverland assieme agli altri “bambini sperduti”. Un bagliore di lucidità e solo allora trovai il collegamento con tutto ciò che prima non aveva senso: The Lost Children, la canzone... Neverland Ranch, il posto in cui abitava... e ora il riferimento a Peter Pan, egli stesso.

    «È un pensiero molto bello» sussurrai ancora basita. Sollevai le sopracciglia e mi sbilanciai in un sorriso emozionato. «Le auguro davvero di non perdere mai la purezza e la capacità di sognare. Senza queste Peter Pan non esiste, e così tutti i bambini sperduti e Neverland».

    L’allegria se ne andò dalle sue iridi scintillanti mutando sfumatura e sentimento.

    «Non è facile», si bagnò le labbra con lentezza, ammirando al di fuori della finestra, «non in questo mondo».

    Non proseguì il discorso, ma rimase con il respiro bloccato in gola e lo sguardo perso nel vuoto.

    “Per la stampa sono un pedofilo”.

    «Non molli la presa».

    Si voltò.

    Lo guardai dolcemente. «“Tieni stretti i tuoi pensieri felici”, così diceva Trilli. Sono quelli che ci salvano. Loro e le persone che ci rendono la vita felice, gioiosa… in pratica, degna di essere vissuta. Non è così?».

    Potevo leggere disorientamento in quei tratti marcati del viso.

    Il silenzio piombò sulla stanza. Esaminai il tavolo, controllai di aver preso ogni cosa e mi voltai di nuovo verso Jackson. Credevo che non avrei mai avuto il coraggio di chiamarlo solamente Michael.

    Lo fissai e, con serenità forzata, mi feci coraggio. «È meglio che vada. Direi di cominciare la vera e propria routine scolastica da domani. Prima devo studiare bene il programma di Prince e Paris, decidere cosa far loro fare in base alle conoscenze attuali e ciò che ancora non hanno compreso. Va bene?»

    «Oh...», si riprese dal fitto scorrere di pensieri accigliandosi. Si strofinò le mani e le ripose nelle tasche dei pantaloni. «Va benissimo, mi fido».

    Mi studiava così tanto intensamente che era difficile ignorarlo.

    Dopo aver risposto con un deciso «Ok, grazie», mi diressi verso la porta mezza spalancata della camera, in direzione dell’uscita.

    «No, aspetta, ti accompagno».

    Quando mi reclinai a tre quarti scoprii che mi era già vicino. Era un po’ arrossito in volto, ma non era per niente esitante. Io, invece, da ottima codarda, piuttosto che rimanere a guardare avevo preferito concentrarmi sulla grande mano che teneva la porta e mi invitava ad uscire.

    Proseguendo per il corridoio che portava alle scale studiai l’arredamento della casa. Ero rapita da quell’ambiente magico ed elegante – dai tappeti pregiati ai comodini di legno di qualità, dai vari quadretti appesi alle mura bianche ai lampadari sfarzosi ed elaborati. Era una villa davvero spettacolare e, se quella era solo parte della casa, non volevo immaginare le altre sorprese che poteva riservarmi.

    «Ti piace?», chiese Jackson, il quale aveva notato il mio evidente interesse.

    Sorrideva con gli occhi.

    «Oh, sì, è davvero bella!» cercai di placare il mio entusiasmo stringendomi nelle spalle, «è molto… uhm, fiabesca, se così si può dire».

    «E ti piacerebbe vivere qui?».

    Lo osservai ammutolita.

    Mi bloccai a metà della rampa di scale. Quand'egli mi superò di qualche gradino si girò all'indietro. La sua espressione era neutrale; me lo aveva chiesto con nonchalance, eppure le iridi erano scintillanti. Fui diffidente perché - detto in quel modo - sembrava che volesse provarci. Un flirt così su due piedi mi risultava un po’ strano da parte sua, soprattutto nei miei confronti, dato che non ero mai stata una di quelle “conquista uomini” al primo sguardo. Inoltre, cosa importantissima da non dimenticare, ero l’insegnante dei suoi figli.

    Si accigliò, sbarrò le palpebre e stette zitto per qualche secondo, formando una ‘o’ con le labbra; successivamente arrossì e ridacchiò, sussurrando: «Oh... oh...».

    Pareva che avesse inteso quello che la mia mente aveva elaborato poco prima. Con molta probabilità il mio volto era stato lo specchio dei miei sentimenti; delle volte era un po’ troppo eloquente, per così dire.

    «Oh, non pensare che l’abbia detto in quel senso, no!», scosse la testa, grattandosi un punto dietro la nuca. Per un attimo mi sembrò timido quanto un bambino. «No, no... la maggior parte dei miei dipendenti vive qua, nel residence accanto. L’educatore e la tata dei bambini, invece, possono vivere tranquillamente in questa casa».

    Sorrisi. «La ringrazio per il pensiero, ma ho già trovato una casa nelle vicinanze. Ancora prima del colloquio», esclamai facendo spallucce. «È un affitto, in realtà. Giusto sabato ho finito di traslocare. Prima me ne stavo dalla parte opposta di Los Angeles. I proprietari di questa casa ora abitano in Florida».

    «Dove si trova di preciso?» chiese nel frattempo che riprendevamo a scendere le scale.

    «Los Olivos. Non molto distante da qui, perciò il tragitto non sarebbe più lungo di venti minuti. È decisamente più comodo che farsi ore e ore in macchina».

    «Mmh-mmh», annuì pensoso. Ci stavamo approssimando alla porta d’entrata; sia lui che io rallentammo il passo. «Sei stata fortunata».

    «Grazie a Dio! Altro che occhiaie, altrimenti», sbuffai.

    Il modo in cui lo dissi lo fece ridere a bassa voce. Mi aprì la porta da vero gentleman.

    «Arrivederci, a domani» sorrisi e presi la mia giacchetta dall'appendiabiti.

    Il signor Jackson ricambiò il cenno, scoccandomi un’ultima e penetrante squadrata, e mi rivolse le stesse parole. Stavo per uscire quando una voce mi spinse a voltarmi nuovamente. Non mi ero mai sentita tanto osservata in vita mia.

    «Domani avrò un altro impegno di lavoro, non so ancora quando tornerò a casa. Ci terrei a farti firmare il contratto. Potresti rimanere dopo le lezioni del pomeriggio con i miei figli, in attesa che io ritorni?».

    Lo guardai e acconsentii veemente.

    Michael Jackson mi salutò con la mano. Aspettò che scomparissi oltre il vialetto prima di abbandonare la posizione in cui era. Immobile, con quegli occhi scuri puntati su ogni mio minimo movimento.

    *

    Bene. E ora diamoci dentro.

    Ero nel salottino della mia nuova casa, con indosso un pigiama leggero, le gambe a farfalla, seduta sul tappeto con... un Cd di Michael Jackson in una mano e un buonissimo succo di frutta nell’altra.

    Una volta finito di lavorare - con la mente ancora sull'Isola che non c'è - ebbi l'istinto irrefrenabile di visitare un negozio di dischi. In realtà avrei preferito una biblioteca, ma non era di strada.

    Los Olivos era un centro mediamente popolato, poiché la maggior parte delle persone se ne stava nei grandi centri urbani come Santa Barbara, Beverly Hills e Hollywood. Tuttavia quel negozio di musica aveva catturato subito il mio interesse: non era grande, ma era bello. Costruito in legno bianco e con grandi vetrate trasparenti, l’insegna blu diceva: “Joe’s Groove”.

    Non appena vi entrai un uomo di statura medio/alta, mezza età, folti baffetti e cortissimi capelli scuri m’osservò da oltre il bancone. Salutò con un «Salve» poco allegro e tornò alla lettura del suo giornale, che teneva appoggiato su un banco altrettanto bianco. Le mille e mille collezioni di Cd rallegravano l’ambiente con le loro cover colorate risaltando su tutto quel pallore.

    Ero tentata di domandare se avesse album di Michael Jackson, ma la voce si bloccò immediatamente. Non mi vergognavo all'idea di chiedere di lui, ma sembrava che – pronunciando il suo nome – tutti avrebbero scoperto che lo conoscevo. Una paura assolutamente irrazionale, la mia, ma non riuscivo a scacciarla dalla testa.

    Cercai e cercai ma non trovai nulla. Alla fine mi arresi.

    «Mi scusi» esclamai attirando l’attenzione del cassiere, «avete qualche album di Michael Jackson?»

    Il cassiere aggrottò le sopracciglia, richiuse il giornale e rispose dopo averci pensato su.

    «Sì, purtroppo... e sarebbe meglio che un giorno di questi li bruciassi tutti».

    Rimasi sbigottita ma non risposi. Il signore mi squadrò, sbuffò e si diresse verso uno degli scaffali più nascosti del locale. Lo seguii.

    «Eccoli qua, tutti per Lei», tuonò a dir poco sarcastico, incamminandosi verso il bancone senza degnarmi di uno sguardo. «Li prenda pure tutti... tanto nessuno acquisterà mai più un disco di quel pedofilo».

    Lo fulminai con un’occhiata. Quando si accorse che lo fissavo mi dedicò un’espressione stizzita, per poi tornare al suo giornale borbottando fra sé e sé altre parole cariche di insulti rivolte al mio capo.

    Era così crudele che, sebbene non fossi affezionata in alcun modo a Jackson, ebbi l’istinto di dirgli di farsi gli affari suoi. Ma dopotutto, pensai, l'assoluta verità non la conoscevo nemmeno io.

    Anche se quell'uomo credeva che Michael Jackson fosse un pedofilo, sicuramente non avrei rinunciato a prendere un suo Cd soltanto per rimediare all'opinione che il cassiere aveva di me.

