Posts written by fallagain

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    Capitolo Diciasette: Lo Scambio

    Guarda, impara, ama.

    Osservai il biglietto di carta bianca sottile, la sua calligrafia disordinata e quelle lettere poco calcate, diversamente da come usavo fare io ogni qualvolta scrivessi. Per quanto ci ragionassi su il messaggio era semplice, chiaro e limpido come l'acqua; niente significati sottintesi, solo tre parole.

    «Cosa c'è scritto?», Prince mi saltò in braccio.

    «Vuoi leggere?», gli porsi il biglietto con un sorriso.

    Paris si sporse per vedere meglio. Il fratello maggiore contorse il viso in una smorfia concentrata.

    «C'è scritto... guarda, impara e ama...»

    Annuii. Mi fissarono ridendo.

    «Guarda, impara, ama!» urlarono.

    «Perché gioite così tanto?».

    Michael, osservato a distanza dalle sue guardie del corpo, si incamminò verso l'interno del salotto.

    Era vestito con pantaloni di velluto nero e una camicia altrettanto sfarzosa, verde e ricamata d'oro, proprio in perfetto stile natalizio. I capelli erano lisci e neri come al solito, lunghi fino alle spalle, e non era truccato se non per il solito accenno di fondotinta che aveva. Era più bello quando puntava sull'"acqua e sapone".

    Avanzò così sicuro e tranquillo che attrasse subito il mio sguardo interrogatorio. Michael non lasciò trasparire alcun segno di timidezza o imbarazzo; mi scoccò un'occhiata fulminea e impenetrabile, per poi scivolare amabilmente sui figli. In braccio teneva Blanket, anche lui vestito di tutto punto: indossava il completo che gli avevo regalato io.

    Aveva un'espressione serena, gli zigomi un po' induriti che designavano un sorriso beffardo.

    Le guardie del corpo, immobili e serene, mantennero la distanza dal nostro quadretto.

    «Babbo Natale ha regalato qualcosa a Sarah! Guarda, papà!» Paris gli corse incontro.

    Quest'ultimo venne trascinato dalla piccola al mio fianco, piegò il busto in avanti e abbassò la testa proprio sopra la mia. Tenevo il piccolo elefantino fra le mani, biglietto compreso, ed egli guardò il tutto con finta meraviglia. Lo squadrai e Michael non fece una piega. La tranquillità che il suo corpo emanava era intensa e continua.

    «Direi che è veramente bello», sussurrò bagnandosi le labbra. «C'è anche un biglietto di Babbo Natale, no?», mi puntò.

    Sì, certo, un Babbo Natale con capelli neri, occhi scuri, senza barba, renne e slitta. Riuscivo anche ad immaginarlo scendere giù dal camino.

    Annuii.

    Ci guardammo e soffocammo una risata complice.

    *

    La mattina di Natale proseguì con risate e giochi da tavolo. Una guardia del corpo filmava ogni cosa, per cui tentai di fronteggiare la telecamera il meno possibile e, per ovvietà di cose, evitai di giocare. I bambini non si preoccupavano più di tanto se volessi unirmi a loro o meno; al contrario Michael mi lanciava sguardi incomprensibili, possibilmente quando apparivo distratta.

    Pranzammo con numerose pietanze. Feci anche amicizia con una delle due guardie, il più anziano e con l’espressione più dura, scoprendo che in realtà era più allegro di quanto apparisse. Michael non mi mollava quasi mai, occhi cioccolato fondente fissi sulla mia figura.

    Nel pomeriggio i bambini testarono i regali di Natale e colsi l'occasione per mettere Blanket a dormire, sulla culla a rotelle situata appositamente in salotto per quell'occasione speciale, in modo tale da non lasciarlo da solo in camera dei fratelli.

    Era bello vedere Neverland in clima natalizio, soprattutto scorgere la felicità di quella famiglia. I bambini erano scintille di gioia multicolore e Michael li osservava con orgoglio.

    In quel preciso istante ebbi un'idea.

    Avvisai Michael che mi sarei ritirata per fare gli auguri alla mia famiglia. Non sospettò nulla, per mia fortuna.

    Quando mi recai al piano terra, soltanto una decina di minuti più tardi, nessuno scorse la verità attraverso la mia espressione da finta tonta.

    *

    «Sarah, vuoi vedere il nostro spettacolo?», Prince e Paris si alzarono da terra con un balzo.

    «Fate uno spettacolo?».

    Lanciai un'occhiata fuggevole a Michael. Sghignazzava con una mano sul mento, seduto sul divano a gambe aperte e oscillanti. Non riusciva proprio a stare fermo sul posto.

    Come un automa mi sedetti accanto a lui.

    «Sì, balliamo e cantiamo! Ci ha insegnato papà!».

    «Oh, allora sì che voglio vedere!», rivolsi un'occhiata eloquente a tutti i membri.

    Michael mi squadrò con aria divertita.

    I due chiesero alle guardie di accendere la musica, insistendo con un brusco cenno di mano per il quale furono ripresi dal padre. Li avvertì di non dimenticarsi mai di dire "Per favore" e "Grazie".

    La musica si alzò nell'aria. Molleggiarono sul posto seguendo un ritmo natalizio, ondeggiando a destra e a sinistra: era una di quelle tipiche canzoni che si cantano a Natale, come "Gesù bambino" o "Stella del Ciel". Gesticolavano le parole delle canzoni alzando le braccia sopra le loro teste, o scuotendole dietro alla schiena per fingere di avere le ali; inoltre canticchiavano, Prince molto energico e Paris concentrata rispetto al fratello scatenato.

    Risi di cuore, seguita a ruota da Michael. Un bodyguard riprendeva tutto con un gran riso sulle labbra, l'altro sogghignava seduto su una poltrona appartata.

    A volte – in momenti come quelli – sentivo la mancanza della mia infanzia, ma soprattutto della mia famiglia.

    A fine concerto tutti scoppiarono in un fragoroso applauso, guardie del corpo comprese. Con un sorriso a trentadue denti i bimbi si inchinarono ed accorsero sul divano, saltandoci sopra e abbracciando il padre. Lasciai loro lo spazio per intrufolarsi e Prince, inaspettatamente, si lasciò cadere sulle mie ginocchia.

    Paris si voltò verso la sottoscritta, braccia strette al collo di Michael e occhi furbetti. «Ci canti una canzone, Sarah?»

    Impallidii. Michael mi lanciò uno sguardo di sfida.

    Ma anche no.

    «No, Paris. Io non so cantare», mi strinsi nelle spalle.

    «Non è vero! A lezione canti sempre!», disse Prince. Le guance bollirono e Michael issó un sopracciglio con fare provocatorio e sorpreso. «Per favoreee!»

    Sospirai e guardai la Tv picchiettando le unghie sulle cosce. Mi mordicchiai un labbro.

    Gli occhi scivolarono sulla telecamera stretta fra le mani del bodyguard ed ebbi un'illuminazione, la seconda di quel giorno. Quell'idea mi avrebbe portato direttamente sotto terra dalla vergogna, ma poteva funzionare.

    Sfoderai un sorriso raggiante.

    «Non canterò per voi, ma posso farvi vedere una cosa carina: una piccola me all'età di quattro anni».

    Michael raddrizzò le antenne.

    «Ho una cassetta di ricordi d'infanzia dove, con molto ardore», sottolineai l’ultima parola avvampando, «canto i Queen con il mio papà. Sapete, era così pazzo di loro che trasmise quell'amore anche a me! Può andare come compromesso?», incrociai le dita.

    Tra gli oggetti-ricordo che portavo sempre con me c'erano due videocassette. Una racchiudeva i momenti speciali di quando avevo 2-5 anni, un'altra quelli del college. Le tenevo custodite gelosamente, così tanto che per non rovinarle le guardavo assai di rado. L'ultima volta che avevo visto la cassetta datata 1977-1980 era stato circa 2 o 3 anni prima.

    I bambini si mostrarono interessati. Non completamente soddisfatti, ma incuriositi. Michael non vedeva l'ora ovviamente; mi donò un altro di quegli sguardi profondi che era tutto dire, passandosi la lingua sulle labbra.

    «Direi che possiamo cominciare subito, no?»

    Si rivolse a me, poi a Prince, a Paris e infine alle guardie del corpo. Quest'ultime erano presenze taciturne, ma ascoltavano tutto o rispondevano con qualche breve battuta. A volte non sapevo neanche che fossero lì con noi.

    I bambini mi incitarono a prendere la cassetta, perciò mi alzai e mi diressi in camera per la seconda volta. Quando li raggiunsi avevano già acceso la Tv e il videoregistratore. Mi osservavano impazienti e immobili come soldatini.

    Sicuramente sarei morta per l'imbarazzo. Eppure, se ciò mi avesse permesso di non cantare davanti a Michael Jackson, quella sarebbe stata una condanna più che sopportabile.

    Prince e Paris se ne stavano abbracciati al loro papà, tutti e tre nella stessa posizione in cui li avevo lasciati. Le guardie del corpo tenevano la distanza, una seduta sulla poltrona e l’altra sul poggiolo di questa.

    «Daiii, guardiamola!», Prince mi obbligò a far veloce.

    Per tutto il tempo speso ad inserire la cassetta nel videoregistratore e ritornare sul divano, lo sguardo di Michael era un mattone sulla mia testa. Inutile dire che stavo arrossendo come non mai.

    Mi rintanai in un angolino isolato del divano, giusto per morire di vergogna in solitudine. Prince mi passò il telecomando e con l'approvazione del padre presi le redini del televisore.

    «Se non ricordo male la cassetta dovrebbe iniziare con me che canto. Non vedo questo video da anni, credo». Quando si udì il leggero "toc" del registratore capii che il nastro era tornato indietro del tutto. Espirai rumorosamente, il cuore che batteva fortissimo dall'emozione. «Ci sarà da ridere».

    «Assolutamente», sussurrò Michael.

    Lo fissai e vidi che scrutava intensamente lo schermo. Le sue gambe scalpitavano.

    Cliccai "Play" e sorrisi imbarazzata.

    Un rumore sordo e immagini sfuocate. Un tappeto elegante. Poi una voce femminile.

    «Siamo pronti?»

    Era mia madre. Stava sistemando lo zoom della telecamera e mirava il pavimento. Poco dopo puntò un pianoforte e con esso un uomo e una bambina, entrambi seduti sullo sgabello rettangolare di fronte allo strumento.
    Si trovavano in un salotto enorme: ricordava molto una villa in stile settecentesco e strabordava di spirito natalizio. La qualità delle immagini era quella che era, ma sicuramente molto meglio di quanto ricordassi.

    L'uomo – mio padre – borbottò qualcosa sul come tenere meglio la telecamera, gesticolando veemente. Era un uomo alto, leggermente in carne, con capigliatura e barba folta brizzolata. Indossava occhiali da vista dalla montatura nocciola. I suoi occhi erano scuri - diversamente da quelli della bimba - e pareva un uomo dall'aspetto bonario, anche se tutto d'un pezzo.

    In parte a lui c'era una bambina di 4 anni dai capelli lunghi e mossi; la frangetta perfetta le incorniciava il visino tondeggiante e i suoi occhi erano grandi e verdi. Era minuta, silenziosa, e vestiva una tutina bianca e arancione. Ero io.

    La piccola ammirava il padre e la telecamera osservando il tutto senza scomporsi troppo. Il suo sguardo era acuto, indagatore, e ammirava come le dita del padre scorressero veloci sul piano in fase di riscaldamento.

    Mamma mi aveva trasmesso la passione per l'insegnamento, ma papà quella per la musica.

    «Pronta, Sarah? Bohemian Rhapsody?»

    Il padre le sorrise e lei assentii. Era concentratissima. L'uomo emise un «Bene» soddisfatto e iniziò ad intonare una melodia che conoscevo a memoria.

    Subito mi misi una mano davanti alla faccia, lasciando scoperti solo gli occhi. Il sorriso si era congelato in volto e non se ne andava, le iridi erano lo specchio della vergogna. Non guardai Michael neanche per un secondo, sapendo che se solo ci avessi provato avrei avuto la tentazione di scappare in bagno e affogarmi nella vasca.

    Is this the real life? Is this just fantasy?
    Caught in a landslide, no escape from reality.
    Open your eyes, look up to the skies and see...

    La bambina aveva iniziato a cantare seguendo la voce del padre. Quest'ultimo la guidava nei cori ma, quando la voce Freddie risaltava su tutti, la lasciava procedere da sola. A volte, senza emettere un suono, muoveva le labbra per aiutarla a tenere il tempo e non perdersi. Quando la figlia aveva preso confidenza con la canzone – già dopo l'intro acapella – l'uomo era rimasto a guardare il pianoforte e la figlia ridacchiando.

    Morii dentro e fuori.

    Letteralmente.

    Quella pulce di soli 4 anni non era male, anzi; per essere così piccola seguiva il ritmo molto bene. Era giovane, perciò la sua voce risultava acuta e delicata. Ogni tanto non beccava le note manco morire e quando succedeva mi sbaccanavo nascondendo il viso fra le mani.

    Fin da piccola ero stata una performer mancata.

    Mama, just killed a man... put a gun against his head,
    pulled my trigger, now he's dead

    Udii la risatina di Michael.

    L'occhio roteò su di lui. Fissava lo schermo come incantato e un sorrisone gli partiva da un orecchio all'altro. Le iridi esplodevano di meraviglia.

    Prince mi guardò perplesso.

    «Non è una canzone molto allegra».

    Risi lasciando cadere la testa all'indietro.

    «Purtroppo no, hai ragione!».

    La bambina era totalmente immersa nella sua interpretazione, tanto che la sua serietà faceva quasi paura. Dondolava il capo a destra e a sinistra, cantando con una passione che a soli 4 anni era difficile pensare possibile. Sembrava che capisse davvero le parole della canzone.

    Mama, oh, oh... I don't want to die.
    Sometimes wish I'd never been born at all!

    Mentre sogghignavo del "Anyway the wind blows" di mia madre, Paris mormorò amareggiata.

    «È una canzone triste...»

    Scossi la testa presa dagli spasmi di ridarella. «Adesso arriva il bello!»

    Mentre il padre si dilettava in un assolo di pianoforte, questo disse alla giovane cantante di prendere gli occhiali da sole. Lei lo puntò elettrizzata e scese di corsa, quasi inciampando su se stessa. Prese un paio di occhialini rosa dal comò e se li mise su con finta altezzosità. Tornò vicino al suo papà – stavolta in piedi – annuendo convinta.

    Michael rise ad alta voce e a sua volta lo fecero anche i bambini e le guardie del corpo.

    Mi tappai la bocca con un palmo. Avvampai furiosamente.

    Un cambio di melodia, da più soave a scandita. Padre e figlia si esaminavano intensamente. L'uomo cantò con lei la parte di "opera" della canzone, intervenendo solo negli acuti e nel coro.

    I see a little silhouette of man.
    Scaramouch! Scaramouch! Will you do the Fandango?
    Thunderbolt and lightning, very very fightening me!

    Inutile dire che da quel pezzo in poi tutti esplodemmo in sonore risate.

    Io mi gettai sul fianco sinistro del divano, nascondendo il viso sul cuscino – non mi serviva vedere niente, ricordavo ogni scena a memoria. Michael si lasciò pervadere da una ridarella incontenibile – una delle sue – tant'è che temetti non riuscisse più a smettere; Prince, Paris e le guardie si contennero di più. Se Michael non avesse limitato il volume della sua voce, probabilmente avrebbe svegliato Blanket.

    Quella bambina era convinta – anche troppo. Oscillava la nuca seguendo il ritmo del pianoforte, stonacchiando nelle parti dove la voce non arrivava e cercando di interpretare più ruoli in un sol colpo. In più quegli occhiali da sole la facevano sembrare una mosca.

    Perfino la madre, una donna posata e di poche manifestazioni di giubilo, scuoteva la telecamera a forza di ridere.

    La melodia sfumò pochi istanti più tardi e la clip terminò con la bimba che guardava il suo papà intonare qualche verso della strofa iniziale, esattamente come Freddie nel brano originale. Ci fu un applauso da parte dei due genitori e la bimba, con un sorriso sornione, salì sopra le ginocchia del papà.

    Ero veramente una ruffiana.

    Anche Michael applaudì asciugandosi le lacrime. Mi donò un sorriso splendente.

    Quel ricordo datato 19/12/1979 svanì e ne iniziò un altro. Nessuno ci prestò attenzione.

    «Eri convintissima!».

    «Hai visto, Prince?», alzai le sopracciglia. Le guance erano ancora accaldate per l'emozione. «Ne è valsa la pena, direi».

    «Un giorno la cantiamo insieme?», chiese Paris scavalcando il padre. «Ti preeego! Eri troppo divertente!»

    Risi e guardai Michael. Fissava lo schermo con un'espressione così seria che mi preoccupò. Mi voltai.

    Quella bambina dagli occhi verdi aveva ancora 4 anni. Stava guardando la televisione e reggeva alcuni mattoncini di lego fra le dita. Era silenziosa. Non distoglieva gli occhi dalla Tv, nello specifico da una figura che ballava in smoking nero e camicia bianca. Era scuro di pelle e aveva i capelli afro e corti.

    «Ti piace, Sarah? Un giovane affascinante, non è vero?»
    «Mmh-mmh».
    «Sai come si chiama?»

    La bambina scosse la testa ignorando la madre.

    «Michael Jackson»

    Il mio cuore si fermò. Il sorriso s'incenerì all'istante.

    Cosa?

    «Chi?»

    Beata innocenza.

    La bambina non aveva capito il nome del cantante e scrutava la donna con fronte increspata. Quest'ultima glielo ripeté con un risolino.

    La figlia non si scompose. Ritornò al video musicale chiamato
    Don't stop 'til you get enough1 e dopo qualche istante di riflessione ritornò ai suoi mattoncini. Il video musicale era già terminato quando lei si alzò per rincorrere la nonna materna, sedutasi su una poltrona rosso bordeaux.

    Avvampai.

    La mascella era letteralmente calata.

    «A Sarah piace papà!», Paris urlò. «Hai detto che è affascinante!»

    Affogai nel rossore ancora di più. Aprii la bocca per rispondere, ma non fui in grado di parlare.

    Era stata una scena breve, di quasi mezzo minuto, svanita con l'entrata in scena della mia cara nonna. Dimenticai perfino di avere il telecomando in mano e che potevo benissimo fermare la cassetta: ad ogni modo, non lo feci. Preferivo guardare la televisione e ascoltare rumori a caso, piuttosto che rimanere in silenzio.

    Sentimmo Blanket frignare dalla culla.

    Tempismo divino.

    Percepii Michael alzarsi dal divano – non lo avevo ancora guardato in faccia – e passarmi davanti come se fosse un fantasma. Allora – e soltanto allora – fermai la videocassetta. Pigiai il tasto per farla uscire dal videoregistratore senza mandare indietro il nastro.

    Mi vergognavo da morire, anche se non ne avevo ragione.

    Avevo sempre detto a Michael che sì, avevo sentito parlare di lui, ma che non mi ero mai appassionata alla sua musica e alla sua persona. Non credevo di averlo lì, fra i ricordi più importanti della mia vita, ma sentivo l'assurda convinzione di avergli mentito.

    Mi sollevai come un automa. Estrassi la cassetta e la rimisi nella sua custodia.

    «La riporto al suo posto, in camera...», borbottai. Facendo così dovevo proprio apparire colpevole.

    «Non c'è fretta, lascia pure lì. Fra poco ceniamo».

    Mi volsi. Michael, il quale teneva in braccio il piccolo Blanket, mi studiava in modo incomprensibile.

    «Di già?».

    Sorrise piano. «Di già. Dobbiamo vedere un film al cinema e non possiamo tardare».

    Anche i bambini furono sorpresi dalla sua esclamazione. Gli saltarono immediatamente addosso, tartassandolo di domande senza lasciargli il tempo di rispondere. Michael rise come se niente fosse, io no.

    «Andiamo a vedere il nuovo film di Peter Pan, siete contenti?».


    Ah Sant'Iddio, bastaaa. Siete ossessionati, porca miseria!

    «Davvero papà?», Paris si strinse alla sua camicia rossa. «Davvero guarderemo Peter Pan? Un film nuovo?»

    «Sì, Paris».

    «Andiamo, papà, ti prego! Andiamo subito!», lo pregò Prince.

    «Prima mangiamo e dopo – ».

    Non fece tempo a finire la frase che il telefono che aveva in tasca squillò. Lo estrasse e guardò il numero sullo schermo con aria imperscrutabile; non capii se quella chiamata gli provocasse piacere o fastidio.

    «Scusatemi un attimo, torno subito».

    Girò le spalle e uscì in corridoio con Blanket.

    Emisi un sospiro stanco e osservai il resto del gruppo, bodyguards compresi. «Intanto andiamo a lavarci le mani, che dite?».

    *

    Il tempo passò e Michael non tornò.

    Per i primi cinque minuti io, i bambini e le guardie pensammo che si stesse curando di Blanket. Cercammo di trattenere la nostra fame e la curiosità parlando del più e del meno. Ci accomodammo a tavola e i piccoli rubarono furtivamente qualcosa dai loro piatti.

    Ma altri quindici minuti passarono e Michael non si fece vivo.

    Quando i due uomini si tirarono su dalle sedie, Michael riapparve sulla porta con il figlio più piccolo in braccio. Guardando le nostre facce impensierite, sorrise.

    La cosa che notai subito era che non osava guardarmi neanche per sbaglio.

    Era arrabbiato con me?

    «Che c'è?», chiese scrutando tutti noi ironicamente.

    «Ci hai messo tantissimo, stiamo morendo di fame!», Paris puntò i gomiti sulla tavola e lasciò cadere la testa fra le mani con un sospiro esasperato. «Il film inizia...»

    «Il film non inizia senza di noi, non ti preoccupare», disse sedendosi vicino a lei. Il mio sguardo non lo abbandonò un attimo. «Abbiamo tempo. Sono solo stato trattenuto al telefono, tutto qui...». Fece una pausa e lo vidi gettare un'occhiata alle mie mani appoggiate sul tavolo. Poi guardò i bambini. «Joanna vi saluta tutti, vi augura buon Natale».

    I due sorrisero. Le guardie del corpo si scambiarono un'occhiata d'intesa.

    Mi sono persa un pezzo, chi è Joanna?, avrei voluto chiedere.

    Guardai a destra e a sinistra alla ricerca di qualcuno che mi notasse e che rispondesse alla mia silenziosa domanda. Nessuno rispose e Michael sistemò il bavaglino a Blanket.

    Probabilmente era qualcuno di loro intima conoscenza, ma non ci pensai troppo a lungo. Anche altri parenti e amici avevano chiamato durante quel giorno di festa - addirittura dei fan! -, perciò non mi crucciai più di tanto.

    Cenammo tranquilli, con Prince che canticchiava mentre mangiava e io che me la ridevo per i suoi muti gorgheggi. Finita la cena le guardie del corpo si congedarono per spendere il resto della serata in libertà, sotto continua richiesta del capo. Uscimmo dalla residenza e ci avviamo verso il trenino che ci avrebbe portato al cinema.

    E Michael si tenne a distanza dalla sottoscritta per tutto il tempo.

    *

    Dettero un bacino al padre con le palpebre semichiuse: erano stanchi, erano le dieci e qualcosa e la giornata era stata spossante per tutti. Michael li abbracciò e tirò su le coperte fino a coprir loro il mento. Mentre distendeva Blanket sulla culla, a mia volta mi apprestai a dare due baci sulle fronti dei bambini.

    Il film era finito da un pezzo ed era piaciuto a tutti. Diciamo che era una versione romantica della storia originale, ecco. Paris si era già innamorata del protagonista.

    «Ti vogliamo bene, Sarah» mugugnò Prince.

    Io sorrisi, gli accarezzai i capelli biondi e detti un buffetto alla sorella.

    «Anche io ve ne voglio».

    Stetti per dire "tanto", ma mi trattenni.

    Michael mi dedicò un'occhiata penetrante e si diresse fuori con il suo inseparabile Walkie Talkie; Blanket l'avevo già salutato poco prima, augurandogli la buonanotte sul trenino mentre si addormentava fra le mie braccia. Seguii Michael e chiudemmo la porta con un ultimo augurio della buonanotte.

    Una volta fuori piombò il silenzio.

    Michael mantenne la presa sull’impugnatura della porta, squadrandomi da capo a piedi. Mi sentivo d'intralcio fra la sua autorevole presenza e il corridoio. Gli augurai sogni d'oro e con un mesto sorriso cercai di scampargli.

    «Hey», mi richiamò. Lo guardai. Con un cenno della testa mi indicò di andargli dietro. La sua faccia diceva tutto e niente. «Ti devo parlare...».

    Mi dette le spalle e s’incamminò verso il senso opposto. Lo seguii impassibile, quando in realtà mi stavo ponendo le domande più insensate e paranoiche al mondo.

    Mi portò in camera sua. Mi invitò ad entrare e richiuse la porta alle sue spalle.

    Non appena mi voltai raggrinzò la bocca in un riso malizioso; le iridi scure luccicavano come cristalli preziosi. Con l'indice mi invitò a raggiungerlo. Il movimento del polpastrello pareva muoversi a rallentatore.

    Mi avvicinai desiderando apparire tranquilla.

    Mi tenni distante almeno un metro, incrociando le braccia al petto e sviando l'attenzione dalla sua figura. Michael mi ordinò impazientemente di farmi ancora più vicina, accigliandosi. Sbuffai e feci come mi aveva richiesto.

    Due o tre passi in avanti. Ci separavano solo trenta centimetri di vuoto – niente in confronto all'essermi chiusa in uno sgabuzzino, al buio, con Michael quasi appiccicato al mio seno. L'uomo dai capelli lisci e neri si posò le mani sui fianchi umettandosi il labbro inferiore e indirizzando lo sguardo sulla sottoscritta con devoto interesse.

    Quella postura gli risaltava le spalle ampie e la mascella squadrata, per non parlare del collo. La cosa mi donò quel pizzico di quella che definii semplicemente “euforia".

    Mostrò i denti.

    «Com'è che mi hai fatto un regalo di Natale?»

    Caddi dalle nuvole.

    Sorrise maggiormente.

    Se non avessi risposto a breve mi avrebbe dato della scema.

    «Com'è che mi hai fatto un regalo di Natale?», ripeté scandendo le parole con dolcezza, arcuando la fronte.

    Ahhh. Ora mi è tutto chiaro.

    Aggrottai le sopracciglia. «E perché tu mi hai regalato l'elefantino?»

    Trattenne una smorfia e si morse un labbro.

    «Com'è che tu non hai risposto alla mia domanda?»

    «E com'è che tu non hai tenuto il mio regalo?»

    Alzò gli occhi al cielo. Eravamo cocciuti come muli.

    Oscillando sul posto mi rivolse un'occhiata di rimprovero e scoppiammo a ridere in sincrono. Incrociò le braccia al petto a sua volta ed io sbuffai passandomi le dita fra i capelli.

    Borbottai contrariata. «Te lo avevo regalato io, era il mio dono per te...»

    «Te lo avevo detto che non volevo regali. L'unica cosa che volevo era uscire con te», sorrise candidamente, posando il peso sulla gamba opposta.

    Negai con il capo. «Non era abbastanza».

    Ci tenevo che custodisse il mio dono, l'elefantino, e non ci sarebbe stato nulla che mi avrebbe fatto cambiare idea; ma poiché non potevo ammettere che quel dono fosse suo di fronte ai bambini, avevo pensato ad un'altra opzione: portarglielo in camera di nascosto.

    Michael si incamminò verso il materasso agguantando il pacchetto disfatto in una mano e un biglietto nell’altra. All’interno del pacchetto, il mio cerbiatto.

    Io avrei tenuto il suo elefantino e lui il mio cervo: era uno scambio più che equo, no?

    Accarezzò l'animaletto dagli occhi vispi con un dito, come se ne stesse sfiorando uno vero e proprio. Successivamente alzò al biglietto, lo lesse e mi agganciò con uno sguardo.

    Le parole che avevo scritto erano cinque: “Ti voglio bene, Babbo Natale".

    Sorrise. «Anch’io ti voglio bene».

    Ridacchiando sciolsi la catena che partiva dai suoi occhi. Era molto importante avergli confessato quelle parole, anche solo attraverso un foglio di carta.

    «Però», sussurrò fissando l'animaletto, «c'è qualcosa che ho bisogno di chiederti...»

    «Dimmi».

    La luce dei suoi occhi si ravvivò come una fiamma.

    «Davvero mi trovavi affascinante?», distese la fronte falsificando sorpresa.

    Inghiottii il respiro.

    Rise come non mai.

    «Io non sapevo che...»

    Arcuò un sopracciglio con un fare spavaldo. «Mmh?»

    Mi dondolai sulle punte dei piedi e mi guardai intorno, sospirando pesantemente come una bambina indispettita. Mi pettinai nuovamente i capelli all’indietro e mordicchiai un labbro. Fissai un punto a caso della stanza.

    «Non ricordavo che tu fossi in uno di quei video», dissi in tono brontolone. «Sembra che lo abbia fatto apposta! È troppo imbarazzante... per tutta la serata ho pensato che tu fossi arrabbiato con me per quel motivo!». Arrossii. «Non ne avevo idea».

    Dire quelle parole mi fece cedere le gambe per un secondo. Ma mi venne spontaneo, naturale, per nulla forzato. Era quello che sentivo nel cuore.

    Mi osservò sbigottito. Per un momento rimase impalato come uno stoccafisso.

    Due secondi più tardi Michael ridacchiò nervosamente e osservò il pavimento sotto alle sue scarpe. Si grattò la nuca e lo vidi accaldarsi appena, come un adolescente a cui viene fatto il primo vero complimento da una ragazza. Mi puntò con il mento abbassato regalandomi un'espressione contemporaneamente maliziosa e bambinesca.

    «Ti credo», enunciò con voce calda. «E credo che spesso ti fasci la testa con un nonnulla».

    Arrossii mentre sorrideva teneramente.

    Si umettò la bocca venendomi accanto. «Eri una bambina veramente talentuosa. Sai, dovresti farmi sentire come canti, giusto per vedere se sei migliorata o meno!», cantilenò alzando le spalle.

    Gli risi in faccia. «Oh no, te lo sogni!»

    «Perché?», sfoderò una noncuranza spassionata. «Lo vuoi anche tu in fondo. Magari inciderai qualcosa con me! Sai che ho già qualche idea?»

    Scossi la testa con forza. «Scordatelo! Quel giorno dovrai...»

    «Dovrò?».

    Aprii la bocca e non risposi.

    «Dai, dimmi! Cosa dovrei fare per farti cantare?», mi dette un buffetto sul braccio sghignazzando.

    Si accostò così tanto alla mia faccia che potevo percepire il suo respiro fra i capelli. Un brivido serpeggiò e strizzò la parte più bassa della pancia.

    Gli tenni testa senza deviare lo sguardo.

    Arcuai le estremità della bocca all'insù. «Quel giorno dovrai costringermi con la forza, bloccarmi braccia e gambe! Cosa che non ti sarà molto facile, visto che ho dei muscoli come quelli di Jeeg Robot d'Acciaio!», e dicendo questo gli mostrai la lingua, nocche puntate sui fianchi e una smorfia fintamente arrogante.

    Michael sogghignò a voce bassa, tonalità decisamente più sensuale dell’usuale. Andò a posare cerbiatto e biglietto su uno scaffale vicino con l'elegante compostezza di una pantera. Incrociai le braccia al petto e lo osservai compiere quei movimenti in assoluto silenzio, in attesa che mi degnasse di una risposta. Ma quella non arrivo e Michael mi si pose di fronte, ancora, braccia conserte dietro la schiena e cipiglio per nulla convincente. Mi sorrise perfidamente.

    Uno scatto. Un semplice movimento d'occhi da parte sua e compresi che era la fine.

    Mi si gettò addosso.

    Si allungò per afferrarmi i polsi e di tutta risposta scoppiai a ridere nervosamente. Indietreggiai, palpebre sbarrate dallo shock e adrenalina esplosa in sangue come dinamite.

    Cercai di scampargli in tutti i modi e fu un’impresa. Pur non avendo una corporatura robusta, i muscoli li aveva eccome. Più mi dimenavo più mi stringeva forte – esibendo un ghigno sghembo come pochi –, tant'è che finii per sbattere il fondoschiena contro il comò. Dalle labbra mi uscì un urletto disperato.

    «Moll... no, mollami!», strepitai. «Per favore... HA

    Senza sapere come mi liberai, corsi verso la porta, ma prima che potessi abbassare la maniglia Michael mi intrappolò fra le sue braccia. Nel momento in cui fui sul punto di sfuggirgli mi strinse i polsi, mi voltò in sua direzione e la mia schiena si scagliò contro il legno. Era alto, molto più alto di me, perciò dovetti sollevare la testa per guardarlo.

    Il suo respiro era ritmato dalla fatica che aveva fatto per ingabbiarmi, ma non sorrideva. Mi fissava intensamente.

    «Ho vinto io, non credi?», si accigliò.

    Le iridi verdi guizzarono su quei tratti che mai prima d'allora avevano osservato così da vicino. Mi fermai sulla mascella squadrata, sulla fossetta scolpita sul mento, sul naso all'insù, sulle sopracciglia ben delineate, sulle labbra perfette e infine sugli occhi, grandi e scuri.

    C'era una profondità – in quegli oceani torbidi e illeggibili - che mi facevano viaggiare in un'altra dimensione, un posto che solo attraverso quel contatto potevo raggiungere. Era un tunnel buio, talvolta saccheggiato, sofferto e posseduto da un’indefinibile tristezza. Eppure in loro vi era una scintilla, un qualcosa che mi ossessionava, che mi faceva desiderare di scavare ancora più a fondo, nella sua anima. Ero rapita da quel bagliore. Nessuna maschera reggeva di fronte a loro, nessun segreto restava inviolato: mi aprivo alla loro bellezza, al loro incanto, e tutto il resto sfumava. Tutto il resto smetteva di esistere. Il tempo si fermava.

    Qualche volta desideravo scappare, per ignorare così sentimenti che mi impedivo di provare.

    «Stai barando», mormorai sorridendo e ansimando insieme. «Non è leale quello che stai facendo».

    Michael si bagnò un angolo della bocca. Mi lasciò andare incupendosi.

    «Hai ragione...»

    Con un cenno del capo tirò indietro alcuni ciuffi di capelli che gli erano caduti sulla fronte. Si posò una mano sul fianco e fece un passo indietro. Le rifiniture dorate sulla sua giacca rosso Natale sfavillavano sotto la luce della lampada a soffitto.

    «Se vuoi... se vuoi posso provare lo stesso». Mi puntò ed io mi accaldai nell'immediato. «A cantare, dico. Ma ti assicuro che non ho alcun talento per quest'arte!», sogghignai. Mi detti una spinta con la schiena e mi separai dalla porta.

    Stirò un sorriso, ma i suoi occhi erano inquieti.

    «Allora penso che domani sia il giorno migliore».

    «Domani?», strabuzzai gli occhi.

    «A-ha», scrutò una zona indefinita del parquet. «Vedrò di aiutarti a superare questo blocco».

    «Oh... grazie».

    Gli andai vicino timidamente. Lo abbracciai senza dargli il tempo di spalancare le braccia ed accogliermi: aggrappai le dita alla sua schiena e inspirai a pieni polmoni. Il suo profumo era così forte e buono che mi girava la testa.

    Lo percepii molto impacciato, così tanto da essere d'ingombro a se stesso, e non ricambiò la stretta.

    «Quello che ho scritto sul biglietto è vero».

    Mi scostai fissando il basso per non fargli notare il rossore sulle guance. Sorrisi e agitai una mano in segno di saluto: Michael mi osservava sconcertato, fermo a braccia aperte.

    Mi arrestai poco prima di aprire la porta. Mi girai verso di lui.

    «Prima mi hai chiesto se ti pensavo affascinante...».

    La luce nei suoi occhi si accese.

    Sorrisi furbescamente. «Sì, ti pensavo affascinante. E lo penso tutt'ora. Credo che con uno smoking bianco lo saresti ancora di più».

    Sbatté le palpebre ed io sghignazzai fra me e me.

    «Buon Natale», lo salutai, «e non giocare troppo a fare la statua di cera. Non riuscirai mai ad essere più bravo di me in questo», lo punzecchiai riferendomi alla battuta che mi aveva fatto qualche settimana prima.

    Accennò uno spasmo di risata.

    «Buon Natale...», mormorò.

    Dopo aver rinchiuso la porta abbandonai schiena e testa sul legno scuro senza far rumore, osservando il soffitto. Il cuore batteva forte, soffocava e strideva, ma io non riuscivo a comprendere - e non volevo comprendere - cosa stesse dicendo.

    Non ci sarei riuscita facilmente.

    *

    Il giorno dopo attesi in vana gloria che Michael scendesse. Certo, desideravo cantare quanto sparire dalla faccia della Terra, ma in ogni caso non si fece vedere.

    Grace ci fece una visita inaspettata. Strano, mi dissi, perché la famiglia Jackson sarebbe dovuta andare da alcuni parenti quel giorno. Insieme facemmo compagnia ai bambini, i quali, con una certa irrequietezza, si chiedevano dove fosse loro padre.

    Grace ci comunicò che Michael l'aveva chiamata la mattina stessa, per un impegno di lavoro urgente di cui si era dimenticato.

    Tutto ciò non mi convinceva. Doveva essere una cosa abbastanza grave per non aver potuto avvisare i suoi figli. Perfino Blanket sembrava nervoso, come se anche lui sentisse che c'era qualcosa non andava per il verso giusto.

    Grace ed io portammo i ragazzi al parco giochi di Neverland e, quando rientrammo per il pranzo, incontrammo una guardia del corpo che usciva dalla residenza principale. Questo ci comunicò che il sig. Jackson non si sentiva bene e che aveva chiesto a tutti di lasciarlo riposare. Si vedeva lontano un miglio che non stava dicendo tutta la verità.

    I figli, ancora più agitati di prima, pranzarono con poco e niente e non spiccicarono una sillaba per delle ore. Nel pomeriggio nessuno ebbe il coraggio di andare in camera di Jackson per capire come stesse. Né io né Grace parlammo di quel fatto.

    Jackson era solito avvisare quando se ne andava, credevo succedesse lo stesso quando stava male.

    La giovane tata convinse i bambini ad uscire per andare a fare un giro al centro commerciale di LA. Mi chiese se avessi intenzione di andare con loro, ma dissentii col capo.

    Nell'istante in cui i piccoli Jackson se ne andarono mi diressi in camera di Michael. Anche se mi era stato praticamente ordinato di non farlo, onestamente non me ne importava. Aspettai cinque minuti per convincermi a bussare.

    Lo feci.

    «Michael?».

    Accostai l'orecchio alla porta e aspettai. I secondi passarono, ma non ottenni risposta. Sentivo un lieve brusio di sottofondo.

    Magari la guardia del corpo aveva detto il vero...

    Battei ancora una volta le nocche sul legno, questa volta più forte.

    Il nulla.

    Non lo chiamai più. Me ne andai a sguardo basso.

    Proprio mentre stavo per svoltare l'angolo del corridoio, percepii un debole schiocco alle spalle. Mi girai a rallentatore.

    La porta si era socchiusa.

    Indietreggiai di un passo e chinai la testa all'indietro, per vedere se il suo corpo fosse visibile attraverso la fessura della camera. Non c'era nessuno.

    Tornai indietro.

    Aprii la porta con visibile preoccupazione.

    L'ambiente era completamente privo di luce, se non per il debole chiarore della lampada a comodino che sfumava tutti i contorni della stanza, tratteggiandola con un non so ché di allarmante. La tv era accesa e la luce colorata variava a seconda delle immagini che passavano sullo schermo.

    «Michael...?»