    Osservai le varie copertine. C’era pure Bad, l’unico album di cui avevo veramente sentito parlare (e ascoltato) da adolescente. E anche Thriller, il cui titolo mi ricordò improvvisamente alcune canzoni molto famose. Ed infine ce n’era un altro che attirò particolarmente la mia attenzione, con una copertina grigio metallizzato sulla quale potevo distinguere appena i tratti del viso del signor Jackson. Il titolo era Invincible. Mai sentito prima.

    Presi quello, inizialmente. Poi però, mentre stavo per dirigermi alla cassa, sentii una forza magnetica riportarmi indietro.

    E va bene, li prendo tutti e tre.

    Non controllai nemmeno le tracce che aveva: li presi e basta.

    *

    Sorseggiai un altro po’ di succo all’ananas mentre contemplavo Invincible.

    Forse ero solo un’ingenua credulona, è vero, ma volevo capire chi fosse Michael Jackson per davvero, ascoltando l’unica cosa che poteva darmi una visione più ravvicinata della sua anima: la musica. Troppe domande echeggiavano in testa e mi rimproveravano, dicendomi che non potevo essere sicura di nulla, tantomeno di lui. Volevo cancellare ogni dubbio – sì, soprattutto quelli sulla pedofilia.

    Qualcosa dentro di me diceva che Jackson non era una cattiva persona e che le sue canzoni mi avrebbero aiutato a capirlo. The Lost Children ne era una prova. Ero così attratta dall’insensata idea di conoscerlo che non mi importava dell’opinione di nessuno. Volevo solo scoprire chi fosse l’uomo allo specchio.

    Mi alzai da terra e inserii il Cd nel lettore. Cliccai “Play” e aspettai.

    Un rumore di strani marchingegni mi lasciò perplessa. Questi vennero eclissati di botto da un connubio di suoni elettronici che, nel complesso, formavano una melodia interessante. Non avevo mai udito una canzone del genere e non capivo se mi piacesse o meno. Mentre Unbreakable iniziava e la voce di Jackson risuonava per tutta la stanza mi sedetti sul divano, estrassi il libretto con le canzoni e seguii le parole.

    La sua voce era senz’altro più bella dal vivo. Neanche da paragonare.

    Passò la prima traccia, la seconda e poi la terza. Tutto sommato mi piacquero, sebbene non mi facessero impazzire. In particolare mi interessavano le parole. Già da quei testi potevo percepire che Jackson fosse una persona determinata, forte, onesta. E di sicuro gli piacevano le donne. In particolare quelle irraggiungibili e un po' stronze.

    Risi fra me e me.

    All’inizio della quarta canzone, Break of dawn, il telefono squillò da sopra il poggiolo del divano. Afferrai il cellulare e me lo portai all’orecchio, non prima di aver messo in pausa il lettore Cd. Prima che potessi leggere il numero sullo schermo sollevai la cornetta.

    «Pronto?».

    Rimasi in attesa. Sembrò essere passato un secolo quando la voce di Michael Jackson raggiunse le mie orecchie, penetrandomi con il basso e delicato suono della sua voce.

    «Sarah? Ciao, sono Michael».

    Per poco non rischiai di far scivolare il telefono dalle mani.




    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:15
  8. .
    Capitolo Tre: La Bambina Sperduta

    Non mi definisco insegnante nel vero senso della parola. Per dirla meglio, non mi definisco una maestra che fa il suo lavoro e, una volta finita l’ora di lezione, torna a casa come se fosse niente, felicemente soddisfatta per aver spiegato due o tre cose ai suoi alunni. Per me il termine maestro è molto di più.

    L’insegnante è colui che cerca di interagire, che tenta di instaurare un rapporto di rispetto reciproco e divertimento senza che il suo ruolo venga mai sottovalutato – senza che nessuno dei presenti venga sottovalutato.

    Diciamo che per me l’insegnante è simile ad un maestro di vita: racconta le sue esperienze e aiuta i suoi allievi a guardare al futuro, preparandoli ad affrontare le situazioni più belle e le più difficili.

    Non molti capiscono l’importanza della conoscenza – quanto mi piace questa parola, conoscenza, proprio come la canzone di Janet Jackson. Questo termine non è soltanto legato all'istruzione, ma anche alle questioni di vita più importanti, profonde, come l'amore e il rispetto. Ogni persona – i giovani più di ogni altro – devono conoscere certi valori morali affinché possano metterli in pratica. Conoscere può aiutare l'uomo del domani a essere sensibile, se davvero sa apprendere e lavorare su se stesso.

    Se si insegna a un bambino a maltrattare gli altri, quando farà le sue prime esperienze di vita crederà che i suoi atteggiamenti siano giusti, e perciò le uniche conoscenze che avrà saranno soltanto quelle di schernire o trattar male chi gli sta intorno.

    La conoscenza non deve riguardare soltanto le materie scolastiche, ma anche quelle sociali ed emotive. Ai bambini devono essere insegnanti i principi, per trasformare questo mondo perverso e fuori controllo in un posto migliore. Bisogna dare, ma non farsi calpestare. Bisogna essere gentili, ma non essere malleabili.

    Ovviamente ognuno sceglie cosa fare della propria vita e come comportarsi, ma credo che se si dà un buon esempio c’è una possibilità che i bambini crescano con maggior sensibilità e bontà, qualità necessarie per portare la pace in questo piccolo apparente inferno. E quale luogo può essere migliore della scuola? La scuola non dovrebbe essere noia e disturbo: dovrebbe essere una guida, un’ispirazione.

    Per quel che mi riguarda, faccio del mio meglio.

    *

    E all’improvviso, in un lunedì di Sole splendente, mi ritrovai davanti ai cancelli di Neverland. Io alla guida della mia auto e non la passeggera ansiosa di qualche settimana precedente.

    Quell'ingresso era così bello che non riuscivo a distogliere lo sguardo; modellato in ferro – o acciaio, forse – color verde bottiglia, era ornato da magnifiche rifiniture dorate. Al centro uno stemma rappresentava un leone con una corona sul capo e un unicorno – appoggiati uno di fronte all'altra sopra un simbolo che non riuscivo bene a decifrare, troppo scintillante a causa dei raggi solari. Sopra al cancello, più in alto del "Neverland" a caratteri cubitali, c'era un altro stemma: "Michael Jackson" e una corona rossa e oro appoggiata sulla scritta.

    A colloquio finito non avevamo parlato dell’ipotetico orario da rispettare. Non seppi come, ma un dipendente (un manager, forse?) di Michael Jackson era riuscito ad avere il mio numero e a telefonarmi, comunicandomi di presentarmi alle 8 in punto per le lezioni.

    Un uomo sbucò da oltre il cancello, lasciandolo socchiuso, e si avvicinò alla mia macchina. Era lo stesso tizio che mi aveva fissato con aria truce la volta precedente. Lo scrutai con silenziosa discrezione e questo mi si avvicinò con sguardo imperturbabile. Abbassai il finestrino.

    «Lei è Sarah Morris?», chiese quando mi raggiunse, appoggiandosi al finestrino abbassato con una mano esattamente come aveva fatto la volta precedente. Mi squadrò ed io feci lo stesso, sulla difensiva per quel suo atteggiamento freddo e indagatore.

    «Sì, sono io».

    L’uomo estrasse un walkie talkie dall’enorme tuta nera che indossava, si allontanò un po’ e disse qualche parola biascicata a non sapevo chi. Stetti ad osservarlo e lui ricambiò con altrettanta risolutezza.

    «Vada sempre dritta» disse quando terminò la conversazione al walkie talkie, «dopodiché segua le rive del lago fino alla residenza principale, la stessa della prima volta. Dal parcheggio prosegua dritta, a piedi, verso la villa».

    Annuii, ma in realtà non ci avevo capito niente. Sapevo che mi sarei persa e quel uomo di certo non aveva né la voglia né la pazienza di spiegarmelo una seconda volta. Lo si vedeva in faccia. Si allontanò dalla portiera, aprì il cancello del tutto e mi lasciò passare.

    Proseguii seguendo le indicazioni che mi aveva indicato. Mi persi, ovviamente, ma ce la feci.

    Arrivata al parcheggio per gli ospiti spensi l’auto e tirai un sospiro di sollievo. Mi sembrava di aver fatto una maratona. Scesi e presi la mia roba dal sedile accanto; mi guardai intorno e ricordai la piccola salita percorsa la volta precedente, quella che mi avrebbe portato alla residence principale.

    Inutile dire che, a parte lo stupore per la bellezza che regnava incontrastata, era dato di fatto che fossi in ritardo. Diciamo che come primo giorno di lavoro non partivo molto bene.

    Camminai a passo spedito e pregai che qualche impegno improvviso avesse trattenuto il mio capo più del previsto, ma non mi dava l’idea del ritardatario.

    Quando raggiunsi il villino rimasi a contemplarlo per qualche istante. Era la più bella casetta che avessi mai visto... ok, reggia. Era quasi più bella di tutte le dimore dei cartoni Disney. Grandi vetrate e finestre a muro, mattoni arancioni incastrati perfettamente trai serramenti di legno color di noce.

    Arrivata dinanzi alla porta d’ingresso trassi un profondo respiro, seppur con difficoltà, a causa del fiatone. Suonai il campanello e attesi che qualcuno venisse ad aprirmi. Sentii un trillo vivace, fin troppo allegro per un citofono normale. Una signora venne alla porta.

    Era una donna piuttosto giovane – sulla trentina o quarantina - e scura di pelle. Aveva i capelli corti e ricci, occhi neri come il carbone; aveva labbra piuttosto carnose e un naso leggermente grosso. Era vestita con un paio di jeans e una maglia a maniche lunghe, celeste. A primo impatto la considerai una donna gentile e di bell’aspetto.

    Sorrise gentilmente.

    «Lei è l’istitutrice di Paris e Prince, vero?», domandò senza togliermi gli occhi di dosso. Sembrava dolcemente incuriosita dalla mia persona.

    «Sì, sono io», risposi con voce bassa, annuendo.

    La prima cosa che pensai, ingenuamente, fu che fosse la moglie o la fidanzata di Jackson.

    «Piacere», disse porgendomi la mano. «Io sono Grace Rwaramba, la tata dei due bambini. Ma prego, entri... la stanno aspettando con ansia».

    E ti pareva che sbagliavo anche questa...

    Mi fece entrare serrando la porta non appena oltrepassai la soglia. Non ebbi il coraggio di chiederle se il signor Jackson fosse presente quel giorno - più che altro, appunto, per firmare il contratto di lavoro come concordato al nostro primo incontro.

    Con un dolce «Prego, mi segua» non appena mi fui tolta la giacca, appoggiando quest'ultima su un appendiabiti vicino, mi condusse al primo piano salendo una scala scura e lucida. Proseguimmo per il corridoio di destra, un altro svicolo più in là a sinistra, e si fermò davanti alla prima porta che incrociammo. Mi lasciò passare per prima.

    Immediatamente fui colpita dalla freschezza e dal candore di quella stanza. Aveva pareti bianche come la neve, un terrazzo con ante socchiuse che dava direttamente sul giardino anteriore della villa – quello che non avevo ancora avuto la possibilità di scoprire – e mobilia in legno chiaro. C'era una libreria di medie dimensioni proprio a sinistra della porta, un grande tavolo in tiglio proprio al centro della stanza, quattro sedie, un armadio con molti cassetti e una lavagna. Non era immensa come il salotto, ma sarebbe bastata per soli due alunni e un'insegnante. In più, ad abbellire il tutto, il pianoforte. Sentii l'impulso di avvicinarmi e suonare qualcosa, ma mi trattenni con intima e silenziosa forza.

    I due bambini, Prince e Paris, erano seduti al tavolo con libri e quaderni aperti. Non appena mi videro mi salutarono con le loro piccole mani, entusiasti del mio arrivo. Paris, soprattutto, sembrava felice di vedermi. Salutai di rimando.

    «Vi lascio lavorare in pace, vado nella stanza dei bambini a controllare Blanket... il loro fratellino» disse specificando chi fosse, captando la mia perplessità di fronte alla parola “Blanket”. Che strano nome per un bambino. «Il signor Jackson verrà a farvi visita al suo ritorno, poco prima della pausa pranzo».

    Grazie a Dio era fuori.

    Nei giorni precedenti avevo pensato molto a lui, a quello che mi aveva detto e alle occhiate intense che mi aveva rivolto, probabilmente le stesse che rivolgeva a chiunque. Pensai a quando mi aveva detto che era un pedofilo e non riuscivo a darmi risposta. Non sapevo dove trovare la risposta. E non nego che non avere certezze era un’altra di quelle cose che mi mandavano letteralmente in bestia.

    L’unica cosa che potevo fare era ignorare quei continui affilati interrogativi che invadevano la testa come una tortura. Di certo non sarebbe stato piacevole lavorare con un molestatore, ma... ecco, volevo concedergli il beneficio del dubbio. In apparenza sembrava tutto il contrario di un pedofilo, ma forse mi sbagliavo.

    Speravo di non sbagliarmi.

    «E mi raccomando, bambini, fate i bravi!», proseguì la tata rivolgendosi ai piccoli con un’occhiata di benevole raccomandazione, destandomi dalle mie riflessioni.

    Loro annuirono, salutandola e mandandole tanti bacini con le dita. Lei si agitò nel tentativo di prenderli e, una volta "catturati", se li pose sul cuore. Sorrisi intenerita e la salutai con cenno del capo.

    Non appena chiuse la porta, la lezione iniziò.

    Come da retorica mi avvicinai al tavolo, posai la borsa pesantissima su questo e mi rivolsi ai bambini con un sorriso complice. Loro mi scrutarono con sereno interesse.

    «Ciao Paris, ciao Prince».

    «Buongiorno signorina Morris».

    «Ah no, eh», dissi in tono simpatico. Mi puntarono stupiti. «Non voglio sentire nessun “Buongiorno signorina Morris” – mi fa sentire vecchia, in effetti...» risero divertiti. «Chiamatemi semplicemente Sarah, al massimo “signorina Sarah”, ok? Va bene che sono la vostra insegnante, ma non esageriamo!»

    Forse per la mia espressione simpatica ed infantile, o forse per il mio tono decisamente amichevole, entrambi si sciolsero un po'.

    Mi sedetti a capotavola, aprii la valigetta e presi un’agenda che mi sarebbe servita da “Registro di classe”, più un quaderno vuoto e un astuccio contenente più penne colorate di quante ne potesse avere un bambino comune. Inspirai a fondo e arricciai le labbra in un cipiglio pensoso.

    «Siccome non so dove siete arrivati con il programma di quest’anno, ho bisogno che mi diate una mano... non possiamo partire con le lezioni, non subito almeno, senza sapere che cosa devo fare per voi. Ce la prenderemo un po’ easy per oggi», e feci l’occhiolino.

    I bambini mi guardarono e annuirono.

    «Bene. Chi vuole iniziare a parlarmi un po’ di ciò che ha fatto fino ad ora? Non importa se non ricordate proprio tutto».

    Ovviamente non avrei considerato soltanto le loro parole; avrei di sicuro chiesto al signor Jackson maggiori informazioni su quella che era stata l'attività scolastica fino ad allora, oltre che i risultati che avevano raggiunto. Il mio era un modo come un altro per creare un clima pacifico e rassicurante.

    Paris alzò la manina per prima, perciò le detti il permesso di parlare.

    «Io ho cinque anni, faccio la prima...», disse con voce lieve. «Il maestro mi ha insegnato un po' l’alfabeto... mi ha insegnato a scrivere, ma poco... a leggere, leggeva parecchio per noi... i nomi e le cose, poi abbiamo fatto i numeri, qualche piccolo problema, mmh... gli animali... e mi faceva giocare, qualche volta…! I giocattoli sono tutti dentro là, in quel cassetto!», e indicò l’armadio dall’altra parte della stanza.

    «Ok, piccola. Quella delle storie non è affatto una brutta idea. Sono sicura che sarai un’alunna di primo grado veramente avanti col programma!»1

    Sorrise eccitata. Capii subito che non vedeva l’ora di imparare e in fretta, perciò presi appunti sul mio quaderno. In seguito scoccai un’occhiata incuriosita al fratello.

    «Tu e il maestro invece cosa avete fatto, Prince?», chiesi in tono cortese.

    Lui mi fissò, per poi chinare lo sguardo sul quaderno.

    «Abbiamo fatto alcune frasi... soggetto e... predicato, mi sembra. Poi abbiamo iniziato le addizioni e le sottrazioni un po’ difficili, e mi faceva scrivere...», mi guardò di nuovo.

    Alzai i lembi della bocca in una smorfia compiaciuta. «Ok, ho capito. Non ti dispiace se oggi mi porto a casa i tuoi quaderni per darci una piccola occhiata? Anzi, vorrei prendere quelli di entrambi. Così domani possiamo partire subito con la prima e vera lezione, vi va?».

    Annuirono e sorrisero.

    Drizzai la schiena, scoccai la lingua al palato e assunsi un’aria buffa e pensosa, tanto da fare sghignazzare i due.

    «Allora, penso che oggi sia importante decidere il da farsi... di sicuro non faremo mai lezioni troppo pesanti e noiose – non voglio che per voi la scuola diventi un centro di sonnellini», risero ancora, «perciò con me imparerete non solo l’abc, ma anche molte altre cose importanti che hanno a che fare con la vita al di fuori della scuola. Perché non mi parlate un po’ di voi e di cosa vi piace (o non vi piace)?».

    Mi fecero vedere i loro quaderni e mi raccontarono delle loro materie preferite – che erano tutte, quasi. Mi raccontarono dei loro hobby e passatempi, dei giochi e dei cartoni che amavano di più. Passammo qualche ora così, mentre la loro timidezza si scioglieva. E anch’io parlai di me, per non farli sentire sotto interrogatorio. Per me era essenziale creare un rapporto di confidenza e fiducia e mi piaceva che mi considerassero una loro pari, piuttosto che una rigida signorina Rottermeier.

    Spiegai loro come avrei suddiviso le lezioni e le materie, anche in base ai diversi programmi scolastici. In mattinata mi sarei dedicata con Prince all'inglese e alla storia, mentre nel pomeriggio alla matematica, alla scienza e alla geografia. Viceversa con Paris. In più avrei dato loro qualche ora di disegno libero (ma sempre legato a ciò che facevamo) fra una materia e un’altra. Avremo di sicuro dedicato una mezz’ora o un’ora al giorno alla lettura, con relativa discussione e domande. Inoltre, detti loro la possibilità di scegliere in quali giorni avremo trattato l’argomento musica e sport, soprattutto se in mattinata o nel pomeriggio.

    Non appena dissi loro che avremmo suonato qualche canzoncina insieme, gli occhi di entrambi si illuminarono. Con le loro vocine mi chiesero: «Davvero suoneremo qualcosa? Che cosa?», e io risposi loro che avremmo suonato tutto ciò che desideravano.

    Non solo avevamo un pianoforte, ma anche molti altri strumenti come tamburelli, triangoli, maracas, xilofoni e addirittura piccoli cembali.

    «Suoneremo le canzoni di papà?», chiese Prince vivacemente.

    Bella domanda.

    Se solo avessi saputo qualche sua canzone a memoria avrei provato volentieri. Ma come facevo a dire loro che di Michael Jackson – il loro papà – non conoscevo una canzone veramente bene? Dopotutto, pensai, era meglio dire la verità piuttosto che una bugia.