    Un corpo, il suo, se ne stava acquattato verso un'estremità del letto, tutto raggomitolato su se stesso. Ne distinsi i capelli, rischiarati dai riflessi bluastri e giallini del televisore, che gli nascondevano il viso come una voragine oscura. Era così immobile che pareva non respirare.

    Pensai che stesse male e gli corsi accanto in un battibaleno, chiudendo la porta alle spalle con il cuore che scalciava come un pazzo. Mi placai non appena lo udii sospirare pesantemente.

    «Michael...» Il mio tono si addolcì. «Che succede?»




    1 Sarah è nata il 25 gennaio 1975. Bohemian Rhapsody è uscita nel 1975 e Don't stop 'til you get enough nel 1979.



    Edited by fallagain - 21/3/2021, 21:43
  2. .
    Capitolo Sedici: La Fuga dalla Gabbia

    Lo squadrai dall'alto in basso.

    Non sapevo se essere più arrabbiata per l'ordine che mi aveva imposto – pur sapendo quanto mi dessero noia questo tipo di situazioni – o per la sfacciata tranquillità con cui me lo aveva detto.

    «Cosa?».

    Michael capì. Mi venne incontro e si sedette sul letto sfiorandomi le gambe coperte. Mi lanciava occhiate impenetrabili.

    «Come tuo datore di lavoro, ti chiedo di rimanere qui e curarti dei miei figli».

    Questa è bella.

    Era una balla grande come una casa. Sapevamo tutt'e due che non servivo lì.

    «Oh. Bene», mormorai.

    Sospirò senza staccarmi gli occhi di dosso. Drizzai un sopracciglio più di un altro, mirando altrove.

    Perché doveva fare così? Perché doveva sfruttare il nostro rapporto di lavoro quando poteva semplicemente parlare con me in un altro modo? Non mi interpellava, prendeva decisioni che spettavano a me. Che cosa sarebbe successo se invece fossi stata io a farlo? Ne sarebbe stato contento?

    «Sarah, so cosa stai pensando». Lo mirai con distacco, pur attratta dall'intensità del suo sguardo. «Ma devo farlo. E tu devi rimanere. Conoscendoti torneresti in Italia anche con la febbre a 39°, soltanto per orgoglio, e non dirmi che non è vero perché non ti credo».

    Arrossii.

    Mi irritai maggiormente e non trovai niente con cui poter ribattere.

    Aveva ragione, non potevo dargli torto, ma questo non era il modo per farmi cambiare idea. Avrebbe dovuto fare una conversazione seria e poi avremmo deciso. Insieme.

    Al mio silenzio imperterrito sbuffò. Lo vidi assumere un'aria stizzita e irrigidire i muscoli del viso.

    «È meglio che ti lasci sola», si alzò.

    Nonostante fosse camera sua non mi stava cacciando: era Michael che mi voltava le spalle e se la svignava. Ignorò il mio fare perplesso e si diresse alla porta. Non mi salutò neanche: uscì senza degnarmi di ulteriori giustificazioni.

    Espirai pesantemente e con un grosso mattone sullo stomaco, torcendomi le dita e mordendo l'interno guancia con fare assorto.

    Avrei voluto prendere un cuscino e gettarglielo in faccia, chiedendogli di tornare indietro subito. Dirgli che il suo atteggiamento era immaturo e che lasciarmi lì così non sarebbe servito a nulla.

    Era la prima volta che mi ritrovavo ad essere “offesa” con Michael. Ed era anche la prima volta in cui lui lo era con me.

    Arrabbiati per cosa, poi?

    Avrebbe potuto dire "Ciao ciao Sarah, ora parti e goditi le ferie in Italia” e io lo avrei fatto senza esitare... e addio a tutte quelle notti in cui avremmo potuto parlare, leggere, passeggiare o guardare un film vicini. Addio alla felicità che, per un momento, mi aveva fatto scoppiare il cuore all'idea di festeggiare con Michael e i suoi bambini.

    Ma io volevo compiere le mie scelte da sola, no?

    Nessuno poteva obbligarmi a fare qualcosa che non volevo fare, giusto?

    In realtà avevo una fifa tremenda, per quello mi stavo aggrappando a scuse e testardaggine insensate. Temevo che il nostro rapporto – che per me stava divenendo una solida amicizia, non più freddo contratto di lavoro – stesse oltrepassando il limite. In qualche modo mi sentivo in dovere di limitarlo e limitare le libertà che aveva con me.

    Ero io la bambina infantile che pestava i piedi a terra.

    Mi vergognai per ciò che avevo detto – anche solo per averlo fulminato con lo sguardo – e una contrazione allo stomaco mi fece venire voglia di vomitare una seconda volta.

    Avrei voluto che Michael e i suoi figli mi stessero meno a cuore di quanto non lo fossero realmente. Desideravo essere felice all'idea che me ne sarei dovuta andare, non triste.

    Avrei voluto che Michael tornasse indietro per potergli spiegare chiaro e tondo quello che pensavo.

    Ma non tornò. Neanche quando mi alzai, uscii dalla stanza e mi avviai verso camera mia. Avrei tentato di dormire, rodendomi il fegato da sola, girandomi e rigirandomi tra le coperte fino a quando non sarei crollata.

    *

    Quando mi svegliai ebbi l'impressione che la mia influenza fosse stata un miraggio, un sogno durato quasi due giorni. La febbre era scesa notevolmente, mi sentivo - quasi - completamente rinata.

    Non ero guarita del tutto, lo sentivo dalla schiena distrutta e dalla poca voglia di mangiare che avevo, ma mi stavo riprendendo piuttosto velocemente.

    Feci le mie cose con la stessa allegria di un vecchio brontolone - andai in bagno, mi lavai il viso e le mani, mi cambiai e indossai vestiti sportivi e puliti. Estrassi una valigia mezza vuota da sotto il letto, con la schiena che scricchiolava dalla spossatezza che non mi aveva totalmente abbandonato, e tirai fuori dagli armadi i vestiti necessari in caso di imminente partenza. Ero così ammattita da credere che Michael mi avesse già preso un biglietto per cacciarmi via a calci nel sedere.

    Stavo per riporre le ultime cose in borsa quando la porta si socchiuse. Una testa corvina di mia conoscenza si sporse al di là della soglia.

    Alzai il capo. Persi un battito.

    Quando ci fissammo, il suo sguardo era al limite fra lo stupore e il dubbio.

    Avvampai e abbassai il mento, esibendo falso disinteresse.

    Entrò in camera rimanendo con una mano ferma sulla maniglia della porta.

    «Che stai facendo?».

    Il fiato mi si bloccò in gola.

    Michael mi studiò da capo a piedi con sopracciglia increspate. La sua espressione lasciava trasparire uno stato confusionale in grado di abbattere ogni teoria precedentemente costruita sulla base delle mie paranoie.

    Aprii la bocca senza far uscire un suono. Scrutai il maglione che tenevo stretto fra le dita, immobile a mezz'aria.

    «I bagagli».

    «E perché?», chiese venendomi vicino, richiudendo la porta.

    Lo adocchiai di soppiatto. Era indeciso se ridere o preoccuparsi seriamente per la mia sanità mentale. Si mordeva le labbra per trattenere un sorriso mentre la fronte si distendeva in attesa di una mia risposta.

    Sentivo le guance bollirmi come non mai, colta da un istantaneo moto di vergogna. Mi credevo un'idiota, soprattutto un’ingenua per aver pensato che Michael potesse buttarmi fuori di casa in quella maniera. Forse la febbre non era scesa come credevo.

    «Perché dovresti partire?»

    Mostrò i denti affogando le mani nelle tasche della felpa rossa.

    «Credi che ti rispedirò in Italia con la forza?»

    Colpita e affondata.

    Percepii il fumo uscirmi dalle orecchie.

    Per tutto il tempo non osai guardarlo, i suoi occhi erano fissi su di me. Credevo che fosse sul punto di ridere.

    «Silly, non hai capito nulla!», borbottò a mo' di presa in giro.

    I brividi mi avvolsero dalla testa ai piedi.

    Lo osservai. Michael non faceva altro che sorridere.

    Mi prese le mani sollevate a mezz'aria e posò il maglione sul copriletto. Successivamente afferrò la sedia vicino alla scrivania e la trascinò fino a quel punto, mentre io mi lasciavo cadere sul materasso con un sospiro.

    Si sedette fronteggiandomi. Chinò la testa e ammirò i suoi palmi adagiati sulle gambe semiaperte. Notai che era vestito con un paio di pantaloni neri e una felpa pesante e scarlatta, la quale risaltava l'ampiezza delle sue spalle e la vita stretta. Si umettò le labbra e mi attraversò con uno sguardo.

    «Ti chiedo scusa», sussurrò, «non sono felice per come mi sono comportato, ma non avevo altra scelta... penso di conoscerti abbastanza bene da reputarti un'ostinata cronica». Arrossì un po’ sulle guance. «La verità è che non voglio che tu te ne vada. Non voglio che tu ti senta privata di quello che io, fossi in te, non esiterei a fare, ma per questo Natale ti vorrei qui», fece spallucce con aria sincera.

    La sua confessione creò uno strano sfarfallio nello stomaco.

    Contraeva e rilassava le dita spasmodicamente, muovendole in aria man mano che il discorso si faceva più enfatico. Le sue parole fecero svanire ogni traccia di amarezza, rabbia o tristezza provata fino a pochi minuti prima, donandomi una sensazione di eccitata serenità.

    Non mi costava fatica credergli.

    «Dovevi dirmelo», dissi con dolcezza, «se mi avessi detto che volevi che restassi, e se mi avessi detto ciò che mi hai confessato ora, ti avrei detto sì». Poi soffocai una risata divertita. «Ok, avresti dovuto insistere un pochino, cocciuta come sono... ma posso ingoiare l'orgoglio quando si tratta di... di un amico», gesticolai.

    Michael si sorprese. «Un amico?»

    Annuii piano.

    Silenzio.

    «Anche tu sei mia amica», mormorò spiazzato. Lo puntai come se stessi per scoppiare di gioia. «Perciò non saresti partita?».

    Scossi la testa con il viso in fiamme.

    Gli angoli delle labbra modellarono il suo volto in un sorriso compiaciuto.

    «Te la senti di scendere per cena?», mi analizzò con più attenzione del solito. «Mi sembra che tu stia meglio ora».

    «Sì, in effetti sì», sussurrai. «Ma mi sento ancora distrutta».

    «Grazie alle medicine starai un po’ meglio, vedrai».

    Si sollevò dalla sedia e mi porse una mano.

    Aveva un palmo grande, morbido, e mi sentivo protetta anche solo quando mi capitava di sfiorarlo. Quel pensiero mi fece comprendere perché – la sera prima – non avevo voluto lasciarlo andare neanche durante il sonno.

    «Penso che faresti meglio a chiamare i tuoi... e mettere via queste cose, che ne dici?», suggerì ridacchiando.

    Io annuii, viso chinato sulle sue scarpe, mantenendo un'espressione di eloquente imbarazzo.

    *

    Quella sera cenai con Michael e i bambini.

    Furono molto entusiasti all'idea di vedermi, soprattutto Prince, il quale si sentiva chiaramente in colpa e non nascondeva il pentimento per avermi "attaccato la febbre": era lui che mi faceva la limonata – avevo dato la ricetta a Michael e quest'ultimo aveva sempre finto davanti al suo bambino di non saperla fare. Riuscii anche a rassicurarlo quando gli dissi che stavo meglio per merito suo.

    La sera guardai anche un film con loro in salotto. Guardammo Koda, Fratello Orso: sia i bambini sia Michael – lui soprattutto – rimasero sopraffatti nel vedermi piangere a dirotto. Quando mi saliva la febbre diventavo molto emotiva.

    Dopo che Michael ebbe mandato a letto i figli, leggendo loro una storia, questo mi raggiunse in camera e mi avvisò che il giorno dopo avrebbe passato la mattinata con i figli. Grace sarebbe arrivata nel pomeriggio.

    Stavo meglio, la febbre era scesa a 37.3°, e con una buona dormita se ne sarebbe andata completamente. Almeno speravo, perché il giorno dopo mi ero prefissata un impegno importante, un appuntamento che non potevo rimandare assolutamente: uscire per comprare i regali per Prince, Paris e Blanket. E per Michael.

    Mi sarei alzata, Michael avrebbe detto ai suoi figli che avevo avuto una ricaduta e silenziosamente sarei guizzata fuori casa, in direzione di qualche negozio di giocattoli nelle zone.

    Non potevo non far loro un regalo - ed ero in grandissimo, imperdonabile ritardo. Se lo meritavano, soprattutto per l’affetto che riuscivano a darmi con così tanto ardore.

    Dovevo far loro un regalo.

    *

    Perciò l'indomani, quando mi svegliai, andai a cercare Michael. Non lo trovai da nessuna parte.

    Prince e Paris – che cercavano di far ridere Blanket con le loro scenette comiche – mi dissero che si era assentato perché aveva avuto "l'ispirazione", quella particolare scintilla che colpisce gli artisti nel momento più imprevisto della giornata alla quale non si possono sottrarre. Entrambi mi dissero che lo faceva di tanto in tanto.

    Solo a mezzogiorno si fece vivo, felice come una pasqua, e pranzammo mangiando toast cucinati da egli stesso. Cercai con tutte le mie forze di attirare l'attenzione di Michael, aspettando che i figli si allontanassero quel tanto che bastava affinché non udissero le mie parole, ma ciò non avvenne: quando stavano tutti e quattro insieme era come se fossero uniti da una catena. Neanche quando Grace venne a farci visita, alle quattro di pomeriggio, i figli si staccarono dal padre.

    Decisi allora di fare a modo mio, fingere un malessere come da programma; mi sarei diretta in camera e avrei lasciato un biglietto a Michael ben individuabile sopra il materasso, che spiegasse il perché della mia fuga.

    Sapevo che era un piano ridicolo, privo di senso e in grado di essere scoperto facilmente, ma sarei tornata molto tardi, verso mezzanotte, quando tutti dormivano e non avrebbero udito neanche un rumore di passi. In più i bambini – e pure Grace – non entravano mai in camera mia; avevano molto rispetto della privacy e con me che fingevo di stare male l’unico che poteva visitarmi era soltanto il padre. L'unica complicanza sarebbe stata uscire di casa senza essere vista, ma dovevo provare.

    Misi in atto il piano falsificando giramenti di testa e freddo, attirando la preoccupazione di Prince e Paris e la perspicace attenzione di Michael, fuggendo in camera. Chiusi la porta a chiave.

    Indossai jeans neri e un maglione traforato color vinaccia, presi una giacca pesante che praticamente non usavo mai e una sciarpa bianca, misi le mie scarpe da ginnastica preferite e qualche banconota da 50 dollari in tasca, assieme ai documenti necessari per guidare.

    Presi un foglio di uno dei tanti block notes sparsi per la scrivania e vi scrissi in grande: "Sono andata a cercare i regali per i bambini. Ho tentato di dirtelo, ma non ci sono riuscita. Arriverò tardi, di' loro che non scenderò per cena perché sto poco bene. Grazie, Sarah". Lo posizionai dove ero sicura che lo avrebbe notato (al centro del letto) e uscii dalla stanza con passo leggero.

    Guardai in lungo e in largo e sentii i bambini parlare dal corridoio opposto alle scale. Non aspettai oltre e mi fiondai giù in un batter d'occhio.

    Mi sistemai il giubbotto e la sciarpa sul collo e misi mano alla porta d'ingresso.

    Era chiusa.

    Maledizione.

    «Cerchi la chiave, topolino fuggitivo?»

    Mi voltai a rallentatore.

    Michael mi fissava con un ghigno divertito, la fronte aggrottata in segno di disapprovazione. Gli occhi erano ridenti. In mano teneva la chiave e me la mostrava con aria furbina, ben distante da me nel caso gli fossi saltata addosso per prenderla.

    Arrossii. «Devo uscire, puoi aprirmi?»

    «Mmh...». Mi venne vicino e io tenni le orecchie ben aperte, fissando le scale. Ero allarmata e Michael lo sapeva bene. «Prima dimmi perché stavi cercando di scappare con le tue condizioni di salute», s'accostò a trenta centimetri dal mio volto, «non mi piacciono questi misteri».

    «Non posso parlare ora, Michael, è una storia lunga!», bisbigliai sempre più in ansia. Lui non fece nemmeno un passo per indietreggiare o darmi la chiave: anzi, alzò un sopracciglio per la curiosità sempre più grande. «Dai, ti prego! Ti spiego tutto quando torno, c'è un biglietto in camera mia!», gesticolai.

    Michael rifletté in silenzio, guardandomi impassibile.

    Nell'atto di sbuffare esasperata mi afferrò il polso. Si guardò indietro e tese l’orecchio in direzione delle risate dei bambini. Quando mi osservò di nuovo mi studiava con una strana luce negli occhi che non prometteva nulla di buono, sorridendo altrettanto furbescamente.

    «Vieni con me».

    Mi trascinò verso le scale. Prima che potessi dire di fermarsi, Michael svoltò a sinistra, verso una minuscola porta ben celata a occhi curiosi, situata proprio nel sottoscala. La aprì e mi fece entrare per prima. La richiuse soltanto quando fu dentro anche lui e per un po' ciò che vidi fu solo buio.

    A tentoni cercai la parete alle mie spalle. Ciò che percepii furono tessuti di vario tipo, dai più ruvidi ai più lisci: eravamo in uno sgabuzzino.

    Per un attimo credetti che stesse giocando a chissà quale passatempo per farmi venire un collasso. Non lo sentii emettere un sospiro per diversi secondi – minuti, forse.

    «Michael?», lo chiamai titubante.

    Il suo sussurro mi sfiorò l'orecchio destro. «Dimmi...».

    Santo Cristo.

    «E la luce?», cercai di capire dove fosse.

    Non mi mossi neanche di un centimetro, preoccupata per il fatto che – con il minimo movimento – avrei potuto scontrarmi con il suo corpo.

    «Non c'è», mormorò. «E abbassa un po’ la voce, potrebbero sentirti».

    Il cuore balzò in gola e non fiatai. Era proprio di fronte a me, immobile come una statua; lo percepii quando mi spostai in avanti, andando a sbattere contro il suo petto con il seno. Una strana ma eccitante angoscia mi stritolò le viscere. La voce era più bassa e calda del solito.

    «Soffri di claustrofobia?».

    Rabbrividii.

    «No».

    «Allora ok», bisbigliò. «Spiegami tutto... a bassa voce».

    Trovai il respiro. Mi feci coraggio. «Devo andare a prendere qualche regalo per Prince, Paris e Blanket... ho finto di star male per non dare sospetti, ho calcolato ogni cosa! Sapevo che tu avresti potuto avere qualche dubbio, perciò ho lasciato un biglietto in camera mia per farti capire il perché della mia assenza...»

    «Perché non mi hai avvisato?»

    «Ci ho provato! Ma i bambini erano troppo vicini. Non avrei potuto chiamarti da parte, avrebbero capito», continuai impettita. «Non avevo altra scelta...».

    Mi parve di sentirlo rabbrividire. Il suo torace tremò a contatto con il mio.

    «Sarah...», soffiò un roco sussurro, incespicando. Mi strinsi ai vestiti alle mie spalle con entrambe le mani, cercando di non badare al buio e alla stramba situazione in cui eravamo. «Non puoi uscire, stai ancora poco bene. Potrebbe risalirti la febbre».

    «Non importa», brontolai. La febbre sarebbe salita se non si fosse mosso di lì. «Io vado lo stesso».

    «E come fai? Dimentichi che siamo chiusi in questo sgabuzzino... e io ho la chiave anche di questo», ridacchiò.

    Non sapevo se stesse cercando di prendermi per i fondelli o se avesse intenzione di rimanere lì, con me, per un bel pezzo.

    «E i bambini? Cosa penseranno della tua assenza improvvisa?», borbottai alzando un sopracciglio.

    Michael non lo vedeva, ma il rossore sulle mie guance cominciava a scottare. Ero un uccellino in gabbia. Il suo respiro che sfiorava fronte e capelli di sicuro non aiutava a mantenere la concentrazione su pensieri casti, sono onesta. Mi sta mettendo in soggezione, pensai, vuole prendermi in giro apposta.

    «C'è Grace».

    «E secondo te non verranno a cercarci?»

    «Non qui», ribatté prontamente, «non se restiamo chiusi dentro...»

    Le ginocchia si fecero molli.

    Cominciai a escogitare tutti i possibili modi per rubargli la chiave; la mia mente contorta cominciò a pensare a cose così tanto perverse che scoppiai a ridere da sola.

    Non ero mica normale.

    «Perché ridi?».

    Immaginai la sua espressione confusa per quel mio tiro di matto e provai a contenermi per non farmi sentire dai bambini.

    «Niente, niente...» sogghignai, arrossendo, «fammi uscire, te ne prego! Non fare il fantasma dispettoso... si insospettiranno!»

    Silenzio.

    «Michael...?», lo chiamai ridendo.

    «Non è detto che io voglia».

    Eh?

    Un altro sospiro basso e profondo.

    «Non è detto che io voglia lasciarti uscire» sussurrò. «Non prima di...»

    Ero un blocco di cemento.

    Corrugai la fronte. «Di...?»

    Silenzio.

    «Prima di avermi fatto una promessa, ossia di lasciarmi venire con te».

    Ripresi a respirare.

    Non avrei mai immaginato quel tipo di domanda, dato che ero la tipica persona che leggeva i doppi sensi anche quando non ce n'erano.

    Tuttavia quel sollievo fu sostituto da un’immediata preoccupazione. Michael mi aveva accennato, durante le nostre chiacchierate, che a malapena riusciva a fare shopping senza essere assalito da masse e masse di gente che urlavano il suo nome; non poteva andare al cinema, non poteva andare in libreria e nemmeno fare una passeggiata, se non nascosto da un travestimento ben congegnato (che funzionava il 10% delle volte).

    «Ti assaliranno...»

    Dette un buffo spasmo di risata, ma quando rispose la sua voce era traballante.

    «Tu non preoccuparti».

    E io invece mi preoccupavo parecchio.

    «Ti prego... lasciami venire con te». Fece un passo indietro. «Pensalo come il tuo regalo di Natale per me! Non chiedo altro se non questo», sorrideva.

    «D'accordo... d'accordo», bisbigliai esasperata. «Ma ti devi travestire bene. Molto bene. E mentre lo fai, ti aspetto in macchina... cosa ti inventerai per tranquillizzare i bambini?»

    Silenzio.

    «Dirò che mi hanno chiamato per un impegno improvviso. A volte capita, non è una cosa nuova per loro. E darò l'ordine di non disturbarti mentre riposi», disse con una certa sicurezza nella voce. «In cambio mi sa proprio che dovremo fare qualcosa per farci perdonare».

    «Potremmo preparare il cenone di Natale! Anche se dubito che la cucina possa rimanere intatta», dissi con altrettanta allegria.

    Michael rise in modo strano – così strano che pareva lo stesse facendo sotto sforzo – e aprì la porta dello sgabuzzino. Quel maledetto mi aveva mentito: non l'aveva affatto chiusa a chiave.

    Una lama di luce lo colpì di sfuggita. Mella penombra intravidi i suoi occhi brillare. Cercò di non farsi notare e rimanere all'oscuro, spostandosi di lato.

    «Vedrò di fare più in fretta che posso», mi lanciò la chiave della porta principale - che riuscii a prendere al volo - e mi lasciò andare via.

    Non mi voltai per capire se fosse uscito o meno da quella stanzetta oscura. Tuttavia, il mancato suono di una porta che si chiudeva alle mie spalle mi fece intuire che era rimasto lì.

    *

    Ci dirigemmo a Los Angeles non appena fummo fuori dal ranch.

    Mi aveva raggiunto in parcheggio vestito con un paio di jeans, una felpa larghissima con cappuccio, un giubbotto di pelle nera, sciarpa, occhiali da sole, baffi, barba e sopracciglia finte; aveva però mantenuto i suoi mocassini e iniziai a credere che da quelli non riuscisse a separarsi mai.

    Non appena salì in auto mi spanciai dalle risate, dicendogli che non riuscivo a prenderlo sul serio. Michael si era finto offeso e io avevo fatto partire la macchina continuando a sghignazzare fra me e me.

    Dovetti farlo stendere nel bagagliaio per uscire dal ranch senza che le sue guardie facessero storie. Una volta lontani dai cancelli era tornato sul sedile anteriore al mio fianco.

    Mi aveva indicato un paio di negozi da visitare, tutti a LA, e in centro c'erano troppe persone. Non volli rischiare. E purtroppo neanche Santa Barbara non soddisfò le mie richieste.

    Chiesi a Michael un suggerimento su qualcosa da regalare ai suoi figli, ma lui scosse la testa e giustamente disse che dovevo scegliere io.

    «Sei di grande aiuto, sai?» gli scoccai un'occhiata fulminante, in direzione di Santa Monica.

    «Sempre a tua disposizione, darling», sorrise maliziosamente.

    Scossi la testa e alzai gli occhi al cielo.

    Michael mi fissò senza dire una parola. Quando lo intercettai con la coda dell'occhio sorrideva dolcemente.

    Mi accarezzò un ciuffo di capelli e me lo pose dietro l'orecchio, facendomi vibrare il fiato mentre mi sforzavo di mantenere l'attenzione sulla strada.

    «Grazie per avermi portato con te. Ne avevo bisogno. Non sai quanto necessiti di aria pulita».

    «Lo so, Michael». Le sue occhiate continue mi distraevano. «Ma questo non significa che ti porterò in centro a Los Angeles, mai e poi mai».

    Ridacchiò ammirando il panorama al di fuori del finestrino, arricciando il naso con aria poco soddisfatta. Non mi contraddisse.

    Arrivammo a Santa Monica e lì chiesi indicazioni su qualche negozio di giocattoli nelle zone. Finalmente ne trovai uno decente, vi entrai e vi girai in lungo e in largo con Michael. Quest'ultimo mi stava sempre alle calcagna, esaminando i giocattoli decisamente più estasiato di me. Fu costretto dal mio sguardo truce a non emettere una sillaba.

    Eravamo due bambini irrecuperabili. Forse era proprio per questo che il nostro rapporto si rafforzava ogni giorno di più. Ci capivamo, avevamo parecchie passioni e gusti in comune, e ci leggevamo nella mente senza parlare.

    Ci aggrappavamo a cose bambinesche, sperando che queste potessero riempire la nostra età adulta e quella mai vissuta.

    A Prince comprai un personaggio di Star Wars che non aveva nella sua collezione - me lo ricordavo perché mi aveva detto che lo desiderava da tempo - e rinunciai a un piccolo set per giovani registri, dato che il padre aveva già provveduto.

    A Paris dedicai un set per piccole make-up artists, con trucchi vari da applicare al busto di una barbie a grandezza naturale. Qualche settimana prima mi aveva visto con eyeliner, mascara e fondotinta e mi aveva chiesto se potessi insegnarle come fare.

    A Blanket comprai un completo blu e arancione, più un tenero peluche dal cartone Monsters & Co.. Michael se la rise sotto i baffi udendo le parole e i versi che emettevo non appena vedevo i mini completini per neonati; tentò di trattenersi e per questo rischiò di soffocarsi.

    Alla fine, prima di andare, chiesi timidamente a Michael se desiderasse qualcosa in particolare. Lui mi scrutò intensamente. Immaginai che da sotto le lenti scure i suoi occhi fossero spalancati come quelli di un pesce palla.

    «Dai, ti dovrò pur fare un regalo!» gli sorrisi dandogli un piccolo buffetto sul braccio. «Io me lo faccio sempre a Natale, sai? Mi compro qualche cianfrusaglia o qualche vestito. Stavolta prenderò un giocattolo!».

    Michael mi si accostò all'orecchio, dicendo che non aveva bisogno di nulla. Di tutta risposta lo ignorai e mi aggirai per l'ennesima volta in negozio.

    Le cassiere, impazienti, aspettavano che ce ne andassimo; se non avessi trovato qualcosa nell'immediato ci avrebbero sbattuto fuori a calci. Comprensibile, visto che era orario di chiusura.

    Michael mi seguì e continuò a sussurrarmi che non importava, che non gli serviva un regalo, ma io me ne infischiai volutamente. Quando fu sul punto di sbattermi la testa contro uno scaffale per farmi ragionare, il suo sguardo si bloccò su un strano oggetto, verso uno degli scaffali più nascosti del locale. Lo seguii con gli occhi e capii.

    Su quella mensola ci stavano tanti cuccioli di animali, dai volatili ai mammiferi, da quelli esotici ai più comuni. Sembravano fatti di pelo vero.

    Michael avanzò e prese un elefantino in posa, seduto sulle zampe posteriori con la proboscide rivolta allegramente verso l'alto: gli occhi dell’animaletto sfavillavano di luce, neri come il carbone, e la sua pelle era liscia come velluto. Io, al contrario, fui attratta da un cerbiatto dagli occhi grandi e nocciola; se ne stava retto su tre zampe, ammirandoti con la sua aria dolce e il musetto inclinato verso destra.

    Michael girò e rigirò l'elefantino fra le dita con dedizione e accuratezza. Si abbassò gli occhiali con un polpastrello e mi scrutò con un sorriso stirato.

    Non ci fu bisogno di dire altro.

    *

    Quando uscimmo erano le otto meno un quarto e prendemmo la cena ad un take away. Sostammo a Malibu, su una ripida scogliera a forma triangolare. Era un posto appartato con la fortuna di una vista diretta sul mare. Michael approfittò per togliersi occhiali, barba, baffi e sopracciglia finte. Mangiammo seduti su alcune in rilievo rocce, ascoltando la melodia dell'oceano.

    «Amo il mare» Michael guardò distrattamente l'orizzonte. «La sua vastità e il suo profumo... ascolto il rumore delle onde e divento parte del mondo, dell'universo intero. Mi sento una cosa sola con la Terra, con l'acqua, con tutti gli esseri viventi. Respiriamo tutti la stessa aria, Sarah, e siamo tutti parte di uno stesso infinito».

    Le onde si scagliavano contro le rocce creando deboli tonfi. La brezza massaggiava i nostri visi ghiacciando naso e guance. L'odore della salsedine mi fece dimenticare i minuti che passavano. Gli insetti cantavano, suonavano le loro eterne melodie, accompagnando la voce di Michael.

    «Davvero pensi questo?» domandai dopo aver riflettuto sulle sue parole. «Sì, insomma, che siamo una cosa sola?».

    Lui adocchiò il cielo stellato sopra le nostre teste. Inspirò profondamente. Storse le labbra in un sorriso crucciato ed io lo studiai aspettando la sua risposta.

    «Io penso di sì... e tu?».

    Fu il suo turno di osservarmi e il mio di ammirare il cielo blu notte.

    «Sì, credo di sì. Probabilmente ce lo dimentichiamo perché siamo tutti troppo presi dalla vita di ogni giorno. Però con questa scusa mi pare che la gente se ne approfitti, e che il mondo giri sempre più vorticosamente al contrario...»

    «Sono d'accordo» sussurrò umettandosi il labbro inferiore, analizzandomi. «Ma come fai a ricordare chi sei veramente con tutto il buio che ti circonda?»

    Trassi un profondo respiro, fissandomi i piedi.

    «Io credo che – per quanto la vita ti possa mettere alla prova – una parte di te rimane intatta. In alcuni casi di più, in altri di meno. Magari è soltanto una scintilla di coscienza, ma per non dimenticarla una persona deve essere forte. Deve volere con tutta se stessa di rimanere fedele a se stessa. Capisci che intendo?».

    Annuì. Guardò dinanzi.

    «Tu pensi che io ce l'abbia ancora, qui dentro?».

    «Oh, se ce l'hai!» proruppi emozionata. Michael mi squadrò sbattendo debolmente le palpebre. Ricambiai con un sorriso enorme. «Hai una luce che non riesci a immaginare. Ti sei perso, sei circondato da persone cattive che ti mettono a dura prova, ma non credo affatto che la tua luce sia scomparsa. Penso che tu sia un leone».

    «Dici?» si bagnò la bocca.

    Annuii solennemente. «Solo una persona luminosa e piena d'amore guarderebbe i suoi figli come fai tu. Lo vedo qualche volta, che ti emozioni anche solo vedendoli sorridere. Tu sai chi sei e rimani chi sei, a discapito del male che ti viene fatto», mi strinsi nelle spalle.

    Puntò lo sguardo verso una direzione ignota, esaminando le oscure acque salmastre con le iridi coperte di lacrime. Si torse le dita delle mani ondeggiando le gambe a destra e a sinistra.

    L'unica luce che mi permetteva di osservarlo di soppiatto era quella della Luna, ma lo lasciai libero di piangere senza che il mio sguardo indagatore rimanesse puntato su di lui. Magari sarebbe stato meglio spingermi verso di lui e abbracciarlo, ma l'unica cosa che mi venne da fare fu fingere tranquillità.

    Fu Michael a prendermi la mano e portarsela sulle labbra di punto in bianco. Si chinò sul palmo e gli dedicò un lungo bacio, prima di intrecciare le dita con le mie e portarsele sulla coscia.

    Gli rivolsi un'espressione sorpresa mentre le tempie pulsavano al suo contatto.

    Quel gesto fu capace di mandarmi su di giri in meno di mezzo secondo. Improvvisamente credetti che la febbre mi fosse salita a dismisura.

    Mi strinsi nella sciarpa e nel cappotto.

    Michael rafforzò la presa.

    «É meglio tornare a casa. Stai prendendo freddo», non mi guardò, ma lo intravidi sorridere furbescamente. «Non è che tremi per qualcos'altro?»

    Arrossii. «È soltanto un brivido passeggero».

    «Mmh...». Mi adocchiò il collo scoperto dalla sciarpa. Lo coprì facendo uso della mano libera, scaturendomi dolci pulsazioni sulla zona occipitale della nuca. «Meglio se ti copri».

    Una folata di vento guidò il suo profumo nei polmoni. Era buono e maschile come al solito, con una nota floreale che non gli avevo mai sentito addosso. Anche il mio gli arrivò sotto il naso – nonostante ne avessi messo soltanto una goccia – poiché si allontanò espirando profondamente.

    Michael riprese il discorso adocchiando il mare sotto di noi. Mi chiese come avevo ritrovato la luce nei momenti più neri.

    «Non è che l'abbia proprio fatto», sussurrai. «Mi definisco più "un lavoro in corso". Sono nel bel mezzo di un lungo viaggio, un percorso in cui sto cercando un qualcosa che metta d’accordo me con la mia vita. Provo a vedere la gioia nelle piccole cose, che siano minuscoli progressi o semplici momenti di gratitudine quotidiana, e queste riescono a mettere in pace le mie insicurezze almeno per un attimo».

    «Quali insicurezze?»

    Il respiro si annodò in gola.

    Esibii una spensieratezza che non provavo. Tuttavia, gli occhi di Michael furono capaci di penetrare quella facciata.

    «Ad esempio, anche se non sembra, tendo a buttarmi giù facilmente, sai, a sottovalutarmi. Ora molto meno di un tempo, sono decisamente più forte e sicura di me. L’età e l’esperienza aiuta. Eppure una volta crollavo al primo sassolino che incrociavo sul cammino; il minimo intoppo o rifiuto mi mandava in crisi e mi faceva chiudere a riccio nei confronti del mondo intero. E poi ho cominciato a focalizzarmi maggiormente sulle cose che andavano, molto di più rispetto a quelle che non lo facevano, sottolineando e complimentando le mie vittorie, grandi o piccole che fossero, personali o professionali».

    «Non ti sentivi mai sola?». Il suo tono era soffice e nostalgico. «Non hai mai avuto bisogno di essere salvata da qualcuno, ma quel qualcuno non arrivava mai? Eppure una parte di te non voleva chiedere aiuto, preferiva farcela da sola... capisci che intendo?».

    «Oh sì, eccome», mormorai alzando le sopracciglia e puntando l’oceano. «Tenti di rialzarti, desideri farlo con le tue stesse forze. Non accetti che qualcun altro lo faccia al posto tuo. Al contempo vorresti che qualcuno si sforzasse di starti accanto incondizionatamente, senza che tu glielo chieda, anche se sei la persona più complessa e contraddittoria di questo mondo. Un po' come farsi desiderare, augurandosi di non far allontanare nessuno a causa dei tuoi soliti meccanismi di difesa o il tuo caratteraccio».

    La melodia delle onde riempì il silenzio.

    «Come fai...»

    «Mmh?».

    Lo osservai e mi abbassai la sciarpa sul collo per poter parlare con più facilità. I suoi occhi parevano infuocati.

    «Dimmi come fai a capirmi dentro in questo modo».

    Scostai lo sguardo. «Abbiamo passato situazioni diverse ma i sentimenti sono gli stessi, credo...». Dondolai avanti e indietro con il busco e infilai la mano libera in tasca. «Anni e anni cercando di trovare la persona giusta per darsi la zappa sui piedi da soli, che idiozia. Se penso che mi chiudevo al più piccolo segnale che qualcosa non stava andando per il verso giusto o come volevo io, mi viene da ridere. Pian piano ho allontanato tutti… avevo paura, tremendamente paura».

    «Con l'immenso bisogno di sentirti amato e talvolta adorato». Strinse le mascelle e guardò avanti. «E alla fine ti fidi sempre delle persone sbagliate. Ti chiedi sempre quando il dolore - compresa la tua stupidità - finirà...»

    Le iridi di Michael si confusero dal pianto. Un’altra goccia salata spuntò dal suo occhio destro e la vidi scintillare sotto la candida e opaca luce lunare. Lo evitai con il naso che pizzicava.

    Sentii l'improvviso bisogno di sfogarmi. Iniziai a parlare a vanvera senza che lui mi avesse fatto una vera e propria domanda, senza che Michael mi avesse detto che gli importava conoscere quel lato di me. Fu la prima e vera volta in cui riuscii a confessare le mie paure e la mia fragilità a qualcuno di mia spontanea volontà.

    «Spesso mi sono sentita inutile», bisbigliai commossa, perdendomi nella notte con fare assente, «anzi, mi sono sempre sentita così, umanamente parlando. Bravissima negli studi, per carità, ma nei rapporti personali una frana. Una ragazza con nulla di speciale da offrire. In tutti ho sempre visto delle qualità che difficilmente riesco a trovare in me stessa.

    Penso che sia questo l'obiettivo della mia vita: credere che posso donare qualcosa di buono a questo mondo e che posso cambiare qualcosa. Credere in me stessa, sapendo che ho molto da offrire e che sono speciale così come sono. Ero convinta di aver risolto tutto, sai, ignorando le mie paranoie, invece non mi hanno lasciato in pace neanche un secondo. Non lo fanno neanche ora.

    Non riesco ad avvicinare nessuno come vorrei. Mi chiedo se sono troppo esigente o se sono un pesce fuor d'acqua. Mi sento una straniera per la maggior parte del tempo. Cerco un luogo a cui appartenere, anche se in realtà desidero persone con cui sentirmi a casa. Non dico di essere una perla rara, anzi; desidero soltanto che qualcuno mi guardi e dica: “Io ti conosco, so chi sei, ti adoro per tutto ciò che sei e so che vedi lo stesso in me”.

    Mi facevo – e mi faccio ancora – tanti problemi perché non credo di poter amare davvero. Sono diventata ancora più fredda negli ultimi anni, incapace di lasciarmi andare... non riesco a esprimere le mie emozioni. Ho sempre paura che la mia felicità non possa durare a lungo, esattamente come è successo in ogni mia relazione o amicizia. Delle volte mi è davvero difficile abbracciare qualcuno con naturalezza. Non sono mai stata capace di dire anche un semplice “Ti voglio bene” perché nessuno me lo ha mai insegnato – i miei genitori mi amano, ma non me lo hanno mai detto apertamente. È come se si aspettassero il mondo da me, così tanto che non credo di meritarmi questo tipo di dimostrazioni. E la mia timidezza non ha di certo aiutato». Scoppiai a ridere. Era una risata sardonica, priva di allegria. «Dico di non volermi fidare di nessuno, ma alla fine ne parlo con te...»