    Incapace di rispondere prontamente, Paris mi batté sul tempo.

    «Potremo suonare The lost children, vero? E dopo la faremo sentire a papà!»

    «In realtà non la conosco molto bene...». Arrossii non appena i bambini mi puntarono sconvolti. «Però potete farmela sentire, la imparerò, la insegnerò a voi e dopo ci esibiremo davanti al signor Jackson, vostro padre, che ne dite?».

    L’idea di suonare davanti a Michael Jackson una sua creazione, senza che io fossi particolarmente fan, mi faceva sentire un po’ scema... forse sarebbe stato meglio rimanermene zitta.

    «Non conosci The lost children?», chiese Prince ad alta voce. Aveva gli occhi sgranati.

    «Davvero?», anche Paris credeva che le stessi mentendo. «Non è possibile... il nostro papà ha fatto le canzoni più belle del mondo!»

    Ora anche i bambini mi credono una pazza.

    Erano molto dolci e teneri nei confronti del loro papà.

    «Chi è che ha creato le canzoni più belle del mondo?», intervenne una voce dall’altra parte della stanza, accompagnato da un risolino divertito.

    Tutti e tre volgemmo lo sguardo verso la figura che se ne stava presso l’uscio della porta, che senza bussare era entrato e aveva udito – sperai non molto – della nostra accesa discussione.

    Evvaaai.

    Quando Michael Jackson aveva smosso la porta con un rapido movimento di polso lo avevo scoperto fermo, in piedi, mentre fissava me e i suoi bambini con particolare interesse.

    «Papà!».

    Scesero di foga dalle loro sedie e corsero ad abbracciare il padre. Quest'ultimo si chinò sulle ginocchia per farsi stringere da loro, schiudendo le palpebre non appena le loro braccia sottili si legarono attorno al suo collo.

    «Papà!», continuò Paris con cipiglio stranito. «La signorina Sarah non conosce The lost children! Ha detto che non conosce la tua musica!», e così dicendo gli occhi di tutti furono sulla sottoscritta.

    Le mie guance si pitturarono di un color rosso fuoco. Mi sentii così imbarazzata che desiderai scomparire da lì con un colpo di bacchetta magica.

    «Davvero?», disse lui fissandomi con palpebre spalancate e iridi brillanti, a causa di quello che definii un “silenzioso divertimento”. Mi fece un rapido check-up e non smise di osservare il mio volto. Ancora.

    «Sì! Non sa le tue canzoni... non conosce quella canzone...», sussurrò Prince.

    Se avessero insistito ancora un po’, avrei promesso a me stessa che mi sarei alzata e sarei scappata di corsa da quella stanza.

    «Mmh... male, male...», brontolò lui, umettandosi il labbro inferiore e alzandosi in piedi. «Allora mi sa che dovremo fargliela conoscere al più presto».

    «Sì, papà! Gliela canti?» disse Prince entusiasta, prendendogli la mano. In confronto alla sua quella del padre era quattro volte più grande.

    «Per favore! Ce la suoni?» Paris arricciò le labbra con sprizzante allegria.

    Il signor Jackson li esaminò in silenzio, guardò me – lo specchio di un fantasma – e tra un sospiro e un sorriso rispose: «Perché no?»

    I bambini esplosero in cori di felicità.

    Accompagnarono il padre al pianoforte e soltanto allora mi accorsi di una cosa che non avevo notato prima: il signor Jackson si atteggiava come se fosse molto stanco, appesantito, e il suo sguardo diveniva vacuo non appena i suoi figli distoglievano lo sguardo da lui. C’era qualcosa che non andava – lo si vedeva chiaramente, o almeno io lo vedevo molto bene – ma siccome non erano fatti miei cercai di trattenermi e non domandarmi altro.

    Questo si lasciò trascinare. Poi, con aria affaticata, pur celata agli occhi di Paris e Prince, si sedette sullo sgabello e lasciò un posticino a ciascuno dei suoi bimbi, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra.

    Mi alzai in piedi e mi avvicinai al pianoforte, pur mantenendomi a distanza. Michael Jackson mi scoccò un’occhiata obliqua, attraversandomi con lo sguardo fin dentro le mie interiora, e stranamente non feci nulla per distogliere il mio. Mi analizzò da capo a piedi e, dopo aver posizionato le dita sui tasti bianchi e neri, inspirando forte, per la gioia dei bambini suonò.

    Note soffuse risuonarono dal piano dando vita ad una dolce ma scandita melodia. Subito venni immersa da un profondo senso di pace e le mie orecchie, sempre ben attente, si lasciarono trasportare dalla musica, in attesa che la voce di Jackson fuoriuscisse dalle sue labbra e si elevasse nell'ambiente circostante.

    «We pray for our fathers, pray for our mothers, wishing our families well... we sing songs for the wishing, of those who are kissing, but not for the missing... so this one’s for all the lost children».

    Le sue parole, chiare e limpide come l’acqua, inondarono la stanza e il petto. Me ne stavo in piedi, a braccia conserte, silenziosa ma interessata. Colsi la tenerezza della sua voce, una soavità che non credevo di aver mai udito prima d’allora. Mi venne la pelle d’oca.

    Al ritornello i suoi bambini si aggiunsero in coro, dando ancora più grazia alla canzone, più di quanto non lo fosse già di per sé. Stetti ad ammirare Jackson e i figli cantare in completa sintonia, immersi nel mistico incanto che era il loro legame.

    Michael Jackson guardava i suoi bambini con amore innaturale, dimostrandosi uno dei padri più dolci e affettuosi che avessi mai visto. Prince e Paris guardavano insistentemente le mani del loro papà, alcune volte sorridendo e altre adagiando la testolina sulle sue braccia.

    «Home with their fathers, snug close and warm, loving their mothers... I see the door simply wide open... but no one can find thee...»

    Quando cantò quella strofa i brividi si fecero ancora più intensi. Dalla parte più bassa della schiena fino al capo. La voce di Jackson, dapprima morbida e vellutata, divenne più dolorosa e sentita... quasi roca. Sentii i miei occhi farsi lucidi e non solo per l’immenso amore che regnava tra padre e figli. Il magone che Michael Jackson aveva trasmesso, aggiunto al significato solidale e al contempo triste della canzone, mi strinse il cuore.

    E di nuovo il ritornello.

    Michael Jackson, che fino a quel momento era rimasto concentrato sui suoi bambini, sul pianoforte e sulla melodia, sollevò il mento in mia direzione. Non mi accorsi subito che mi stava fissando, perché i miei occhi erano puntati sulle sue grandi mani e sui tasti dove si poggiavano. Mi sentivo svuotata, incapace di pensare a qualcosa di concreto.

    Quando mi accorsi dei suoi occhi su di me gli sorrisi lievemente, incrinando le labbra in una felicità stirata, e lui ricambiò allo stesso modo, arrossendo un po’ sulle pallide guance. Grazie al cielo non ero l’unica che soffriva di attacchi di timidezza acuta.

    Poco dopo la melodia si spense con leggerezza, cullando la mia mente nel nulla. Non un “nulla” triste, ma un “nulla” pacifico. Mi ritrovai ad essere io la bambina sperduta della canzone, smarrita in una musica senza tempo. Davanti a me vi era un padre che abbracciava forte i suoi figli, con gli occhi scuri velati da lacrime invisibili.




    1 Diversamente dall’Italia, i bambini americani iniziano la scuola elementare un anno prima degli alunni delle nostre scuole. Così ho letto :P



    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:10
  9. .
    Capitolo Due: Il Colloquio

    Che grande figura di merda. Lo sapevo che sarebbe finita così.

    Mi ero preparata come si deve per un colloquio senza figuracce e alla prima occasione sbagliavo a causa di un dettaglio a cui non avevo dato peso: il mio forse-futuro capo era Michael Jackson.

    Che gioia sarebbe stata scoprire che il vostro datore di lavoro era famoso in tutto il mondo o il vostro idolo! Io, invece, desideravo scomparire dalla faccia della Terra e lasciarmi indietro quella grande entrata in scena che soltanto io avrei potuto fare.

    Al contrario di me, che continuavo a darmi dell'idiota mentalmente, il signore che mi stava di fronte era partito a ridere come un pazzo.

    Mi aveva guardato seriamente – forse pensando che gli stessi mentendo, o che avessi un qualche grosso problema mentale –, le mie guance si erano tinte di rosso scarlatto e Jackson si era messo a sghignazzare rumorosamente davanti alla mia espressione esterrefatta. Aveva unito le mani e se le era posate sul petto, molleggiando avanti e indietro con lentezza, guardandomi come se avesse appena visto la cosa più buffa della sua vita. Perfino il suo bodyguard, rigido come un palo, lo aveva adocchiato perplesso.

    Il viso era un palloncino rosso, i miei occhi strabuzzati e la voce svanita totalmente.

    Una cosa mi colpì a discapito di tutto: aveva davvero una bella risata. Strana, è vero, e anche piuttosto acuta. Molto simile alla risata di una mia nonna, quella defunta.

    Non sto facendo la sarcastica o la macabra, quella di mia nonna Angela era davvero una risata contagiosa! Sentire quella di Michael Jackson mi avrebbe fatto morire, se la condizione del momento fosse stata molto meno professionale.

    «Oh Dio», si ricompose con uno o due colpetti di tosse. Udii i suoi bambini mormorare fra loro, curiosi e ignari del perché loro padre stesse ridendo così tanto. «Davvero strano che tu non sappia chi sono... davvero...», il suo sguardo si fece cupo. Un attimo di pausa e continuò bagnandosi le labbra. «Comunque, prego!», mi dette cenno di avanzare verso il divano.

    Usava un tono molto confidenziale, quasi fossi una vecchia amica che si fa risentire dopo anni e anni di lontananza. Forse si era sciolto a causa della mia figuraccia, forse era così di natura: fatto stava che mi sentivo nervosa da morire.

    Anche se convinta che un clima più amichevole sarebbe stata la cosa migliore per tutti, mi sentivo fredda come il ghiaccio.

    Ci accomodammo insieme, uno di fronte all’altra. Il bimbo era seduto alla destra del padre; aveva due occhi scuri quasi come quelli del genitore, aria scrutatrice e intensa, severa addirittura. La bambina aveva grandissimi occhi azzurro/verde, anch'essi molto profondi e osservatori, labbra sottili e nasetto perfetto. Sedeva alla parte opposta del fratello. Pensai subito che fosse una bimba bellissima, intelligente e dal carattere furbetto.

    Sorrisi a entrambi e loro ricambiarono con discrezione. Dedussi che non fossero molto grandi, forse sui sei o sette anni.

    «Ti presento i miei figli», il signor Jackson mi sorrise delicato. «Lui è Prince, ha sei anni e ha iniziato la seconda classe. Invece lei è Paris, ha cinque anni e frequenta il primo anno. Salutate la signorina Morris», lì invitò.

    «Buongiorno signorina Morris».

    Paris mostrò i denti apertamente. Sembrava che non vedesse l’ora fare amicizia. Prince, invece, si dondolava avanti e indietro con fare un po’ annoiato.

    «Papà», chiese la piccola. «Possiamo fare qualche domanda alla signorina?»

    Dovevano essere stati educati molto bene. La cosa mi lasciò stupita, erano pochi i bambini che chiedevano ai loro genitori di fare qualcosa in quel modo così docile e gentile. Era perfettamente conscia della situazione in cui si trovava.

    «Se la signorina Morris vuole, certo che puoi», mi scrutò intensamente.

    Ricambiai lo sguardo e riposi gli occhi sulla bimba nel giro di mezzo secondo, la quale mi analizzava con espressiva trepidanza.

    «Puoi farmene quante ne vuoi», le feci un timido occhiolino.

    I bambini hanno una caratteristica molto particolare: sono in grado di farti domande schiette e sincere, richieste capaci di stupire la persona che si trova davanti; i bambini non formulano le loro frasi valutando pro e contro, non sempre; loro chiedono, ignari e innocenti, e si aspettano soltanto una risposta altrettanto sincera.

    Paris si sistemò più comodamente sul divano, sporgendosi in avanti.

    «Come ti chiami, signorina Morris?».

    «Puoi chiamarmi Sarah, Paris».

    «Grazie», gongolò imbarazzata, «e quanti anni hai?»

    Ridacchiai notando l’espressione del padre che la puntava titubante.

    «Ne ho 28».

    Ignorai la reazione del signor Jackson, improvvisamente incuriosito e puntato sulla sottoscritta

    «Davvero?», Paris sollevò le sopracciglia. «E quando compi gli anni?»

    «Il 25 gennaio, e tu?».

    «Il 3 aprile». Poi guardò il fratello e successivamente il papà. «Invece Prince il 13 febbraio, mentre papà il 29 agosto...»

    «Davvero?».

    Durante le chiacchiere con Paris, notai che Prince non aveva un carattere molto aperto con gli estranei. Era evidente che preferisse e amasse ascoltare. Probabilmente il suo era un carattere inizialmente introverso.

    «E da dove vieni?».

    «Sono di origini italoamericane. Adesso abito a Los Angeles, proprio nelle vicinanze dei bambini a cui insegno».

    «Quindi se diventerai la nostra maestra vivrai a Neverland con noi?»

    Non capii il riferimento a Neverland – l’Isola che non c’è – ma poi realizzai. I conti tornavano vista la scritta all’entrata del maestoso ranch. Non seppi che risponderle, perciò dissi la verità senza tanti giri di parole.

    «In realtà io e il vostro papà dobbiamo ancora parlarne» e formulai la frase al plurale per coinvolgere Prince.

    Paris fissò il signor Jackson eloquentemente. Lui la studiò di rimando e, accorgendosi del mio sguardo fisso sul suo viso, si affrettò a rispondere.

    «Paris, Prince, credo sia meglio che andiate» disse posando le grandi mani sulle loro spalle minute. «Io e la signorina Morris dobbiamo discutere di tante cose, fra queste anche dove vivrebbe se gli accordi venissero presi. Più avanti le farete tutte le domande che vorrete, ok?».

    I bimbi annuirono e si alzarono in un batter d'occhio; si avvicinarono, mi salutarono con le loro ditina sottili e si volatizzarono accompagnati dalla guardia del corpo.

    Osservai la popstar seguire i figli con gli occhi, fino a quando entrambi non scomparvero dalla sua vista. Traboccava di adorazione per quelle due creature.

    Mi squadrò e attese circa tre o quattro secondi prima di spiccicare parola. Ciò nonostante non distolsi l'attenzione; capii che più mi stava lontano, più riuscivo a guardarlo in faccia senza dover mirare altrove.

    Strano, vero? Eppure standogli vicino percepivo tensione. Non per timore o ribrezzo, ma per quella stupida sensazione di sentirmi messa a nudo.

    «Sono felice che tu abbia accettato di venir qui, per discutere del posto che ti vorrei offrire», disse umettandosi il labbro inferiore.

    Esaminai con vigile cura ogni sua mossa. Era fin troppo confidenziale per un primo colloquio di lavoro, per i miei gusti. Che mi stesse testando?

    Abbozzò una risata. «In effetti, uhm... mi stupisce che tu non sappia chi sono», si accigliò aspettando spiegazioni.

    Esalai un sospiro divertito. Chinai gli occhi per un secondo. «Liza Burton, la mia datrice di lavoro, non mi ha accennato alla sua vera identità. Mi ha detto che la proposta arrivava da un certo signor Jackson, ma non credevo fosse... Lei», borbottai gesticolando.

    «Ma non mi hai nemmeno riconosciuto quando ti ho detto che sono Michael Jackson», continuò arcuando un sopracciglio rispetto all'altro.

    Ne ero certa, mi stava facendo domande per capire se la mia reazione di poco prima era stata onesta o recitata.

    «Io sono una persona un po’ fuori dal mondo», dissi con risatina ironica ma sincera. «So poco e niente del mondo dello spettacolo. Non guardo spesso la Tv e non compro giornali, non quelli scandalistici. Mi ricordo di Lei dagli anni 80 e 90, perché era l'idolo delle masse e perché piacevano alcune sue canzoni, ma non sono mai stata una fan».

    Il mio discorso era stato così schietto che, finito di parlare, mi chiesi se non fossi stata un po' brutale. Poteva sembrare che parlassi così perché irritata dal tuo tono indagatore, ma in realtà ero solo molto diretta. Non ero tipo da mentire, non ero affatto brava in quello.

    Mi affrettai ad addolcire il tono della conversazione.

    «Mentirle non sarebbe un atto saggio. Teme che le stia mentendo, per questo credo che essere onesta sia la cosa più sensata da fare. Io...»

    Stavo parlando a vanvera. A Michael Jackson non interessavano le mie ipotesi e constatazioni, perché mi stavo trasformando in un vecchio giradischi?

    Egli mi fissò accuratamente. Teneva una gamba accavallata sull’altra e il braccio opposto disteso sopra di essa, schiena aderente alla poltrona in posizione rilassata. Mi fissava imperturbabile. Forse per quello mi sentivo così nervosa.

    Stava riflettendo sulle mie parole.

    Più qualcuno dubitava di me, più io dovevo spiegarmi – e questo non era sempre una buona cosa.

    Sorrise e si accigliò. «Sei un po’ permalosa, vero?»

    Avvampai, ma non fui in grado di dire nulla a mia discolpa. Lui ridacchiò ed io mi feci ancora più piccola.

    «Non è solo questo...», ribadii. «Ci tengo a dire la verità».

    Il signor Jackson smise di sghignazzare e mi scrutò socchiudendo gli occhi, mantenendo un sorriso quasi invisibile. «Ti credo. Purtroppo devo stare attento a chi ho di fronte, soprattutto quando si parla di affidare i miei figli a qualcuno».

    Questa volta lo guardai comprensiva. Doveva essere un padre molto protettivo e sicuramente doveva aver ricevuto parecchie batoste nella vita per assumere un’espressione così triste.

    «Non credere che non mi sia informato sul tuo conto. Liza afferma che tu sia meritevole di fiducia e lei è mia amica, figlia di una delle vere e poche donne che mi sono state accanto nella vita. Liz Taylor, sua madre, è stata una compagna di giochi e una persona fedele, pronta a testimoniare la mia innocenza in qualsiasi occasione...»

    Non capii molto dell'ultima frase ed infatti si fermò ad osservare il mio cipiglio dubbioso.

    Rise senza divertimento e mi lanciò un’occhiata sconsolata. «Scommetto che non sai neanche delle accuse sul mio conto...»

    Dissentii percependo un senso di angoscia nelle vene.

    Sollevò un sopracciglio. «Per il mondo io sono un pedofilo».

    Silenzio tombale.

    Ogni mio pensiero si annullò momentaneamente.

    Aspettai che continuasse. Chinò lo sguardo e riprese.

    «Alcuni anni fa sono stato accusato di essere un molestatore di bambini. Dopo dieci anni, un altro bambino si è presentato al mondo ribadendo che lo sono. Ora... vuoi chiedimi se sono una persona così?», mi domandò fissandomi e bagnandosi la bocca, soffocando emozioni che non potei comprendere.

    Aveva la tempesta negli occhi.

    Senza aver ben compreso in che cavolo di situazione mi fossi cacciata, glielo chiesi. La mia voce era titubante. Temevo che la risposta potesse essere affermativa, ma non credevo che avrebbe confessato il vero se mai lo fosse stato.