    I polpastrelli di Michael mi avvolsero sfiorando la pelle con dolci carezze. Mi fissava e mi lasciava parlare. E io parlavo, parlavo e basta, come un automa che ripete sempre le stesse identiche cose.

    Sospirai facendo scemare l’allegria.

    «Da piccola cercavo qualcuno che mi chiedesse che cosa provassi... o che me lo tirasse fuori. Che rimanesse ad ascoltare le mie parole e che mi avrebbe capito nel profondo, senza giudicare e senza limitazioni di alcun tipo. Io stessa ho provato a comportarmi così con gli altri, ma vedendo che non era un sentimento ricambiato ho iniziato a pesare il mio affetto. Ho smesso di dare il mio amore incondizionato a chiunque. Quando hai un problema e gli altri pensano che le tue siano solo "futili preoccupazioni" è il momento di farsi due domande... a meno che tu non sia veramente una pigna rompiballe». Ridacchiammo. «Sono grata di essere nata e cresciuta senza problemi di salute, come di essere l’erede di una famiglia benestante e ben messa. Sono una donna fortunata, ma sento comunque un vuoto.

    Chi vuole ignorare la mia freddezza e scavare al di sotto della mia corazza? Chi è pronto ad accorrere per me? Non è una cosa che posso pretendere, ma spesso mi sono chiesta: “Perché io no?”».

    «Sarah...».

    Sfuggii ai suoi occhi e mi strofinai le palpebre per cancellare le lacrime. La gola mi faceva male, come se avessi finalmente sputato un nodo che non mi permetteva di respirare da anni.

    «Sarah, guardami».

    Lo feci. Aveva le iridi arrossate e una postura rigida.

    «Sarah, tu non sei inutile».

    «Lo so...».

    Sollevò le sopracciglia. «No, tu non lo sai».

    Mi sembrò di aver già vissuto quella scena o di averla vista in qualche film che non ricordavo.1

    «Dimmi, eri inutile quelle volte che mi sei stata vicino quando ho pianto? Eri un'estranea e non mi hai mai abbandonato. Ti sembra poco questo?»

    Chinai lo sguardo sulle nostre mani abbracciate. «No...».

    «Appunto. Come non sei inutile per me, non lo sei neppure per i miei figli, che ti vogliono bene e che non vedono l'ora di giocare con te quando ti vedono. Ti credono loro amica. E tu pensi che donare amore ai miei figli sia niente? Per questa famiglia e per molte altre tu sei o sei stata una figura importante. Hai così tante belle qualità dentro di te che non posso neanche descriverti... sei dolce, buona e comprensiva... e sensibile... e speciale.

    E poi non è vero che sei fredda. Sei solo impacciata nel manifestare i tuoi sentimenti. Pensi di non riuscire a mostrare nulla, ma in realtà riesci a dare tanto. Con me lo hai fatto. I tuoi gesti e la tua presenza hanno espresso ogni “Ti voglio bene” che non hai mai detto a voce alta. Hai soltanto bisogno di qualcuno che ti aiuti a lasciarti andare. Forse non te ne sei accorta, ma inconsciamente lo stai facendo e stai avendo fiducia in qualcuno, in me. E questo, per quanto possa valere, mi riempie il cuore. Sono fiero di essere quel qualcuno che ti permette di liberarti da un peso così grande».

    Sorrisi torturandomi nervosamente i capelli. Sperai che non cogliesse la tristezza che non mi aveva abbandonato.

    Perché, per quanta felicità potesse donarmi, quello era un blocco di cemento che portavo sulle spalle e dentro la testa da anni.

    Mi posò un bacio sulla tempia. «Sei più forte di quanto credi».

    Mi abbracciò e timidamente infossai il viso fra i suoi capelli. Tutto sapeva del suo inebriante profumo e di quello salmastro del mare. La sua presa scuoteva il cuore come un martello pneumatico. Il naso pizzicava tanto da prudermi. Le lacrime mi sbavavano la vista.

    Io non volevo essere sempre forte.

    «Grazie...», emisi a fior di labbra.

    Me l'ero sentito dire da tutti. Da tutti coloro che venivano da me e mi chiedevano aiuto, da tutti quelli che – egoisticamente o per colpa mia – preferivano non guardare oltre le apparenze.

    Non riuscii a ricambiare l'abbraccio.

    «Sarah...».

    Percepii una voragine farsi sempre più profonda nel petto.

    Mi scostò afferrandomi le spalle con le mani. Puntai un mare che non riuscivo più a definire.

    «Cosa c'è?»

    Silenzio.

    Scossi la testa serrando le labbra con forza.

    Non ero solo triste: ero completamente pervasa dal suo affetto. Tutto questo rendeva la situazione a dir poco insopportabile.

    «Sarah», Michael mi accarezzò la testa. «Ascoltami».

    Non volevo mostrarmi debole.

    Negai ancora più energicamente.

    Michael mi circondò le guance con i suoi tiepidi palmi. Con un po’ di sforzo mi avvicinò a sé. Sebbene fossi in grado di ammirarlo soltanto di sottecchi, notai che la sua faccia era contratta dalla comprensione.

    «Lascia andare. Lascia andare tutto».

    Non una parola.

    Non una risposta.

    Il mondo si appannò. Smisi di respirare per un lungo, indefinibile istante.

    Mi allontanai con un brusco movimento del capo facendolo rimanere a bocca aperta. Voltai il capo verso l’oscurità, dove Michael non avrebbe potuto guardarmi in faccia, e pregai affinché potesse scomparire da lì.

    Le labbra fecero sfuggire un cupo spasmo di pianto.

    Espirai pesantemente, rabbrividendo.

    Quel magone che avevo conservato gelosamente, in solitudine, colò dalle iridi e decorò le guance di un nero invisibile. Mi faceva mancare l'ossigeno, il controllo, per non parlare del violento pulsare del sangue nelle tempie. Le dita tremavano e non riuscivo più a vedere nulla.

    «Sarah!»

    Michael urlò non appena mi alzai dallo scoglio e accorsi in direzione della macchina.

    Soffre già abbastanza per le accuse di pedofilia, non ha bisogno del mio dolore, pensai inizialmente. In realtà stavo solo giustificando il mio comportamento infantile, causato da una cosa così normale come piangere.

    Non lo stavo facendo per lui. Semplicemente non credevo di essere pronta ad esporre così apertamente le mie emozioni.

    «Sarah, fermati!»

    Mi arrestai e le gambe furono sul punto di cedere. Annaspai come se stessi affogando nello stesso oceano che avevamo ammirato fino a poco fa.

    Tanti ricordi risalirono in superficie. Ricordi dell'infanzia, di quando venivo presa in giro o me ne stavo nel mio cantuccio preferito, in giardino, con le mani appese alla rete metallica del recinto guardando i campi verdi e non coltivati pregando affinché potessi volare. Ricordi della mia insipida adolescenza, ricordi dei litigi con i miei genitori per la mia partenza in America. Ricordi di tutti i sacrifici che avevo fatto per mostrare a tutti che potevo farcela da sola. Da sola, come sempre. E sì, ricordi degli amori che non erano durati, delle amicizie superficiali e di quelle sporadiche ma sentite. Ricordi della gente a cui avevo voltato le spalle e della gente che le aveva voltate a me. Ricordi dei legami che erano morti con la distanza e di quelli che ancora rimanevano, ma che non erano abbastanza intimi da lasciarmi un segno nel cuore. Ricordi del vuoto che avevo sentito e che non era stato ancora riempito.

    Avevo bisogno di affetto, questa era la verità. Di donarlo, sì, e anche di riceverlo. Un amore che non avevo mai ritrovato in tutte le mie ricerche, forse per mia estrema pignoleria o per mia innata selettività. Un amore che non esisteva, forse. Comprensione, risate, o magari, semplicemente, una mano stretta nella mia. E che durasse per sempre.

    Quel luogo che cercavo, quello che volevo disperatamente trovare, era una persona.

    «Sarah, non ignorarmi...»

    Mi fermò per l'avambraccio sinistro e tremai di riflesso.

    Affondai il viso in una mano e mi lasciai andare al pianto - uno di quelli che non avevo mai osato iniziare per paura di non riuscire a smettere.

    «Vieni qui...», mormorò.

    Mi voltò dolcemente ed io non osai protestare. Mi sfiorò il capo con carezze delicate e lo guidò verso l’incavo del suo collo, dove trassi riparo; continuai a piangere, a piangere e a piangere. Mi faceva perfino male il cuore, non soltanto la gola.

    «Sfogati...» sussurrò. Mi strinsi spasmodicamente alla sua giacca pesante. «Non trattenere nulla, butta fuori... ci sono io... respira...»

    Sebbene stessi male, mentre dolore e solitudine rimbombavano nel cervello regalandomi forti giramenti di testa, sentivo una nuova emozione dentro di me. Qualcosa che avevo smesso di provare da... da parecchio. Ma quella volta era un po' diversa. Più forte... più... più strana. Strana e basta.

    Michael mi baciò la nuca senza smettere di pettinarmi i capelli con le dita, abbracciandomi forte. Come una vera ragazzina di ventotto anni, piccola e impaurita, nelle braccia del suo saggio angelo custode.

    C'era Michael per tutte le persone che non c'erano mai state.

    *

    Quando mi calmai, seppur lentamente, Michael non fece nulla per lasciarmi andare. Mi tenne stretta a sé per un'interminabile quantità di tempo.

    Dal momento in cui separò il mio viso dal petto, cullandolo fra le dita solide e morbide, asciugandomi le gote con i polpastrelli, desiderai non incrociare le sue iridi scure per sviare l'imbarazzo di quella situazione.

    Michael sorrideva.

    «Stai meglio?»

    Assentii.

    Anche le sue guance erano state rigate da alcuni rivoli salati.

    «Penso che sia ora di tornare all'Isola che non C'è».

    Acconsentii e pigramente ci incamminammo verso l'auto.

    Allacciai una mano a quella di Michael.

    Fui io a cercarlo e non ebbi il minimo tentennamento nel farlo. Egli ricambiò stringendomi più forte ed io, in tutta risposta, avvampai.

    Lo guardai di sottecchi. Puntava dritto di fronte a sé, sicuro e composto.

    Sciogliemmo la presa, io per andare al posto guida e lui per sedersi in quello accanto. Accesi il motore e guardai l'ora: era passata un'ora e mezza da quando ci eravamo seduti lì. Con le guance arrossate per la consapevolezza che Michael mi stesse ancora osservando, accesi la radio.

    «Posso cambiare o te la lascio?».

    Non conoscevo affatto la canzone che stava suonando, ma non mi piaceva granché. Lui – che mi studiava soprappensiero – inarcò la fronte.

    «Fai pure». Mi guardò le dita mentre mi apprestavo a cambiare frequenza. «Vuoi che faccia io?»

    «Sì, grazie, altrimenti non ci muoviamo più da qui...».

    Premetti l'acceleratore e seguii l'autostrada principale, la Pacific Coast Highway. Continuò a cambiare canale senza fermarsi, fino a quando non udii una delle mie canzoni preferite e gli chiesi di arrestarsi: Strangers in the night di Frank Sinatra.

    Canticchiai senza emettere un suono, sillabando le parole senza cimentarmi in gorgheggi vari. Michael mi teneva d'occhio e il suo interesse s’infilzava in corpo come tanti spilli gentili.

    «Ti piace Frank Sinatra?».

    Notai che sorrideva a labbra strette. Ricambiai.

    «Sì, moltissimo, ma preferisco ascoltarlo durante il periodo natalizio. L’atmosfera diventa ancora più dolce con la sua musica».

    «Davvero? A me fa venire voglia di ballare sotto la Luna» disse sistemando il capo sul poggiatesta. Guardò in direzione della piccola sfera luccicante sopra le nostre teste. «È la compagna delle mie notti solitarie. Ha ispirato molte delle mie creazioni...»

    Pensai al nomignolo che mi avevano dato al college, Moony. Che strane coincidenze, uh?

    «È meraviglioso» mormorai tenendo lo sguardo sulla strada, «anche a me fa pensare ad un ballo sotto la Luna».

    «È un tuo sogno?»

    «Mmh, ci sei quasi». Ridacchiai enigmaticamente e i suoi sguardi interrogativi non mi lasciarono via di fuga. Sapevo di averlo incuriosito. «Quello che sto per dirti non l'ho mai confessato a nessuno fino ad ora... è una cavolata imbarazzante, oltremodo sentimentale, ma...»

    Sbatté le palpebre delicatamente. «Racconta».

    Abbassai appena i finestrini per cambiare l'aria.

    «Un giorno, quando non so, ballerò questa canzone sotto la Luna, con la persona con cui spenderò il resto della mia vita insieme. Magari indosserò uno di quei magnifici abiti principeschi, quelli che si vedono nei film in bianco e nero – uno di quelli lunghi lunghi, che si aprono quando giri, hai presente?».

    Arrossii e mi morsi la lingua, sogghignando. Rivelare i miei sogni d'amore non era facile, non se continuava a lanciarmi quel tipo di occhiate.

    «È un sogno davvero bello».

    Silenzio.

    «E non è affatto una cavolata imbarazzante. Sarei felice per te se si avverasse. Il prescelto sarà sicuramente un uomo fortunato».

    Risi e per un momento - per un fugace e intenso momento, in cui il buon senso mi abbandonò del tutto - sperai che Michael mi chiedesse di fermare la macchina in parte alla strada, per ballare con lui le ultime note della canzone. Grazie a Dio l'illusione finì prima che potesse diventare una speranza vera e propria.

    «Ti ringrazio», le guance erano pennellate di rosso.

    La melodia successiva non piacque a nessuno dei due, perciò cambiammo frequenza. Si fermò sull'unico canale decente che beccammo.

    Inaspettatamente una canzone che conoscevo bene mi fece drizzare le orecchie. Cominciai a ripetere "Nooo! Che bella questa!" con fare bambinesco, occhi fuori dalle orbite e dita che tamburellavano sul volante.

    «Perché ridi?» chiese l'altro con un sorriso dubbioso.

    «Hai mai visto Saturday Night Live? C'è uno sketch dove appare questa canzone, What Is Love? di Haddaway».

    «Uhm, un duo che muove la testa in modo buffo in un auto, vero?».

    Lo guardai sconvolta. «Oh mio Dio, sì! E c'è anche uno sketch in cui sono in tre, con Jim Carrey presente! Jim è uno dei miei attori preferiti da sempre! Ma come... non dirmi che seguivi Saturday Night Live

    «No, ma ho visto quella scena molto anni fa, non so dirti in quale situazione. Ho un ricordo molto vago» esclamò ridacchiando e grattandosi la nuca con due dita.

    «Non sai quante volte mi sono messa in macchina a fare il loro stesso movimento di testa! Non puoi capire che dolori al collo...». Michael sogghignò. «Ho guardato quel programma e Living Colour quasi esclusivamente per Jim Carrey».

    «È un grande attore, sì. Immagino che tu abbia visto Ace Ventura? O Una settimana da Dio, no? Sono dei capolavori di comicità», picchiettò le dita sul poggiolo a ritmo, mostrando i denti.

    «Oh sì!», sgranai gli occhi mirando la strada. «Adoro la scena quando grida "I've got the power!"»

    Si spanciò per la mia perfetta imitazione di Carrey, unendo le mani e portando il busto avanti e indietro. Non sapevo più se ridere per il film o per la risata di Michael.

    «E ti ricordi quando il giornalista – il rivale - comincia a impazzire durante la diretta? E c'è lui che lo manovra da dietro le quinte?»

    «Oh boy, sì!», la sua ridarella aumentò volume.

    Colta dal desiderio di ravvivare la situazione e togliermi di dosso il pianto residuo, alzai il volume. Lanciai una rapida occhiata a Michael e vidi che mi stava osservando con le sopracciglia inarcate.

    Gli feci un cenno del mento. «Avanti, facciamo anche noi come Jim Carrey! Sei pronto? Il movimento inizia da sinistra!».

    Dissentì allegramente. «Tu sei pazza, ragazza... ma mi piace!», drizzò le spalle sgranchendosi il collo e mi squadrò con pupille sorridenti. «E mi piaci anche tu».

    Senza dar retta alle sue parole, gli angoli delle labbra si sollevarono maggiormente.

    «Ok, pronto?»

    «Pronto!».

    «Via!»

    E cominciammo a ondeggiare la testa a destra e a sinistra come due bambini, canticchiando il ritornello con due sorrisi inebetiti. Il canto si trasformò poi in una serie di urla gasate e in mosse di testa sempre più scatenate. Ci osservammo nello stesso istante e ridemmo a più non posso.

    Ad una certa, sempre lungo il tragitto, percepii Michael inclinarsi in direzione del mio profilo. Abbassò il volume della radio.

    «Smile thought your heart is aching. Smile even known it's breaking. When there are clouds, in the sky... you'll get by...»

    Stava cantando.

    Gli dedicai un'espressione interrogativa.

    Guardò fuori, continuando a sorridere e fischiettare felice.

    C'era qualcosa di eccentrico in lui. Più passavano i giorni, più quest'idea si confermava e si riconfermava in testa. Ti catturava. Aveva il potere di acchiappare una persona con lo sguardo, con la sua presenza, con tutto ciò che era. Ti attirava a sé e tu capivi che improvvisamente il centro dell'universo era lui e lui soltanto. Credevo che quest’emozione lo esaltasse, segretamente.

    «Si chiama Smile» sussurrò. Si passò la lingua sulle labbra. «È di Charlie Chaplin. È una delle canzoni che amo di più».

    «Ha delle belle parole».

    Si rilassò sul poggiatesta. Mi parlò del suo amore per Chaplin, dei film che adorava e di quanto si sentisse simile a quell'attore... e poi ritornò a canticchiare allegramente, per tutto il pezzo di tragitto mancante.

    *

    Quando arrivammo a Neverland dormivano tutti.

    Ci liberammo delle giacche abbandonandole sull'appendiabiti e salimmo le scale leggeri come piume. Da vero gentiluomo mi condusse alla mia stanza.

    Esitai prima di lasciarlo andare. Avevo le spalle contro la porta e Michael di fronte. Lo fissai mordendomi l'interno guancia con un velo di tensione.

    Mi puntò con aria incuriosita, mani nelle tasche dei pantaloni, privo di qualsiasi travestimento, in attesa che dicessi qualcosa.

    «Grazie», gli lanciai un’occhiata obliqua. «Mi sei stato molto vicino, oggi. Sei... sei un amico, un amico vero. Grazie di cuore».

    Michael si accigliò appena. Emise un debole ed intenerito "Oh" e mi abbracciò nel giro di un istante.

    «Ne sono felice», sussurrò penetrandomi l'orecchio sinistro con un brivido. Lo percepii inspirare a fondo e immaginai le sue palpebre chiuse, la fronte corrugata e la bocca delineata in un sorriso. «Grazie a te per non aver smesso di cercarmi».

    Inconsapevolmente mi strinsi alla sua camicia.

    Il cuore mi stava letteralmente fuggendo dal petto.

    Michael era un vero amico e non mento quando lo dico. L’affetto che sentivo per lui era come una fiamma – una fiamma dai meravigliosi colori dell'arcobaleno, calda e prorompente – che si aggrappava al cuore, lo incendiava e lo serrava in una morsa di incontenibile esultanza.

    Michael non sapeva per quanto e quanto a lungo avevo cercato una persona esattamente come lui, capace di scoprire la parte più profonda di me senza alcuna difficoltà. Senza che io avessi il desiderio di sottrarmi alla luce che emanava il suo essere, abbagliante ed incandescente.

    Finalmente capii.

    Capii perché non avevo mai smesso di guardarmi intorno e perché ero rimasta in attesa per tanto tempo, aspettando che quel momento divenisse realtà, e che quella persona lasciasse un tatuaggio indelebile nella mia vita.

    *

    La vigilia di Natale passò tra le risate e la farina.

    Quella mattina Michael e i bambini mi svegliarono alle otto precise – con mio grande "entusiasmo" – affinché li aiutassi a preparare il dolce per il giorno dopo. Pensando alle mie origine italiane avevano puntato subito al tiramisù.

    Per il pranzo di Natale saremmo stati solo io, Michael, i bambini e alcune delle sue guardie del corpo, perlomeno fino ad una certa ora (e non chiesi il perché). Michael e i bambini sarebbero andati a trovare i parenti nei giorni seguenti, visto che alcuni di loro non lo festeggiavano quell'occasione.

    Perciò in mattinata ci occupammo del fantomatico dessert e nel pomeriggio della pulizia completa della cucina. Per il resto se ne sarebbe occupato lo chef privato.

    Sarebbe stato bello dire che Michael e i bambini non cercarono assolutamente di macchiarmi i vestiti e di mettermi il mascarpone fin dentro le ciabatte, ma così non fu. Michael iniziò una delle più grandi lotte di cibo che avessi mai fatto: cominciò lanciandomi semplici manate di zucchero – che io ricambiai con sguardi torvi – e di seguito si aggiunsero anche i bambini. Ce la ridemmo come scatenati, correndo avanti e indietro per la stanza inseguendoci l'un con l'altro. Michael, più di tutti, aveva uno sguardo malizioso che incuteva timore.

    Il risultato fu un dolce squisito e quattro bambini – perché né io né Michael potevamo essere considerati adulti – sporchissimi, macchiati di impasto ovunque. L'unico calmo e beato era Blanket, seduto sul seggiolone, che di tanto in tanto rideva e lanciava le prime cose che gli capitavano sottomano.

    La notte, dopo aver fatto compagnia ai bambini con un film di Natale, io e Michael ci dirigemmo in salotto e posizionammo i regali sotto l'albero. Bevemmo un bicchiere di latte caldo parlando di cosa avremmo fatto il giorno dopo; infine lo ringraziai per avermi fatto giocare con il cibo, confessandogli che non lo avevo mai fatto prima d'ora.

    Michael mi scompigliò i capelli.

    «Speravo di farti ridere... sei molto bella quando sorridi».

    Arrossii e mi congedai. Mi seguì fino a metà corridoio, quello che divideva la mia stanza dalla sua, e fui io, quella sera, a dargli la buonanotte con un affettuoso bacio sulla guancia.

    Fui veloce come un lampo e lo presi in contropiede: afferrai la manica della sua camicia a righe, mi sollevai sulle punte e gli sfiorai la guancia sinistra nel momento esatto in cui mi fissò stupito. Quella fu la prima volta che lo vidi avvampare sul serio.

    Gli detti la buonanotte e scomparii nell'oscurità con l'allegria stampata in faccia.

    *

    La mattina dopo, come il giorno prima, i bambini accorsero per svegliarmi presto.

    Indossavano abiti degni di due regali: Prince sfoggiava un completo nero e una camicia verde smeraldo – e mocassini lucidissimi! -, mentre Paris un enorme vestito con gonna a cerchio, maniche lunghe, rosso e stracolmo di brillantini dorati. Persino i capelli di entrambi erano stati pettinati e ordinati alla perfezione.

    Saltarono sul letto pregandomi di scartare i regali con loro. Michael non era presente e non lo vidi nemmeno quando arrivai giù, avvolta nel mio pigiama di flanella bianco panna ridefinito di rosa. Doveva essere con Blanket.

    In compenso c'erano due guardie del corpo. Indossavano abiti non molto formali - semplici jeans e camicia tinta unita. Erano due omoni alti, uno scuro di pelle e l'altro caucasico. Il primo teneva i capelli rasati, i lineamenti tipicamente afroamericani e due occhi neri e osservatori; il secondo, invece, corti e castani, fisico decisamente più longilineo del collega e un atteggiamento molto più spigliato.

    «C'è anche qualcosa per te, Sarah!», esclamò Prince con un sorriso che partiva da un orecchio all'altro.

    Lo adocchiai con fare interrogativo. Paris mi consegnò un pacchetto argentato ornato da nastro bianco.

    Lo aprii sotto l'insistenza dei due piccoli, i quali cominciavano a scuotermi vigorosamente di fronte alla mia rigidità e alla mia visibile confusione.

    Seduta a terra, con le ginocchia puntate sul tappetto e Prince e Paris appollaiati sulla mia schiena, scartai il dono.

    Schiusi appena le labbra: era l'animaletto che io e Michael avevamo comprato due giorni prima. Ma non il mio cerbiatto, il suo elefantino.

    E con esso un adorabile messaggio di "Babbo Natale".




    1 Riferimento al film Will Hunting – Genio Ribelle.



    Edited by fallagain - 14/6/2021, 20:59
  3. .
    Nyx, dea greca della notte:

    "Nyx represents the night, beauty, and power. She represents the night because when the sunsets, she sets out on her chariot, with the darkness trailing behind. She represents beauty because she was beautiful and portrayed as one of the most beautiful goddesses on the face of the earth. And power is one of her values because both gods and men feared her greatly."

    Se fossi una costellazione?
  4. .
    Penso che la voce di Tommy Karevik sia veramente la nuova settima meraviglia del mondo wub2
  5. .
    punk
  6. .
    Capitolo Quindici: La Dolcezza di Casper

    Distesa sul pavimento, in un luogo in cui i secondi avevano smesso di ticchettare, ignorai il lieve bussare alla porta della camera.

    Udii una voce in lontananza, ma ero troppo concentrata sul non vomitare una seconda volta per prestarci attenzione. La febbre saliva sempre di più, le ossa divenivano fragili come rametti sottili. Non avevo la forza di aprir bocca.

    Non ci fu bisogno di farlo.

    La porta si aprii con uno scatto. Una figura entrò in bagno avanzando veloce.

    Prontamente nascosi il viso sotto un braccio, evitando inutilmente di esibire il mio volto sfigurato agli occhi del mio salvatore.

    «Dio, Sarah...»

    Quel sussurro mi dette le vertigini. Sapevo benissimo che solo lui, in quella casa, aveva quel tipo di frasi nel suo repertorio quotidiano. Mi sentivo così male per la sua presenza che subito mi pentii di averlo chiamato col pensiero.

    «Riesci a tirarti su?».

    La sua voce era molto più vicina di quanto mi sarei aspettata, ma soprattutto più dolce e premurosa. Preoccupata.

    Scossi la testa lentamente.

    Era una cosa troppo imbarazzante. Una situazione che non sarebbe dovuta accadere.

    Sentii un'imprecazione sfuggirgli dalle labbra schiuse, fatto per il quale – purtroppo – non potei mostrare il mio stupore. Era la prima volta che lo udivo imprecare; mi aveva sempre dato l'impressione di uno che non diceva parolacce se non quando era furibondo, invece mi sbagliavo.

    Lasciai perdere il pensar troppo; tutto ciò mi faceva girare la testa ancor più vorticosamente, già di per sé appannata dalla febbre.

    «Vieni, aggrappati a me... ti aiuto».

    Provò a scoprirmi il viso e reagii con un suono a denti stretti visibilmente disperato. Un conato di vomito mi fece rabbrividire. La sua mano, ferma sul mio polso, lasciò la presa e risalì l'avambraccio.

    «Non ti devi vergognare... non con me...»

    Non mi mossi di un centimetro.

    Provai ad alzarmi da sola, tanto presto o tardi avrei vomitato di nuovo.

    Barcollai rischiando di cadere all'indietro e sbattere la schiena contro il pavimento, ma Michael mi cinse nell'immediato; con un palmo mi prese le spalle e con l'altro il gomito. Anche non volendo mostrai il viso, ma ignorai lo sguardo del mio eroe con tutte le energie rimaste.

    «Ce la fai?» chiese gentile.

    Le sue iridi erano diamanti nel buio. Scavavano fin sotto le ossa attraversando lo scorrere del sangue.

    Scossi il capo emettendo un suono basso. La smorfia che esibii fu un misto tra orrore, schifo e paura. Mi sentivo una completa deficiente.

    Lo percepii ancora, arrivò fino alla gola. Mi tenni una mano sulle labbra fino a che, con uno scatto, mi gettai sul water... e buttai fuori.

    Grazie al cielo i capelli mi avevano coperto il viso senza entrare nella tazza. Le dita tremavano e vedevo buio nonostante gli occhi aperti. La mia voce, durante l'atto, si incrinò dallo sforzo.

    Michael si mosse come un fulmine. Si pose al mio fianco e mi accarezzò la schiena. Non appena mi fermavo per prendere fiato tra un conato e l'altro mi diceva: «Respira... profondamente...», e quando tornavo a vomitare mi lambiva con più ardore. Mi raccolse i capelli ciocca dopo ciocca e li fermò dietro le spalle con due dita. Alla fine, quando terminai, liberai un singhiozzo e udii Michael bisbigliare: «Sei stata bravissima... ora respira, calma, è passato tutto».

    Tirai l'acqua prima che lui potesse alzarsi e farlo al posto mio, tastando alla cieca, e sospirando volli morire. Cessare di esistere , in quel preciso istante, dalla vergogna.

    Ingoiai la saliva e il gusto schifoso che rimaneva in bocca. La mia espressione era tutto un programma.

    Mi sentivo uno straccio. Una merda completa.

    «Andiamo a distenderci?» chiese Michael dopo alcuni secondi - forse anche minuti -, pettinando una ciocca di capelli ribelli e sudati all'indietro. Annuii. «Allora tieniti stretta a me».

    Non mi resi conto di ciò che stavo facendo fino a quando non fui a letto. Mi ero alzata e avevo cercato di non calcare tutto il peso su di lui, barcollando e vedendo fuligginoso. A piccoli passi avevamo raggiunto il materasso e mi ero distesa con fatica. La nausea era un po' passata, ma lo stomaco ballava la salsa.

    Michael mi disse di alzare il bacino verso l'alto, cosa che riuscii a fare soltanto quando lui mi aiutò reggendomi la curva della spina dorsale affinché potesse tirare giù le coperte. Prima che potessi infilare le gambe sotto di esse mi bloccò i piedi.

    «Hai un pigiama caldo?»

    Lo fissai con sguardo vacuo. Era deciso e impassibile. Assentii e con un'occhiata gli indicai il pigiama sopra la sedia accanto alla scrivania. Michael lo andò a prendere.

    «Ora devi metterti questi» mi scrutò eloquentemente. Lo guardai di rimando corrugando le sopracciglia. Sbarrai gli occhi un secondo più tardi. Michael continuò a puntarmi deciso. «Ti aiuto io. Terranno caldo, molto più dei vestiti che hai indosso».

    Negai con la testa e nel farlo fui sul punto di svenire. Avevo già vomitato di fronte a Michael, cosa già di per sé molto sgradevole... non mi sarei spogliata con lui che mi sollecitava a farlo.

    Inclinò la testa di lato guardandomi con lieve disapprovazione. Tentai di voltargli la faccia come una bambina che fa i capricci. La testa girava come una trottola.

    «Sarah...» lo udii chiamarmi. Si sedette sulla sponda del letto. «Non sono un maniaco e non intendo farti male o approfittare di te, se è questo che temi. Non ti guarderò, lo giuro. Se te la senti di farlo da sola prova, in caso contrario ti aiuterò io. Non accetto scuse».

    Mistosentendomale... mistosentendomale...

    Lo adocchiai con fare incerto. Era autoritario e intenerito insieme. Sapevo di potermi fidare di lui, il suo sguardo prometteva bene, ma... era difficile credere che non avrebbe dato una sbirciatina curiosa. Era un uomo dopotutto, io non ero abbastanza bella per essere apprezzata da lui. E se gli avessi fatto orrore con solo la biancheria intima addosso?

    Tutto d'un tratto mi stavo facendo paranoie per nulla.

    Priva delle energie necessarie per controbattere, accettai la sua proposta.

    «Bene...».

    Non fui abbastanza veloce da cogliere la scintilla d'imbarazzo guizzare nei suoi occhi.

    Prese i pantaloni del completo rosso e bianco. Con uno sguardo calmo ma indulgente mi studiò, cercando un'ulteriore conferma.

    Mi sbottonai i jeans con la lentezza di una tartaruga. Quando vinsi la battaglia issai il bacino verso l'alto, supportata da Michael, e con fatica guidai i pantaloni fino alle cosce. Lui fece il resto: prese delicatamente due estremità e le trascinò lungo le caviglie, sfilando l’indumento con tocco impercettibile.

    Grazie a Dio la ricrescita sulle gambe era agli inizi (qualche giorno prima avevo deciso di depilarmi grazie al mio intuito che, geniale come al solito, mi aveva suggerito di darmi una bella ‘spuntatina’ prima di partire. Ero stata astuta).

    Lo fissai per tutto il tempo con aria smarrita ed il suo viso era lo specchio della calma. Cercava di farmi capire che dovevo avere fiducia in lui, cosa che ottenne completamente, e scansò l’idea di guardare le mie gambe il più possibile - anche se non c'era granché da osservare con tanta ammirazione. Non vi era niente di sessuale nei suoi gesti.

    Mi aiutò a mettere i pantaloni del pigiama invertendo il procedimento utilizzato per i jeans. Quando afferrò la camicia del completo mi fece tornare seduta; notando la mia espressione nauseata tentò di fare il più veloce possibile. Con un rapido e meccanico gesto di dita mi tolse il maglioncino antracite sfilandomelo per le spalle.

    Percepii freddo al contatto con la sua pelle. Mi osservò intensamente.

    «Abbiamo quasi finito».

    La testa pulsava e l'acido pizzicava fastidiosamente le papille gustative.

    Restai in reggiseno di fronte a lui e subito mi coprii la pancia, atteggiamento che però non avevo compiuto quando mi aveva abbassato i pantaloni e mi aveva visto in mutande. Non mi preoccupai neanche del mio seno, il quale era tanto grande da riempire abbondantemente il reggiseno.

    «Tira su le braccia», mormorò Michael senza interrompere il contatto visivo.

    Obbedii e m’infilò la giacca del pigiama. Trovai le maniche guidata dalle sue mani e quando riuscii a inserirmele nelle giuste aperture la calò subito sotto l'ombelico.

    Michael aveva ragione, faceva più caldo così.

    Rabbrividii.

    «Distenditi, vado a prendere qualche coperta. Vuoi la limonata? Non credo che tu abbia voglia di mangiare...»

    Annuii con il capo e non parlai, abbracciandomi per tenermi più calda. Michael si rimise in piedi.

    Realizzai cosa mi aveva detto e fui presa dal panico. Michael non captò la mia espressione terrorizzata fino a quando non si voltò prima di uscire dalla porta.

    «Torno subito, non ti preoccupare», annunciò con un velo di premurosità.

    Il mio stato d'ansia non si appiattì.

    Michael tornò indietro e inglobò il viso fra i suoi palmi. Mi sorrise con un’amabilità indescrivibile, così tanto da farmi smarrire nell'oscurità delle sue iridi.

    «Ti fidi di me?»

    Assentii.

    Mi baciò la fronte imprimendo un segno più delle altre volte: una delicata pressione, un morbido calore che fu in grado di bruciare il punto preciso in cui aveva posato le labbra. Mi resse la nuca e mi aiutò a distendermi sul cuscino.

    Fece dietrofront e uscì come un lampo di luce. Tutto troppo in fretta, mentre il silenzio riempiva ogni cosa.

    Alzai lo sguardo verso il soffitto.

    Avevo paura, una paura enorme. E avevo sete, così tanta che non sarei riuscita ad attendere il ritorno di Michael prima di bere qualcosa.

    Mi posi di lato, in direzione del comodino. Mi sporsi per raggiungere un bicchiere mezzo pieno di acqua che avevo portato in camera qualche ora prima e ne gustai un piccolo sorso. Quando lo riposi al suo posto le palpebre si abbassarono sulla visuale.

    Respirai profondamente.

    Nel momento in cui Michael sarebbe tornato mi avrebbe trovato in un luogo molto distante da lì.


    *

    Mi ridestai nel cuore della notte. Nonostante gli occhi chiusi i miei sensi si erano quasi del tutto rinvigoriti.

    Mossi un piede per accarezzare le candide lenzuola e il soffice materasso, i quali mi cingevano il corpo in una stretta affettuosa. La febbre non era passata: mi sentivo frastornata e ovattata. Un solo e brusco movimento della testa e avrei rischiato un mancamento.

    Issai le ginocchia al petto assumendo una posizione fetale, posta nello stesso lato in cui mi ero addormentata.

    Cercai di capire se Michael fosse presente usando l'udito. Non mi sarei riaddormentata facilmente, non prima di aver constatato se ci fosse. Le coperte pesanti c'erano eccome, segno che di sicuro era tornato per mettermele sopra.

    La conferma arrivò prima del previsto.

    Un enorme palmo di mano, soffice e caldo, mi sfiorò la nuca. Due dita scivolarono lungo la mia tempia, scostando alcuni ciuffi fastidiosi da davanti gli occhi. Lo udii sospirare e darmi una leggera carezza. Era indulgente, indeciso se allontanarsi o rimanere a contatto con la mia pelle. Quando si separò il mio viso si contrasse. Volevo che continuasse.

    Mi faceva sentire protetta e al riparo. Per una volta potevo sentirmi fragile e malata come quando ero bambina.

    Era lì davvero.

    Ero stupita da tutto ciò, in particolar modo dalla sua dolcezza - un trattamento che pochi avevano riservato alla sottoscritta, soprattutto in casi come quelli.

    Sbattei le palpebre cautamente.

    Una fioca luce aleggiava nella stanza. Proveniva dalla lampada da comodino che Michael aveva sistemato sotto al tavolino come aveva fatto qualche giorno prima per Prince, temendo che la luce potesse darmi fastidio.

    Lo cercai con lo sguardo.

    Se ne stava a gambe incrociate su una sedia accanto al letto, libro sulle ginocchia e occhiali per vederci da vicino. Indossava pantaloni di una tuta nera e una camicia pesante a quadri, verde e bianca. I capelli erano straordinariamente ordinati e formavano dolci onde fino alle spalle; il viso era struccato quasi come ogni giorno in cui lo vedevo girare per casa.

    Non sapevo proprio come facesse a vederci con tutta quell'oscurità, onestamente.

    Quando i miei occhi catturarono i suoi mi sorrise.

    Si sporse in avanti. Buttò il peso su un gomito, poco distante dal mio braccio che fuoriusciva timidamente dalle coperte.

    «Ti ho svegliato?».

    Negai arrossendo per la preoccupazione che traspariva dal suo viso. Non parlai a causa del pessimo gusto che avevo in bocca.

    «Ti viene da vomitare?»

    «No...», sussurrai a denti stretti e voce impastata. «Non ho più sonno...»

    Mi sentivo un gattino indifeso e abbandonato a se stesso.

    Sorrise ampiamente. «Vorrà dire che faremo qualcos'altro».

    La sua attenzione si posò sul comodino e la mia fece lo stesso: stava esaminando una tazza, quella che considerai essere la limonata calda che aveva preparato.

    «Che ore sono?»

    Adocchiò l'orologio da polso. «Sono l'una e tredici minuti esatti». Lo adocchiai sbigottita e frastornata. Ridacchiò. «Hai dormito parecchio... quando sono tornato riposavi come un angelo. Non avevo il coraggio di svegliarti per farti bere la pozione magica», borbottò accigliandosi.

    Mi colorai di un tiepido rossastro.

    «Posso averne un po’?»

    Michael si ritrasse e prese la tazza fra le mani. Ponderò in silenzio fissando il liquido al suo interno e bagnandosi il labbro inferiore.

    «È fredda, direi che è meglio riscaldarla».

    Dissentii. «No... la bevo lo stesso».

    «Ma non ti farà bene come quando è calda».

    Sospirai.

    Non avevo voglia di fare la testarda, ma non avevo neanche voglia di farlo andare via. Volevo che restasse lì dubitando che mi sarei potuta riaddormentare... e non volevo. Non prima di averci parlato un po' ed essermi scusata per quello a cui aveva assistito poche ore prima.

    «Torno subito, dico davvero».

    Si alzò in piedi. Fui così rapida da sollevare il braccio scoperto e sfiorargli la manica della camicia. Fu un movimento doloroso, ma non tentennai. Michael mi osservò titubante.

    I nostri occhi rimasero incatenati a lungo.

    Espirai pesantemente, piegando il capo dalla parte opposta.

    «Ok...».

    Fece un passo verso la porta, ma strinsi quel lembo di tessuto ancora più forte.

    «Metti il pigiama», e non era una richiesta che ammetteva repliche.

    Michael lo capì e sogghignò con occhi scintillanti, disarmandomi e avviandosi verso l'uscita. Lo udii bisbigliare un sottile «Torno subito, non ti addormentare», andandosene senza fare rumore.

    Lasciai passare qualche minuto prima di muovermi.

    Avevo lo stomaco pesante e contratto. Le ossa e i muscoli del corpo dolevano come se mi avessero preso a badilate ogni dove.

    Puntai un gomito e spinsi la mano dell'altro braccio verso il materasso issandomi a fatica. Chiusi gli occhi per la stanchezza che mi pervadeva e inspirai profondamente solo quando riuscii a mettermi comoda. Avevo le vertigini e la nausea e il cuore che martellava come un trapano nelle orecchie.

    Rimasi così per parecchio, senza pensare e fare nulla.

    Scorsero altri minuti e finalmente lo udii tornare.

    Michael aprì la porta e sorpassò l'uscio come un gatto silenzioso, indistinguibile nell'ombra della notte, e quando la richiuse gli venne un collasso.

    «Sarah, cosa stai facendo?».

    Lo disse in un modo che pareva essere arrabbiato.

    Mi venne incontro nel giro di due falcate e lo studiai con gli occhi fuori dalle orbite. La sua aria era severa e scocciata. Sbuffò e si chinò sulla sedia con la tazza che fumava tra le dita.

    Mostrai una smorfia contorta, un misto di rammarico e confusione.

    Mi gettò un'occhiata da capo a piedi.

    Di punto in bianco scoppiò in una pazza risata.

    «Scusa, non riesco a trattenermi», esclamò coprendosi il volto con una mano. «Ci caschi sempre! Sei proprio un'ingenua!»

    Inizialmente non capii a cosa si stesse riferendo. Quando compresi che mi stava bonariamente prendendo in giro, m'imbronciai scottando in viso.

    Allungai debolmente i polpastrelli verso la tazza.

    Michael smise di ridere, ma quel stramaledetto sorriso non scomparve dalla sua faccia. Non avevo molta voglia di scherzetti e battute.

    «Ti prego, non dirmi che ti sei arrabbiata...»

    Con le dita gli intimai di consegnarmi la limonata.

    «Dai... è divertente!», mi dedicò un altro spasmo di ridarella issando le sopracciglia.

    Lo fulminai con fare indispettito.

    Michael ritornò serio e pensoso. Dopodiché, ignorando la mia silenziosa richiesta, posò la tazza sul comodino. Storsi le labbra e mi si avvicinò con la sedia. Mi rifiutai di guardarlo, rimanendo ad osservare il vapore della limonata che svaniva nel buio.

    «Sarah» disse con voce calda. «Guardami un secondo».

    Presentai un'espressione irremovibile. Con un dito mi alzò il mento e mi spinse a guardarlo in faccia. Troppo debole per rifiutare quel gesto, obbedii controvoglia. La luce nei suoi occhi era il calore di un tizzone ardente. Mostrò i denti.

    «Non devi essere permalosa, non ti faccio questi scherzi perché voglio offenderti. Semplicemente ti trovo divertente quando fai quelle facce».

    «Quali facce?», gracchiai indebolita.

    «Be’...» si strinse nelle spalle, «è proprio questo il bello: non so descriverle. Hai un modo tutto tuo per parlare attraverso il viso» fece strane smorfie, gesticolando.

    Divenni così rossa in viso da avere un capogiro.

    E non perché fossi offesa.

    Sorrise. «Sono un giocherellone, Sarah. Dovresti aver capito che adoro fare scherzi. Purtroppo sei una delle vittime che considero più allettanti. Sono un fantasma che sadicamente terrorizza i poveri esseri umani e se la gode».

    «Un fantasma un po’ seccante, fattitelo dire», brontolai.

    Michael rise abbandonandosi sullo schienale. Alzai un sopracciglio e mi rubò un sorriso addolcito, dovuto all’allegria che mi trasmetteva il solo vederlo felice.

    Il suo si paralizzò a mezz'aria, un mix di meraviglia e serietà. Non mollò il contatto visivo neppure per un secondo. Poggiò i gomiti sul letto e la testa sulle nocche. Gli angoli delle labbra si mossero all'insù.

    «Questo vuol dire che non sei più offesa...»

    Alzai le spalle.

    «Bene», disse ritirandosi e battendo i palmi delle mani sulle cosce. Mi adocchiò con fare vagamente malizioso. «E la nausea? Senti ancora il bisogno di rimettere?»

    Ci pensai su e feci segno di no con la testa. Anche se avevo lo stomaco sotto sopra non sentivo la tentazione di correre in bagno.

    «Vedi che questo ti ha fatto dimenticare tutto?», mostrò una bambinesca espressione compiaciuta. Guardò il comodino e ritornò su di me. «Te la senti di bere la limonata?»

    Assentii.

    Me la porse avvertendomi di non scottarmi le dita e la lingua. Quando i nostri polpastrelli si sfiorarono una scossa attraversò il mio e il suo corpo. Michael raddrizzò la schiena.

    Soffiai sulla bevanda e la gustai a piccoli sorsi – sempre sotto l'attenzione del fantasmino dispettoso al mio fianco - e ad un certo punto l’occhio scese sul libro che aveva riportato sulle sue ginocchia.

    «Harry Potter?», sussurrai con quel poco di voce che avevo.

    Michael ispezionò l'oggetto che stavo indicando. Mi sorrise.

    «Ricordo che me ne hai parlato quando cercavamo il racconto di tua nonna. Ti piace molto, uh?»

    «Lo amo» risposi entusiasta. «Lo amo da impazzire». Inclinai il capo a sinistra: il collo mi faceva male, ma ignorai la fitta con una smorfia. «È L'ordine della fenice, vero? L'ultimo che è uscito... riconosco la copertina».

    «Esattamente», lo accarezzò. «È la seconda volta che lo leggo. Proprio una saga incantevole».

    «Strabiliante».

    «Epica».

    «Unica!».

    Ed insieme...

    «Magica!»

    Ci regalammo un'occhiata d'intesa ridacchiando.

    Bevvi un altro po' di limonata mentre Michael si lambiva l'angolo sinistro della bocca con la lingua. Non disse nulla fino a quando non scorsi le sue sopracciglia corrugarsi e lo sguardo fissarsi nel vuoto. C'era qualcosa che voleva dirmi.

    «Vuoi che ti lasci dormire ancora?».

    «No, mi sento abbastanza bene», negai delicatamente. «Possiamo guardare un film?»

    Non proposi quale, lo sapevamo già.

    Michael mi puntò mantenendo la fronte bassa. Si umettò le labbra un'ulteriore volta. «Direi che è meglio rimandare a domani sera. Non possiamo scendere in salotto: hai la febbre ed è meglio che tu stia calda, molto calda».

    «La nausea e il vomito stanno passando...».

    Mi trapassò da parte a parte con aria meditabonda.

    Mostrai un'espressione che credetti imperturbabile, mentre invece ero la fotocopia di un cucciolo indifeso.

    «Non credo che sia bene farti prendere freddo. Non voglio che tu stia peggio».

    La mia ostinazione non vacillò.

    Michael, finalmente, rise. Scosse il capo con gli occhi bassi sulle sue dita mentre il petto danzava seguendo i lenti respiri.

    «Ti misuro la febbre. Se stai veramente meglio guarderemo un film... ma non scenderemo in salotto», mi avvertì con tono irremovibile.

    «E dove andremo?».

    «In camera mia».

    Michael mi fissò senza troppo scomporsi. In quel momento la cosa non parve strana neanche a me, forse per la febbre che confondeva la logica, perciò non osai fare domande, protestare o arrossire.

    Si alzò e si diresse verso la porta. Si girò e sorrise della mia espressione allibita. «Vado a prendere il termometro in camera».

    «Non puoi misurarmela direttamente lì?», mugugnai da finta tonta, gustando l'ultimo sorso di limonata.

    Arcuò un sopracciglio e un angolo della bocca. Ricambiai con aria innocente e malaticcia.

    «No, prima voglio vedere quanto hai».

    Non volevo rimanere in quella stanza a fare niente, anche se parlare con Michael non mi sarebbe dispiaciuto affatto; tuttavia era meglio dialogare con lui quando le forze mi sarebbero tornate e aprir bocca non mi sarebbe costata una fatica impressionante. Vedere un film era forse la cosa migliore che potessi permettermi.

    Emise un sospiro arreso e puntò le nocche sui fianchi; spostò il peso del corpo su una gamba e mi dedicò un sorriso teatralmente insoddisfatto.

    «Ti porto in camera mia», fece un passo verso il letto, «solo se guardiamo un film che duri meno di due ore. Harry Potter posso fartelo vedere domani. Sono sicuro che presto o tardi crollerai di nuovo».

    Alla fine lo avevo fatto arrendere. Una risata malefica rimbombò nella testa assuefacendo la febbre e la debolezza causata da essa.

    Con fatica immane riposai la tazza vuota sul comodino.

    «D'accordo, Casper, accetto».

    Michael strabuzzò gli occhi. Rise subito dopo, non appena capì il perché del suo nuovo soprannome. Mi venne accanto con la bocca aperta e le iridi luccicanti dal divertimento.

    «Vieni, dai, ti aiuto».

    Mi sollevò in piedi con la stessa cura di una mamma. Corrugai la fronte e serrai le palpebre per un capogiro improvviso, che mi colpì nell'esatto momento in cui infilai le pantofole rosse; doveva avermele portate accanto al letto quando stavo dormendo, perché quando avevo finito di vomitare non ricordavo di averle indossate.

    «Sei veramente una sorpresa, ragazza» disse con aria assente, infervorato e preso dalle sue riflessioni. Non arrossii perché troppo spossata. «Casper mi piace molto, sai? Lo metto nella lista dei miei nomignoli preferiti. Anzi, penso che ne farò una dedicata soltanto ai tuoi», mi sorrise di traverso.

    «Che onore», borbottai. Un altro capogiro mi fece sbandare. Michael mi tenne per la vita prima che potessi andargli addosso. «Quindi Casper è al primo posto in classifica temporanea?»

    Sentivo il suo profumo di pulito e dopobarba ovunque.

    «Senza dubbio».


    *

    «Sono passati dieci minuti?».

    Ero distesa sul letto di Michael, nello stesso punto in cui Prince aveva riposato per tutto il periodo di malattia, sotto coperte calde cambiate da poco. Tutto sapeva dell'essenza di Michael: dolce e legnosa assieme, una sostanza stupefacente che invadeva l'olfatto trasformandosi nell'ossigeno che respiravi.

    Avevo il termometro sotto il braccio da un paio di minuti.

    Mi aveva coperto con chissà quanti strati di stoffa che temevo di cuocermi al loro interno. Aveva portato un'altra tazza di limonata – nel caso mi sarebbe venuta voglia di vomitare ancora – e se ne stava seduto sulla piazza vuota del materasso al mio fianco. Nel frattempo si era tolto gli occhiali da vista e continuava a ridersela per le mie facce annoiate e per i sospiri che emettevo ad ogni minuto che passava interminabile. Quando stavo male ero peggio di una bambina.

    Osservò la sveglia sul comodino. «Manca poco... quattro minuti».

    Grugnii debolmente e Michael ridacchiò.

    «Dai, non fare l'impaziente», si umettò il labbro inferiore. «Scegliamo il film intanto. Nel caso in cui la febbre sia troppo alta – »

    Roteai gli occhi verso il cielo con quel poco di forze che avevo e sghignazzò nuovamente.

    «Be’, sentiamo, hai qualche proposta?»

    Lo esaminai con cipiglio incomprensibile. «Casper

    Fu Michael - in quel momento - ad alzare lo sguardo al cielo.

    «Sapevo che l'avresti detto... comunque sì, ce l'ho».

    M'incupii poco dopo, chinando le iridi sulla sua camicia a quadri.

    «Michael...»

    Mi guardò inarcando le sopracciglia, invitandomi a parlare.

    «Scusa...»

    Silenzio.

    «Per cosa?»

    Avvampai. «Per averti fatto vedere... per essermi fatta vedere in un momento del genere, prima... pensavo che sarei riuscita a controllare l'istinto del... quella cosa lì, insomma... e invece... scusa, è stato davvero orribile... sia per te che per me... non era mia intenzione».

    Silenzio ancora.

    Mi arruffò i capelli.

    «Sciocchina, ti sembrano cose da dire?», esclamò allegramente. Lo studiai allibita: Michael mi fissava come se avessi detto la cosa più ironica e assurda mai sentita. «La febbre ti sta portando fuori di testa».

    Abbassai il mento. Percepivo le gote esplodere dal calore.

    Eppure Michael non mi permise di guardare altro se non lui, afferrandomi le guance con due polpastrelli e sollevandole in sua direzione, con gentilezza. I suoi occhi erano seri e brillanti come un cielo stellato in piena estate.

    Di certo il mio cuore batteva più del suo.

    «Sii seria, Sarah. Pensi che io mi scandalizzi per questo? Per te che stavi male e vomitavi? No, ti sbagli, è una cosa naturale. Non puoi cercare di controllare qualcosa che non dipende da te. Anche io, sai? Sono un essere umano esattamente come te, vomito anch'io se sto male... pensa se non ci fossi stato. Avresti passato la notte lì... e avresti rimesso ancora», inarcò la fronte con aria eloquente.

    Rabbrividii imbarazzata dalla dolcezza del suo sguardo e dall'immagine di me, sola soletta, a rimettere per tutta la sera.

    Sorrise. «Sono felice di essermi preso cura di te, piccola e timida bambina che non è mai cresciuta».

    Quando vidi un bagliore di tristezza attraversargli il viso ebbi la tentazione di accarezzarlo, ma fui abbastanza debole da rinunciarvi.

    «Perciò grazie... per farmi sentire una persona normale», concluse con un sussurro basso e caldo, analizzando ogni mio tratto.

    Si chinò e mi baciò la fronte. Il suo tocco – leggero come una piuma – mi confuse esattamente come il suo profumo, che non smetteva di aleggiare nei polmoni.

    «Penso che tu possa tirarlo via ora...»

    Sbattei le palpebre e con un cenno del dito m'indicò il punto dove avevo messo il termometro.

    «Oh...».

    Lo tolsi piano. Tentai di darci un'occhiata veloce, ma Michael me lo sfilò dalle dita prima che potessi rendermene conto. Non fece neanche fatica visto la scarsa forza fisica che avevo. Si rimise gli occhiali da vista e mi diede la schiena per esaminare il termometro sotto la luce della lampada a comodino.

    Il silenzio durò più del necessario.

    Ritornò in posizione diritta e seduta. La sua faccia era incomprensibile.

    «37,7. Non ne hai molta».

    Strano, dissi fra me e me, perché mi sentivo un rottame da demolire.

    «Dev'essere scesa dormendo... forse...».

    «Forse».

    Fissava il termometro umettandosi il labbro inferiore con parsimonia.

    Aspettai che dicesse qualcosa. D'improvviso piegò gli occhi sulla mia figura e sorrise. Poggiò il termometro dalla sua parte del comodino e si rimise in piedi; giunse verso la sponda del letto dove stavo e si abbassò sulle ginocchia per aprire un cassettone pesantissimo. Da lì estrasse una cassetta. Il titolo era Casper.

    «Dovrai guardare il film inclinata verso di là», indicò la televisione con un movimento di testa, verso un ripiano mobile rialzato alla mia destra, ai pressi di un armadio guardaroba scuro. «Mi rendo conto che la postazione è parecchio fastidiosa...»

    «Va benissimo», sorrisi debolmente.

    Michael si diresse verso la Tv, sfilò la cassetta dalla custodia e la inserì nel videoregistratore. Prese il telecomando e mandò indietro il nastro nel frattempo che si distendeva al mio fianco. Non si mise sotto le coperte – per rispetto nei miei confronti, presunsi – e nonostante desiderassi dirgli di coprirsi per paura che prendesse freddo, nessun suono fuoriuscì dalle mie labbra.

    Mi rannicchiai su me stessa voltandomi sul fianco destro e piegando le ginocchia al petto, il capo appoggiato sulla spalla di Michael e un braccio sempre scoperto e disteso fuori dalle coperte.

    La sua mano avvolse la mia.

    Lo guardai con il cuore che aveva smesso di pompare.

    Mi fissava insistentemente il braccio.

    Dopo attimi di completo silenzio – nei quali io non riuscivo a smettere di studiare il suo viso e lui la mia mano – finalmente mi guardò.

    «Dovresti tenerti al caldo completamente», proruppe in un sussurro, cliccando "Play" per far partire la pellicola. La Tv emise un fioco brusio.

    «Non ho freddo...», mugugnai contrariata. «Sto per morire di caldo qui sotto...»

    Cosa che, effettivamente, era vera. Ero come una mummia in un sarcofago.

    Alla mia espressione rise beatamente.

    «D'accordo, te ne tiro via una».

    Si alzò in direzione della mia parte del letto mentre la pubblicità anticipava l'inizio del film. L'osservai compiere tutti quei gesti dolci e posati come ipnotizzata dalla sua figura, ma Michael non dette segno di preoccuparsi del peso del mio sguardo.

    «Non hai freddo?», sussurrai una volta distesosi accanto.

    Mi scrutò dubbioso.

    «Copriti... prendi freddo...», bisbigliai indicandogli la coperta che mi aveva tolto e riposto alla fine del letto.

    Michael la guardò. Mi sorrise.

    «Non ho freddo, stai tranquilla».

    Lo sgridai in silenzio.

    Emise un grugnito infantile e falsamente scontento. «Ok, va bene... hai vinto tu anche stavolta...»

    E il film iniziò ancor prima che potessi proferire un felice «Bravo», con un grande ma debole riso stampato in faccia.

    Una canzoncina dalla melodia cupa e tenebrosa s'innalzò nell’aria e Michael si sistemò al caldo al mio fianco con un respiro pesante.


    *

    Quando l'indomani mi risvegliai, mezza rintontita, non ricordai subito dove fossi.

    Avevo la voce intorpidita dal sonno e la vista annebbiata dalle palpebre calate. La spossatezza, crudelmente minacciosa, mi aveva mutato in un rottame. Una fitta mi stritolava la parte più alta della pancia, quel tanto da farmi pensare di essere sul punto di vomitare nuovamente; per mia fortuna capii che era solo un leggero languorino. In più dovevo andare urgentemente al bagno.

    Passarono cinque minuti prima che i sensi tornassero a funzionare.

    Ad occhi chiusi mi issai a sedere con una spinta delle braccia. Con le nocche mi strofinai le palpebre e quando le sbattei lentamente tutto ciò che vidi fu buio.

    Non ricordavo di essere tornata nella mia stanza, ragion per cui non potevo essere altrove se non nella camera di Michael.

    Mi allungai verso il comodino alla mia sinistra, dolorante, emettendo un verso spossato a labbra schiuse. A tentoni cercai una lampada. Non trovai nulla e mi arresi mollando la testa sul cuscino.

    Ricordai qualcosa. Ero certa di aver iniziato a guardare Casper in uno stato più o meno cosciente, ancora abbastanza "sveglia" da rimanere con lo sguardo puntato sullo schermo, ma alla fine avevo ceduto al sonno; le palpebre ero rimaste sollevate fino a quasi metà film.

    Tuttavia, in quella tipica fase REM di semi-coscienza, avevo udito una voce sussurrarmi all'orecchio, debole e soffice come un accordo di violino.

    «Posso tenerti con me?»

    Mi pareva di aver ascoltato quella scena ma di non averla vista. Quella frase rimbombava in testa come se una canzone, una melodia, mi avesse riportato per un attimo alla realtà... come se un tintinnio di campanelle di cristallo mi avesse parlato da un luogo senza tempo.

    E poi oscurità.

    Meditavo sul da farsi, su cosa poter dire a Michael per scusarmi del disturbo.

    Perché non mi aveva svegliato?

    Arrossii.

    Mi tirai su. Trascinai i piedi sul pavimento, infilai le ciabatte e mi drizzai in piedi ignorando i capogiri. La febbre mi pervadeva, ma con passi lenti e affaticati arrivai alla porta della camera. L’aprii senza far rumore e guardai fuori, strizzando gli occhi per la luce accecante che invadeva il corridoio. Non pensai nemmeno ad andare nel bagno di Michael per i miei bisogni. Uscii senza fare dietrofront.

    Arrivai in camera da letto sana e salva, a tentoni, senza che Michael o uno dei bambini mi avesse visto, accorrendo in bagno e richiudendomi al suo interno.

    Guardai il mio riflesso allo specchio: dovevo lavare i capelli – questo senza dubbio – perché si erano tutti annodati dietro la nuca; gli occhi riflettevano la tipica stanchezza che l'influenza procurava e il colorito del viso rifletteva quello di un cadavere. Ero ancora più pallida di quanto non fossi già naturalmente. In aggiunta due solchi neri marcavano la stanchezza sotto gli occhi. Facevo schifo, insomma.

    Mi bagnai il viso con l'acqua e una goccia di detergente, mi sciacquai la bocca due volte e mi lavai i denti. Legai i capelli in una coda alta per ridurre l'effetto "cespuglio". Quando uscii dal bagno avevo la testa bassa, le dita sul collo mentre tastavo per capire dove sentissi più dolore e il passo più lento di una lumaca. Non appena alzai lo sguardo sobbalzai.

    Michael se ne stava seduto sul materasso, gambe e braccia incrociate e fronte chinata, studiandomi diabolicamente sorridente.

    «Buongiorno. Che ci fai qui?», domandò apparentemente rassicurante.

    Spalancai la bocca senza far uscire una sillaba. Ingoiai il fiato con il cuore che batteva scosso dalla paura.

    «Dovevo andare in bagno...»

    «Ah», arcuò un sopracciglio. «E perché non volevi usare il mio?»

    «Perché disturbo...»

    «E perché credi di disturbare?»

    Michael si tirò su e mi venne incontro ponendosi le mani nelle tasche. Non notai, se non in quel momento, che non indossava il pigiama: portava gli stessi abiti della sera prima. La sua espressione era ironica ma severa.

    «Io...». Presi un bel respiro. Lo soffocai mirando altrove. «Non lo so».

    Il suo torace era sul punto di scontrarsi col mio. Mi pose due dita sotto il mento e mi obbligò a fronteggiarlo. L'incontro con i suoi cieli scuri annullò ogni preoccupazione. Quel sorriso era più abbagliante delle luci che avevo visto attraversando il corridoio.

    «La vuoi smettere di pensarti sempre un disturbo e fare quello che ti dico, una volta ogni tanto?»

    M'imbronciai. «Tu non mi hai detto di restare».

    «Ma non ti ho neanche detto di andare», distese la fronte con fare canzonatorio.

    Roteò gli occhi ed emettendo un finto anelito di esasperazione mi si posizionò di lato. Mi prese delicatamente per un braccio e mi aiutò a raggiungere il letto.

    «Se non ti avessi voluto ti avrei svegliato nel cuore della notte, finito il film... e ti avrei riportato in camera anche se fossi crollata fra le mie braccia, Sarah».

    Mi fece sedere. Quando mi fu davanti piegò tutto il peso sulle ginocchia, in modo tale da poter essere alla mia altezza. Lo mirai con fare incerto, inerme di fronte all'infinita e insensata bontà che provava nei miei confronti.

    I suoi occhi si persero nel vuoto. «Sei come una bambina, soprattutto quando ti ammali», mi sgridò affabile.

    Avvampai ma ignorai la sua constatazione.

    «E tu dove hai dormito?»

    «Per terra!», batté le mani sulle cosce. «Non hai idea di quanto si stia bene lì!»

    Sbarrai gli occhi e Michael rise di gusto.

    Scosse la testa e si addolcì.

    «No, ho dormito accanto a te... di solito dormo a terra, se ho ospiti che vogliono dormire nella mia stanza, ma tu non mi volevi mollare», mi lanciò un'occhiata indecifrabile.

    «Uhm?».

    Si grattò un punto della guancia con l'indice destro. «Diciamo che ti sei aggrappata alla mia mano e non l'hai più lasciata andare. La tenevi così stretta che non avevo il coraggio di toglierla. Temevo di svegliarti», gesticolò.

    Il suo modo di fare mi ammattiva.

    Non riuscivo ad immaginare una scena del genere. Era pazzesco. Innaturale. Non avevo mai fatto una cosa simile - tenere la mano a qualcuno nel sonno -, neanche a mia madre quando, da bambina, mi stava vicino perché avevo paura del buio.

    Davanti a quell'affermazione non ebbi più il coraggio di parlargli guardandolo in faccia. Michael, d'altro canto, non smise di analizzarmi neanche per un secondo.

    «Sinceramente», si bagnò le labbra bisbigliando, «non avevo neanche voglia di lasciarti andare».

    I miei occhi guizzarono nei suoi. Mostrava i denti, ma fu lui - in quel istante - a non avere più il coraggio di affrontare le silenziose domande che gli stavo ponendo.

    Sentii il mio stomaco contrarsi dalla fame, producendo uno strano borbottio di protesta.

    Ci scoccammo un cenno d'intesa.

    «Ora vado a prepararti qualcosa... non credo che resisterai ancora per molto» esclamò sogghignando, issandosi dalla posizione inginocchiata con un sospiro. «Va bene un po’ di pasta in bianco e qualche verdura?»

    Per un momento mi sembrò di udire il menù tipico di mia madre quando mi ammalavo. Annuii di risposta.

    Michael si umettò la bocca dedicandomi un'ultima e soffice carezza sulla nuca.

    «Tornerò fra un quarto d'ora, te lo prometto. Dopo pranzo potremmo guardare Harry Potter».

    «E i bambini?», chiesi perplessa.

    «Questo pomeriggio escono a fare un giro con Grace. Ho tutti i giorni che voglio per spendere tempo con loro. Ora hai più bisogno tu».

    Le gote si tinsero di cremisi.

    «Prince è molto preoccupato, sai?», s’incamminò verso la porta.

    Corrugai la fronte. «Perché?»

    «Pensa di essere la causa della tua malattia».

    «Ma non è vero...»

    Fece spallucce. «Lo so. Ho tentato di dirglielo, ma non vuole ascoltare... è tutta la mattina che prova a farti la limonata calda. Vuole fare tutto da solo, per farsi perdonare», si voltò ridacchiando e massaggiandosi la fossetta sul mento.

    «Oh...».

    Poggiò le dita sulla maniglia.

    «Ho promesso loro di venire a trovarti quando starai meglio. Non vedono l'ora di vederti».

    Sorrisi. «Ti ringrazio».

    Quei bambini erano così dolci che percepivo il cuore infiammarsi d'affetto.

    «E mi sa che dovrai scrivere un biglietto con la tua ricetta fatata», annunciò mentre stava per chiudere la porta dietro di sé. Mi scrutò con aria indefinita. «Prince non finirà di stressarmi fino a quando non avrà ottenuto il rimedio per aiutarti. Mio figlio è uguale a me anche in questo».

    *

    Quel pomeriggio Michael non mi lasciò un attimo.

    Dopo aver pranzato in camera mia – durante il quale lo convinsi a mangiare qualcosa, affermando che altrimenti non avrei ingoiato nulla, anche a costo di morire di fame – come promesso guardammo Harry Potter e la Pietra Filosofale nella sua stanza. Ma soltanto dopo essermi fatta una doccia, perché mi sentivo una pulce.

    Il tempo passò fra un mio sonnellino - dovuto alla febbre che si alzava e si riabbassava -, la lettura di un libro – io Il Cavaliere d'Inverno, lui Harry Potter e l'Ordine della Fenice – e una chiacchierata di tanto in tanto. Parlammo di libri, di film e di cinema.

    Era impressionante quanto Michael fosse devoto a tutto quello che riguardava la creazione di una pellicola: mi disse che, poco prima delle accuse di pedofilia, il suo piano era quello di costruire un immenso impero digitale e cinematografico. Era un progetto di grande scala, che però era stato posticipato a data da destinarsi.

    Parlammo addirittura della nostra passione in comune per i musical e mi confessò di averne prodotto uno, una volta, così come anche un film. Gli piaceva lavorare dietro la telecamera e mi confessò di aver trasmesso questa passione anche a Prince; lavoravano parecchio sui filmini fatti in casa, con la collaborazione di Paris che faceva l'attrice e i nipoti che talvolta venivano a trovarli a Neverland come comparse e co-protagonisti. Era un ottimo modo per passare il tempo divertendosi e istruendosi insieme.

    «Un giorno potresti fare d'aiuto a Paris e recitare con lei...», mi adocchiò sorridendo con l'aria di chi la sapeva lunga.

    Ma io scossi la testa, sogghignando divertita.

    «No, non sono portata per la recitazione. Stare sotto le telecamere mi piace soltanto per fare la cretina occasionalmente».

    Michael mi esaminò in silenzio. Fu indeciso se ridere per le mille espressioni che mostravo o se rimanere concentrato sul discorso.

    «Anche tu una regista, allora...»

    «Mmh, regista no. Sceneggiatrice sì. Scrivere la storia. Strutturarla».

    Si tolse gli occhiali da vista con un delicato gesto dei polpastrelli e li appoggiò sul libro che teneva aperto sulle gambe, seduto sull'altro lato del letto.

    «A quanto pare abbiamo molte più cose in comune di quanto credessi. Non lo avrei mai immaginato, e tu?»

    Gli sorrisi. «Nemmeno io».

    Ricambiò. Si alzò in piedi e poggiò gli occhiali sul comodino, inserendo un segnalibro rigido fra le pagine e richiudendolo con uno scatto. Lo andò a posizionare su una piccola libreria accanto al ripiano dal quale, la sera prima, aveva estratto la videocassetta di Casper. Mentre compiva tutti questi gesti dandomi le spalle continuò a parlare.

    «Sai... io, Prince e Paris avremmo idea di creare un filmino speciale per questo Natale», disse con voce tranquilla. «Sarà bello riguardarlo a distanza di anni» e si congelò sul posto, polpastrelli sulla copertina dello spesso volume. «Sarebbe stupendo se ti unissi».

    Mi incupii.

    «Mi piacerebbe molto... ma quel giorno sarò già in Italia».

    Lo dissi così lievemente che temetti non avesse udito la mia risposta.

    Invece capì molto bene, perché qualche istante più tardi mi fissò mantenendo un'espressione impenetrabile. I suoi occhi parevano due fuochi che ardevano, incandescenti e sfavillanti fra le palpebre ben aperte.

    «Penso che sia meglio che tu rimanga qui».

    «Non penso sia possibile», ignorai i segreti ben celati dal suo viso. «Ho già detto ai miei che – »

    «Non te lo posso permettere», disse serio. «Devi rimanere qui».

    Lo guardai allibita.

    Schiusi la bocca per replicare, ma non mi uscì nulla.

    Michael si umettò il labbro inferiore incrociando le braccia al petto e accarezzandosi l'arto destro con la mano.

    «Sei troppo malata per partire. Starai qui, al caldo, e riposerai a dovere».

    Sapevo che quelle parole non erano un consiglio, ma un ordine.

    Restai muta come un pesce, fredda come pietra, la febbre improvvisamente azzerata per colpa di un fastidio che man mano appannava il cervello come densa foschia.




    Edited by fallagain - 15/2/2021, 22:34
  7. .
    CITAZIONE (Who'sBAD? @ 29/3/2019, 23:25) 
    Ambra, ti prego, continua a pubblicare questa storia. A distanza di anni, torno qui sempre per leggerla e resta magica come allora. ❤

    Pian piano pubblico tutti i capitoli corretti e riscritti, lo prometto wub2 E se riesco (soprattutto se ho abbastanza ispirazione per andare avanti) riscrivo/continuo The Rebirth.
    Grazie per essere ancora al mio fianco e leggere questo racconto emoticon_piume in_love
  8. .
    Capitolo Quattordici: L'Influenza

    Il giorno seguente fu una domenica abbastanza umida, con un cielo coperto da soffici nuvole grigiastre. La mattina, a colazione, Michael mi prese da parte, lontano dalle orecchie dei figli, e mi chiese se non fosse il caso che mi svagassi un po' altrove.

    Lo guardai confusa. «Cosa?»

    «Sono preoccupato», mi studiò con apprensione. «Non voglio in alcun modo che tu ti senta prigioniera di questo posto. Nessuno dei miei dipendenti deve sentirsi costretto a restare qui tutti i giorni, soprattutto tu, altrimenti –»

    «Ma, Michael», dissi fra le risa, «io non mi sento prigioniera!». Arrossii. «A me piace stare qui... mi sento in pace».

    Mi puntò senza dire nulla, leggendo la verità attraverso il mio sguardo.

    «Insisto. È meglio che tu prenda una boccata d'aria». Non avevo mai visto i suoi occhi così insistenti come in quel momento. «Non rinunciare alla tua libertà per questo posto. Per quanto bello e pacifico possa sembrare, ascolta il mio consiglio».

    E così feci. Assentii mal volentieri e dopo aver salutato i bambini mi cambiai e uscii da Neverland verso qualche ignota direzione.

    Michael voleva che non mi sentissi una reclusa. Se fosse stato lui al mio posto non avrebbe esitato a fuggire di lì; sarebbe scappato, avrebbe viaggiato lontano da ogni cosa che riguardava il "Michael Jackson" cantante e uomo di business famoso in tutto il mondo... da quel ruolo che, in un momento tanto duro della sua vita, era un vero e proprio cappio al collo. La sua era una maniera come un'altra per proteggermi e, al contempo, per vivere la sua libertà attraverso gli occhi altrui in un modo assai complicato da intuire.

    Decisi di recarmi in biblioteca e restituire tutti i libri che avevo preso in prestito quasi un mese prima. Ne scelsi uno nuovo che si chiamava The Bronze Horseman, in italiano Il cavaliere d'inverno.

    Poi, visto che si era già fatto mezzogiorno, pranzai in un ristorante fuori Santa Barbara, verso l'autostrada che portava a LA. Decisi di sostare in un parco a leggere e fare due passi in tranquillità, ma l'unico con un bel panorama vicino era in centro a Los Angeles, che distava almeno due ore da dove mi trovavo.

    Valutai il tempo a disposizione e, terminato il pranzo, decisi di fare quella pazzia - ma non dopo aver telefonato a mia madre, alla quale raccontai una balla bella e buona sul perché ieri avessi messo giù così in fretta e furia.

    Ritornai al ranch poco prima dell'orario di cena. Quando entrai in casa non vi erano né Michael né i bambini in giro, perciò decisi di farmi una bella doccia calda che mi togliesse di dosso quella fredda giornata inverno.

    Alle 18.30, puntuale come un orologio, scesi in sala da pranzo. I bambini stavano apparecchiando la tavola e nel vedermi mi sorrisero e mi vennero incontro. Mi trascinarono con loro per mano.

    «Oggi cucina papà!», disse Paris. «Lui cucina sempre quando non è troppo occupato, soprattutto durante il weekend!»

    Rimasi colpita da quelle parole, ma lo shock arrivò quando lo vidi arrivare dalla cucina con due piatti pieni di cibo e due visibili macchie di salsa sui vestiti, una sulla maglia e un'altra sui pantaloni. Mi venne da ridere perché ero esattamente come lui: mi sporcavo anche quando cucinavo il più semplice dei piatti.

    Quando mi vide mi sorrise, ma un appunto di malinconia gli incorniciò il viso.

    Il mio sorriso scemò di conseguenza e Michael fece finta di nulla, sorridendo ai suoi figli come se io non mi fossi accorta del suo malessere. Aiutai i bambini ad apparecchiare mentre Blanket giocava con le posate seduto sul suo immancabile seggiolino. Chiesi che cosa avesse cucinando lo chef quella sera.

    «Empanadas vegetariane, un piatto messicano», abbozzò un sorriso.

    «Oh...».

    Guardai la pietanza con curiosità. Vi erano tre porzioni per ogni piatto e il loro aspetto era decisamente invitante.

    Illusa.

    Michael sistemò un bavaglino azzurro di Blanket al collo. «Allora, pronti a mangiare?»

    I bambini annuirono veemente.

    Qualcosa non mi convinceva. Prince e Paris mi guardavano come se avessero architettato uno scherzo nei miei confronti. Michael invece era tranquillissimo, pur evitando di fissarmi per più di due secondi consecutivi. I miei occhi erano un vagare continuo tra i visi dei bambini e quello del padre.

    «Buon appetito!», esclamò Michael inforchettando alcune verdure dal piatto.

    Io e i bambini ricambiammo – perfino Blanket, facendo la sua parte con esilaranti urletti d'eccitazione – e infilai la posata in una empanada. Prince e Paris le presero agguantandole con le mani.

    Con tutta la spensieratezza che avevo li ignorai e assaggiai un pezzo

    Tre secondi e poi capii.

    Cazzo.

    Erano piccanti. Estremamente piccanti.

    Mi posi una mano davanti alle labbra e boccheggiai. La spalancai nel vano tentativo di respirare, indecisa se rallegrarmi per quello scherzetto bambinesco o seppellire le emozioni con nonchalance.

    Quei tre bambini – Prince, Paris e Michael incluso – esplosero in risate assordanti non appena colsero la mia espressione sconvolta.

    «Porcaccia... puttana!», sbottai in italiano.

    Avevo gli occhi strabordanti di lacrime e il viso rosso come un peperone. Le papille gustative erano andate a farsi benedire e la gola completamente a fuoco.

    Il cibo non era piccante... era troppo piccante, così tanto che credevo di aver mangiato un peperoncino intero!

    «Hai bisogno di acqua?», domandò Michael fra le risa.

    Lo fulminai arrabbiata e divertita assieme. Così facendo lo indussi ad abbandonare le posate sul tavolo e sganasciarsi letteralmente.

    Per non dargli gusto mi alzai e mi diressi in cucina con passo veloce. Ridevo, eccome se ridevo, ma dentro di me sentivo il dovere di fargliela pagare.

    Fra le lacrime presi un bicchiere dalla credenza, aprii il rubinetto e – dopo aver riempito il bicchiere completamente – inghiottii l'acqua in un sol colpo. Non sapevo che questa facesse peggio, perciò ingenuamente rifeci lo stesso procedimento una seconda e terza volta. Non mi voltai per vedere se gli altri tre mi stessero alle spalle: le loro esclamazioni di giubilo erano lontane alle mie orecchie.

    Solo dopo che ebbi bevuto un altro mezzo bicchiere e il mio stomaco si fu riempito di acqua, la mia gola smise di fumare. Lasciai il bicchiere sul lavabo e appoggiai tutto il peso sulle mani, le quali si stringevano forte al bordo del lavandino.

    Respirai a fondo. La sudorazione continuò ancora per molto.

    Chiusi gli occhi strizzandoli inutilmente. Percepivo le palpebre e il palato bruciare, ma non piangevo più.

    All'improvviso mi accorsi che le risa erano cessate.

    Due dita mi strinsero il maglioncino da dietro.

    «Sarah... ti senti bene?», era Paris.

    Tentai di non sghignazzare malvagiamente.

    Avrei potuto fingere una difficoltà respiratoria, un senso di vomito.

    La cosa mi sembrò inizialmente troppo crudele - li avrei spaventati a morte e per niente - ma volevo restituire il favore a colui che sicuramente aveva architettato ogni cosa. Alla fine optai per una reazione allergica.