    «No, certo che non lo sono!», esclamò in tono esausto, scuotendo il capo veemente. Si stava contenendo; parlare di quel fatto lo nuoceva più di quanto cercasse di nascondere. Gesticolò visibilmente. «Le persone si divertono a dirlo da una vita! Vogliono i miei soldi... vogliono rendermi un mostro di fronte a tutti. Mi hanno perseguitato per anni ed è probabile che mi troverò ad affrontare un processo che mi metterà in seria difficoltà. Se la verità non verrà fuori, finirò in prigione... non rivedrò mai più i miei figli», le parole si spezzarono in gola.

    Un senso di pesantezza mi puntigliò la testa. Di primo acchito pensai che stesse soffrendo veramente; anche se il dubbio c’era ancora, palesemente direi, in quel momento non fu difficile concedergli il beneficio dell'incertezza.

    «Non voglio che le persone mi procurino altro dolore, soprattutto non voglio che facciano del male ai miei figli. Che mi uccidano, che mi impicchino o che mi picchino fino alla morte, ma loro non si toccano», disse premendosi il palmo della mano destra sul cuore, guardandomi con intensità sbalorditiva.

    La mia attenzione non morì un istante.

    «Perciò perdonami» continuò dopo qualche secondo di silenzio, calmandosi. «Mi dispiace se ti ho offeso in qualche modo. Non è facile credere a uno che è accusato di pedofilia, ma neanche per me dev’esserlo fidarmi di te».

    Non lo guardai. Meditai adocchiando le mie dita allacciate in grembo.

    «In realtà non so cosa pensare...». Alzai la testa. «Non credo che sia così falso da mentire su un reato come questo, ma di persone bugiarde ce ne sono tante. Non mi sento di giudicarla, non ora, e Lei ha ragione: la fiducia la si acquisisce solo vivendo. Nel caso in cui decidessi di non accettare questo lavoro e io diffidassi di lei, come lei di me, le nostre strade si divideranno così come si sono incrociate. Non sono persona che usa la stampa per diffamare, anche perché non saprei comunque a chi rivolgermi, visto la mia scarsa attenzione verso di loro».

    Sorrise mesto, lasciando per un attimo il rancore alle spalle. Feci lo stesso.

    Batté i palmi sulle ginocchia distese. «Il suo curriculum! Me ne stavo dimenticando».

    «Oh, non si preoccupi», proruppi prima che si alzasse.

    Presi quel dannato insieme di fogli dalla borsa al mio fianco. Glieli consegnai con mano ferma. Li guardò. Mi fissò confuso.

    «Questo non è il curriculum».

    Mi sentii male.

    Il signor Jackson si mise a ridere. Michael Jackson sghignazzò sotto il mio sguardo attonito.

    «Scherzo, non ti preoccupare...», negò con il capo e lesse il CV, serio ma con quel che rimaneva di un sorrisino soddisfatto.

    Internamente tirai un sospiro di sollievo.

    Sembrò che il tempo non passasse mai. Lo osservai a lungo, trattenendo uno spasmo divertito; sicuramente portava gli occhiali da vista, perché teneva i fogli fin troppo distanti dagli occhi e li strizzava come un pazzo. Quando tornò a me, mi passò in rassegna con un’altra occhiata esaminatrice. Il colloquio vero e proprio era iniziato.

    Si umettò il labbro inferiore abbassando gli occhi scuri sul curriculum. «Disponi di una laurea in lettere con il massimo dei voti e qualche specializzazione in fatto di psicologia infantile e linguistica. Hai detto che sei italoamericana?»

    «Sì, esatto. Sono qui da quasi undici anni, ma sono nata e cresciuta in Italia. Ho frequentato la Harvard, il corso per diventare insegnante, e nel mentre ho seguito altri corsi e master di breve durata».

    «Mmh-mmh...» annuì meditabondo, «non mi meraviglio del perchè Liza ti abbia scelto. Hai ottenuto il massimo dei voti in tutte le materie? Comprese quelle in cui non eri specializzata?»

    «Sì, tutte».

    Mi puntò. «Parlami dei lavori che hai svolto».

    Gli spiegai tutto per filo e per segno, compresi la gavetta fatta per riuscire a pagare almeno una parte della retta universitaria e non dipendere completamente dai miei zii e dai miei genitori. Dettagli noiosi sicuramente, ma di certo non il modo in cui mi studiava. Non riuscivo a fissarlo per più di un minuto senza rischiare di perdere la concentrazione. Era terribile sentirsi continuamente sotto osservazione, non avere il libero controllo delle proprie azioni, ed era una cosa che non mi capitava più tanto spesso.

    Finito il discorso sulla mia istruzione e sul lavoro, passò a chiedermi cose decisamente inaspettate: gli argomenti di psicologia che preferivo, domande di cultura generale. Cercava di capire i miei gusti e il mio livello di conoscenza. Mi fece anche domande apparentemente difficili, ma molto specifiche; era interessato in particolar modo alla storia antica e alla pedagogia.

    Scrutò il curriculum un'ultima volta e lambendosi la bocca me lo riporse.

    «Pensi di essere in grado di istruire i miei figli?».

    Un attimo di silenzio. Sbattei le ciglia lentamente. Il signor Jackson attese paziente la mia risposta, cosa che avvenne solo cinque secondi più tardi, mentre io cercavo le parole adatte per una domanda superficialmente scontata. Di certo non si poteva dire che fosse una persona priva di intelligenza.

    «Non posso essere sicura di niente» affermai, «posso solo fare del mio meglio. Non mi piace considerarmi un'eccellenza in quello che sono e se un giorno Lei o i suoi bambini vi stancherete dei miei metodi di insegnamento o, uhm... o non ci saranno progressi nell'istruzione dei suoi figli, allora mi riterrò incapace di aiutarli. Fino ad allora non do nulla per scontato».

    La mia voce era quasi un sussurro, ma non per questo titubante. Ero decisamente più distaccata di lui, lo si notava dal tono di voce e dal tipo di approccio che utilizzavo.

    Nessuna risposta. Dopodiché sorrise. Sembrava contento della mia affermazione, perciò trassi un respiro di sollievo interiore.

    «Allora ci vediamo fra due settimane, che ne dici?», chiese con un risolino derivato dalla mia espressione basita. «Non ti dispiace il 24 novembre, vero? Quel giorno scadrà il contratto con il maestro che andrai a sostituire e sarebbe meglio non far perdere loro lezioni». 1

    «Oh no, per me non c’è nessun problema!», esclamai energicamente. In tal modo avrei potuto compilare e consegnare i moduli del licenziamento senza fretta, oltre che cercare un posto più vicino in cui abitare.

    Entrambi ci sollevammo in piedi. Mi venne accanto e mi strinse la mano.

    «Ti farò firmare il contratto il primo giorno di lavoro», disse in tono più soffice.

    Si sciolse la stretta. «Grazie di cuore».

    Mostrò un sorriso delicato. «No, grazie a te».

    Mi adocchiò a lungo. Presi la borsa dal divano con un certo impaccio.

    «Vieni», mi indicò l’uscita dal salotto con un dito. «Ti accompagno».

    «Non serve, davvero. Mi ricordo la strada», dissi senza esitare. «Non c'è bisogno che si disturbi».

    Mi guardò sbigottito, quasi perplesso, ma annuì rispettosamente. Si bagnò per l'ennesima volta la bocca e si dondolò per qualche secondo sulle punte dei piedi come un bimbo. Tutte quelle pause mi mandavano in palla.

    «A presto», dissi interrompendo il silenzio. Mi fissò senza rispondere. Arrossii. «E grazie ancora».

    Chinai la testa in segno di gratitudine e saluto. Mi diressi verso la porta d’uscita e, sotto l'arco che portava al corridoio principale, mi sembrò di averlo sentito parlare. Mi voltai spaesata. Fece un espressione del tipo "Che c’è?" e imbarazzata non seppi cosa dire.

    Mostrò i denti e il suo grande sorriso. E questa volta – lo giuro – lo sentii chiaramente.

    «Arrivederci... signorina Morris».

    Ricambiai chinando il capo una seconda volta e gli diedi le spalle. In un secondo avevo già percorso il corridoio e messo mano sulla maniglia, nell’atto di aprire la porta d'ingresso.

    L’aria fresca sciolse immediatamente ogni muscolo irrigidito e raffreddò il rossore sulle gote. Ero scombussolata. Non ci potevo credere.

    Con la testa fin troppo persa nel vuoto, in pensieri e parole offuscate, mi diressi verso la limousine che mi aspettava distante, dando un'ultima fugace occhiata a quella dimora di favole e fiabe.




    1. Il giorno del colloquio è l’11 novembre 2003. Nella mia testa, viste le accuse di pedofilia su Michael, il precedente insegnante decide di licenziarsi. Questo è il motivo per cui Sarah viene chiamata in quel periodo e non prima. Inoltre, c’è un perché ho scelto il 24 novembre come data di inizio: il 20 novembre Michael venne arrestato (e rilasciato su cauzione) dalla polizia.


    Edited by fallagain - 1/11/2021, 22:05
  10. .
    cover1-nosign-2



    GENERE:
    Introspettivo, Romantico, Drammatico

    DATA DI CREAZIONE:
    08/01/2011

    DATA DI INIZIO RISCRITTURA:
    16/01/2019

    LUNGHEZZA:
    46 Capitoli

    PERIODO:
    Trial Era (2003-2005)

    PERSONAGGI:
    > Michael J. Jackson
    > Nuovo Personaggio (Sarah A. Morris)
    > Prince, Paris & Blanket Jackson
    > Altri personaggi

    COPERTINA:
    Creata dall'autrice ( fallagain )

    RATING:
    Rosso
    Presenza di contenuti non adatti a minori:
    - ampie e dettagliate descrizioni di atti sessuali;
    - contenuti forti e tematiche delicate ( racconto
    ambientato durante un processo per accuse di
    pedofilia, pur non presentando alcuna scena in
    cui venga descritto l'atto di per sé).
    - presenza di parole/linguaggio forte (imprecazioni)






    Capitolo Uno: L'Inizio

    È veramente strano come la vita prenda il suo corso, volente o nolente.