    «No...», e, lentamente, appesantendo il fiato, iniziai la mia commedia.

    Mi morsi le labbra per non sorridere.

    Inspirai ed espirai con fatica esagerata. Mi sentivo ridicola, troppo, ma se il mio trucco avesse funzionato mi sarei data un Oscar prima di iniziare la mia carriera di futura attrice.

    «Sarah», Michael si avvicinò impercettibilmente. Per poco temetti che avesse scoperto la verità. «Cosa ti senti?»

    Sospirai a fatica e addentai l'interno guancia con forza.

    «Sono allergica al peperoncino...», biascicai incrinando la voce, cosa che pensai non mi fosse riuscita per nulla. «Non è la prima volta che mi succede...»

    Mi bloccai prima che fossi colta da uno spasmo di risata. Nascosi il viso fra le mani e mi piegai verso il lavandino. Soffocai quelli che parevano gemiti affannosi, quando in realtà stavo ridendo come una pazza.

    «Scusaci, io non... non lo sapevamo...».

    Pareva sul punto di chiamare il pronto soccorso.

    «Vuoi un po' di latte?», disse Prince che nel frattempo mi si era accostato silenziosamente.

    Annuii.

    Michael mi si pose a fianco con il piccolo Blanket in braccio che borbottava nervoso. Con i polpastrelli mi sfiorò i capelli, scostandomeli dalla faccia con delicatezza. Rabbrividii appena.

    Tutti mi osservavano muti come pesci, spaventati a morte.

    «Vuoi che chiami aiuto?», Michael si avvicinò così tanto che potevo sentire il suo respiro sul collo.

    «Credo che sia troppo tardi», indietreggiai e tolsi le mani dalla faccia. Li guardai e loro ricambiarono preoccupati. Ero serissima e fintamente provata. Esplosi in una risata allegra. «Perché vi ho giocato! HA

    Alzai le braccia in aria e risi del loro sbigottimento, osservando le loro espressioni che, sconvolte, parevano aver visto un fantasma. Alzai le sopracciglia con aria saccente e poggiai le nocche sui fianchi, guardando tutti con il fare di chi aveva appena conquistato un traguardo importante.

    Sogghignai in faccia a Michael, il quale non sapeva che rispondere. Era immobile come una statua di gesso. Non gli piaceva essere giocato e non gli piaceva che mandassero a monte uno scherzo ripuntando sulle sue stesse carte.

    «Ma nooo, non è giusto!», Prince pestò i piedi a terra con atteggiamento sconsolato, guardando il papà con labbra imbronciate. «Ci ha preso in giro!»

    Prima che Michael potesse parlare lo corressi. «No, Prince, sono stata veramente male quando ho mangiato quella roba. Ma mi è sembrato giusto ritornarvi lo scherzetto!», feci spallucce e gli feci l'occhiolino legando le mani dietro la schiena, dondolando sul posto.

    Prince sorrise mostrandomi i denti. Paris sbuffò amareggiata.

    Alzai un sopracciglio in direzione di Michael.

    Curvò lo sguardo a terra e scosse la testa, accennando un ghigno furbescamente compiaciuto. Poi scrutò i bambini con atteggiamento tutt'altro che rassicurante, stringendo meglio Blanket fra le braccia.

    «Stavolta siamo pari...», mi venne accanto spavaldamente, gonfiando il petto. «Ma io vinco sempre».

    Risi sarcasticamente. «Non credo proprio!».

    «No?», inarcò la fronte.

    Prince e Paris si avviarono in sala da pranzo parlottando indignati e affamati.

    Io e Michael rimanemmo da soli. Ci squadrammo senza dire nulla, sfidandoci con gli occhi. Michael sorrise malizioso.

    «Quando voglio una cosa la ottengo sempre». Mi regalò un'occhiata da capo a piedi. Qualcosa cambiò nei suoi occhi. Mi sorpassò, si umettò il labbro inferiore e mi indicò con l'indice. «Io non perdo mai, ricordalo».

    E se ne andò lasciandomi lì come pietra.

    *

    Quella sera mangiai poco a causa della gola ancora infiammata. Dopodiché la famiglia Jackson mi invitò a giocare a Monopoli in salotto.

    Non riuscimmo a completare neanche una partita. Michael e Prince risultavano i più abili, due imprenditori veri e propri, mentre io e Paris tutto il contrario. Dopodiché Michael mi prese nuovamente da parte, inducendo gli altri due ad andare in camera. Blanket dormiva già alla grande fra le sue braccia.

    «Ti sei divertita oggi?», mi chiese flebilmente, tenendomi con dolcezza un braccio prima che potessi sfuggirgli dalle mani e salire le scale.

    Lo guardai inizialmente spaesata, ma poi dissi: «Sì, diciamo di sì... sono andata a fare una passeggiata a Hollenbeck Park, mi sono dedicata alla lettura di un libro... sono quasi arrivata ad un quarto, ed è tanto, considerando che è una cosa enorme!», sottolineai con spiritosa enfasi.

    Ridacchiò e mi spettinò i capelli.

    Non disse nulla, sorrise e basta: mi baciò sulla tempia sinistra e risalì le scale senza continuare il discorso, lasciandomi immobile come una scema per la seconda volta.

    Si girò solo quando vide che non lo stavo seguendo. Non riuscivo a muovermi.

    Quando capì che non avrei fatto un passo in sua direzione, sghignazzò tentando di nascondere l'amarezza. «Buonanotte, Sarah... e ricorda di non leggere troppo, potresti trasformarti in un topo da biblioteca».

    Alzai un sopracciglio, godendo della sua risata e osservandolo svanire da oltre le scale.

    *

    La settimana seguente scorse tranquillamente.

    I bambini facevano progressi a vista d'occhio ed erano sempre attenti alle mie lezioni. Finita la scuola ci ritrovavamo con Michael e giocavamo, leggevamo storie o guardavamo cartoni. Alcuni pomeriggi andavamo in giardino ma il padre, poco dopo, ci incitava a rientrare per evitare il freddo. Grace si presentava solo qualche ora della giornata, magari quando Michael non c'era per lavoro o impegni imprevisti.

    Era una routine che apprezzavo nonostante il mio carattere piuttosto tranquillo e spesso asociale.

    Tutto scorse pacifico fino a quel venerdì pomeriggio, quando Prince dette segno di stare poco bene.

    Nel bel mezzo della lezione i suoi occhi si velarono di una patina di stanchezza. Temetti che non stesse capendo nulla di ciò che gli stessi spiegando, ma quando notai che anche ripetendo più e più volte il concetto risultava parecchio confuso, gli misi una mano sulla fronte e attorno al polso per sentire la febbre. Prince non protestò. Scottava.

    «Paris», la chiamai mirando il fratello, «va’ ad avvertire tuo padre che Prince non sta molto bene. Digli che è urgente».

    «Corro!», esclamò guizzando via come un fulmine.

    Mi sedetti sulla sedia accanto al bambino e gli accarezzai la mano. «Come ti senti?»

    «Male...», mormorò con voce rotta da quello che credetti fosse l’inizio di un raffreddore. «Non capisco nulla... mi gira la testa e mi viene da vomitare... io odio vomitare, sento che fra poco succederà... non mi piace...»

    «Senti il naso chiuso? Mal di gola?»

    «No...», mugugnò chinando il mento al petto.

    «Vieni qui», dissi battendo i palmi sulle cosce. «Ti tengo in braccio fintanto che aspettiamo il tuo papà. Vedrai che non vomiterai... andrà tutto bene, non ti preoccupare», e gli baciai una tempia non appena si fu seduto sulle mie ginocchia, nuca adagiata sul mio seno.

    Tremava come una foglia.

    Gli sfiorai i capelli biondi e lo tenni al caldo ignorando il fatto che avrei potuto ammalarmi anch'io.

    Comprendevo quando diceva di non voler vomitare. Io ne ero terrorizzata. Era una fobia vera e propria, lo avevo letto da qualche parte! Mi venne da sorridere pensando a quella assomiglianza di carattere.

    La porta si aprì di botto e comparve un Michael sottilmente preoccupato. Guardò prima suo figlio e poi me, poi di nuovo Prince. Ci venne accanto e lo prese in braccio.

    «Come stai?», sussurrò poggiando le labbra sulla sua fronte.

    «Sto per morire, papà...».

    Trattenni un risolino intenerito.

    «Andiamo a letto».

    Michael mi osservò con dolcezza.

    «Grazie...».

    Sorrisi.

    Quando Michael e Prince uscirono lasciando la porta spalancata, io e Paris ci guardammo. Ci capimmo all'istante.

    «Finiamo la lezione e poi giochiamo io, te e Blanket, ok?».

    Annuì e un'ora più tardi andammo a far merenda.

    *

    Quando Paris si stufò di guardare un film alla Tv – poco prima di cena – decise di andarsene in camera. Con Blanket sempre avvinghiato al mio petto le chiesi se volesse compagnia o avesse bisogno di qualcosa, ma Paris scosse la testa. Disse che si sarebbe messa il pigiama e che non aveva alcuna doccia da fare. Percepii il suo bisogno di essere più autosufficiente possibile in assenza del padre e del fratello maggiore.

    Blanket, invece, voleva ancora giocare in salotto. Gli feci piacevolmente compagnia e Michael sbucò da oltre il corridoio un quarto d'ora più tardi.

    «Ciao Sarah».

    «Ciao...», mi alzai in piedi. Scoccai una breve occhiata a Blanket seduto sul tappetto e ai supereroi stretti fra le sue piccole dita. «Prince come sta?»

    Evitò il mio sguardo bagnandosi le labbra. «Non tanto bene... anzi, per niente affatto bene. Sta cercando di evitare il vomito, la febbre sale a dismisura. Ormai ha raggiunto i trent'otto gradi e...». Sospirò trascinando una mano fra i capelli. «Sono preoccupato. Ho telefonato al medico e dice che ora è fuori città, con la famiglia. Riuscirà ad essere qui soltanto domani mattina. Pensa che sia un virus...»

    Gli andai incontro. «Andrà tutto bene, vedrai. Sono sicura che non è niente di grave. Tu potresti intanto bagnarlo con delle fasce impregnate d'acqua. Potrebbero essere utili al momento...»

    «Gliele sto andando a preparare», espirò adocchiando il figlio più piccolo. «Purtroppo ho lasciato il weekend libero a Grace...».

    Come già ho anticipato Grace non rimaneva spesso in famiglia. Arrivava e partiva a periodi, solitamente quando Michael aveva giornate piene di impegni uno dietro l'altro.

    «Vuoi che mi occupi io di Paris e Blanket?».

    «Te lo volevo proprio chiedere. Credo che sia meglio che io mi occupi di Prince... non ti farei carico di questo se non fosse urgente...».

    Mi guardava di sottecchi e capii che voleva evitare di chiamare la tata.

    «Non farlo, ci sono io». Sorrisi. «Non vedo il caso di chiamarla ora. Posso farcela, stai tranquillo».

    Mi regalò uno sguardo di sollievo e gratitudine. «Ti ringrazio, Sarah. Non so cosa farei senza di te, qui», mi puntò intensamente.

    «Non mi devi ringraziare», gli accarezzai un braccio per rassicurarlo.

    Squadrò la mia mano passando la lingua sulle labbra. Gli occhi fletterono verso il mio viso e, piegandosi leggermente in avanti con il busto, mi baciò la fronte.

    «Ti voglio bene».

    Fui circondata dai brividi. Abbassai le palpebre sugli occhi per godermi il momento e un attimo dopo scomparve dalla mia vista come un alito di vento.

    Io, Paris e Blanket aiutammo la cuoca di famiglia a cucinare ciò che potemmo. L'aiutammo anche a lavare i piatti e a sparecchiare la tavola, lasciando un po' di brodo in pentola nel caso in cui Prince e Michael avrebbero voluto cenare con qualcosa più tardi. Poi ci salutò e si congedò anche lei.

    Quella sera non riuscimmo a far addormentare Blanket facilmente. Piangeva e faceva i capricci dimenandosi come un pazzo. Paris e io provammo anche a canticchiare qualcosa insieme, facendolo divertire, ma neanche in quel modo riuscì a placare i nervi.

    «Quando fa così di solito vuole papà...», sbuffò Paris con esasperazione.

    Meditai.

    «Secondo te se suono qualcosa al pianoforte riesco a calmarlo?»

    «Una ninna nanna?», s'illuminò.

    Annuii. «Potrebbe funzionare. Sperando di non svegliare Prince...»

    E così andammo in salotto cercando di fare meno rumore possibile. In un angolo all'estremo della stanza vi era un grande pianoforte nero lucido. Non appena lo vedevo impazzivo dalla voglia di suonarlo: quel giorno ebbi finalmente l'opportunità di farlo.

    Paris si avvicinò al piano trascinando una poltrona grazie al mio aiuto. Quando si sedette le consegnai il fratello in braccio. Blanket mi adocchiava con aria incuriosita e le lacrime agli occhi, fronte un po' contratta dalla confusione e dalla rabbia repressa. Posai le mani suoi tasti bianchi e neri e feci un po' di riscaldamento, riflettendo su cosa potessi suonare per farlo stare meglio.

    «Conosci una canzone che potrebbe piacergli? Di un cartone, magari?»

    «Mmh...» mugugnò Paris stringendo il fratello che si allungava per raggiungere il piano. «Lui ascolta tutto, non fa differenze...»

    Sorrisi. Effettivamente non aveva torto. Blanket aveva solo un anno e mezzo, quasi due ormai.

    «Allora suoneremo un po' di tutto, vediamo se crolla. Tienilo stretto, così... perfetto... cominciamo con...»

    Il Gobbo di Notre Dame, il mio film Disney preferito in assoluto. Se dovevo fare un medley dovevo iniziare con stile.

    Chiusi gli occhi e mi lasciai andare. Aprii il cuore alla melodia che si innalzava sotto la pressione dei polpastrelli. Le immagini del film mi passarono davanti proprio come se lo stessi guardando in quel momento. Avevo pianto tantissime volte per quel cartone, così tante che ormai avevo perso il conto, e lo conoscevo praticamente a memoria.

    Successivamente transitai alla canzone A Whole New World di Aladdin, Part Of Your World de La Sirenetta, Reflection di Mulan e tante altre della Disney, fra cui Hercules, Il Re Leone, La Bella e la Bestia, Tarzan e Pocahontas.

    Quando terminai quel piccolo "concerto privato" aprii gli occhi e gettai uno sguardo ai bambini. Soffocai una risatina. Paris e Blanket si erano addormentati come sassi.

    Tolsi Blanket dalla ferrea stretta di Paris, facendo attenzione a non svegliare nessuno dei due. Lo portai in camera e successivamente tornai giù a prendere la piccola. Quando la presi in braccio si destò un poco, ma crollò definitivamente non appena l’adagiai sul suo lettino caldo e la avvolsi nelle coperte. Detti un bacio ad ognuno di loro e, seguendo lo stesso metodo che utilizzavano anche Michael e Grace, posi un Walkie Talkie vicino alla culla di Blanket e un altro me lo portai appresso, in cucina, dove rimasi accanto al lavello per dieci minuti abbondanti fissando il rubinetto chiuso.

    Il mio istinto mi diceva di aiutare Michael.

    Battei un piede a terra parlottando fra me e me fino a quando non ricordai un vecchio metodo naturale che utilizzavo sempre contro il vomito e le influenze: la limonata calda.

    Frugai nei ripiani in basso alla ricerca di un pentolino di piccola-media grandezza. Lo riempii d'acqua e lo misi a scaldare sul fornello a gas. Dopodiché aprii il frigo alla ricerca di un limone e di un pezzo di zenzero. Tolsi la buccia ad entrambi e li tagliai a spicchi. Quando l'acqua iniziò a bollire versai ogni cosa – limone tagliato, un cucchiaino di zenzero e anche una stecca di cannella per addolcire il tutto.

    Il dubbio cominciò a insinuarsi nella testa: dov'era lo zucchero? Lo avevo sempre visto sulla tavola o vicino al lavandino. Era praticamente sparito uno degli ingredienti fondamentali della limonata.

    Curiosai nei cassetti più alti.

    Feci per aprire un secondo ripiano ma, all’improvviso, un paio di dita affondarono nella carne del fianco destro facendomi sobbalzare di brutto. Reagendo avevo spalancato l'anta con violenza udendo un forte "stock" alla mia destra.

    Percependo le dita nella carne avevo tentato di urlare, ma ero stata bloccata da un grande palmo che aveva soffocato il mio gemito spaventato.

    Ovviamente quella beffa era opera di Michael.

    «Ouch... mi sa che devo evitare questi scherzi quando ci sono cose in giro che potrebbero farmi male...», sussurrò indietreggiando e mollando la presa sulla mia bocca e sulla mia vita, ridacchiando senza divertimento.

    Mi voltai e vidi che si stava massaggiando la fronte: si era preso una bella botta in testa, grazie a Dio evitando il bordo spigoloso dell'anta. La sua faccia mentre si toccava il punto dolente era così buffa – un miscuglio fra sofferenza e spento entusiasmo – che mi dovette rimettere la mano in viso per contenere la mia risata.

    «Shhh!», sussurrò ridacchiando e spalancando le palpebre. «Ti sentiranno se continui così! Vuoi che ti soffochi?»

    Mi liberò comunque.

    «Sei tu che mi fai ridere, fai quelle facce...!», dissi con il tipico sorrisino di chi si vuole contenere forzatamente.

    «Io?», si finse scioccato. «Mi dai anche la colpa?»

    «Dai...», scemo, «devo preparare...»

    «Cosa?»

    Arrossii. «Una limonata calda per Prince... be’, una specie. È una ricetta di mia nonna, quella famosa di cui ti parlo sempre. Sai, lei era una strega. E questo è un ottimo rimedio per digerire e far passare la nausea. Potrebbe non farlo vomitare».

    «Devo fidarmi?», chiese ironico. Lo linciai e lui ridacchiò abbassando il capo. «Comunque è un po' tardi...»

    Strabuzzai gli occhi. «Ha già...?»

    Annuì. Stirò un sorriso apparentemente pacato.

    «Tre volte ormai».

    Sospirai impensierita.

    «Sono preoccupato» bisbigliò sovrappensiero, «la febbre sta lentamente aumentando, varia tra i 38° e i 39°. Gli fanno male tutte le ossa... non so proprio dove l'abbia presa. Magari al parco pubblico con Grace, qualche giorno fa...».


    Sentivo che aveva bisogno di rassicurazioni.

    «Non ti devi sentire in colpa, Michael», mormorai comprensiva. «Può capitare a tutti, anche ai più sani. Guarda, io da piccola non uscivo molto spesso eppure mi ammalavo sempre! Basta poco».

    Michael mi puntò indulgente. «Dici?»

    «Di solito influenze come queste se ne vanno nel giro di tre o quattro giorni, sì».

    Inspirò profondamente. Dette la schiena al lavabo buttando il peso all'indietro e tenendosi al ripiano con le mani. Non si era ancora messo il pigiama: indossava pantaloni di tuta nera e una camicia di flanella nera e azzurra. I capelli, tuttavia, erano più disordinati del solito.

    «Me lo auguro. È sempre stato molto fragile, fin da quando è nato. Si ammala spesso».

    Nessuno dei due parlò per qualche istante. Continuai a scrutare l'acqua del pentolino e spensi il gas con un giro di leva, osservando il fumo salire e formare scie grigiastre come le fiamme di un minuscolo falò. Michael mi si accostò all'orecchio, silenzioso e scaltro come un felino.

    «Perché cercavi in mezzo ai cassetti, topolino curioso? Stavi cercando di svaligiare la cucina di soppiatto, in assenza del padrone di casa? Oh, anzi... ho capito! Stai cercando il forziere fantasma pieno di galeoni che ho nascosto... mi dispiace, qui non lo troverai mai».

    Era così vicino che sentivo il suo petto sfiorarmi il braccio. Profumava di dopobarba. Il suo basso e caldo sussurro fu come una scossa elettrica lungo la colonna vertebrale.

    Lo sgridai con una smorfia indefinita. Mostrò i denti con espressione sghemba e sicura.

    Gli risposi che non riuscivo a trovare lo zucchero. Mi mostrò dove lo avesse riposto e me lo consegnò.

    «Vado da Prince intanto che finisci qui...», mi fissò attentamente.

    Assentii. Mi dette le spalle e lo seguii con gli occhi pensando che non si sarebbe voltato, ma fu proprio l'occasione in cui lo fece. Colta sul fatto, le gote assunsero un colore rossastro e colpevole. Mi squadrò con un debole riso.

    «Non metterci troppo».

    Quando stette per fare un passo in avanti si immobilizzò per la seconda volta. Mi spiegò dove si trovasse la sua stanza.


    Pensavo che fosse una delle due camere accanto alla sala giochi, invece mi indicò tutt'altra direzione.1


    Annuii l'ennesima volta e lo ringraziai.

    *

    Bussai alla porta temendo di svegliare un Prince appena addormentato.

    Attesi con la tazza fumante di limonata in una mano e il Walkie Talkie nell'altra.

    Dieci secondi più tardi la porta si aprì con un cigolio sottile.

    Il volto di Michael si sporse dall'uscio facendo intravedere la fioca luce della stanza. Mi sorrise con fare spossato.

    Pareva che fossero passate ore dal nostro ultimo incontro in cucina, ore in cui sembrava aver fatto la notte in bianco.

    Guardò la tazza fra le dita e si scostò dall'entrata per lasciarmi passare.

    Non disse nulla e io neppure: gli lanciai soltanto un debole sorriso di rimando sperando che la mia presenza, quella che prima lo aveva rincuorato, non gli avrebbe dato fastidio.

    La camera era quasi del tutto avvolta dall'oscurità. L'unica fonte di luminosità proveniva da una lampada adagiata sotto il comodino. Non era una grande stanza come mi aspettavo che fosse, a discapito del letto che governava su tutto con la sua immensità.

    Non detti molta attenzione a ciò che mi circondava, poiché il mio sguardo fu subito rapito da Prince: se ne stava disteso sul fianco destro, rannicchiato su se stesso sul grande materasso a due piazze e mezza. Quel lettone lo faceva apparire ancor più piccino. Le coperte erano tre e spessissime; lo coprivano fino al mento e – steso sul cuscino – vi era un asciugamano bianco, dedussi nel caso avesse avuto l'immediato istinto di rimettere ancora.

    Mi avvicinai.

    Era pallido come un cencio, con gli occhi arrossati e socchiusi dalla febbre. Respirava affannosamente e la sua espressione descriveva a pieno lo sforzo che faceva per non singhiozzare dalla paura.

    Solo quando si accorse della mia presenza s'irrigidì, pur senza muovere un muscolo.

    «Ehi...», sussurrai amorevolmente. Mi sedetti sul bordo del letto e gli accarezzai i capelli madidi di sudore. Michael mi prese il Walkie Talkie dalle dita e lo poggiò sopra al comodino.

    «Come ti senti?». Capii nello stesso istante in cui feci la domanda che non avrebbe avuto l'energia per rispondere. «Ti viene ancora da vomitare?»

    Il piccolo annuì con un fiacco movimento del capo senza smettere di fissarmi. Delle volte guardava il papà per vedere se fosse ancora con lui. Anch'io guardai Michael e capii che, sebbene non lo desse a vedere, stava impazzendo dentro.

    «Ti ho portato una medicina... una medicina speciale», cercai di tirarlo un po' su di morale con il mio tono misterioso. Mi scrutò curiosamente, a dispetto del suo stato fisico e mentale. «La mia cara nonna apprese questa ricetta da una Fata dei boschi, così mi disse. Anni dopo lo tramandò alla mia mamma, infine mia madre a me. Non è niente di terribile, anzi, penso proprio che ti piacerà!».

    Valutai la paura nel suo volto. Per un attimo non mi curai minimamente della presenza di Michael e del suo sguardo attento su di noi. Prince studiò la tazza che tenevo sulla coscia con fare diffidente.

    «Con... con cosa è fatta?», emise in un bisbiglio.

    «Oh, be’, non te lo posso dire...». Mi chinai verso Prince sussurrandogli all'orecchio: «Non tutti lo devono sapere. Appena guarito ti prometto che ti insegnerò l'incantesimo... ricorda, si utilizza solo nei casi di assoluta necessità», gli scoccai un bacetto sulla guancia.

    Abbozzò un sorriso affaticato.

    Lo aiutai a sedersi. Michael – che nel frattempo aveva raggiunto il lato opposto – cinse il figlio per il busto e mi aiutò a tenerlo in posizione mentre io gli sostenevo la nuca delicatamente. Sfiorai la fronte bollente del piccolo e Michael estrasse il termometro da sotto il pigiama. Mi lanciò un'occhiata eloquente.

    «Bevi questo ora» gli pettinai i capelli lontano dalla fronte. «Vedrai che ti sentirai meglio. Te lo prometto».

    «Vomiterò ancora?», sussurrò.

    Michael e io ci adocchiammo di sfuggita.

    «Se la magia ha effetto non succederà. Anche io come te ho il terrore di rimettere, sai? Mi parte un attacco d’ansia al solo pensiero. Questa pozione mi aiuta ogni volta, ma prima di berla bisogna fare una cosa...».

    «Cosa?»

    «Credere alla magia delle fate. E tu credi in loro, vero?», sfruttai il suo amore per Peter Pan in senso benevolo.

    Annuì con tutte le forze che aveva. Sorrisi di rimando.

    Fui io a dargli i primi cucchiai di limonata. Soffiai su ogni sorso e glieli porsi rispettando i suoi ritmi. Quando fece i primi assaggi storse i lineamenti del viso con dubbiosità; solo dopo qualche cucchiaio bevve di gusto, sempre più rapidamente, e dopo una decina di sorsi passai la palla a Michael.

    Mi chiesi come avesse fatto Michael, in tutti quegli anni, ad essere una mamma e un papà insieme in quel modo che gli veniva così squisitamente naturale e spontaneo, come se il compito della sua vita fosse sempre stato quello di essere padre.

    Il punto era proprio questo: Michael amava i bambini e in special modo i suoi figli con ogni molecola di sé, più della sua stessa vita; era dolce, affettuoso, per non parlare del suo senso di protezione smisurato. Tutti e tre rappresentavano il suo Sole.

    Ammiravo il coraggio, la forza e la passione che ci metteva per essere un bravo papà. Non sapevo quasi nulla della sua vita privata, eppure in quei momenti credevo di conoscerlo da sempre. Per Michael curarsi di loro da solo non era un dispiacere o un peso. Qualcosa mi diceva che, in parte, era ciò che aveva sempre voluto fin dal principio.

    Non era un papà comune, ma non gli si poteva negare che non fosse un papà speciale.

    Ad un certo punto, poco prima che finisse la limonata, Prince sbadigliò. Decisi che era tempo di congedarmi e, mentre il piccolo chiudeva gli occhi per il sonno, lo baciai sulla fronte asciugandogli il sudore con le dita. Gli sorrisi e guardai Michael di riflesso; mi analizzava con un'espressione di silenzioso e provato interesse.

    Con un cenno del capo indicai la porta, sillabando un "Vado" a fior di labbra.

    Michael allungò una mano, come se volesse tentarmi a rimanere.

    Si bagnò le labbra.

    Annuì mestamente. Feci lo stesso e, senza emettere un suono, uscii.

    *

    Mi recai in camera stanca ma non troppo assonnata per riuscire a prendere sonno. Afferrai Il cavaliere d'inverno e lessi qualche pagina in salone, stravaccata sul divano e con lo schioppettio del caminetto di sottofondo, ormai in procinto di spegnersi. Dopo una buona mezz'ora – anche tre quarti abbondanti – mi avviai in cucina per farmi una camomilla.

    Picchiettando le dita sul lavello persi lo sguardo fra le minuscole bollicine dell'acqua che bolliva a malapena. Pensai a Prince, a Michael, al sonno che non provavo affatto. Sperai anche che Michael mi raggiungesse prima o poi, ma subito mi pentii per quel mio pensiero egoista.

    Quando la speranza mi aveva abbandonato da un pezzo sentii un leggero buffetto sui fianchi.

    Sobbalzai.

    Voltai la testa all'indietro e scorsi la figura di Michael illuminata dalla semi oscurità della cucina. Il cuore fece un piccolo salto in gola.

    I lineamenti del suo viso erano incavati come poco prima. I capelli scompigliati e gli occhi sorridenti mostravano segni di spossatezza.

    «Ti spaventi con poco, uh?», mostrò i denti.

    Lo guardai senza dire nulla. Mi sentii in colpa per averlo desiderato al mio fianco, ma anche sottilmente entusiasta all'idea di averlo lì.

    Puntò la camomilla. «Non riesci a dormire?»

    Annuii e alzai la tazza vuota.

    «È la stessa che hai fatto per Prince?»

    «No», scossi la testa. «Camomilla». Pausa. «Prince ha bisogno di altra limonata? Ne è rimasta ancora un po'... posso scaldarla».

    «No, non ti preoccupare, sta molto meglio adesso», annunciò con sollievo. «Non gli viene più da vomitare e sta dormendo da mezz'ora... ma devo tenerlo sotto controllo. Sono andato a controllare anche Paris e Blanket. Almeno loro dormono come sassi», disse scuotendo il Walkie Talkie.

    Michael andò a sedersi su uno sgabello accanto al bancone. Mi fissò imperscrutabilmente e si passò la lingua sulle labbra sbattendo le palpebre con lentezza.

    Lo osservai visibilmente perplessa, incrociando le braccia al petto.

    Michael sorrise. «Aspetto che tu faccia la camomilla».

    «Ahhh», inarcai la fronte con aria di chi la sapeva lunga. «Ne vuoi anche tu?».

    Negò col capo. «No, non ti preoccupare, sono abituato a fare le ore piccole. Sto sveglio la maggior parte delle notti».

    Non chiesi il perché. Spensi il bollitore e versai l'acqua calda nella tazza inzuppando la busta di camomilla; il liquido trasparente iniziò ad assumere lievi sfumature ambrate.

    «Anni fa amavo stare sveglia tutta la notte. Ancora adesso se per questo, soprattutto d'estate», sghignazzai mescolando distrattamente. «Sono una tipa notturna».

    «Davvero?», sussurrò incuriosito. Assentii di risposta. «Allora potresti farmi compagnia», scrollò le spalle inclinandosi in avanti, palmi saldi sulle ginocchia.

    Gli scoccai un'occhiata incerta.

    «Intendi durante le vacanze natalizie?»

    «No, intendo quest'estate».

    «Ahhh...».

    Mi sentii una perfetta idiota quando lo udii ridacchiare.

    «Certo che intendo le vacanze di Natale, sciocchina!», esclamò dondolando sullo sgabello, sorridendo con l'espressione di chi sembrava godere un mondo per le sue malefatte.

    Storsi le labbra di tutta risposta.

    «Non torni in Italia per Natale?»

    Percepii un lieve dolore al petto.

    Non gli risposi e non lo cercai con lo sguardo. Quando portai la tazza bollente davanti alle labbra, soffiandoci sopra per non ustionarmi la lingua, notai che aveva un'aria completamente inespressiva.

    «Non ne ho idea. L'ultima volta che ho passato il Natale con la mia famiglia sarà stato... mmh, credo due anni fa. Il periodo migliore per raggiungerli è l'estate, così da festeggiare il compleanno di mio padre e mia madre insieme, però... direi che dovrei parlarne prima con loro».

    «Tu vuoi tornare?»

    Dalle mie iridi spente e dal mio respiro sommesso trapelò il dissenso.

    Michael mi regalò un sorriso dolce.

    «Forse sarebbe meglio se passassi il tuo tempo libero con loro. Il Natale è una festa importante. Ma sappi che, nel caso in cui dovessi o volessi rimanere a Neverland, non daresti alcun fastidio. Saresti la benvenuta».

    Annuii e bevvi il liquido caldo dalla tazza. La sua frase, "Forse sarebbe meglio se passassi il tuo tempo libero con loro", continuò ad offuscare anche il pensiero più lucido.

    Non volevo tornare in Italia ma cos'altro potevo fare? Festeggiare con i Jackson pur non essendo un membro della famiglia?

    Bevvi ancora qualche sorso di camomilla in totale silenzio.

    Sbuffò spazientito. «Potresti farmi un caffè?»

    Alzai gli occhi a rallentatore e lo congelai sul posto. Ovviamente non lo avrei mai fatto, non se utilizzava quel tono.

    Rise di gusto unendo le mani a coppa e reclinando il capo all'indietro. Sapevo che mi stava prendendo in giro volutamente.

    «Ci tieni proprio alle buone maniere, uh?», le sopracciglia scattarono verso l'alto.

    Assunsi la sua stessa faccia. «Si è notato?».

    «Molto».

    Ricambiò l'occhiata con un sorriso beffardo.

    «Mi piace molto questo lato del tuo carattere. Sei tosta».

    Sollevai un lembo della bocca. «Mi aiuta ad affrontare i miei momenti peggiori, soprattutto nel lavoro. C'è sempre qualcuno che se ti vede troppo buono pensa automaticamente che tu sia malleabile come pasta frolla. Sono sempre stata una testa calda. Anche a costo di rimanere sola, nonostante potessi soffrirne, non mi lasciavo comandare a bacchetta da nessuno. Mia madre dice che ho un carattere come il suo, “freddo come l'acciaio”». Trattenni una risata alla sua smorfia di dissenso. «Il mondo del lavoro è pieno di avvoltoi che non vedono l'ora di cibarsi dei tuoi fallimenti», mormorai con aria scettica e mi sedetti sullo sgabello in parte a Michael.

    «Bella questa metafora».

    «Grazie», sorrisi. «Me ne sono sentita dire di tutti i colori nel corso degli anni. Pensa, all'università alcuni cercarono di rovinarmi la reputazione e la mia futura carriera dandomi della...».

    Lo adocchiai espressivamente. Michael corrugò la fronte.

    «...della poco di buono».

    Michael strabuzzò gli occhi. Storse il naso con un lieve moto di disappunto.

    «Non c'era materia in cui non fossi brava. Difficilmente tesso le mie lodi da sola, ma su questo non ho mai avuto dubbi. C'era un professore in particolare che mi adorava. Era una persona molto importante e in breve tempo diventai la sua pupilla. Diceva che c'era qualcosa nel modo in cui mi atteggiavo e nel mio modo di pensare che mi rendeva unica nel mio genere. Il bello era che non mi sforzavo affatto per esserlo, cercavo soltanto di dare il meglio di me. Fu lui che mi consigliò alla figlia della signora Taylor... aveva i contatti giusti».

    Le ossidiane lucenti che aveva al posto degli occhi s'incatenarono alle mie, intimandomi a continuare silenziosamente. Pareva assetato dalle mie parole.

    «Ovviamente non "vendetti il mio corpo", mai. Avrei vissuto nel fallimento per tutta la vita piuttosto che fare quello per un po' di successo in più», esibii una miscela di emozioni schifate, piegando lo sguardo sui due centimetri di camomilla che mi rimanevano da bere. «Certi dissero in giro che ero una "poco di buono", invece quell'uomo fu il mio mentore; è vero, stravedeva per me, ma chi ero io per rifiutare i suoi insegnamenti e la sua protezione? Non era un uomo stupido, bensì una persona di grande cultura, con un'intelligenza e un vissuto incredibile alle spalle. Non ho mai capito dove vedesse la mia unicità, ma la mia stima e la mia gratitudine erano sincere.

    Non ho mai indietreggiato di fronte alle parole della gente. Non ho mai abbassato la testa allontanandomi da quello che era il mio obiettivo, soltanto per farle contente. Il loro comportamento era una maniera come un'altra per ordinarmi di essere una persona "mediocre". Essere mediocre non è sbagliato, ma obbligare gli altri ad esserlo per forza, questo è scorretto. Se tu non vuoi essere ambizioso o conosci i tuoi limiti o ti accontenti di quello che hai, è perfetto. È perfetto perché sei fedele a te stesso e conosci i tuoi bisogni, lo dico davvero. Ma la tua scelta non giustifica a odiare gli altri e buttarli in un fosso sperando che smettano di fare quello che vogliono. Più qualcuno mi attacca, più io continuo per la mia strada, imperterrita».

    Silenzio.

    «Sei una donna interessante», strinse le palpebre senza smettere di guardarmi. Ricambiai il suo stravagante complimento con un sorriso accennato che nascondeva tutta la mia reale euforia. «Potrei dire che mi assomigli».

    Risi. «So già che è così».

    «Così cosa?», distese la fronte.

    Si umettò la bocca con fare compiaciuto.

    Finii la camomilla in un sorso. Lo esaminai attentamente. «Non sei tipo da farsi comandare a bacchetta, lo si vede lontano un miglio. Certo, sei una persona molto educata e gentile, ma vuoi fare sempre quello che vuoi come vuoi. E secondo me sei anche un bastian contrario, ma non lo vuoi dare a vedere a nessuno. O meglio, sembra che tu non voglia mostrare al mondo che sei più intelligente di quello che la tua bontà fa apparire», mi morsi l'interno guancia poggiando i gomiti sul tavolo, abbandonando la tazza vuota sul legno.

    L'intensità dei suoi occhi fu come un getto di acqua bollente sulla pelle. Per un attimo credetti di essere rimasta folgorata da quello sguardo; esaminava le mie labbra con uno strano bagliore nelle iridi nere ed io, paralizzata da quelle attenzioni, non riuscivo neanche ad arrossire.

    Guardò davanti a sé soffocando un risolino.

    «Teoria davvero...»

    «... interessante?», dissi sorridendo.

    Piegò il mento e lo sguardo verso il basso e ridacchiò teneramente.

    Ci alzammo in piedi e risalimmo al primo piano, in direzione delle nostre rispettive camere da letto. All'incrocio dove le nostre strade si sarebbero separate mi scoccò un bacio sulla tempia sinistra inspirando a polmoni aperti.

    Anche quando gli detti la schiena continuò ad osservarmi, fino a quando non sparii oltre l'angolo del corridoio.

    *

    Il giorno seguente arrivò il medico per Prince. Michael accorse alla mia porta qualche minuto dopo che se ne fu andato, alle 9.30, svegliandomi di soprassalto nel bel mezzo del mio sonno profondo.

    Cercai di mostrarmi felice, gioiosa e soprattutto sveglia, ma purtroppo mi ci volle parecchio per destarmi e comportarmi da persona lucida.

    Che fosse per le occhiaie o per i capelli aggrovigliati dietro la nuca - o per il pulcino che ero nel mio gigantesco pigiama bianco macchiato di fiori rossi - Michael dovette trattenere una grassa risata per tutta la conversazione.

    Prince sarebbe guarito in pochi giorni. L'influenza non era grave e tutto sarebbe passato con l'aiuto di alcuni medicinali e tanto riposo a letto.

    Insieme decidemmo di fargli saltare le lezioni fino all’arrivo del prossimo semestre, dato che mancavano pochi giorni all'arrivo delle vacanze natalizie. Paris avrebbe continuato e solo dopo l'assegnazione dei compiti per le vacanze sarei partita per tornare al mio paese natio.

    Ma ero davvero obbligata a festeggiare il Natale in Italia?

    Li, nonostante ci fossero i miei genitori, avrei dovuto convivere di nuovo con il caos di una famiglia mezza pazza e fuori dal comune, sopportare le chiacchiere dei vicini logorroici e quelle che sicuramente sarebbero state le pedanti ramanzine di mia madre. Avrei dovuto abbandonare la tranquillità e la pace che mi trasmetteva la famiglia Jackson, i bambini che giocavano, Michael che mi coinvolgeva, mi sorrideva, mi fissava.

    Passarono i giorni e non ebbi più l’occasione di fare una bella chiacchierata con Michael. Con la visita del dottore ritornò anche Grace, con la promessa che avrebbe avuto la Vigilia e il Natale liberi, oltre che a qualche giorno di ferie in più non appena Prince si sarebbe rimesso.

    L'unico contatto che mi restava con Michael era il suo silenzio, mentre analizzava insistentemente me e i suoi figli dialogare e stringere un legame sempre più forte.

    *

    «Hai capito? C'è qualcosa che vorresti chiedermi?»

    Prince scosse la testa. «Ho capito. Sono solo questi i colpiti per le vacanze?», chiese trovando una posizione più comoda sul divano.

    Annuii.

    Mi adocchiò perplesso. «Perché ce ne dai così pochi?»

    «Vuoi che te ne aggiunga altri?» chiesi fingendo ingenuità. Lui scosse violentemente la testa sbarrando le palpebre ed io ridacchiai in tutta risposta. «Ve ne ho dati pochi perché entrambi avete fatto un magnifico lavoro. Ovviamente avete bisogno di tenervi in allenamento, ma queste sono vacanze... e tutti e due dovreste riposarvi e divertirvi per un paio di giorni!»

    Sorrise entusiasta.

    La febbre gli era scesa completamente. In compenso aveva un voltastomaco che faticava a smettere.

    Credetti che fosse Michael la causa del suo continuo starsene a letto tutto il giorno. Scendeva solo per mangiare o guardare un film dopo cena, avvolto in così tante coperte da sembrare un mini burrito dai capelli platinati.

    Era sabato 20 dicembre.

    In mattinata avevo approfittato del tempo libero per chiamare i miei genitori e informarli del mio arrivo. Rimasero sotto shock.

    Sarei partita la mattina del 22 e mi sarei fatta venire a prendere a Venezia. Era tutto pronto, le valigie fatte: mancava soltanto dare la notizia certa al padrone di casa.

    Baciai Prince sulla fronte e uscii dal salotto. Michael era in piedi con la schiena appoggiata al muro, ancora in pigiama. Ricambiò la mia criptica occhiata con un sorriso. Abbassai gli occhi sul pavimento.

    «Hai consegnato i compiti, maestrina?» esclamò scherzosamente.

    Annuii mostrandomi tranquilla. Un guizzo di luce nel suo volto mi fece capire che aveva intuito che dovevo dirgli qualcosa. Se ne stette in attesa.

    «Parto all'alba del 22 dicembre. Tornerò il 3 gennaio, nel tardo pomeriggio...».

    Pausa meditabonda. Lo studiai di sottecchi e i suoi pensieri mi sembrarono inaccessibili. Le iridi scure erano vigili ma misteriose.

    «Ok, va bene. Grazie per avermi informato», sorrise gentile.

    Fu come se la mia partenza gli facesse piacere, come se il mio andarmene non cambiasse nulla di fatto.

    Mi abbracciò ed io ricambiai provando a mantenermi il più distaccata possibile. Fu impossibile non pentirmi della scelta compiuta.

    «Goditi l'Italia anche per me, mi raccomando».

    Si separò dandomi un buffetto sulla guancia e io assentii obbligandomi ad essere felice.

    Per impedirmi di stare male più del dovuto e del necessario trascorsi la maggior parte della giornata da sola. Mi rilassai in camera leggendo Il cavaliere d'inverno - quel libro mi aveva fatto piangere ormai due volte ed era semplicemente meraviglioso. Verso metà pomeriggio, spossata da quella lunga ed interminabile lettura, scivolai in cucina per incontrare Paris e fare uno spuntino con lei.

    Non mangiai niente se non due biscotti. Lo stomaco si era chiuso per l'ansia di dover tornare a casa.

    Giocai con Paris e le sue bambole fino al tardo pomeriggio, fin quando un sempre più acceso mal di testa mi avvisò che qualcosa non andava per il verso giusto.

    Ero scombussolata, mentalmente e fisicamente.

    Cercai di ignorare i sintomi ma durai poco meno di mezz'ora, fino a quando non compresi di aver raggiunto il "limite". Temendo il peggio accorsi nella mia stanza informando Paris che avevo mal di testa, chiedendole di avvisare tutti di cenare senza la sottoscritta.

    Quando fui in camera mi buttai a peso morto sul letto e chiusi gli occhi.

    Non mi tranquillizzai affatto.

    Il mal di testa si trasformò in lente pulsazioni concentrate sulle tempie. Sentii il freddo che mi invadeva le ossa e le stritolava in un abbraccio doloroso e tremolante.

    Mi rannicchiai su me stessa alla ricerca di calore. Mi pareva di essere nuda nel bel mezzo di una tormenta.

    Dentro di me ero consapevole di quel che stava succedendo.

    Un conato di vomito mi chiuse lo stomaco in una stretta.

    Vedi cosa succede? Vedi cosa succede quando credi di essere immune all'ammalarti?

    Il cuore batteva come impazzito.

    Volevo chiedere aiuto all'unica persona che sapevo sarebbe accorsa in fretta e furia per me, ma le labbra erano serrate e il corpo pietrificato in posizione fetale.

    Fu un momentaccio.

    Non capivo se stessi tremando per la paura di rimettere o per la febbre che continuava a salire a dismisura.

    Ansimavo obbligandomi di mantenere la calma per un qualcosa che non potevo controllare. Ero così frastornata che non sapevo più che momento del giorno fosse, ancor meno quanto tempo fosse passato da quando mi ero nascosta da tutti.

    E all'improvviso lo percepii.

    Accorsi in bagno, mi buttai in ginocchio a terra ed alzai la tavoletta del Wc con una velocità inaudita. Sputai fuori l'anima. A fatica repressi le lacrime causate dallo sforzo del vomito e dal panico.

    Quando terminai emisi un singhiozzo dalla paura. Tirai l'acqua.

    Mi girava vorticosamente la testa.

    Il corpo tremava e avevo un peso enorme sulla pancia pur non avendo mangiato quasi niente da mezzogiorno in poi. Vedevo tutto ovattato.

    Mi distesi sul tappeto del bagno, adagiando il capo sul marmo freddo. Avevo bisogno di recuperare la lucidità.

    Provai a ragionare sul da farsi, ma ero nel pallone. Ero stordita, confusa... totalmente priva di energia. Non riuscivo ad alzarmi in piedi. Nella mia testa chiedevo aiuto all'unica persona che non poteva sentirmi.

    Chiusi gli occhi reprimendo le lacrime.

    Mi stavo imponendo con tutta me stessa di non rimettere ancora. Non volevo, non avevo alcuna intenzione di sentire quell'orribile acidità in bocca e quel senso di soffocamento in gola.

    Il tempo scorse lento, fino al momento in cui l'aiuto finalmente arrivò.





    1 Prima della perquisizione del 20 novembre 2003 la stanza di Michael si trovava vicino alla sala giochi. Dopo l’intervento della polizia – come detto dallo stesso Michael nell’intervista con Ed Bradley 60 Minutes – la camera venne praticamente distrutta. Ipotizzando come si sentisse, ho fatto sì che nella storia Michael scegliesse un altro posto in cui stare.



    Edited by fallagain - 16/1/2021, 12:46
  9. .
    Capitolo Tredici: I Ricordi Sopiti

    Passarono dei giorni prima che potessi avere un altro dei miei “confronti diretti” con il padrone di casa.

    Lo incrociavo sempre - a colazione, pranzo e cena. Una volta perfino in bagno, quello comune, lui che usciva e io che entravo. Fu un po' imbarazzante vederlo in quella situazione, ma anche comico.

    Ogni volta che ci incontravamo sfoggiava un sorriso che andava da un orecchio all'altro, mi salutava e ci scambiavamo qualche parola di sfuggita. "Come stai?", "Dormito bene?", "Come è andata la lezione?" e cose così.

    Tra lunedì e mercoledì si fece vedere molto poco. Si palesava soltanto ad ora di cena, sempre ben disposto a passare del tempo con i figli per guardare un cartone o raccontar loro delle storie (momenti in cui mi eclissavo totalmente dalla situazione rintanandomi nella mia stanza).

    Quel giovedì, vedendolo girovagare in pigiama alla fine delle lezioni pomeridiane, capii.

    Scese in cucina per prendersi una camomilla, tenendo un libro ben stretto fra le dita e facendomi furbescamente intendere che mi stava dando retta. Non me ne resi subito conto, troppo allibita dall'averlo visto tranquillamente in pigiama e struccato. Non che la cosa mi irritasse, anzi, mi faceva sorridere perché non si faceva il minimo scrupolo in mia presenza, pur essendo io una dipendente come le altre.

    Stavo cominciando a sentirmi a casa sebbene non mi credessi ancora libera di fare tutto ciò che volevo – come prendere qualcosa da mangiare o bere senza chiedere il permesso, avere un pomeriggio tutto per me per scrivere, leggere o fare semplicemente una passeggiata al parco. Ma mi stavo adattando.

    C'era un clima così pacifico da sembrare irreale. Sia Michael che i bambini mi confermarono di essere persone tranquille, per nulla "strambe" o dalle manie eccentriche.

    Come di consueto sabato mattina Prince e Paris non avevano lezione. Quando li raggiunsi in salotto erano le dieci passate e avevo ancora un'aria da perfetta rincitrullita.

    Mi vennero incontro gettandomi sguardi e risolini eloquenti. Già intuivo cosa volessero chiedermi.

    «Sarah, giochi con noi?», Paris mi afferrò l'avambraccio con occhi sornioni. «Papà è uscito prima, ha detto che non può giocare con noi, oggi...»

    Oh, perciò non è qui...

    Non feci capire ai bambini che ero scontenta per quella notizia.

    Per quanto assurda fosse quell'emozione, stavo cominciando a sentirmi strana quando Michael era assente; come se sapere di averlo lì in casa mi rincuorasse. Anche se dalla chiacchierata della domenica precedente i contatti e gli sguardi fra noi erano diventati sporadici, e la cosa non mi aveva pesato per niente, avere la certezza che fosse lì mi rasserenava.

    «Per favore, Sarah!», Prince mi tirò per la manica.

    «D'accordo, lo farò» annuii con un sorriso. «Ma prima faccio colazione, ok?»

    «Te la prepariamo noi!», strepitarono.

    Con il mio aiuto preparammo un caffellatte buonissimo. Prendemmo un paio di biscotti dalla credenza e andammo a sederci in salotto per guardare i cartoni animati.

    «Papà ci dice di guardare questi e basta», Prince andò avanti e indietro, di canale in canale, come una furia. «Dice che il resto non si deve vedere per ora, perché siamo troppo piccoli... e che un giorno ci aiuterà a capire... però io vorrei saperlo ora...»

    «Nemmeno io capisco», borbottò Paris, fissandomi.

    Curvai lo sguardo prima su uno e poi sull’altra, comprendendo perfettamente perché fossero curiosi e perché Michael non facesse vedere altri canali al di fuori di quelli. In quel periodo in cui i giornali e i media lo accusavano continuamente di pedofilia era meglio evitare. Quelli che Prince mi stava mostrando erano canali per bambini accessibili a chiunque, mentre per il resto bisognava avere un codice.

    Decisi di reggergli il gioco.

    «Vostro papà ha ragione. Sono cose da adulti».

    Sbuffarono di risposta.

    «Perciò nemmeno tu puoi dirci niente come tutti gli altri?» chiese Prince guardando i Looney Tunes senza dar loro molta attenzione, imbronciato e con braccia conserte.

    «Per favore...».

    Sorrisi amaramente, dissentendo. «No. Se vostro padre ha dato le regole voglio il suo permesso prima di dire o fare qualcosa... non posso tradire la sua fiducia». Feci un bel respiro profondo e scompigliai i capelli ad entrambi, placando il loro malcontento. «Vedrete che vostro padre vi spiegherà tutto».

    «Quando?».

    «Non ne ho idea... ma abbiate fiducia, non vi lascerà a bocca asciutta per molto tempo. Sono sicura che sia dispiaciuto anche lui per questo».

    Li scrutai a fondo e vidi nei loro sguardi espressioni da bambini sensibili e intelligenti. Ricambiarono il sorriso annuendo, ritornando con l'attenzione sui cartoni.

    «Sì, anche papà era serio quando ce lo diceva» bisbigliò il piccolo. «Volevamo soltanto chiedere...», pigolò come per scusarsi.

    Gli accarezzai il capo. Prince mi fissò con aria scura e interessata.

    «Non c'è nulla per cui scusarsi, hai fatto – avete fatto – una domanda più che giusta». Massaggiai le cosce a entrambi. «Siete due bambini molto bravi».

    Ricambiarono con un riso mesto. Erano molto più svegli della loro età. Sapevano rispettare i limiti e le imposizioni e se talvolta facevano i capricci sapevano chiedere scusa e rendersi conto dei loro errori.

    Erano bambini molto più speciali di quanto si potesse pensare.

    *

    Passammo il resto della mattinata a divertirci.

    Ci svagammo con diversi giochi da tavola, con le bambole e con i giocattoli telecomandati. Quando cominciarono a stancarsi di ogni cosa ne proposi uno nuovo.

    Consisteva in un semplice gioco di ruolo: ognuno sceglieva un personaggio di un film, cartone o libro che amava e assieme si inventavano nuove storie e situazioni, createsi sulla base della propria fantasia. Potevamo fingere, ad esempio, che Paris fosse Ariel (avevo scoperto che era il suo personaggio Disney preferito) e che Prince fosse Luke Skywalker: si potevano inventare nuove pericolose avventure, sfide, duelli e incantesimi, trovando quel gioco come un ottimo modo per "recitare".

    Volevano a tutti i costi interpretare i personaggi di Peter Pan (tanto per cambiare). Prince e Paris litigarono abbastanza vivamente per scegliere chi fra loro avrebbe assunto il ruolo del protagonista e chi invece avrebbe fatto Capitan Uncino. Alla fine scelsi io: per quella volta Paris avrebbe fatto il pirata e la volta successiva i ruoli si sarebbero invertiti.

    «Al prossimo turno farò Tinkerbell insieme a te, ti va?», le pizzicai la guancia per toglierle il cipiglio immusonito dal volto.

    Non disse assolutamente di no.

    Mi proposero di fare Wendy, rapita dai pirati e costretta ad essere salvata prima che il coccodrillo la mangiasse, il tutto mentre Peter e Uncino si sfidavano con spade e coltelli invisibili in una lotta all'ultimo sangue.

    In un batter d'occhio mi ritrovai in piedi, sull'orlo di un muretto, facendo finta di avere il mare sotto di me e un grande coccodrillo feroce che voleva mangiarmi, ridendo come una pazza e allo stesso tempo fingendo richieste d'aiuto a un Peter che nemmeno mi calcolava: Prince era troppo occupato ad assalire la sorella, la quale correva avanti e indietro per non farsi prendere dal coltello inesistente di Prince. Stavamo facendo un casino infernale con le nostre urla e le nostre risate, tanto che temetti di disturbare il resto del personale.

    Per un attimo avevo addirittura pensato che Michael fosse ancora in casa, nel momento in cui ero stata rapita dal veloce fruscio di una tenda proveniente da una stanza sconosciuta al primo piano del villino.

    All'ora di pranzo Grace venne a chiamarci, Blanket sempre appresso e avvinghiato al suo collo. Quel piccolo l’adorava.

    «Grace ha il weekend libero, sempre», mi dissero i bambini a bassa voce, entrando in casa per mano, «tranne i giorni quando papà è fuori».

    Nel pomeriggio ci radunammo in salotto per rilassarci tutti insieme: Prince, Paris e Grace se ne stavano comodamente seduti a terra attorno al tavolino da salotto, disegnando allegramente mentre io e Blanket guardavamo il cartone Tarzan sul divano. Sapevo tutte le battute a memoria, o quasi, tanto da scioccare i piccoli Prince e Paris; solo quando Blanket prese sonno e la tata andò con lui nella camera da letto dei bambini iniziai a disegnare anch'io.

    Feci uno schizzo in stile manga giapponese avendo adottato – dopo anni di ossessione – una tecnica molto simile a uno dei miei miti, Rumiko Takahashi. Disegnavo sempre ragazze concentrandomi maggiormente sui loro volti, marcando occhi e capigliatura. In molti mi avevano detto che ero una persona molto artistica sotto ogni punto di vista, pure nel disegno, ma io pensavo tutto il contrario.

    Anche i bambini rimasero estasiati dal mio lavoretto e lo ammirarono a bocca aperta. Non mi ritenevo molto capace, ma ammettevo di non fare proprio pena. Promisi che un giorno avrei fatto un disegno per ognuno di loro.

    Mi ero appena messa a colorare con i pastelli, seguita a ruota da Prince e Paris, quando il film mostrò una delle mie scene preferite: era il pezzo dove Phil Collins cantava Strangers Like Me. Jane stava facendo un ritratto di Tarzan, il quale, affascinato da lei e dal suo modo di fare, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.

    Era la scena che amavo di più, sia per le parole utilizzate nella canzone, sia per gli occhi innamorati del protagonista. Magari un uomo avrebbe guardato così anche a me, un giorno.

    Every gesture, every move that she makes, makes me feel like never before
    Why do I have this growing need to be beside her?

    Appoggiai i gomiti al tavolo da salotto e restai a guardare il film come una bambina.



    Non avevo mai provato l'Amore con la A maiuscola. Ero stata innamorata, sì, ma mai così. Avevo avuto qualche storia, ma niente di duraturo. E non ero neanche così coraggiosa da farmi avanti con gli uomini, non era nel mio carattere: preferivo tenere il sentimento per me piuttosto che confessarmi e ottenere una delusione. Tuttavia l'amore (fra uomo e donna) non era mai stata la mia esigenza principale. Un fidanzato non era mai stato chissà che importante fino ad una certa età, pressoché dal college in poi, tempo in cui avevo cominciato a sentire la mancanza di una figura maschile nella mia vita. Al primo posto c'era sempre stata la carriera, al secondo la semplice amicizia.

    «Papà!».

    Prince e Paris scattarono verso il corridoio e per poco non mi fecero venire un infarto.

    Voltai la testa alla mia destra e, quando lo vidi, la mente si svuotò come per magia. Michael era proprio lì, sotto l’entrata ad arco con le mani nelle tasche. Non aveva gli occhiali da sole che gli coprivano gli occhi, non quel giorno, ed era vestito in modo un po’ più sobrio dell'usuale: jeans chiari (prima volta che glieli vedevo indosso) e una camicia pesante e nera.

    Guardò i bambini sorridendo e si chinò sulle ginocchia. Li cinse stretti, regalando loro buffetti e baci affettuosi. Poco dopo le sue iridi incandescenti si appoggiarono su me, scaltre e curiose.

    Sperai di essere in una condizione abbastanza presentabile. Con i miei pantaloni di tuta e il mio maglioncino crema non davo assolutamente l’idea di una maestrina ben curata; per non parlare dei capelli, tenuti alti da un chignon fatto alla veloce.

    «Ciao Sarah», soffocò il mio nome con un respiro, dopo aver preso in braccio i figli.

    Gli faceva male la schiena.

    «Salve, Michael».

    Borbottavo sempre quando mi capitava di dire il nome in sua presenza, anche solo per salutarlo. Mi credevo ancora una sconosciuta per lui, nonostante mi venisse naturale trattarlo come un mio coetaneo.

    Adagiai penne e matite sul tavolo non sapendo bene cosa fare. Notai subito che, anche se sorrideva, non aveva intenzione di guardarmi.

    Si approssimò al divano. «State guardando un cartone?», poi fissò la TV. «Ohhh, è Tarzan... mi piace!», esclamò due secondi più tardi e sedendosi a qualche centimetro dalla mia spalla destra.

    I due piccoli scivolarono a terra nel vano tentativo di ottenere l'attenzione del padre. Solo quando lo richiamarono tre volte Michael distolse l'attenzione dal cartone, ammirandoci come se fosse caduto dalle nuvole. Era più preso lui che io, Prince e Paris messi insieme.

    «Papà, guarda che bei disegni che stiamo facendo!», disse Prince sventolando in aria il suo.

    «Oh God... ma sono molto belli. Complimenti, Prince».

    «E guarda questo... ti piace?», Paris si allungò per donargli il suo.

    Michael rimase a fissarlo con espressione concentrata, enunciando un sottile: «Ohhh, è davvero bello! Brava».

    Nel frattempo cercai di nascondere il mio sotto i fogli bianchi sparsi per il tavolo, pregando affinché nessuno dei due bimbi nominasse la mia opera. Ero molto riservata, non mi piaceva vantarmi di ciò che facevo.

    Purtroppo le mie richieste non furono esaudite.

    «Guarda, daddy! Guarda che bel disegno ha fatto Sarah!».

    Michael mi puntò non appena la figlia pronunciò il mio nome, incuriosito. Mi fece uno dei suoi soliti check-up completi. Scostai gli occhi dai suoi spremendo ogni energia per apparire impassibile.

    Quand'anche Prince insistette affinché lo mostrassi, con nonchalance dissotterrai il disegno dalla pila di carte bianche. Lo porsi a Michael inspirando pesantemente. Quest’ultimo mi cacciò un'ultima occhiata sfacciata prima di esaminare lo schizzo. Neanche il tempo di decidermi se osservare o meno il cambio d'espressione del suo volto che aveva già emesso uno dei suoi tipici "Ohhh...!"

    Lo puntai di sottecchi, esitante.

    Stava contemplando il mio abbozzo con la testa inclinata di lato e le labbra schiuse. Guardai con attenzione i suoi zigomi marcati. Ad un certo punto si umettò il labbro inferiore, socchiudendo le palpebre con maggiore concentrazione.

    «Ti piacciono i fumetti giapponesi?», chiese senza smettere di osservare il foglio.

    «Sì, moltissimo!», dissi sorpresa.

    L'ultima cosa che mi aspettavo da Michael era che conoscesse i cosiddetti “manga”. Non credevo che tutte le star mondiali avessero una certa conoscenza in ambito di animazione giapponese.

    «Io amo molto i fumetti della Marvel» proferì tracciando con gli occhi ogni linea a matita. «A te piacciono quei tipi di fumetti?», mi adocchiò.

    «Uhm, in realtà leggo soltanto quelli giapponesi, niente Marvel... ma fra tutti i supereroi apprezzo molto Superman della DC Comics», dissi sollevando gli angoli delle labbra in un sorriso di scuse.

    Annuì lentamente. Poco dopo sorrise di rimando, scrutandomi con iridi sempre più vivaci e luminose.

    «Sei davvero molto brava, complimenti», lo disse con così tanto trasporto da farmi venire le guance scarlatte. Ancora.

    Ringraziai, mi porse il disegno e lo riadagiai sul tavolo. Prince e Paris si sedettero accanto al padre raccontandogli della giornata passata con la sottoscritta. Gli menzionarono il nuovo gioco che avevo insegnato loro. Michael se ne stesse ad ascoltare meditabondo e le mie orecchie si trasformarono in antenne.

    Continuai il mio disegno cercando di non sentirmi osservata, cosa che non mi riuscì facilmente. Sentivo Michael pungermi con insistenza, come se mi stesse invitando a guardarlo di rimando, ma non lo feci.

    Riuscii a terminare l'opera prima della fine del film. I bambini, che dopo aver finito di chiacchierare si erano messi a guardare il cartone spaparanzati sul divano, si avvicinarono per controllare il risultato. Li studiai di soppiatto e li vidi esultare soddisfatti.

    «Daddy, guarda!».

    Quest'ultimo si era chinato prima ancora del loro richiamo. Era molto vicino alla mia tempia destra.

    «Wow...».

    Sorrisi.

    «Ha detto che un giorno farà qualcosa per noi, sai?», Paris era tutta gongolante.

    Michael alzò un sopracciglio meravigliato, mostrandomi un cipiglio di finta disapprovazione. «Davvero?».

    Mi squadró con fare espressivo.

    Distesi la fronte ridacchiando.

    «Lo vuoi...?», glielo porsi.

    Michael sorrise affabilmente. Non se lo fece ripetere due volte e lo afferrò in men che non si dica.

    «Assolutamente. Ti ringrazio, Sarah».

    Lo fissò per un qualche interminabile minuto. Quand’anche l'ultima canzone del cartone finì, Michael si alzò dal divano dedicando una lunga occhiata a me e ai suoi figli.

    «Prince, Paris, mandate indietro la cassetta, mettetela nella custodia, sistemate queste cose e poi andate in camera. Vi raggiungo subito».

    Loro annuirono e sistemarono il tutto anche grazie al mio aiuto (dopotutto avevo disegnato con loro, era il minimo che potessi fare).

    Prima che potessi finire di mettere i pastelli e i pennarelli nelle apposite scatole, Michael mi chiamò da parte.

    Con l'indice mi fece segno di seguirlo e io non esitai.

    Quando raggiungemmo le scale s’immobilizzò sul posto. Io fissai lui e lui fissò me. Poi sorrise.

    «Ti ringrazio per aver fatto compagnia a Prince e a Paris, oggi. Di solito non manco mai nei weekend, ma avevo un impegno piuttosto importante».

    «Non ti preoccupare, è stato un piacere».

    Si sfregò le mani guardando a terra. Sollevò gli occhi di scatto facendomi intendere che aveva qualcosa di importante da dirmi. Si umettò le labbra.

    Titubò un istante. «Uhm, non credo che i bambini siano molto propensi alla favola della buonanotte stasera, così come non credo che lo sia anche tu... ti piacerebbe vedere un film? O fare una passeggiata?».

    Sbarrai gli occhi.

    Michael era leggermente impacciato, ma non allontanò le iridi dalle mie neanche per sbaglio. Si bagnò la bocca.

    «Ho bisogno di parlarti...», continuò senza lasciarmi rispondere, «ma se non ti va, non ti preoccupare».

    «Ma certo che sì!», non esitai. «Sono contenta che tu me l'abbia chiesto».

    Mi osservò sbattendo le palpebre. Sorrisi e annuii per rassicurarlo che aveva capito bene.

    «Oh...», osservò un punto vuoto alla sua destra. «D'accordo allora. Passeggiata?»

    «Prego?».

    Che rincoglionita.

    «Preferisci una passeggiata?», ripeté a ritmo cadenzato, arcuando le sopracciglia e sorridendo maggiormente.

    Le mie labbra formarono una linea sottile. Fissai terra.

    «Come va con la schiena?»

    «Pardon?»

    Lo studiai con austerità. «Come va con la schiena?»

    Scoprì un'aria pensosa. Si toccò la spalla destra con la mano opposta.

    «Mi fa meno male». Mi squadrò. «Ho seguito i tuoi consigli... ora non sento più niente».

    Ci scrutammo senza dire nulla. Non gli credetti molto e dovette capirlo immediatamente, perché mi palesò davanti una faccia da poker assurda.

    «Perché me lo chiedi?», spostò il peso del corpo su un piede e allacciò le braccia dietro la schiena.

    Alzai le spalle da finta tonta e lo evitai. «Non mi va che tu prenda freddo. Sei appena guarito, preferisco che non peggiori di nuovo. A mio parere è meglio un film».

    Michael era sbalordito.

    Emise una risata intenerita coprendosi la bocca una mano, sfiorandosi delicatamente le labbra. Nonostante quel gesto apparisse puramente innocente e bambinesco, la sfumatura nelle sue iridi nere come pece dimostrava tutto l’opposto.

    Scosse il capo. Il mio disegno, ancora stretto fra i polpastrelli dell'arto libero, era sempre al suo fianco.

    «Ti preoccupi per me?», sollevò un sopracciglio.

    Il suo sorriso fece risplendere ogni cosa.

    «Sì, molto!», risi. La mia brutale sincerità fece scemare il suo divertimento. «Non voglio che tu stia peggio, soprattutto per colpa mia! Mi dispiacerebbe da morire!»

    Si incupì e io feci altrettanto, cogliendo la severità nel suo volto.

    «Non è colpa tua. E non devi minimamente pensarlo nel caso in cui capitasse di nuovo. Mi succede spesso di avere questi dolori e ogni tanto rimango sveglio tutta la notte, sia per la mia insonnia che per questi...», disse picchiettandosi la spalla con le dita. «Non voglio sentirti dire “è colpa mia”, ok?».

    Mi stava linciando con austerità, a dispetto della voce dolce. Fu come se fossi stata appena sgridata da mio padre.

    Sospirai guardando altrove.

    Percepii una mano grande e calda posarsi sulla mia nuca. Ebbi un fremito lungo le gambe e le braccia. Gli rivolsi uno sguardo spaesato e notai che stava sorridendo teneramente.

    «Passeggiata?».

    Annuii controvoglia.

    Sollevò la mano e mi sorpassò a passo leggero, dirigendosi verso l'interno del salotto dove i suoi figli erano alle prese con un mini-battibecco.

    Mi osservò in lontananza, sghignazzando.

    «Ti piace giocare a fare la statua di gesso?»

    Inizialmente non capii, ma poi intesi che mi stava prendendo in giro per il fatto che non mi ero mossa di un millimetro da quando se n'era andato. Storsi la bocca e il naso e gli mostrai la lingua dandogli le spalle, ondulando la fluente chioma ramata e risalendo i primi gradini.

    Lo udii ridere di gusto.

    *

    Dopo cena, tornata nella mia stanza in attesa che Michael mi chiamasse per la fatidica camminata, approfittai per fare uno squillo a mia madre, Caterina Morris.

    Ci teneva che la contattassi almeno un giorno a settimana nonostante il fuso orario. Solitamente facevamo una volta ciascuna e si ricordava tutte le occasioni in cui mi ero dimenticata di cercarla, rinfacciandomelo ogni qualvolta la facessi arrabbiare con il mio atteggiamento un po' testardo e bastian contrario.

    Due squilli a vuoto e finalmente qualcuno rispose.

    «Pronto?».

    Voce profonda, moderata, a tratti leggermente roca. Eccola lì, mia madre.

    «Ciao mamma».

    «Sarah!», squittì abbandonando quella compostezza che la contraddistingueva. «Pensavo fosse tua nonna!».

    Sogghignai ironicamente. «Ti sta rendendo la vita un inferno anche oggi

    Dovete sapere, lettori, che mia nonna paterna non era affatto il tipo di nonna che ogni bambino desidera. Era una donna severa, rigida e critica - decisamente molto più di mia madre, pur avendo qualche tratto in comune. Aveva una certa "puzzetta sotto il naso", per farla breve.

    Fin da piccola non le ero mai piaciuta; se fossi esistita o meno non le avrebbe fatto alcuna differenza. Pendeva dalle labbra di un solo nipote, il suo ometto perfetto, il capostipite per eccellenza, mentre gli altri non erano calcolati nemmeno di striscio. Oltre a questa palese e marcata antipatia nei miei confronti si era sempre comportata male verso la mamma, fra l'altro l'unica in grado di distruggere ogni sua provocazione con una sola parola: erano come due leoni uno contro l'altro, da sempre.

    I miei rapporti con questa nonna cessarono molto prima che mi trasferissi in America. Su questo aspetto ero molto simile a mia madre: un tipetto piuttosto irremovibile, focoso per così dire, soprattutto di fronte alle mancanze di rispetto e all'ipocrisia.

    «Non più del solito, grazie a Dio. Inizio a pensare che chiudere il cancello con i catenacci e staccare il telefono sia l'unica soluzione possibile, pur di non averla fra i piedi. Tutta una vita a criticare gli altri e mai pensare ai cazzi suoi», sbottò stizzita.

    La mia famiglia aveva un amore innato per le parolacce - anche mia madre, nonostante l'aspetto elegante e composto che esibiva al mondo. Io non ero di certo da meno. A volte niente poteva esprimere meglio un concetto rispetto a una bella imprecazione.

    Caterina partì impettita per la tangenziale sfogando tutti i suoi malumori repressi. Mio padre doveva essere altrove, altrimenti non avrebbe mai parlato come un fiume in piena.

    Non lo aveva e non lo avrebbe mai ammesso, ma aveva bisogno di me.

    «Dopotutto», continuò, «è da anni che sa come la pensiamo, io e te».

    Come già detto, da adolescente decisi di interrompere tutti i contatti con la nonna. Smisi di andarla a trovare, di telefonarle, di portarle i dolci fatti in casa, di uscire e andare al mercato in sua compagnia. Non esisteva più per me. Fui irremovibile nelle mie decisioni, nonostante le velate persuasioni di mio padre, Richard Morris.

    Quest'ultimo amava immensamente la nonna. "La mamma era sempre la mamma", per lui. Era fin troppo buono, cieco anche. Non voleva accettare che quella donna fosse un tantino crudele.

    «Se tratta tutti di merda non può pretendere nulla», sottolineò con delicata finezza.

    Sicuramente lo aveva detto apposta, perché udii degli strani rumori provenire dalla parte opposta del ricevitore. Udii la voce irritata di un uomo, mio padre, e come al loro solito discussero. Caterina (o Cate, come la chiamava Richard) lo zittì con un secco e conciso "Sono al telefono con tua figlia, lasciami parlare".

    «Comunque, Sarah, tu come stai?»

    Sospirai. «Tutto bene, mamma... e voi?».

    «Dopo ti passo tuo padre, anche lui vorrebbe sentirti un po'. Io sto bene. Ti stai trovando bene con i figli del tuo nuovo capo?»

    Non le avevo ancora detto chi era il mio datore di lavoro. Mi aveva chiesto il suo nome e io le avevo risposto che si chiamava semplicemente "Jackson". Non perché temessi la sua reazione, ma perché c'era scritto sul contratto che dovevo rispettare la privacy di Michael. Tuttavia, anche se non fosse stato imposto da nessuna parte, mai mi sarei permessa di nominarlo senza il suo consenso. Visto il delicato periodo che stava passando preferivo essere evasiva. Conoscevo mia madre, sapeva fare fin troppe domande quando si metteva.

    «Mi sto trovando divinamente, lo ammetto. Quei bambini sono proprio educati e diligenti». Il viso di Michael mi passò davanti come se lo avessi di fronte. Trattenni un sorriso compiaciuto. «Pensa, abitano in una villa molto grande», un ranch, avrei voluto dire, «e mi hanno offerto vitto e alloggio. Ho accettato, anche se - »

    «Non dovevi accettare, Sarah, ti sei dimenticata l'educazione?», mi rimproverò duramente.

    Roteai lo sguardo al cielo.

    «Sì, mamma, lo so», sottolineai la parola "mamma" con decisione e un pizzico di risentimento. «Però ha fatto molte storie affinché acc – ».

    Qualcuno – chissà chi – bussò alla porta.

    Mi interruppi a metà frase, puntando l'uscio e assentandomi dalla conversazione.

    «Aspetta mamma, penso che sia...»

    «Sarah? Ma che ore sono?»

    Ovviamente non risposi.

    Mi avvicinai alla porta e aprii. Michael se ne stava in piedi e mi guardava con dubbiosità. Doveva aver udito il mio chiacchiericcio incomprensibile al di fuori della stanza. Corrugò la fronte e schiuse la bocca senza dire nulla. Sembrava dispiaciuto per avermi interrotto.

    «Aspetta un attimo, mamma», dissi in italiano. Misi la mano davanti alla cornetta, sperando che la donna non scoprisse che la voce del mio capo era quella di una persona davvero importante.

    Guardai Michael con un sorriso di scuse, che lui ricambiò con spaesamento.

    «Vuoi che...?», sussurrò mettendo un piede nella direzione opposta.

    «No, aspetta! È solo mia madre, le dico che la richiamo domani!»

    «Ne sei sicura?», chiese fissandomi con perplessità.

    «Certo, entra intanto!»

    Gli voltai le spalle riportando il telefono all'orecchio. Udii Michael che socchiudeva la porta.

    «Mamma, ti chiamo domani, devo andare...», dissi continuando a studiare Michael di sottecchi.

    «Come mai? È successo qualcosa?», chiese più curiosa del solito.

    «No, no! Ti spiegherò domani». Le avrei sicuramente detto una bugia, ma avrei avuto tutta la notte per pensarla. «Salutami papà, digli che gli parlo domani!»

    «No, aspetta», mi bloccò. «E questo Jackson che ti sta chiamando?»

    Sospirai ammirando al di fuori dalla finestra. Percepii lo sguardo interessato di Michael sulla pelle. «Sì, mamma. Ti spiego domani, ora devo proprio andare».

    E chiusi la conversazione dando gli ultimi saluti a mio padre che ricambiava da lontano.

    Ci fu silenzio e un continuo lanciarsi di sguardi tra me e Michael. Quest'ultimo strinse le labbra subito dopo essersele bagnate, dondolando il peso del corpo dalle punte ai talloni. Mi parlò con voce profonda e calda.

    «La tua famiglia?»

    Annuii. «Sì, mia madre».

    «Le manchi?», mantenne un'espressione sostenuta.

    «Sì... credo», modellai un mezzo sorriso ironico.

    «E a te manca?»

    Ci riflettei mentre appoggiavo il telefono sul comodino.

    «Sì... e no. Diciamo che vado a momenti».

    Annuì gravemente, calando i grandi occhi neri sul parquet. Feci lo stesso.

    «Sanno chi sono?»

    Scossi la testa.

    «Davvero?». Mi scrutò attentamente.

    «Sì. Oltre ad aver letto le clausole del contratto preferisco così. Sia per te e per la sicurezza dei tuoi figli, sia perché non sento il bisogno di raccontarle ogni cosa della mia vita. Posso dire che ho un rapporto altalenante con mia madre. Preferisco tenerla fuori dalle mie relazioni o dai miei affari».

    «Hai bisogno di un po' di privacy...»

    «Esatto».

    Assentì di nuovo. Successivamente mi esaminò con un fare non molto convincente.

    «Se dicessi loro chi sono sarebbero molto orgogliosi di te».

    Era una frase lanciata di proposito.

    Alzai le spalle. «Lo sono già, anche se non me lo dicono. Sanno essere persone molto severe, ma non mi hanno mai detto o fatto capire di essere una delusione – in termini professionali e di studio».

    Mi si avvicinò con le mani nelle tasche. «Temi che dicano in giro che loro figlia lavora per Michael Jackson?»

    Gli scoccai un'occhiata simbolica. Lui fece lo stesso, più autoritario di quanto mi aspettassi.

    «No, affatto. E anche se non approvassero sono io che decido con chi stare o per chi lavorare. Per adesso preferisco evitare che tu compaia sui giornali scandalistici o su tabloid italiani. Anche se mi fido di mia madre, ogni tanto ha la lingua lunga».

    Michael sbatté le palpebre lentamente e con celata soddisfazione.

    Distolsi lo sguardo, pentita per la durezza delle mie parole.

    «Scusa... preferisco che tu stia il più tranquillo possibile. Hai già le tue rogne». Meditai per qualche istante, pettinandomi i capelli all'indietro. «Ho fatto una promessa firmando quel – »

    Mi zittì adagiando il pollice sulle labbra: stavo parlando a vanvera.

    Lo adocchiai con fare confuso. Mi stava guardando con un'intensità pazzesca. Una sua occhiata sembrava trapassarmi da parte a parte. Non sapevo nemmeno se provasse riconoscenza, compassione o amarezza.

    «Ti ringrazio».

    Mi sorrise, ma qualcosa cambiò nel giro di un secondo; mi voltò le spalle e s'incamminò verso la porta della camera. Non mossi un muscolo fino a quando lui, inclinando la testa in mia direzione, non mi indicò di seguirlo.

    *

    «Non ti metti la giacca?».

    Il corridoio era fievolmente rischiarato. Un singolo lampadario sopra le nostre teste ci mostrava la porta principale.

    «No, perché?», adocchiò l'appendiabiti con perplessità.

    Lo puntai con uno sguardo così tetro che per poco non lo feci scoppiare a ridere.

    «Non ti preoccupare per la mia schiena, non prenderà freddo, sciocchina...», esclamò dolcemente.

    Posi le mani sui fianchi e piegai la testa di lato, lanciando continue occhiate di ammonimento alle sue spalle e al suo viso.