    È la carta su cui ognuno di noi butta giù la propria storia, parola per parola, secondo per secondo. E, nel mentre, non ci si rende quasi mai conto della bellezza che ci si lascia alle spalle.

    In genere, molti riconoscono il suo valore quando si trovano sull’orlo precipizio – la morte – o quando non si può più tornare indietro e rimediare all’irrimediabile. E poi ci sono i saggi, con il loro incredibile modo di vedere le cose, che si rendono conto di tutto sempre ben in tempo. Realizzano quanto la vita sia importante prima che la morte ci tolga la possibilità di amarla incondizionatamente. Questi saggi hanno ricevuto il dono della purezza, pensandosi anche solo fortunati per essere nati.

    E io credo che, ciò nonostante, siamo stati tutti uno di quei famigerati saggi. Lo siamo soprattutto quando siamo innamorati. Allora crediamo che tutto attorno a noi risplenda, che noi stessi - pur non vedendoci - risplendiamo; tutto ci sembra incantevole, perfino l’oscurità che risiede ancora nei cuori pieni di paure. In quel momento siamo vivi.

    La vita è bella quando si ama, quando questo sentimento è parte di ognuno di noi e della nostra quotidianità. Non importa il resto, tutto gira intorno all’amore. La vita si vive con l’amore.

    Mi chiamo Sarah Anne Morris, ma in questa storia mi conoscerete e sentirete parlare di me semplicemente come Sarah Morris, o ancora meglio, come Sarah e basta.

    Non sono affatto una di quelle modelle dal fisico provocante o tonico delle riviste, né una di quelle grandi ‘fiche’ tutta sorrisini e moine; non ho nobili origini e ancor meno talenti eccezionali o particolari che mi rendono speciale e diversa all’apparenza; non sono vergine, non sono alcolizzata né faccio uso di droghe e sigarette. Sono la tipica “insegnante modello”.

    Come già accennato non ho un fisico mingherlino e longilineo, anzi. Ho le gambe tornite e muscolose, la pancetta non propriamente inesistente, tutt'altro, e quei tre/quattro centimetri in più di cui non mi vergogno; ho la vita stretta, seno e fondoschiena ampi e un viso tondeggiante. I miei sono grandi – come il mio sorriso – di un colore verde brillante; le labbra sono carnose, i capelli castano rossiccio – mossi e folti – che al sole brillano di lucenti sfumature ramate.

    Sono nata il 25 gennaio 1975 in Italia, in una sperduta cittadina del Veneto. Nata da madre italiana e padre americano – entrambi benestanti – vissi con loro fino a quando non conseguii il diploma; il giorno in cui finirono i cinque anni di liceo classico non persi l’occasione per partire in America sotto l’ala protettiva dei miei zii, anche se di certo in Italia non mancavano le università per continuare gli studi.

    Una volta negli USA frequentai la Harvard, Boston. Riuscii ad ottenere ottimi voti e prestigio e in poco tempo e a ventisei anni – già parecchio avanti con gli studi –, trovai lavoro come insegnante di letteratura inglese presso una scuola privata non molto distante dalla mia università.

    Dopo nemmeno un anno di lavoro venni a sapere che una donna di mezza età, segretamente informata della mia bravura ed eccellenza accademica, chiedeva il mio contributo per l’educazione privata dei suoi figli adolescenti; quella signora si chiamava Liza Todd Burton, figlia non poco di meno di Elizabeth Taylor – oh sì, avevo sentito moltissimo parlare di lei, data l’ossessione di mia madre per i suoi magnifici occhi pervinca.

    Non incontrai mai Liz Taylor personalmente, se è questo che vi state chiedendo; io ero solo l’istruttrice dei nipoti Quinn e Rhys Tivey, perciò visitavo casa Burton soltanto nei momenti in cui mi era necessario insegnare. Il mio rapporto con quella famiglia era di rispetto, discrezione e privacy - e la cosa mi andava assolutamente bene, non chiedevo di meglio.

    Non durai molto neanche là – pressoché due anni – perché ricevetti una proposta da un certo signor Jackson. La mia stessa datrice di lavoro, la signora Liza, mi chiese se mi sarebbe piaciuto lavorare per un amico della madre, una persona di buon cuore.

    Forse dava per scontato che io avessi intuito di chi si stesse parlando, ma si sbagliava; ingenuamente credevo che si riferisse ad uno di quei VIP ormai sconosciuti, uomini di mezza età abbandonati dai fan dopo il periodo di successo fin troppo breve, con a carico degli adolescenti da tirar su.

    Quando la signora Burton mi offrì quella proposta su un piatto d'argento acconsentii senza mostrarmi titubante. Sembrava che ci tenesse molto a farmi accettare quel lavoro, addirittura pensai che volesse sbarazzarsi di me.


    Soltanto qualche mese più tardi avrei compreso quanto lei sarebbe stata importante per il mio futuro.

    *

    Ed eccomi qualche giorno più tardi, catapultata in una lussuosa limousine e vestita senza troppo sfarzosità, in viaggio verso il famigerato signor Jackson in un mite e soleggiato pomeriggio di Santa Barbara. Le mani congiunte sulle gambe accavallate, lo sguardo puntato al di fuori del finestrino oscurato; nonostante fosse autunno inoltrato, il calore dei raggi non dava l’impressione che l’inverno fosse alle porte.

    La limousine uscì dall’autostrada imboccando un percorso sempre più deserto, un panorama che pian piano si spogliava della sua ricca vegetazione. Si potevano scorgere i rilievi montuosi a distanza, dagli spigoli leggermente sfumati per via di un cielo non completamente terso e pulito.

    Era l’11 novembre 2003 e presto avrei conosciuto il mio forse-nuovo datore di lavoro, con cui avrei discusso dei miei forse-futuri compiti da insegnante.

    Sentivo quel familiare nodo alla gola tipico dei colloqui di lavoro, un misto fra speranza e paura dell’ignoto. I cambiamenti non erano il mio forte, anzi. Inutilmente cercavo di distrarmi ammirando le figure delle auto che passavano veloci dal senso opposto.

    Forse il signor Jackson abita in una casa piuttosto isolata – pensai fra me e me. Magari ama la tranquillità e disprezza la movimentata e caotica LA.

    Qualche chilometro più avanti il deserto aveva già fatto posto ad un panorama differente, un viale stracolmo di alberi dalle chiome giallastre lungo tutto il ciglio della strada; in quelli che a me parvero soltanto pochi minuti - totalmente persa nelle mie ansie e previsioni da colloquio imminente - questo ci guidò direttamente dinanzi a un’enorme recinzione in mattoni rossi, dove l’auto si fermò spegnendo il motore.

    Sobbalzai.

    Mi sporsi verso il finestrino opposto allentando la cintura di sicurezza, per scoprire qualche maggiore dettaglio sulla residenza. Notai immediatamente la statua di bronzo di una bambina con le trecce, pressoché di sei o sette anni, la gamba sinistra alzata in procinto di compiere un salto e le braccia spalancate verso l’alto.

    Mi ritrassi mordicchiando l'interno guancia.

    Era una strana statua, in effetti, così tanto da scatenare uno strano punto interrogativo nella mia testa.

    Ero curiosa come una cavalletta.

    Con due orecchie ritte come antenne e lo sguardo vigile, mi apprestai ad abbassare il finestrino pigiando uno dei tasti sulla maniglia della portiera. Mi bloccai nell'immediato, paralizzata.

    Si avvicinò un uomo basso e con la divisa nera. Pareva fosse in grado di vedermi anche attraverso il vetro oscurato, perché mi lanciò uno sguardo truce. Aveva il viso leggermente incavato e uno sguardo privo di allegria, un walkie talkie appeso alla tasca esterna della tuta e una sigaretta accesa fra le labbra.

    Anche se non poteva vedermi veramente mi sentii bollire le guance. Si rivolse al guidatore ed io accostai l’orecchio al vetro per ascoltare le loro parole con fremente interesse, intossicandomi leggermente con il fumo della sigaretta che entrava dal finestrino del conducente.

    «È la signorina Morris?», chiese l’uomo reggendosi alla portiera con una mano. Lanciò una rapida occhiata verso di me.

    «Sì, è lei».

    Evidentemente gli ospiti non erano ben accetti, perché lo sconosciuto in divisa aveva un tono piuttosto diffidente e cinico. Probabilmente questo signor Jackson non amava la compagnia o i visitatori di alcun genere - o forse si circondava di stronzi al posto di personale educato e cortese.

    «Bene», l'uomo si sistemò il cappellino nero sopra i capelli brizzolati. «Portatela presso la casa del signor Jackson. Ci penseranno le guardie a condurla da lui. Grazie per l’ottimo lavoro, puoi andare!», diede un colpo al cofano e l’autista rimise in moto.

    Sentii un forte boato metallico e capii che l’enorme cancello d'ingresso si stava aprendo. Quando il signore misterioso sparì dalla visuale, il guidatore rimise in moto l'auto e piede all’acceleratore. Ripartì di nuovo, stavolta con molta più calma.

    Non persi l’occasione per tirare giù il finestrino proprio nel momento in cui oltrepassammo il cancello. Solo allora riuscì a scorgere l’insegna in alto, anche se non nel miglior dei modi.

    “Never –" e qualcosa, una scritta a caratteri cubitali color oro.