    Michael sogghignò con delicatezza. Roteò gli occhi al cielo stirando le labbra in un sorrisino compiaciuto e fingendo esasperazione. Si avvicinò all'appendiabiti e prese una giacca pesante e rossa; mentre la indossava mi adocchiò con aria furbescamente allegra. Non distolsi l'attenzione un secondo, mantenendo un sopracciglio ben alzato.

    «Felice?», chiese in tono sarcastico.

    Annuii severamente.

    Mi fece un cenno con il mento e mi guardò dalla testa ai piedi.

    «E tu non prenderai freddo con quella cosa addosso?»

    «Coprispalle», lo corressi incrociando le braccia al petto, sorridendo sorniona. Inconsapevolmente me lo strinsi sulle spalle: era molto bello, bianco e lavorato a maglia.

    Mi scrutò in silenzio. Dopodiché storse il viso in una smorfia contrariata e se ne andò.

    Lo seguii con occhi e bocca aperta, sussurrando un «Michael!» che non sarebbe stato in grado di udire.

    Sollevai le mani in aria, da sola, senza sapere bene che fare.

    Aspettai che tornasse indietro, ma non lo fece.

    Mi venne il dubbio che se ne fosse andato perché offeso. Sospirando mi voltai verso la porta d'uscita come se cercassi di aprirla con il pensiero, per scappare da chissà cosa.

    Non me ne accorsi perché sovrappensiero, ma improvvisamente due braccia mi circondarono dall'alto, prendendo dolcemente il coprispalle per due angoli estremi. Il mio istinto sarebbe stato quello di avanzare per difesa ed invece feci l'opposto. Il mio collo si irrigidì, mi guardai alle spalle e scorsi le grandi mani di Michael che tentavano di sfilarmi l'indumento con delicatezza. Roteai mezzo busto verso di lui, trovandomi a pochi centimetri dal suo viso, dalle sue guance, dai suoi occhi, da tutto... e per poco non persi un battito.

    Mi sorrise con aria machiavellica. «Tiratelo via».

    Abbassai lo sguardo ed eseguii il suo ordine, borbottando a dir poco contrariata.

    Nascosto dietro la schiena teneva qualcosa. Solo quando adagiai il coprispalle sull'appendiabiti Michael, sempre da dietro, adagiò una felpa sopra la mia schiena. Questa era color verde militare, con svariati punti bianchi sparsi qua e là e un cappuccio giallo vivo.

    Gli gettai un'occhiata di pura disapprovazione - sia per il gesto, sia per il pessimo gusto di quell'indumento.

    Sorrise e avanzò in direzione della porta.

    «Mettitelo su, altrimenti non usciamo». Trattenne una risata divertita. «Anche io non voglio che tu prenda freddo e quella giacca è abbastanza calda... di certo più di quello», indicò il coprispalle con iridi luccicanti.

    «Ma è fatto in maglia, scalda!», mi lamentai come una bambina, studiando meglio la sua felpa dal motivo decisamente discutibile. «E poi posso andare a prendere una mia. Non ti devi disturbare per me», pigolai.

    Esibì un ghigno ironico aggrottando le sopracciglia. «Disturbo? E secondo te disturbi per così poco? Mi disturbi di più se non dai retta alle mie parole, quando sono chiaramente preoccupato per la tua salute...»

    Lo incenerii con un'occhiata. Capii perfettamente dove stava andando a parare.

    «Vado a prenderne una mia».

    Avevo già fatto dietrofront e un passo verso le scale quando mi sentii bloccare sui fianchi. Mi stringeva senza farmi male. Nonostante la dolcezza aveva una forza che non ammetteva repliche.

    «Andiamo», mormorò vicino al mio orecchio destro. Mi provocò un senso di sconcerto momentaneo. «Altrimenti si fa tardi per te, Selenite».

    Lo cercai con un'espressione perplessa. Michael sorrise ignorando le mie attenzioni e mi cinse per il polso, accompagnandomi all'uscita. Aprì la porta silenziosamente e mi lasciò la mano.

    Mi fissò.

    La richiuse.

    «Non ti sei ancora messa la mia felpa».

    Sbuffai. Infilai le braccia nelle maniche e tirai la zip fino al collo. Lo guardai come dire "Contento adesso?" e Michael sogghignò bambinescamente, riaprendo la porta un istante più tardi.

    *

    «Perciò tua nonna non è stata molto gentile con te...»

    «No. Ha detto delle cose che poteva sicuramente risparmiare».

    Michael e io stavamo passeggiando più o meno da venti minuti.

    Seguimmo la sponda del lago fino al grande ponte e poi ci sedemmo su una panchina, ammirando come il pallido riflesso della Luna calante illuminasse le acque rendendole torbide e oscure. Attorno a noi vi era un profondo silenzio, ad eccezione dei canti dei grilli e delle nostre voci.

    Mi aveva chiesto come fosse la mia famiglia. Gli avevo descritto minuziosamente il carattere e l'aspetto dei miei genitori, le qualità e i difetti e anche il tipo di rapporto che avevo con loro. Michael disse che dovevo essere molto orgogliosa di loro ed io annuii senza rispondere. Quando il silenzio si era fatto dirompente mi ero confidata sulla chiacchierata avvenuta con mia madre, ritrovandomi a spiegare per ovvietà di cose il rapporto con mia nonna paterna.

    «Cosa ti diceva?», mi studiò con velata apprensione.

    Feci un sorriso per nulla simpatico. «Ci sarebbero così tante cose da dire. Diciamo pure che puntava molto alla mia autostima: facevo una cosa e non andava bene, quell'altra neanche. Non ero niente. Mi canzonava anche per il mio peso. Diceva che pesavo troppo, che dovevo fare ginnastica... ogni scusa era buona per scoccare una frecciatina. Neanche mia madre era la donna più incoraggiante e gentile del mondo, ma la nonna l'ha battuta alla grande!».

    Michael storse la bocca e il naso con sdegno.

    «Sai, ricordo veramente poco di ciò che riguarda il passato. Tendo a conservare soltanto qualche flash di lucidità e nient'altro, soprattutto quando chiudo definitivamente con una persona», continuai guardandolo. «Ma le emozioni rimangono, nonostante tutto».

    «Ad esempio?», chiese senza staccarmi gli occhi di dosso. «Cosa ricordi?»

    «Be’, un giorno stavo giocando in strada con delle bambine. La mia famiglia abita in una villa di campagna e mia nonna qualche casa più in là. Quel pomeriggio mi ero ritrovata con qualche ragazzina della mia età; correvamo e giocavamo come bimbe normali, ma mia nonna – da lontano – ci urlò: "Vergognatevi, zoticone poco di buono"».

    Mi venne quasi da ridere, ma studiando il volto di Michael mi passò la voglia. Mi analizzava in un modo tutto fuorché solare, con il naso e le labbra contratte in espressioni di schifo.

    «Vi ha detto così?».

    «Oh, sì!», annuii ridacchiando. «Io la prendo con leggerezza, tanto ormai quel che fatto è fatto». Michael aprì la bocca ma non disse nulla. «Ma ne ha fatte di peggio, molto peggio! Per esempio... uhm, ci fu un compleanno... andai a farle visita come di consueto e mi vestii tutta carina per lei, sai, per fare colpo. Avevo quasi dieci anni. Be’, indovina cosa mi disse?»

    Abbassò lo sguardo con aria pensosa. Mi puntò con incertezza. «Che eri vestita malissimo?»

    Risi di cuore, portandomi una mano sulla pancia.

    Negai con il capo. «No, molto peggio! La prima cosa che disse davanti a tutti fu: "Mio Dio, Sarah, sei ingrassata! Ma quanto mangi? Ti credo che non hai nessun amico, ancor meno un fidanzato!"».

    L'espressione di Michael era lo specchio della severità. In un primo momento pensai che non mi credesse; batté le palpebre a vuoto nella vana speranza che gli confermassi che la mia era soltanto una battuta. Quando comprese che non era così si stizzì notevolmente.

    «È spregevole. Come si può dire questo ad un bambino? Peggio se tuo nipote».

    I suoi occhi tradivano una scintilla di collera che non pensavo avrebbero provato. Mirò dritto di fronte a sé tenendo le mascelle serrate.

    «Non succedeva solo a me, ma anche a tutti gli altri nipoti. Ad eccezione di uno. Cercava il punto debole di tutti e poi sparava a zero senza badare alle conseguenze delle sue azioni».

    «Non ci posso credere. Per me è inconcepibile», era scioccato e adirato insieme.

    Sospirai pesantemente. «Il mondo è pieno di stupidi. La cosa peggiore? Nessuno disse mai niente per zittirla. L'unica che difendeva me e i miei cugini a spada tratta era proprio mia madre. A discapito di tutto posso confermarti che avevo un carattere davvero tosto e che non mi abbattevo per così poco. Purtroppo non tutti hanno la stessa personalità, c'è chi soffre di più e chi di meno».

    Michael si concentrò sui riflessi del lago per evitare di rispondere.

    «Il mio punto debole per lei era, evidentemente, il mio peso. Non che soffrissi di obesità, però all'epoca ero decisamente sovrappeso. Così mia nonna infilzava il coltello nella piaga molto volentieri».

    Michael era imperscrutabile.

    «Che c'è?», esclamai sghignazzando. Gli detti una lieve gomitata sul braccio. «Non sono morta, sono viva e vegeta e sto bene! Non ho nulla di grave come vedi». Mi guardai da capo a piedi. «Ero – e sono ancora – un po' in carne, ma non mi pesa più di tanto! Non ho una grande autostima, certo, ma non mi penso affatto insignificante come cercava di farmi credere che fossi! Quindi le sue cattiverie non hanno alcun effetto su di me!», scoccai la lingua al palato.

    Scosse la testa gioendo del mio tono buffo.

    «Sei fantastica, lo sai?»

    Lo osservai senza dire una parola. Michael si perse nei miei tratti.

    «Sei molto più forte di quanto credi».

    Sorrisi. «Sei gentile».

    «Dico davvero, Sarah». Il tono era basso e fermo. Cominciai a sentirmi in imbarazzo e perciò distolsi gli occhi dai suoi, infilando le mani nelle aperture laterali della felpa. «Solo una persona coraggiosa avrebbe superato queste situazioni mantenendo la sua personalità intatta. Non hai perso la tua innocenza e la tua bontà. Questo è l'essenziale. Non sottovalutarlo».

    Arrossii cercando di non tremare per la dolcezza delle sue parole. Osservai il lago distrattamente.

    La mente si svuotò da ogni pensiero, lasciando che le parole di Michael rimbombassero in testa fino a quando non le avrei ricordate a memoria.

    *

    Rimanemmo fuori fino a mezzanotte.

    Con calma ci alzammo dalla panchina e ci dirigemmo verso la piscina continuando a parlare ininterrottamente. Michael mi raccontò della sua infanzia, della fama, dei suoi successi e dei suoi insuccessi. Mi spiegò della Motown, dei numerosi album, dei concerti, dei fratelli e del padre violento.

    «Non immaginavo che vi picchiasse...», mormorai incupita.

    Sorrise amaramente, accarezzandomi la nuca. «Già... mi ha fatto male, ma io ero forte. Ho protestato, sai? Ero l'unico che cercava sempre di scampare alle sue botte».

    Increspai fronte e bocca. «Però te le beccavi lo stesso, forse anche più duramente degli altri».

    Joe Jackson, il padre di Michael e dei suoi otto fratelli e sorelle, fu il vero ideatore dei Jackson 5, il piccolo gruppo musicale il cui leader e figura principale fu proprio Michael stesso. Questo segnò l’inizio della carriera di Jackson, che proseguì per ben più di quarant’anni.

    Michael era un prodigio, un bambino dalla voce bianca, talentuoso sia nel canto che nel ballo. L’arte faceva parte di lui, era un dono naturale. Risplendeva di luce propria. Fu il suo dovere di cantante ed entertainer che lo portò a non avere una vera e propria infanzia, dedicandosi solo ed esclusivamente al lavoro per obbligo del padre. Quest’ultimo era severo, quasi al limite del crudele, e più di una volta non si era fatto problemi ad usare la cintura o minacciarli con questa durante le prove. Ambiva alla perfezione e al successo, quello che a lui non era stato concesso in gioventù.

    Anche se Michael ostentava positività e perdono in presenza mia o del mondo, quando ne parlava i suoi occhi si svuotavano da ogni sentimento felice.

    «Certo, le conseguenze per le mie azioni erano tremende... ma non si può tornare indietro, Sarah», si guardò le punte dei piedi. «Forse tutto ciò che ho vissuto ne è valsa la pena... è una cosa che mi chiedo sempre, fino allo sfinimento».

    Mollò la presa sulla mia nuca con aria assente.

    «Joseph non è mai stato un uomo affettuoso, è questo che mi è sempre mancato. Ho pianto e sofferto e non ero l'unico. Mancava a tutti i miei fratelli e le mie sorelle. Avere un padre gentile pronto ad amarci, abbracciarci e giocare con noi sarebbe stato magnifico. Ma forse è stato grazie a quello che ora voglio essere un padre diverso da ciò che era Joseph. Forse, se avessi vissuto esperienze diverse, non sarei stato così sensibile nei confronti dei bambini e dei miei figli».

    Guardai il sentiero debolmente illuminato. Michael mi camminava vicinissimo. Incrociai le braccia al petto, sospirando.

    «Posso capirti, anche se in minima parte. Credo che tutti ci poniamo questa domanda una volta nella vita: “Sarei stata una persona diversa, se non avessi passato quello che ho passato?”. Magari anch’io sarei diventata una ragazza superficiale senza tutte le mie esperienze negative».

    «Non tutti sono così».

    «No, non tutti...», mi corressi. «Però le esperienze dolorose possono insegnare tanto - sempre che una persona sia disposta a imparare da queste».

    Senza accorgermene Michael fuggì verso una panchina cementata, proprio a due passi dall'entrata di casa. Vi si sedette con fare tranquillo e batté insistentemente una mano sul cemento, invitandomi ad andargli vicino. Eseguii l'ordine come una marionetta comandata dal suo burattinaio.

    «Sai chi sono gli unici che mi hanno sempre visto per quello che sono? I bambini», sussurrò guardando le stelle sopra di noi. «Loro mi hanno sempre accettato e non mi hanno mai trattato come una star».

    Sorrisi.

    «Hai presente quel senso di beatitudine che ti pervade quando sei soltanto te stesso? La tua anima vola leggera, il tempo e lo spazio non esistono più. Quella è l'emozione che provo stando con i bambini... con tutti i bambini». Si zittì un secondo per umettarsi il labbro inferiore e prendere fiato a pieni polmoni. «Loro sono la vera immagine di Dio».

    Rizzai la schiena imponendomi di non commuovermi.

    «Tu comprendi quello che sento?», chiese.

    Mi ammirava con insistenza.

    Annuii molto lentamente. «Ricordo un episodio molto, molto particolare, in cui percepii l'emozione di cui tu mi stai parlando ora. Avevo diciassette anni, era estate, ed ero andata ad una festa di matrimonio con i miei genitori. Stare con gli adulti mi innervosiva. Di punto in bianco mi sono alzata e sono andata dai bambini presenti alla festa. Feci amicizia in poco tempo. Erano tre: un maschietto di dieci anni, una femmina di sette e un bimbo di quattro. Giocai con loro tutto il pomeriggio correndo sul prato a piedi nudi, saltando e ridendo come mai avevo fatto prima d’allora. Mi sentivo una di loro.

    Questo fatto è accaduto spesso nel corso degli anni a seguire; non riuscivo a capire come, ma i bambini erano sempre stati attirati dalla mia persona». Ridacchiai fra me e me. «Quando tornai a casa, quella sera, scoppiai a piangere. Piansi perché capivo che i bambini erano gli unici che mi facevano ricordare qualcosa che pensavo di dover perdere crescendo. Con quelli della mia età non mi trovavo bene, con gli adulti nemmeno, se non per qualche eccezione. Ero pervasa dalla stessa sensazione che tu hai descritto poco fa. Non riuscivo più a smettere di frignare, ma ero felice e finalmente avevo realizzato cosa volevo fare da grande: volevo stare con i bambini, semplicemente occuparmi di loro, giocare e soprattutto insegnare.

    È proprio questa esperienza di gioia e serenità che non mi ha mai permesso di abbandonare i miei sogni e le mie ambizioni, così come mi ha evitato spesso di sentire il vuoto della solitudine».

    Finii di gesticolare con occhi lucidi. Sorrisi nel tentativo di mascherare la mia commozione, ma non ebbi il coraggio di affrontare vis a vis la persona al mio fianco.

    Mi abbracciò improvvisamente.

    Mi lasciai andare senza opposizioni, non dopo un primo momento di sorpresa e rigidità.

    Percepivo il suo respiro fra i miei capelli mentre mi teneva il capo con una mano.

    «Possiedi un'anima bellissima, Sarah. Fossi stato uno di loro avrei fatto lo stesso: non ti avrei lasciata andare a casa facilmente».

    Una miriade di brividi inondò il corpo dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi. Non risposi, non ci riuscii, ma serrai le palpebre con forza, pervasa da un senso di gratitudine sconfinato.

    La presa durò poco. Quando si alzò in piedi, abbastanza frettolosamente a dire il vero, mi porse la mano per aiutarmi a tirarmi su. I suoi occhi brillavano come non mai, ma puntava altrove. Sembrava commosso.

    «Vieni, è ora di andare a dormire... immagino che tu sia stanca».

    «Un po’, ma posso resistere», mugugnai.

    Ridacchiò e scosse il capo.

    «No, per oggi hai resistito anche troppo. Domani è un altro giorno».

    Dovevo sperare mi avrebbe richiesto un'altra passeggiata?

    Uno di fianco all'altro ci incamminammo verso l'entrata di casa. Fu un tragitto silenzioso ma pacifico. Aprimmo la porta pianissimo, mi fece entrare per prima e la serrò chiudendola a chiave per ben due volte. Attesi che si togliesse la giacca per ridargli la felpa. M'osservò per tutto il tempo in cui me la sfilai.

    Quando gliela ritornai restò momentaneamente impalato a fissarla. Poi mi scrutò.

    «Grazie per la passeggiata, mi ha fatto bene parlare», sussurrai con la serenità dipinta nel cuore e nel viso.

    Ricambiò con espressione quasi severa. «No, grazie a te».

    Si accostò e con lentezza mi premette le labbra sulla fronte. Erano morbide, gentili, ma la forza con cui le adagiò sulla pelle – in quel momento – aveva qualcosa di... di strano, in senso positivo.

    Con i polpastrelli mi accarezzò i capelli e sospirò appena quando interruppe il contatto.

    Mi ci volle qualche secondo affinché potessi riprendermi e respirare. Sentire il suo calore era come sentire il sangue incendiarsi.

    «Buonanotte Sarah».

    Cercai di mantenere un tono calmo, cosa che mi riuscì abbastanza bene. «Notte...»

    Mi allontanai senza guardarlo e pettinandomi i capelli di lato. Tentai di non abbassare lo sguardo sui miei piedi. Accorsi verso le scale.

    «Ti voglio bene», lo sentii dire con voce più alta.

    Mi voltai. Mi stava guardando con il suo solito cipiglio imperscrutabile.

    Arrossii, sorridendo. «Anche io, Michael».

    Salii la rampa di scale. Percorsi il corridoio e mi chiusi in camera con la mente disordinata e offuscata dalle emozioni. Non sapevo cosa diavolo mi stesse succedendo, ma di una cosa ero certa: Michael cominciava a piacermi sul serio, molto più del dovuto e del necessario.



    Edited by fallagain - 16/1/2021, 12:26
  10. .
    Capitolo Dodici: La Favola di Sarah

    Arrivai in camera da letto di Prince, Blanket e Paris in un nanosecondo, col fiatone, accompagnata da un bambino di cinque anni di nome Michael Jackson che non vedeva l'ora di raccontare la mia favola.

    Non sapevo nemmeno io il perché di tutto questo entusiasmo da parte sua. Era una favola, una favola che forse non gli sarebbe nemmeno piaciuta, eppure il suo sorriso, così sfavillante e bambinesco, lasciava trasparire una gioia incredibile.

    I lettini di Prince e Paris erano posti vicini. Michael si sedette nello spazio vuoto fra i due, su una sedia a dondolo con lo schienale in stoffa rossa, il piccolo Blanket stretto nel suo braccio sinistro. Io ero distesa accanto a Paris, con una gamba che toccava il pavimento e un'altra sistemata lungo il materasso. C'era anche Grace, gentilmente invitata da Michael ad assistere, questa dalla parte di Prince con una mano che accarezzava dolcemente il capo del bimbo.

    Michael indossava gli occhiali per vederci da vicino, oggetto che marcava molto il suo charme da uomo di mezza età (per metà) maturo e composto.

    «Siete tutti comodi?», Michael alzò lo sguardo da sotto le lenti.

    I bambini annuirono. Michael mi squadrò con un sopracciglio alzato ponendomi la stessa domanda. Assentii. Poi mirò Grace e lei fece lo stesso.

    «Possiamo cominciare».

    Sistemò gli occhiali sul naso e si schiarì la voce.

    C'era una volta,
    Una principessina bellissima, dalle qualità più pure e amorevoli che si potessero avere. Ella non possedeva soltanto un'anima candida, ma anche un aspetto incantevole: lunghi capelli rossi come il fuoco, setosi come stoffa pregiata, le scendevano lungo i fianchi. Aveva due occhi verdi come il mare. Era dolce e buona con tutti, allegra e spensierata, sempre con un sorriso sulle labbra.

    «Ma è la signorina Sarah!», Paris sfoderò un sorriso a trentadue denti.

    Tutti mi guardarono curiosi – tutti tranne Michael, il quale rideva sotto i baffi. Continuò a leggere indisturbato.

    Il suo nome era Selenite ed era la principessa del regno di Eos.
    Sebbene fosse una bambina molto speciale, non era molto apprezzata dagli aristocratici del castello. Erano invidiosi, non solo delle sue ricchezze materiali.
    La principessa era molto sola. Aveva bambole, gioielli, abiti di velluto e di pizzo elaborato, ma non aveva amici. Se ne stava nel suo piccolo mondo, parlando con i suoi amati pupazzi e facendo amicizia con gli animaletti del castello, con i quali prendeva il tè ogni pomeriggio.
    Ogni notte, quando dormivano tutti, Selenite sgattaiolava fuori dal letto e accorreva alla grande finestra della sua cameretta, per guardare il mondo al di fuori delle mura.
    Pregava affinché potesse, almeno per un giorno, essere parte di un mondo a cui non si era mai avvicinata. E guardava il paese sognando il momento in cui avrebbe potuto vagare per le vie della città senza che qualcosa o qualcuno le impedisse di farlo.
    Passarono gli anni e la principessa crebbe: Selenite divenne una giovane donna, una ragazza bella e determinata, così tanto che una sera decise di trasgredire le regole.
    Aveva passato anni a chiedersi cosa sarebbe stato fuggire dal palazzo, così una sera raccolse tutto il suo coraggio e riuscì a scappare. Si alzò dal letto, si vestì e se ne andò nel buio della sera senza destare sospetti.
    L'emozione che provò una volta uscita dalle mura fu incredibile. Corse a perdifiato in direzione di Eos e si chiese come mai prima d'allora non lo avesse mai fatto. Esplorò ogni quartiere, borgo, foresta che incontrava con occhi di una bambina.
    Quando giunse l'alba Selenite era così stanca che non riusciva a reggersi in piedi, perciò chiese ai compaesani appena scesi in strada se qualcuno sarebbe stato così gentile da ospitarla nella sua abitazione, per rinfocillarsi e riporsarsi al caldo.
    Tutti quanti rimasero meravigliati scoprendo che fosse la principessa.
    Nessuno le fece mancare nulla. La gente di Eos fu cordiale e ogni uomo, donna o bambino le garantì cibo, acqua e un letto su cui dormire. Selenite era felicissima.
    Il mattino successivo decise di tornare a palazzo, non dopo aver ringraziato tutto e aver promesso loro ricompense e ricchezze.
    Ad un certo punto, lungo il sentiero boschivo, incontrò una donna. Era una signora affascinante di mezz'età, con i capelli castano scuro racconti in uno chignon e un vestito verde smeraldo. Aveva un cestino di rovi ben stretto al braccio destro e un cappuccio le copriva misteriosamente il capo.
    Questa si avvicinò a Selenite, chiedendole se avesse bisogno di aiuto per tornare a casa.
    La principessa si presentò e la nobile donna, con un sorriso affabile, le porse la mano.
    "Che piacere conoscerti, principessa Selenite. Vieni con me, ti porto direttamente davanti alle mura del castello. Conosco una scorciatoia".
    Selenite accettò felicemente, senza conoscere il vero aspetto dell'elegante signora.
    "Vieni, cara, fidati di me".

    «Ma è scema!», sbottò Prince.

    Esplosi in una fragorosa risata e così anche Grace. Paris diede ragione al fratello scuotendo la testa vigorosamente.

    «Non dire queste cose», Michael lo rimproverò.

    Camminarono a lungo nella fitta foresta.
    La strega si fermò nel bel mezzo di una radura abbandonata e, prima che Selenite potesse aprir bocca, la donna estrasse una bacchetta da sotto il mantello verde. Un'esplosione di luce rossa e incandescente accecò la principessa, facendola cadere a terra svenuta.

    «Mio Dio!», Paris era più sdegnata che terrorizzata.

    Trattenni un'altra risata e Michael la fissò divertito ma severo: era chiaro che il narratore non volesse essere interrotto, il che voleva dire che era molto preso dalla storia, molto più di quanto avrei potuto immaginare.

    Quando la giovane si risvegliò era ormai pomeriggio inoltrato. Gli uccellini cantavano e il Sole risplendeva alto nel cielo azzurro primaverile. Tutto sembrava come prima, ma la ragazza non era più la stessa. Era diversa.

    Michael fece una pausa umettandosi le labbra.

    Selenite non ricordò immediatamente cosa fosse successo, perciò si alzò e si trascinò verso il bordo di un fiume vicino per sciacquarsi il viso.
    Quando si specchiò nel riflesso dell'acqua, con grande sorpresa si accorse che non era più la ragazza di prima. Davanti ai suoi occhi c'era una giovane donna dai capelli sciupati, neri come la pece, occhi verdi scuro e un aspetto da gitana.
    La giovane si disperò per la sua bruttezza.
    La strega le aveva fatto un maleficio.
    Quella donna si chiamava Medea ed era una maga davvero potente. Riusciva a cogliere la vera essenza delle persone, scoprendone ogni bella qualità per poi rubarla ai legittimi proprietari e farne uso per sé; ingannava coloro che passavano per la sua strada rubando la loro bellezza, sia quella interiore che quella esteriore.
    In preda al panico Selenite decise di tornare al villaggio di Eos per chiedere aiuto.
    Tutto ciò che ricevette fu indifferenza e diffidenza. Le persone la evitavano, la guardavano dall'alto in basso e scappavano per non avere nulla a che fare con lei; i bambini la prendevano in giro per il modo in cui era vestita, per l'anormalità dei suoi gesti e per il suo orribile aspetto.
    "Io sono la principessa Selenite! Vi prego, aiutatemi!"
    Ma nessuno le credeva.
    Selenite si sentiva ferita, confusa e amareggiata. Nessuno si era mostrato gentile o amorevole nei suoi confronti, non come quando si era presentata con il suo vero aspetto.
    Abbandonata dal suo stesso popolo decise di tornare al castello e pregare i suoi genitori per il perdono che tanto ambiva. Purtroppo nessuno dei due la riconobbe.
    "Dovete credermi, sono vostra figlia, Selenite!"
    Ma il re e la regina la cacciarono urlandole di non farsi più rivedere a palazzo. La principessa, disperata, vagò per giorni e giorni alla ricerca di un qualsiasi riparo, affamata e sciupata.
    Al tramonto del quinto giorno, sfinita, cadde a terra.
    Poco prima di perdere i sensi una dolce voce le sussurrò all'orecchio: "Non ti arrendere, principessa Selenite. Ci sono io con te".
    Un uomo le aveva coperto la schiena con il suo mantello rosso e le aveva accarezzato dolcemente la nuca.
    C'era un motivo per cui la strega Medea non era riuscita a rubare l'anima della sovrana: nel momento in cui la maga aveva scagliato il maleficio, un angelo era intervenuto in difesa di Selenite. Egli aveva protetto la principessa materializzandosi davanti al suo corpo, difendendo la sua anima con il suo scudo di luce dorata – emanata dalla spada di cristallo lunare che portava sempre con sé.
    "Non temere, riuscirai a farcela. Con il tempo diventerai una donna comprensiva, forte e indipendente. Un giorno ti raggiungerò e ti amerò per tutto ciò che sei, ma tu continua ad avere fede. Continua a credere in quello che sei veramente".
    La principessa aprì gli occhi per poter scorgere l'uomo a cui apparteneva la voce e rimase senza fiato: l'angelo era bellissimo, etereo, e portava lunghi capelli sulle spalle, due occhi brillanti come pietre preziose.
    L'angelo la prese in braccio e le sorrise dandole un amorevole bacio sulla fronte.
    Prima di cadere in un profondo sonno lo sentì dire:
    "Quando ti risveglierai ti ritroverai in una dimora stupenda. In quel luogo potrai cominciare una nuova vita. Ci rivedremo presto" e, senza che la principessa se ne accorgesse, l'angelo le consegnò una soffice piuma fra le dita. "Conserva questa piuma e quando ti sentirai in difficoltà guarda il cielo. Soffiala verso il Sole pensando a me".

    Michael si interruppe.

    Gli rivolsi un sorriso sghembo mentre questo esaminava il foglio senza dire una parola, sfogliando quelli successivi per leggere il seguito.

    «Papà! Non vale!».

    Paris era palesemente contrariata. Si tirò su dalla posizione distesa e Prince la seguì a ruota, mentre io mi mordevo le labbra per non ridere di fronte a tutti. Michael studiò i suoi figli con spaesamento, poi osservò me. Si accorse della mia aria divertita e si scosse mormorando un «Scusate» delicato.

    Il giorno dopo la ragazza si svegliò in una casetta abbandonata, nei pressi di un bosco sconosciuto. Era circondata da alberi dalle chiome così alte da poter toccare il cielo, accanto ad un ruscello di acqua cristallina e un sentiero che guidava direttamente al villaggio vicino.
    La principessa pianse di riconoscenza e tristezza.
    I mesi passarono, gli anni pure, e la principessa divenne ben presto una donna sicura di sé. Aveva trovato un umile lavoro come sarta nel villaggio accanto, imparando ad amare chi la circondava per chi era realmente. Trovò anche delle persone che la poterono amare per il suo cuore, a discapito del suo aspetto.
    Un dì, però, la ragazza cambiò. Senza sapere come o perché iniziò a sentirsi sola e abbandonata. Chiamò il suo angelo tante volte, continuò a parlare ad alta voce sperando che l'ascoltasse, gli chiese molti segnali che purtroppo non arrivarono mai.

    Era meraviglioso come Michael leggesse le storie.

    Aveva un'espressività coinvolgente, un parlare così fluido e pacato da farmi perdere in un mondo inesistente. Per tutto il tempo in cui lo avevo ascoltato ero rimasta sempre appesa alle sue labbra, in attesa del limpido fluire delle sue parole.


    Una mattina Selenite ritrovò la piuma bianca donatale dall’angelo.
    Non ne aveva mai avuto la necessità, ma pensò che quello sarebbe stato il momento perfetto per esprimere il suo desiderio.
    Uscì di casa, si diresse verso il suo campo fiorito preferite e si sedette fra le sue margherite, assaporando il vento sulla pelle. Prese la piuma che teneva stretta stretta nella mano destra, la alzò in cielo e sorrise tristemente.
    "Questo è il mio desiderio: stare per sempre insieme al mio migliore amico".
    E con tutto il fiato che aveva la soffiò lontano.
    Attese per giorni e giorni un cambiamento, ma nulla avvenne. La speranza della giovane svanì del tutto nel giro di poche settimane.

    «Non può finire così!», piagnucolò Paris.

    Anche Prince sembrava basito, ma io non feci una piega. Tutti mi fissarono, perfino Michael, ma feci loro cenno di continuare la lettura con atteggiamento impassibile.

    Qualche giorno più tardi, mentre lavava i panni nel fiume, Selenite vide una piuma bianca posarsi su un fiore. Non appena lo sguardo cadde su di essa la piuma si sollevò in aria e si posò sull'acqua, proprio dinanzi ai suoi occhi increduli. La corrente la portò via.

    «L'angelo!», Paris mi guardò.

    Con le lacrime agli occhi Selenite lasciò tutti i panni sull'erba e seguì la piuma correndo a perdifiato. Corse e corse, attraversando un boschetto e raggiungendo una radura che brulicava di gigli bianchi e lillà.
    Un giovane si stava sciacquando il viso.
    Non appena Selenite lo vide nascose il viso fra le mani e pianse, sconsolata.
    I capelli del ragazzo erano corti e fluenti e non sembravano affatto quelli del suo salvatore. Era una persona in carne ed ossa, non una presenza luminosa. Non portava il mantello e neanche la spada di cristallo.
    "Sei tu?".
    La principessa si scosse. Quella voce era familiare, così familiare da...
    Alzò il viso e il giovane era proprio di fronte a lei. Le sorrise e le prese la mano.
    "Sono felice di rivederti, Selenite".
    La ragazza pianse di gioia. Era lui! Era proprio lui! Aveva lo stesso sorriso! Gli stessi occhi luminosi! L'aspetto era differente, ma la voce era quella che tanto rimembrava con affetto!
    "Un tempo mi hai conosciuto come l’angelo. Ti avevo fatto la promessa che sarei ritornato e ora sono qui, ho ascoltato il tuo desiderio su una piuma
    1.
    I due si abbracciarono e il bacio del vero amore causò uno scoppio di luce bianca e dorata.
    Quando il bagliore cessò il suo salvatore la invitò a studiarsi nel riflesso del fiume. Selenite lo fece e sorrise: il maleficio era stato spezzato ed era tornata la bellissima principessa di un tempo.
    L'angelo continuò: "Regna con me, per portare amore e speranza in questo mondo e per renderlo migliore".

    «Vai avanti papà, continua!».

    Michael si era paralizzato e io, al contrario, ero arrossita violentemente. Era inutile dire che la descrizione di quell'angelo ricordasse vagamente la personalità di Michael. O almeno, così credevo.

    «Daddy?», Prince inclinò la testa con fare dubbioso.

    Il padre si bagnò la bocca e fece finta di nulla.

    "Insieme porteremo pace e serenità ovunque, cureremo le persone da tutto l'odio e l'indifferenza di cui soffrono. Saremo un'ispirazione per molti. Vieni nel mio castello, sii la mia regina".
    Selenite accettò.
    L'angelo la abbracciò e con dolcezza le accarezzò i capelli come la prima volta.
    "Noi ci apparteniamo, principessa".

    Il "narratore" si fermò per qualche altro istante e sorrise. Grace pure. Prince storse il naso (era tutto troppo sdolcinato per lui), mentre Paris era la felicità in persona. Io, invece, mantenni lo sguardo perso nel vuoto. Non ero triste, ma il naso pizzicava per le lacrime. Mi ero dimenticata di quanto fosse dolce e romantica quella fiaba – forse anche troppo.

    I due amanti vissero con amore e serenità per molti anni, regnando con onore, umiltà e bontà. Si amarono nella buona e nella cattiva sorte. Anche quando la morte incrociò il loro cammino non smisero di volersi bene, riabbracciandosi nuovamente nell'Eternità.

    Michael richiuse il libretto con sole due dita. Il silenzio regnò sovrano.

    «Che bella storia...», sussurrò Paris con occhi sfavillanti e parole biascicanti per la stanchezza.

    «Vi è piaciuta?».

    Annuirono entrambi. Prince non era convinto, ma non si sbilanciò. Michael mi gettò una lunga occhiata – dolce ma intensa.

    «Tua nonna ha scritto una favola dolcissima».

    Storsi la bocca in un mezzo sorriso imbarazzato. «Grazie».

    Michael mi fissava inspiegabilmente pensoso. Mi fece venire i brividi lungo tutta la schiena. C'era qualcosa di strano nei suoi occhi, un'emozione indefinita che non seppi comprendere.

    In seguito sospirò e si alzò dalla poltrona tenendo ben stretto un Blanket addormentato fra le sue braccia. Anche Grace ed io ci sollevammo: era ora di andare a letto.

    Michael diede un bacio ai suoi figli, suggerendo loro di fare lo stesso con il fratello minore, me e Grace – cosa che fecero con molto piacere. Adagiò Blanket nel piccolo letto a sbarre accanto ai fratelli e uscimmo.

    «Grazie per aver assistito, Grace».

    Il sussurro di Michael venne seguito a ruota da un mio "Grazie" più delicato. Lei sorrise, ricambiò la buonanotte e se ne andò nella stanza accanto, chiudendo la porta senza fare rumore.

    Tutti e due rimanemmo fermi e immobili sul posto. Michael mi consegnò il libretto ribadendo quanto fosse bello il racconto di Selenite e il suo angelo.

    «Sono felice che ti sia piaciuta. Ora è meglio che me vada», non lo guardai in faccia.

    Michael inarcò la fronte, stupito, e schiuse la bocca per dire qualcosa che però non pronunciò. Si morse il labbro inferiore e guardò in basso. Con un cenno del capo si portò indietro un ciuffo di capelli ricaduto erroneamente sulla pallida guancia.

    «Ti andrebbe di scendere in cucina e bere una tazza di latte?»

    Per la prima volta lo vidi impacciato, nervoso.

    In quel istante non capii perché la gente lo definisse una persona malata e stramba. Era proprio come me, come tutti gli altri. Non ci vedevo niente di strano in quello che era, a parte un minimo di eccentricità e megalomania che definiva il suo carattere rispetto ad altre persone: eppure arrossiva, parlava, sorrideva, piangeva. Come me, come un adulto qualsiasi, come un uomo che incontri per strada e di cui non sai praticamente nulla.

    «Oh, sì, d'accordo...».

    In realtà avevo così sonno che stavo per addormentarmi in piedi, ma non volli rifiutare la sua proposta. L'istinto mi diceva di non farlo.

    Michael mi studiò ammutolendosi. Mi disse di seguirlo e io lo feci camminandogli due passi più indietro. A guardargli il fondoschiena, per la precisione.

    E non era affatto male.

    Man mano che ci dirigevamo verso le scale tutto diventava più buio. Fu una fatica scendere gli scalini senza inciampare. Mi sussurrò di stare attenta a dove mettessi i piedi, ma ero troppo impegnata a cercare il corrimano che...

    «Ma porca put...»

    Michael si voltò immediatamente e mi mise una mano davanti la bocca. Mi ero avvicinata a lui con un balzo, appollaiandomi sulla sua schiena come un avvoltoio. Qualcosa mi aveva toccato la gamba facendomi saltare sul posto come un grillo.

    Non riuscivo a vedere Michael in faccia, ma sentivo la sua mano premuta contro le mie labbra; il palmo era così grande che riusciva a prendermi anche il naso, ma la sua pelle era così... be’, non era vellutata, però era calda.

    La sonnolenza mi stava dando alla testa.

    Mi liberò dalla presa. Lo sentii salire nuovamente le scale e poco dopo una luce si accese, precisamente quella del corridoio. Non mi ero mossa di un millimetro per paura di risentire quella strana cosa sulle gambe.

    Michael mi esaminò perplesso e divertito. Guardai verso i miei piedi e... poco distante dalla gamba sinistra vi era un piccolo omino travestito da cameriere, molto simile a un nanetto da giardino, che mi fissava con un sorriso assai poco rincuorante.

    Ero sicura di non averlo mai visto prima di allora.

    Scrutai Michael con gli occhi fuori dalle orbite.