    Con sguardo perplesso risollevai il finestrino, lasciando una piccolissima fessura per fare entrare l'aria pulita.

    Pensavo che Jackson fosse tutt'altro che un personaggio da prima pagina, perché quella non sembrava affatto la residenza di un attore o di un musicista di poco conto.

    Per quanto impossibile crederci, non seguivo affatto la Tv – il che aveva i suoi pro e contro. Non compravo giornali scandalistici, non amavo il gossip. Informarmi quel poco e giusto sui fatti di attualità nel mondo, quello sì. Ma non leggere i tabloid.

    La mia vita era piuttosto tranquilla rispetto al furore di LA. Ero la tipica ragazza sulle sue che coltivava poche ma buone amicizie, pur senza avere qualcuno a cui tenere particolarmente; inoltre, lavorando per Liza, avevo dovuto abbandonare la compagnia universitaria da molto tempo. Perciò ormai i miei svaghi ruotavano solo attorno a cinema, telefilm e documentari, a qualche passeggiata per parchi o per siti artistici che ritenevo belli e interessanti, al pianoforte e alla lettura un buon libro, magari accompagnata dal rumore delle spiagge di Los Angeles. Insomma, una vera e propria straniera in città più grande di lei.

    L’auto oltrepassò un altro lungo, immenso viale. Le chiome degli alberi si divertivano a giocare con il Sole creando magnifici effetti di luce e ombre. Le colline dai dolci lineamenti cedettero il palcoscenico a un lago, questo decorato da fontane dal getto d'acqua alto e scintillante.

    Sebbene supponessi che il signor Jackson non amasse gli ospiti, dovetti complimentarmi con lui per il maestoso ranch in cui aveva scelto di abitare.

    L’autista si fermò nelle vicinanze di un ponte. Un altro uomo – anch'egli vestito di nero – ci stava raggiungendo.

    Senza aspettare che mi aprisse la portiera scesi; il tizio accelerò il passo. Agganciando la borsa alla spalla destra dedicai un sottile «Grazie» all’autista, il quale annuì soltanto senza rivolgermi lo sguardo. Trattenni uno sbuffo spazientito.

    Il secondo uomo indossava un completo elegante, era piuttosto robusto, scuro di pelle e con capelli cortissimi, quasi del tutto rasati. Gli occhi erano scuri e luminosi, le labbra strette in una linea seria e perfetta. Era un armadio di lui, alto e con le spalle ampissime. Doveva essere sicuramente un bodyguard.

    Quando mi fu accanto mi strinse la mano con decisione (ma neanche la mia stretta fu tanto male).

    «Benvenuta signorina Morris. Prego, mi segua».

    «Grazie...».

    Costui fece retromarcia senza darmi ulteriori attenzioni e spiegazioni ed io lo seguii senza attendere oltre, cercando di stare attenta a dove mettevo i piedi mentre davo un'occhiata furtiva all’ambiente circostante.

    Credevo di essere in una favola. Alla mia sinistra vedevo il lago, lo stesso che avevo scorto dalla limousine, di un intenso color verde smeraldo; alla mia destra un prato attraversato da alcuni viottoli in sassi, costeggiati da rigogliosissimi alberi che non mi permettevano di indagare sulle altre meraviglie nascoste.

    Proseguimmo per il percorso in pietra e alla fine della strada ci trovammo dinanzi ad una casetta di legno e mattoni; era una residenza a due piani, punteggiata da numerose finestre e porte vetrate e costeggiata da giardini ben curati, con incantevoli aiuole dai tantissimi fiori rossi, gialli e lilla.

    Più che una “casetta”, quella era una villa.

    Avrei voluto fermarmi un attimo per osservare il tutto con calma e meraviglia, ma l’omone dinanzi a me non rallentò, neanche per controllare che lo stessi seguendo. Mi guidò alla porta principale e come se niente fosse entrò. Infine si scostò dall’entrata, tenendo la porta spalancata per lasciarmi passare.

    Una volta dentro le prime cose che mi colpirono furono il profumo e l’arredamento semplice ma di classe. Si respirava aria fresca, pulita – una strana essenza di sandalo che si fondeva con l'odore del legno pregiato e antico. Tutto era straordinariamente luminoso a causa dei lampadari di cristallo sopra le nostre teste, il parquet e i mobili erano lustrati come fossero appena comprati.

    Attraversammo un ampio e silenzioso corridoio e ben presto ci trovammo in salotto. Non feci tempo a dare un’occhiata all’arredamento principesco che fui subito attratta da tre persone, due delle quali sedute comodamente su un divano. C'era un uomo vestito in smoking e due bambini, rispettivamente un maschietto biondissimo e una femminuccia dai capelli ondulati e castani; quest'ultimi erano vestiti come due piccoli nobili, completo elegante per lui e abito in tulle per lei. Evidentemente erano loro, il padrone di casa e i figli.

    «Signor Jackson...».

    Mi fermai qualche passo dietro al bodyguard, incapace di muovere un muscolo. Il mio sguardo si puntò sull’uomo ritto in piedi, schiena rivolta verso di noi e testa abbassata sui suoi figli. I piccoli, che dapprima parlavano con fare eccitato al padre, mi guardarono interessati e improvvisamente ammutoliti.

    Anche il signor Jackson si voltò.

    Era un uomo snello, di corporatura magra ma non esagerata, i capelli lisci e neri e un vestito davvero raffinato, degno di un appuntamento di lavoro importante (e io che indossavo solo pantaloni neri e una camicetta bianca da quattro soldi). Il portamento era eretto e maestoso, le sopracciglia leggermente inarcate per la sorpresa. Indossava un paio di occhiali da sole che impedivano la vista sui suoi occhi.

    Lo percepivo scrutarmi con intensità ed io non fui da meno. Gli feci un rapido check-up, dal busto ai capelli, interrompendomi volutamente sul viso. Questo sorrise delicatamente.

    Credevo che fosse un uomo più anziano, più serio, e soprattutto più severo. Invece la sua espressione era tranquilla, non era affatto come me lo ero immaginato.

    Fu lui che mi venne vicino a gran falcate.

    Aveva un colorito piuttosto pallido e rosato, con delle labbra molto belle e marcate. Il naso era piuttosto fine e aveva una fossetta sul mento molto profonda. La pelle era perfettamente liscia, segno che si era fatto da poco la barba. Ed era alto pure lui, molto più di quanto avevo dedotto scorgendolo da lontano!

    Potei guardarlo negli occhi soltanto quando, lungo il tragitto dal divano all’entrata del salotto, si fu tolto gli occhiali. Li appese fra i bottoni della camicia e, con espressione serena ma interessata, si pose a neanche un metro dalla sottoscritta.

    Soltanto allora li potei osservare. Erano grandi, profondi e scuri. Quegli occhi erano luminosi. Li sentivo scavare dentro le profondità della mia anima quasi fossero in grado di spogliarmi dei miei vestiti.

    Forse fu il contatto diretto, forse la vicinanza, o forse quello stupido senso di nudità che sentivo, ma mi irrigidii sul posto. Cercai di essere il più naturale possibile anche quando mi porse la mano.

    «Piacere di conoscerla, il mio nome è Michael Jackson», disse vellutato ma deciso.

    Non smise di fissarmi neanche un secondo, nemmeno quando abbassai gli occhi arrossendo.

    Evitai di scoppiare a ridergli in faccia per la sua battuta. Era anche divertente, glielo dovevo concedere!

    Non che io mi ricordassi bene come fosse Michael Jackson, ecco. Come già detto non ero a conoscenza delle ultime news riguardo le superstar. Conoscevo alcune sue canzoni molto belle, ma l’ultima volta che lo avevo visto chiaramente era - se non erravo - in qualche spot o video musicale degli anni 90.

    «Che c’è...?», chiese mostrando i denti.

    Non solo aveva dei bellissimi occhi, ma anche un sorriso talmente grande che pareva arrivare da un orecchio all’altro. Non era affatto male pur non essendo il mio tipo ideale; aveva il tipico fascino da uomo maturo che piaceva tanto a me, ma non lo vedevo come uomo dei miei sogni.

    Tuttavia non era così sveglio da capire che avevo inteso il suo gioco di parole. Era evidente che stesse dicendo che era Michael Jackson per via del cognome uguale a quello della star mondiale, non ero così scema!

    O almeno così credevo.

    Risi leggermente. «Lei è Michael Jackson?», issai di poco le sopracciglia.

    Lui divenne serio, aggrottò la fronte e strinse la bocca con fare confuso. Il mio sorriso scomparve ogni secondo in cui la sua serietà diveniva maggiore. Mi chiesi se si fosse offeso per la mia risatina ironica o se invece fossi stata io ad aver detto o pensato a qualcosa di sbagliato.

    Un attimo dopo e scoppiò a ridere. Una risata cristallina e innocente.

    «Be’, ...», disse toccandosi la fossetta sul mento con pollice e indice. Era quasi imbarazzato, ma non riuscivo a capire il perché. Incatenò il suo sguardo al mio. «Io sono Michael Jackson, e non sto scherzando».

    Se dapprima sghignazzavo pensando che il signor Jackson possedesse un gran senso dell’umorismo – e anche un po’ di ingenuità – in quell'istante capii di essere io la vera cretina di turno.

    Chissà come mai, tutt’un tratto, non dubitai delle sue parole.

    C’era una frase che volteggiava ad alta voce nella mia testa e che non la smetteva di prendermi in giro. E quella frase era: «Brava, Sarah, complimenti per la tua prima, meravigliosa figura di merda».




    Edited by fallagain - 1/4/2021, 21:51
  11. .
  12. .
    Don't Wanna Go Home - Jason DeRulo
  13. .
    19.40
  14. .
    Costruire
  15. .
    0.33
1570 replies since 6/1/2008
.