    Si lasciò andare ad una risata alta e contagiosa, portandosi una mano sul viso per non svegliare nessuno e dandomi le spalle appoggiandosi alla parete con l'altra mano libera. Ripresi a scendere le scale con espressione imbronciata e lui mi seguì qualche secondo più tardi.

    Senza girarmi bofonchiai: «Non è colpa mia se sono una fifona...».

    Arrivati al piano terra Michael spense le luci del corridoio e ci dirigemmo in cucina. Michael continuò ad avere qualche spasmo di ridarella anche quando mi disse di sedermi.

    Presi posto su uno sgabello, uno accanto al bancone al centro della stanza. Estrasse dal frigorifero un cartone di latte, due bicchieri da un ripiano in alto e, dopo averli riempiti con cura, Michael mi venne incontro porgendomi la bevanda, sedendosi al mio fianco.

    Soltanto allora notai che non vi era quasi mai personale all'interno della casa. Solo ogni tanto, giusto lo chef e alcuni camerieri per prepararci o portarci i pasti principali. Una volta avevo notato anche tre donne delle pulizie.

    Michael non era una di quelle star che si circondava di molte persone, perlomeno non dentro la residenza abitativa; per quanto riguardava il parco giochi, lo zoo o anche la semplice manutenzione del ranch, be’, in quel caso vi era un via vai di persone inconcepibile. E dormivano tutti in un residence a sé stante.

    Per qualche minuto ci dedicammo ognuno al proprio latte in perfetto silenzio.

    Michael parlò in tono basso, picchiettando le dita sul bancone.

    «L'angelo della tua storia è l'Arcangelo Michele, non è vero?», mi osservò con serietà.

    Lo puntai confusa. Il mio angelo non aveva mai avuto un nome. Certo poteva sembrare un arcangelo, con il suo mantello rosso e la sua spada di Selenite...

    Sbarrai gli occhi.

    Aspetta, cosa?

    Michele... Michael... Michael Jackson?

    No, dai, impossibile.

    «Onestamente non ne ho la più pallida idea», borbottai avvampando. «Ma se fosse così, non...»

    «Non?»

    Fissai il bicchiere che reggevo fra i polpastrelli. Mi sentivo come una bambina sgridata dai suoi genitori.

    Sospirai pesantemente, evitando di concentrarmi sul bollore delle mie gote.

    «Se avessi saputo che l'angelo si chiamava Michele, non credo che te l'avrei fatta leggere», poggiai il bicchiere sul tavolo.

    «E perché?»

    Non ebbi il coraggio di ricambiare lo sguardo. «Be’, Michele... Michael...» pigolai timidamente, accigliandomi. «Questo genere di coincidenze mi mettono un po’ a disagio. Sembrano fatte apposta».

    «Non vedo il perché», disse risoluto. Lo fissai e Michael mi sorrise. Incrociò le braccia sul bancone e scosse la testa rimproverandomi affettuosamente. «Sei un tipo strano, davvero... certe volte non ti capisco proprio».

    Emisi uno spasmo di risata. «Benvenuto nel club!»

    Corrugò le sopracciglia con un accenno di sorriso enigmatico. «Non fraintendere, non voglio dirti che sei un caso perso...»

    «So cosa vuoi dire», ridacchiai.

    «Che cosa voglio dire allora?»

    Gli sorrisi. «Che non sono sempre facile da capire. Anzi, delle volte credo di essere peggio di un cruciverba!», gli feci la linguaccia.

    «Ti sbagli, io ti capisco perfettamente», disse sistemandosi meglio sullo sgabello. Notai una smorfia di dolore quando compì quel movimento; espirò faticosamente, cercando di ignorare il dolore che non voleva esibire ma che io avevo captato alla perfezione. «Solo che mi ci vuole tempo per poterti leggere con accuratezza...»

    Sollevai le sopracciglia. «Ahhh, perciò tu mi stai studiando?»

    Ridacchiò senza distogliere l’attenzione dalla sottoscritta.

    «Da un bel po’. E te ne sei accorta anche tu».

    Sorrisi.

    «Sì... me ne sono accorta».

    «La cosa ti dà fastidio?»

    «Mmh...», mugugnai a labbra strette mirando il soffitto. «Diciamo che mi imbarazzo facilmente quando vengo osservata a lungo, soprattutto da chi ha uno sguardo molto profondo come il tuo. Ma non mi dispiace, tutto il contrario. Mi onori, mi dimostri che non sono poi così noiosa come ho sempre creduto di essere».

    «Non sei affatto noiosa, credimi», mormorò. Gli sorrisi di sbieco mentre assumeva un'aria meditabonda. «Diciamo che sei mooolto più interessante di quanto credi».

    Sogghignai ironicamente.

    «Davvero, dico sul serio! Mi interessa molto capire come sei».

    «E perché?».

    «È quello che sto cercando di capire... fra le tante altre cose».

    Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere. Non saprei neanche descrivere l'emozione che provai. Perché qualcuno di “speciale” come Michael Jackson si interessava ad una “più o meno normale” come me?

    Raddrizzai le spalle e mi appoggiai a mia volta al bancone, umettandomi le labbra.

    «Sai, all'università mi chiamavano Moony. Non perché ero sempre con la testa fra le nuvole, non solo, ma perché ricordavo loro la Luna. La Luna è misteriosa, la sua presenza è delicata e silenziosa. Mi dettero quel nomignolo perché, per quanto potessi essere spontanea e amichevole, ero una persona molto segreta e riflessiva. Si dice che la Luna aiuti le persone a guardare dentro di loro con onestà, che bene o male è quello che ho sempre fatto. Quale nome più perfetto di quello?».

    Mi guardò con una serietà disarmante. «Meraviglioso».

    Sorrisi e lasciai che il discorso cadesse così.

    «Ho visto che Paris comincia a starti più vicino», le sue labbra si incurvarono verso l’alto.

    «Sì. Proprio oggi abbiamo deciso che formeremo un team. Sai, come le Cheetah Girls», proruppi allegramente.

    Meditò.

    «È molto bello ciò che stai facendo per lei, ti ringrazio...»

    «Non devi ringraziarmi. Lo faccio perché non voglio che si senta sola. Io ero figlia unica e non avevo amici – be’, forse qualcuno, ma tutte amicizie sporadiche destinate a durare poco. Se Paris vuole sarò felice di esserle amica nei momenti più opportuni».

    Abbassò il capo. «Mi dispiace costringerli a vivere in un ambiente non del tutto normale. Faccio il possibile ma non è sempre facile, perché la mia esistenza non è un'esistenza comune. Non potrò mai permettermi la normalità.

    Sono felice che siano al mio fianco. Mi hanno riempito la vita e le hanno dato un senso completamente nuovo. Sono tutto per me. In loro compagnia mi sento benedetto, ma credo che meritino di più. Mi sento egoista. Capisci che intendo?».

    «Saresti egoista se dicessi “Vorrei che stessero sempre con me, non importa se non vivono come gli altri bambini”. Invece ti preoccupi, addirittura ti senti in colpa. Per quei tre bambini sei il padre migliore del mondo. Li vedo molto uniti e questa è la cosa più importante».

    Rimase a pensare fissandosi le mani. Poco dopo i suoi occhi scivolarono nei miei. Sorrise inaspettatamente.

    «Sai sempre trovare le parole giuste, uh?»

    Alzai le spalle. «È il mio compito».

    Ignorai lo strano calore che ribolliva frizzantino nel petto.

    «Ti ringrazio. Sei una persona davvero speciale».

    Il suo volto era lo specchio dell'assoluta dolcezza. Mi morsi la lingua per evitare un sospiro triste e chinai il capo per nascondere la lieve commozione che mi offuscava la vista.

    «Non adularmi troppo. Mi commuovo facilmente quando una persona mi ringrazia così calorosamente per qualcosa che faccio. Non sono abituata».

    Era la prima volta che mi mostravo anche lontanamente vulnerabile con Michael.

    Le sue dita mi sfiorarono la guancia destra. Quando vi si poggiarono sopra il respiro si spezzò in gola. Mi guardava, ma non volli cercarlo.

    «Ehi...»

    Non risposi.

    Si allungò in avanti.

    Percepivo la sua aura invadermi fin sotto la pelle.

    Fece scivolare la mano dalla guancia al braccio. Lo accarezzò quasi impercettibilmente.

    «Spesso ti rintani in un mondo di fiabe e favole sperando che queste possano riempire tutto quello che non hai mai avuto a livello affettivo. Non è abbastanza. C'è bisogno di calore umano, per quanto uno dica che sta bene anche senza di esso. Donare quello che io avrei voluto ricevere di più nel momento del bisogno è una grande emozione, ma lo è ancora di più sapere che qualcuno vuole conoscermi per ciò che sono», mormorai con sguardo basso.

    «Ti capisco molto più di quanto non credi».

    Per quanto cercassi di trattenermi, parlare con Michael mi faceva stare bene. Condividere i miei segreti, i miei sentimenti e i miei pensieri era straordinariamente facile con lui. Aprire il cuore era la terapia per una malattia che mi portavo avanti da anni e che non ero mai riuscita a guarire.

    Sbadigliai ricordandomi di mettere la mano davanti alla bocca. Sogghignò.

    «Forse è meglio che andiamo a dormire. Sei cotta...»

    «Sì, hai ragione…», mi stropicciai gli occhi.

    Afferrò i due bicchieri vuoti e li portò al lavello. Lo fece con un gesto lento e faticoso; nel mentre lo studiai silenziosamente, comprendendo che ci fosse qualcosa che non andava e che non voleva dirmi. Quando notò le mie attenzioni tentò invano di sfuggirvi.

    «Ti fa male?», indicai la schiena con un cenno.

    Mi dedicò un'espressione inafferrabile. Annuì lentamente, ostentando una smorfia dolorante.

    «Non immagini quanto...», portò la mano sinistra sulla spalla opposta. Le mascelle si tesero dandogli una forma più dura e marcata del viso.

    Gli andai vicino. Prima che potessi fare o chiedergli altro mi voltò la schiena.

    «Avanti, andiamo. È tardi per te».

    Chiuse la luce della cucina e aspettò che lo seguissi. Inspirai a fondo e lo seguii senza dire una parola di rimando.

    Attraversando il corridoio mi chiese se avessi bisogno di tenere la sua mano, nel caso in cui avremmo rivisto qualcosa di strano nel bel mezzo del tragitto, ed io lo fulminai con gli occhi senza emettere un suono. Salimmo le scale e mi accompagnò davanti alla porta della mia camera.

    Prima di congedarmi ritornai sull'argomento, decisa a dire la mia nonostante tutto.

    «Secondo me devi cercare di stare a letto il più possibile, farti fare qualche massaggio... magari prendere una medicina, ma solo se è un dolore insopportabile. Troppi farmaci non fanno bene, anzi».

    Michael rimase di stucco, ma non proferì parola. Lo scrutai seria e irremovibile.

    «Magari leggi un buon libro o guarda qualcosa in camera tua. Non fare troppi sforzi, mi raccomando».

    Mi sorrise con amabilità. «Farò come mi hai consigliato».

    Prima che potesse avvicinarsi per abbracciarmi gli trattenni il petto con una mano.

    «Per me non sei un mostro...»

    «Pardon?».

    Inspirai profondamente ed arrossii sulle guance. Lo guardai ancora più intensamente di quanto non avessi già fatto poco prima.

    «Per me tu non sei un mostro. Sei una persona buona...»

    Lo lasciai sconvolto. Schiuse le labbra come se avessi detto qualcosa di incredibilmente anormale. Sbatté le palpebre più e più volte.

    Un istante e mi abbracciò forte.

    Assaporai la stretta chiudendo gli occhi, permettendomi di godere di una sensazione alla quale – con il tempo – mi sarei abituata.

    Michael ti stringeva in una maniera in cui sembrava metterci l'anima. Lo sentivi, eccome se lo sentivi, come se ti stesse regalando un pezzo di sé.

    Mi cinse più forte. Inalai il suo profumo con un brivido impercettibile.

    «God bless you, Sarah».

    Cortocircuito in corso.

    «Anche te, Michael».

    Indietreggiò per baciarmi la fronte. Fu soffice come i petali di un fiore.

    «Buonanotte, fai bei sogni».

    Rabbrividii, ma non demorsi. «Cerca di dormire, Michael, è importante...»

    Sorrise e retrocesse. Le mie guance erano calde come non mai.

    «Ci proverò».

    Si incamminò con passo delicato lungo il corridoio. Non si voltò indietro come io non lo guardai allontanarsi.

    Entrai in camera e chiusi la porta adagiando la fronte sul legno freddo per qualche istante. La mia mente restò vuota per un bel pezzo, prima di essere in grado di pensare nuovamente a qualcosa di sensato. Davanti agli occhi c’era il suo volto.

    Prima che potessi allontanarmi per scegliere quale pigiama indossare, udii un lieve bussare alla porta. Sobbalzai. Quando la riaprii - dopo un attimo di titubanza - lo rividi: Michael sorrideva imbarazzato, toccandosi la fossetta sul mento con il pollice e l'indice della mano destra.

    «Volevo solo dirti che domani la colazione è alle 7:30».

    «Oh, grazie, mi ero dimenticata di chiedertelo…»

    Ricambiò la cortesia con le estremità della bocca sollevate, ma queste calarono nel giro di un millesimo di secondo.

    «Ti volevo anche dire che...», piegò lo sguardo sulla mia collana elfica. Mi lanciò uno sguardo penetrante. «Vi volio bene».

    Mi calò la mascella.

    Michael ridacchiò imbarazzato.

    «Tu... come

    «Lo dissi ai miei fan italiani tanto tempo fa, durante uno dei miei concerti a Roma... me lo ricordo ancora», ammise spostando il peso su una gamba e poi sull'altra.

    Non mi sembrò il caso di dirgli che aveva sbaglio a dire "Vi" invece che "Ti". In quel momento non era importante fare la pignola e correggerlo.

    «Oh... be’, allora grazie», espressi la mia gratitudine in italiano, arrossendo e tenendomi sullo stipite con entrambe le mani. Chinai la fronte sui suoi mocassini. «Devi scusarmi, io non sono molto brava a esprimere i sentimenti a parole. Non offenderti...».

    «Non ti devi preoccupare», disse con voce ferma. «Mi stai dimostrando molto anche senza parlare. Sarà questione di abitudine, ne sono sicuro», si pose le mani nelle tasche.

    Sghignazzai adocchiandolo di sfuggita. «Non sarà facile».

    Si strinse in petto, rilassato come non mai.

    «Fino a quando continui a dirti che non sarà facile le cose non cambieranno mai, lo sai?», disse usando più o meno il mio stesso tono di quando lo rassicuravo, a mo’ di dolce presa in giro. «Ci sono io, ti aiuterò a sbloccarti. E ti farò anche cantare, fra le altre cose».

    Sbiancai provocandogli un ghigno maleficamente allegro.

    Era una persona incredibilmente bella.

    «A domani, Selenite», e mi arruffò i capelli, andandosene senza aspettare o osservare la mia risposta sgomenta.




    1 Confermo che l'angelo della storia è un riferimento indiretto all’arcangelo Michele, un angelo "che aiuta le persone risanando il loro coraggio, la loro forza interiore e la loro fiducia". Si dice che porti un’arma con sé, ossia una spada di cristallo. Questo cristallo si dice che sia la selenite. La selenite è una pietra che dovrebbe avere effetti curativi sull’uomo, aiutando l’individuo a liberarsi dalle sue paure o dai blocchi emotivi. “Selenite” è un riferimento a Selene, dea greca della Luna (il che riporta al nomignolo di Sarah, Moony). Altra piccola curiosità: il significato del nome Sarah è “principessa”.


    Edited by fallagain - 5/1/2021, 21:25
  11. .
    Capitolo Undici: L'Assoluto Amore

    Mi svegliai che era quasi l'alba. Non sapevo quando sarebbero venuti gli addetti al trasloco, perciò approfittai dell'occasione per alzarmi molto presto.

    Alla fine, dopo qualche giorno di caos e maledizioni da parte dei proprietari della casa, avevo disdetto il contratto d'affitto. Dovetti pagarli di più, ma riuscii a scamparmela senza troppe difficoltà, e presto sarebbero arrivate delle persone per conto di Jackson.

    Mi ero fatta una doccia veloce, avevo fatto colazione guardando la televisione distrattamente e avevo controllato di non aver dimenticato niente in giro.

    Era una domenica, perciò niente lezioni.

    Alle 8:33 l'immenso camion bianco dei traslochi arrivò. Non ci misero molto a prendersi tutte le valigie e caricarle sul mezzo, tant'è che quando chiusi casa e cancello – dando le chiavi a una vicina come mi era stato detto di fare – era passata solo una ventina di minuti. Seguii il camion con la mia auto verso il Neverland Ranch, con il Cd True Blue di Madonna nello stereo e i finestrini leggermente abbassati per far entrare un po' d’aria mattutina.

    Non lo davo a vedere, ma non stavo nella pelle. Quando arrivai al ranch mi sembrò di non aver mai guidato così a lungo in vita mia.

    Non posso negare quanto fossi ammaliata dalla personalità di Michael – da quell'incomprensibile e palpabile aura che emanava anche a chilometri di distanza – e comprendevo che il motivo per cui volevo stargli accanto non era soltanto per il desiderio di aiutarlo nei momenti di difficoltà. Desideravo la sua presenza perché, nel momento in cui era con me, anche se mi imbarazzavo o mi irrigidivo per l'attenzione che mi rivolgeva, mi sentivo bene. Non avevo bisogno di altro, soltanto capire che tipo di persona fosse – quale fosse la sua vera anima e il suo carattere. Ero curiosa, insomma, di poter scavare più a fondo, invece che saziarmi dell'immagine che mi riproponeva dinanzi ogni volta che lo incontravo.

    So di averlo già detto, ma credo che tutti quelli che lo hanno conosciuto sarebbero d'accordo con me nel dire che, in sua vicinanza, ti sentivi in un'altra dimensione. Era una sensazione che non si poteva descrivere: metaforicamente parlando, emanava delle vibrazioni così forti che sembrava abbracciarti con uno sguardo. Più gli stavi vicino, più percepivi la sua energia invaderti e agganciarsi all'anima.

    Arrivata al parcheggio del residence principale scesi dall'auto e percorsi la salita fino al villino; mi rifiutai categoricamente di far portare tutte le mie valigie agli addetti al trasloco. Feci la mia parte e mi diressi oltre la salita con due grandi trolley nero e grigio, a piccoli passi, augurandomi di non inciampare nei sassi come era mio solito fare.

    Giunta all'apice distolsi lo sguardo dai miei piedi e guardai avanti, come se fossi stata richiamata da qualcuno: Michael e i suoi figli mi attendevano di fronte alla villa. Tutti e tre erano vestiti bene – anche più del solito -, ma quello che risaltò maggiormente fu, come al solito, il padre dei bambini.

    Vestiva molto bene, sempre con innata classe; quel giorno portava eleganti pantaloni neri, una camicia rossa e una giacca nera al di sopra. Schiena dritta, mani nelle tasche. Portamento eretto e dignitoso, degno dell’uomo di mezz’età qual era.

    I suoi occhiali da sole non mi permisero di scorgere gli occhi.

    Abbassai la testa, portai una ciocca di capelli dietro l'orecchio e arrivata a due passi dal gruppetto mi sorrisero. Ricambiai con il respiro pesante per la camminata veloce appena fatta.

    Michael incrociò le braccia al petto, aprendo e chiudendo i pugni con gesti secchi e scattanti, muovendo i piedi come se stesse tenendo il ritmo di una canzone movimentata. Il mio interesse scivolò sui bambini vestiti di tutto punto: Paris indossava un bel vestitino con gonna a cerchio, il tutto color rosa candido, e Prince con pantaloni e camicia nera.

    «Ciao signorina Morris!».

    A Paris brillavano gli occhi dalla frenesia; Prince sorrideva così tanto che sembrava non riuscisse a far altro.

    «Alla fine ce l'avete fatta», disse il padre dei bambini umettandosi il labbro inferiore.

    Lo scrutai come se mi avesse parlato in arabo. Non smise di sorridere.

    «Allora andiamo, ti facciamo vedere la tua nuova casa».

    *

    «E questa è la tua camera!», esclamò Prince aprendomi la porta, scalpitando come un cavallino felice.

    Per tutto il tempo i due bimbi mi avevano fatto da guida esattamente come il giorno al parco giochi, mostrandomi per filo e per segno ogni angolo della casa; avevano corso su e giù come pazzi chiamandomi a destra e a manca per farmi vedere questo e quello, aspettandosi una mia reazione meravigliata. Io, come mi veniva naturale fare, reagii al loro entusiasmo con occhi che luccicavano di curiosità. Michael, invece, mi spiegava la storia di ogni oggetto che reputavo interessante. Non mi avevano fatto vedere tutte le stanze; la camera di Michael e un'altra erano state tralasciate come se non esistessero. Privacy, giustamente.

    «Ma è bellissima!», sbarrai le palpebre provocando la risata di Michael (che mi stava percettibilmente a fianco). La stanza si trovava al piano di sopra, lontano da quella dei bambini e poco distante dall'ufficio di Jackson.

    Era una camera stupenda. La prima cosa che attirò la mia attenzione fu l’immensa finestra scorrevole (che faceva da terrazza) sulla parete sinistra e l’armadio gigantesco al suo fianco; la visuale dava sul giardino sul retro della villa e le finestre erano abbellite con graziose tende di seta. Il letto matrimoniale, posto di fronte alla porta, era attorniato da comodini di legno antico. C'era un comò sulla parete destra, con uno specchio a grandezza naturale, una lussuosa scrivania in tiglio e una porticina che conduceva a quello che sarebbe stato il mio bagno privato.

    In confronto alle altre stanze questa era una delle più semplici che avevo visto. Si addiceva molto alla mia personalità, non ero fatta per le cose esagerate o eccentriche. Ciò nonostante mi sentivo una principessa.

    «Ti piace, Sarah?», Paris non stava più nella pelle e sgambettava al mio fianco.

    Ormai i bambini mi chiamavano "Sarah", non più "signorina". Il padre li aveva ripresi la prima volta che si erano rivolti a me così informalmente, ma lo avevo rassicurato dicendo che andava più che bene.

    «Wow...». Mostrai i denti con una smorfia di esaltazione. Li guardai. «Non so che dire».

    «Di' che ti piace!», disse Prince sorridendo.

    Michael, che nel frattempo si era agganciato gli occhiali alla camicia come era solito fare, gli gettò un'occhiata eloquente.

    Mi chinai verso Prince. «Non mi piace… la amo

    Michael lasciò trasparire una lieve soddisfazione sul viso. Sorrisi di ricambio, ma non feci tempo a guardarlo attentamente che Paris e Prince mi presero per mano per trascinarmi verso il lettone.

    «Guarda! Guarda che bello!», disse Paris saltellando.

    «Oh... è così grande...».

    «Toccalo, avanti! Siediti! È morbido!»

    Feci come mi dissero e si sedettero con me. Guardammo Michael che ci osservava a braccia conserte e con un'espressione così spensierata da sembrare irreale.

    «Prova a saltellarci un po'!», disse Michael con un cenno del capo.

    «Vi va di saltare e disfare il letto?», guardai i bimbi con fare furbesco.

    Sbarrarono gli occhi. Non se lo fecero ripetere due volte.

    Ci tirammo via scarpe e salimmo ridendo e traballando. Avevo paura che il letto non reggesse il peso di tutti e tre, ma ero così emozionata che non ci volli neanche riflettere a lungo.

    Puntai Michael e lo invitai con una mano. «Avanti, sali!».

    «Sì, papà! Vieni!», disse Prince vedendo la faccia smarrita di Michael.

    Alla fine quest’ultimo acconsentì. Appoggiò gli occhiali da sole sulla scrivania e le scarpe vicino alla porta; potevo vedere da come se le slacciava che non vedeva l'ora di raggiungerci. Prince gli lasciò posto trovandomelo così vicino, a pochi millimetri di distanza, che le nostre braccia rischiarono di sfiorarsi al minimo respiro.

    «Pronti?», chiese Michael con la tipica esultanza di un bambino.

    «Sì!».

    «Ok... uno... due – »

    «No papà, aspetta!», Paris ci ammonì con serietà. «Prendiamoci per mano! Ci potremmo fare male!»

    E così facemmo. Da una parte la ringraziai – almeno non avrei rischiato di cadere giù dal materasso in stile Bridget Jones –, ma d'altra parte mi morsi la lingua; lanciai un'occhiata distratta alla mano di Michael e nonostante l'imbarazzo l’afferrai senza tentennare. Evitò di guardarmi in faccia.

    «Ok, tutti pronti? Tre... due... uno... via!»

    Si scatenò il disastro.

    I bambini cominciarono a saltare come cavallette, seguiti da me e Michael che cercavamo di fare più piano per evitare di spaccare il letto. Non riuscivo a smettere di ridere. Poi, di colpo, quel maledetto genio di nome Michael Jackson lasciò le nostre mani e afferrò due cuscini a bordo del materasso lanciandoceli in faccia.

    La prima a beccare fu me, ovviamente, i quali riflessi erano più fiacchi di una lumaca. Lo squadrai scioccata, calando la mascella. Se la rise come impazzito, seguito dai bimbi che nel frattempo avevano continuato a saltellare allegramente. Presi il cuscino che mi aveva gettato e glielo rilanciai nonostante si fosse prontamente girato dall'altra parte, proteggendosi con un braccio. Anche Prince ebbe la brillante idea di prenderne uno e gettarlo di foga contro il padre, e così fece anche la sorella, rivolta invece contro di me. Ben presto i salti sul letto si trasformarono in una guerra.

    Andammo avanti per un buon quarto d’ora, scendendo e salendo dal letto senza ritegno, scattando avanti e indietro per la stanza e gioendo come pazzi scatenati. Tutti contro tutti, nessuna squadra.

    Paris era davvero bravissima: aveva una mira che faceva paura perfino a quella del padre, non faceva mai cilecca; Prince era bravo a difendersi e riusciva a scampare alle cuscinate della sorella o del padre con abili scatti. Per quanto riguarda me, ogni volta che mi colpivano ricambiavo con altrettanta precisione, ma ero molto più brava ad attaccare da vicino piuttosto che da lontano. Michael, invece, si divertiva un mondo a prendere la gente di sorpresa, beccandoti quando meno te lo aspettavi e scappando agli attacchi ravvicinati con la velocità di una pantera. Era insopportabile quando non lo si beccava e ti guardava con un sorriso da schiaffi in viso, tutto contento e soddisfatto per non essere stato preso... ma se le era beccate pure lui, soprattutto da me.

    Si divertiva a infastidire la sottoscritta piuttosto che i suoi figli. Ogni momento in cui giravo le spalle cercava di attaccarmi da dietro. Scaltramente mi allontanavo ogni qualvolta tentasse di colpirmi.

    «A-HA! Anche stavolta hai fatto cilecca!», balzai sul letto con un'espressione malefica.

    Prince saltò contro me, ma fu subito sbattuto sul letto dalla sorella, con una cuscinata alle spalle che provocò le risa di tutti. Proprio mentre me la ridevo mi ritrovai Michael di fronte, minacciosamente allegro, e mi attaccò senza pietà. Fui sul punto di sobbalzare all'indietro e Michael fu così veloce da prendermi prima che mi ribaltassi e cadessi nel vuoto. Me la sarei vista brutta se non mi avesse afferrato per un braccio, ma fu in quell'attimo di straniamento che potei ricambiare la cuscinata di prima.

    Si scosse, allibito.

    Capii subito, guardandolo, cosa stesse pensando: quel luccichio anticipava una tremenda vendetta. Prima che potesse riattaccarmi scesi dal letto ridendomela nervosamente. Mi corse dietro.

    «No, vai via!», esclamai indietreggiando alla cieca. «Mi fai paura

    «Temimi, ne hai tutte le ragioni!», arcuò la fronte esibendo un ghigno poco convincente.

    Incuteva timore, ma sapevo che il mio cuore non batteva soltanto per l'agitazione del momento. Il suo sguardo era così misterioso quanto intenso che la cosa mi faceva rabbrividire.

    In mia difesa scese Prince, attaccando il papà e inducendolo a letto a son di cuscinate.

    «Tutti contro papà!», esordì Paris con un braccio alto in segno di vittoria.

    «No, vi prego!».

    Aiutai Prince a tenere fermo il padre, appoggiando le mani sul braccio sinistro di Michael e il peso della mia gamba destra sulla sua coscia sinistra. Sembrava una bestia in gabbia, ma ero sicura che stesse usando solo un terzo della forza che possedeva.

    Alla fine Michael fu costretto ad arrendersi.

    «Ok... ok, basta! Ok!», rideva a crepapelle. «Mi arrendo!»

    Ci arrestammo.

    Michael non diede segno di volersi muovere: se ne stette sul letto con gli estremi delle labbra sollevate, i suoi bambini che gli saltavano in braccio aggrappandosi al suo petto. Li osservai dolcemente e Michael ricambiò scoccandomi un sorriso ancora più disarmante. Osservai i bimbi, i quali ancora ansimavano per le corse e i salti fatti, e quando i miei occhi si riappoggiarono sulla figura Michael notai che teneva gli occhi chiusi.

    Mi accorsi, abbassando il mento, che una mia mano era stretta nella sua. Probabilmente l'avevo stretta quando avevo cercato di tenerlo fermo, o forse mi aveva stretto Michael senza che io me ne accorgessi, perché mi avvolgeva il dorso con le dita.

    Arrossii scostando l'attenzione dalla sua figura.

    Invece di lasciarmi andare mi strinse e mi accarezzò con il pollice.

    Era un enigma. In alcune situazioni si comportava come un bimbo innocente, in altre come un uomo consapevole delle sue azioni. E in fondo Michael era così, con due tipi di personalità diverse che convivevano e si alternavano in base all’occasione: la prima era quella di un giovane fanciullo, che vedeva la semplicità in ogni sua forma e aspetto con gli occhi di un bambino innocente e inesperto; la seconda era quella di un uomo maturo, saggio, affascinante e cosciente del suo potenziale con e sugli altri, con un'intelligenza e un intuito fuori dal comune e una mente sveglia come poche.

    Ricambiai la stretta di mano.

    «Papà, andiamo a mangiare adesso?», disse Prince masticando le parole e stiracchiandosi su di lui.

    «Sì, andiamo. Ma non prima di aver sistemato la camera della vostra insegnante», e così dicendo, lasciando le mie dita, aprì gli occhi e si tirò a sedere.


    *

    Il pranzo durò veramente poco.

    Ben presto i maschietti si congedarono, dicendoci di raggiungerli se mai avessimo avuto voglia, rifiutando l'idea di rimanere con noi femminucce a guardare le Cheetah Girls alla tv – soprattutto Prince, che proprio non ce la faceva a guardare "un film per bambine come quello". A me e a Paris invece piaceva da morire.

    Paris guardava le amiche del film ridere, litigare e piangere con un'incredibile luce negli occhi, la stessa che molti anni prima aveva posseduto anche me – quando ancora sognavo di trovare un gruppo di persone con cui poter condividere un sentimento simile. Anche per lei doveva essere un sogno, ma non era sola e questo lo sapeva bene: in un modo o nell'altro era felice lo stesso, perché c'era la sua famiglia con lei.

    «Sono contenta che tu sia qui», sussurrò appoggiandosi al mio braccio, tenendomi per mano. «Tu sei mia amica, vero?»

    «Certo che lo sono. Possiamo formare un gruppo come le Cheetah, se vuoi», sorrisi. «Magari invitiamo anche Grace a farne parte».

    Aveva due cristalli che sfavillavano al posto delle iridi acquamarina. «Potremo anche avere i poteri delle Superchicche?»

    Tentai di non storcere il naso. Non mi piacevano particolarmente, ma non volli deluderla.

    «Be’, perché no?»

    Mi prese le dita fra le sue, se le portò dietro la schiena e si adagiò sul mio seno, stringendomi forte. «Grazie, signorina Sarah... sono felice che tu sia venuta ad aiutarci, Dio ti benedica».

    Disse le stesse identiche parole che avrebbe pronunciato suo padre. Le accarezzai il capo scoccandole un bacio sulla nuca. Rimasi così sconvolta da tutta quella dolcezza che non seppi nemmeno cosa rispondere, ma ero immensamente grata. Davvero grata.

    Durante il resto del film continuammo a cantare e danzare con le Cheetah tentando di imitarle alla perfezione; spostammo il tavolino dinanzi al divano per farci spazio e ci scatenammo. Quando Prince ci vide, mentre attraversava il salotto per prendere i pop-corn in cucina, ci rivolse un'occhiata sconvolta, scuotendo la testa furiosamente e alzando gli occhi al cielo, scatenando la mia risata e una boccaccia da parte della sorella.

    Finito il film andammo in sala giochi. La stanza si raggiungeva salendo una scala a chiocciola e minuscola. Da quest’ultima si diramavano altre tre camere; una era per l'appunto la sala giochi, le altre due erano camere da letto.

    Michael si dimostrò affabile, gioioso e disponibile per tutto il tempo. Mi guardava, eccome se mi guardava.

    Come un bimbo a Disneyland mi invitò a provare tutti i marchingegni presenti. Alla fine perdevo sempre e per un motivo molto semplice: barava. Barava eccome. E se glielo dicevi faceva il fintotonto.

    Poco dopo andammo a fare una passeggiata in giardino, tanto per approfittare di una fredda e soleggiata giornata di dicembre. Venne anche Grace con Blanket, il quale tutto pimpante non aspettava altro se non potermi salire in braccio per giocare con i miei capelli e la collana che portavo al collo. L'avevo ritrovata giorni prima, tra gli scatoloni del trasloco, e avevo deciso di indossarla per quell’occasione speciale.

    Anche Michael la notò e mentre Grace seguiva i bambini per non perderli d'occhio – i quali correvano veloci col rischio di fare un frontale su qualche albero senza badarci troppo – la fissò incuriosito.

    In fin dei conti non ci mancava mai l'occasione per restare da soli e parlare.

    «Conosco quella collana!», disse sporgendo il viso in avanti.

    Non esitò a toccarla: la prese delicatamente fra il pollice e l'indice e la rigirò delicatamente su ogni lato, mostrando un'espressione d'interesse e meraviglia.

    «È la collana di Arwen, de Il Signore degli Anelli», mormorai imbarazzata, ridacchiando. Mi stupii che non l'avesse notata subito, visto come la esibivo con orgoglio.

    «Oh sì, mi piace moltissimo».

    Gli rivolsi un'occhiata stupefatta. «Davvero?»

    Schiuse le labbra per rispondere, dopodiché sorrise ed annuì inarcando un sopracciglio.

    «Anche io! Ricevetti questa collana come regalo di compleanno non molto tempo fa, da parte di alcuni amici dell'università. Fecero i salti mortali per trovarla, così mi dissero. Ti giuro, le mie compagne di corso non ne potevano più di me e de Il Signore degli Anelli. Mi avrebbero voluto uccidere», risi di gusto.

    «E come mai ti piace così tanto?», Michael si scostò dal mio collo e adagiò la collana sulla pelle, nello stesso punto di prima.

    Rabbrividii.

    «Mi piacciono i fantasy, ma penso che Il Signore degli Anelli sia qualcosa di veramente speciale. Tolkien è un genio. Stimo moltissimo la sua creatività e il mondo che è riuscito a tirar fuori dalla sua mente. Vorrei essere come lui. Secondo me ha ridefinito il concetto di “fantastico”», confessai allegramente e senza guardarlo. Passeggiavamo fra i vialetti che circondavano la dimora e che portavano al grande lago. «Ho rotto le scatole a tutti perché non riuscivo a trovare quel ciondolo da nessuna parte. La volevo perché adoravo il rapporto tra Aragorn e Arwen. Il loro amore è qualcosa di vero ed eterno, non credi?

    Se ci pensi la Stella Elfica dona eterna giovinezza a chi la indossa. Non che io l'abbia presa per essere giovane per sempre, questo è chiaro», borbottai. Michael sogghignò appena, grattandosi un angolo della guancia sinistra con un dito. «È che la loro storia appassiona. Arwen dona ad Aragorn la sua immortalità. Praticamente gli dona la vita, pur sapendo che dovrà perdere la sua. Lo ama e non accetta di vivere con il dolore della perdita. Dice: "Preferirei vivere una sola vita con te, che affrontare tutte le ere di questo mondo da sola"», sorrisi.

    Sapevo essere una vera nerd e romantica, oltre che un'eccessiva logorroica, se mi impegnavo.

    «E perciò ti rivedi in lei?», domandò inclinando la testa.

    Formai una linea dritta con le labbra, ammirando il cielo limpido e azzurro sopra le nostre teste. «Direi di sì. mi conosco abbastanza da dire che al suo posto avrei fatto lo stesso. Io non temo la morte, ma temerei la sofferenza di una vita senza la persona che amo di più. Inoltre credo che possa esistere un amore in grado di legare due persone così com’è accaduto a loro. È raro e difficile da trovare, ma per me esiste. Non decidi di rinunciare all'immortalità per un capriccio, ma perché sai che vivere senza quel qualcuno diventerebbe insopportabile e perché desideri che almeno uno dei due possa vivere felice. Arwen dà per scontato che lui starà meglio, un giorno... mentre lei sa già che ne morirebbe».

    Non proferì parola.

    Continuai a guardare avanti con un sorriso stampato sulle labbra. Mi sentivo le guance avvampare, eppure non mi vergognavo per aver detto quello che pensavo.

    «Si può dire che credi nell'assoluto amore».

    Cercai le sue iridi scure e notai che era preso da ogni dettaglio del mio viso.

    «Sì, ci credo moltissimo».

    L'espressione si addolcì. Ammirò il vialetto con le mani nelle tasche dei pantaloni.

    «E tu ci credi?», domandai con un sorrisetto divertito.

    «All'assoluto amore?»

    «Sì».

    Si passò la lingua sul labbro inferiore.

    «Sì, credo di sì. Penso che sia l’unica cosa in grado di liberarti da qualsiasi pena. Non importa chi tu sia, ancor meno il tuo colore di pelle, il tuo genere o il tuo orientamento sessuale. L'amore è universale». Fece una pausa. «Sono stupito del fatto che tu possieda questo ciondolo, non ho mai avuto la possibilità di incontrare qualcuno che lo indossasse».

    Mostrai i denti con gentilezza, pur intuendo che stava volontariamente nascondendo ciò che pensava davvero.

    «Ti dirò la verità, Sarah, è tutta una vita che cerco un amore così. Ho guardato in lungo e in largo per trovare qualcuno che potesse vivere al mio fianco donandomi un sentimento così puro. Molte donne cercano soltanto fama e denaro da me, non mi vedono veramente per quello che sono. È uno dei tanti prezzi del successo. In realtà non credo neanche di sapere come gestire un'emozione così grande. Se guardo al me stesso del presente, non credo di aver capito nulla dell'amore e di come lo si vive. Ci spero ancora, anche se ammetto di averci un po’ rinunciato...», ridacchiò mirando lontano.

    «Posso comprendere». Mi fissò. Sistemai meglio Blanket fra le mie braccia. «Personalmente non mi è mai importato di essere circondata da milioni di amici o amanti. Anzi, tutto il contrario. Mi basterebbe la compagnia di una sola persona purché sia quella giusta. Quella con cui sentirmi a casa, capisci? Il mio unico desiderio è sempre stato quello di trovare la persona perfetta per me. I miei e i suoi difetti che si equilibrano a vicenda. Tutto ruota attorno a quello, alla fine. E chissà, forse un giorno ci sfioreremo e nemmeno ci accorgeremo di esserci passati accanto, o di esserci guardati negli occhi.

    Le mie relazioni amorose non sono mai andate come volevo che andassero, pur avendone vissute pochissime - forse troppo. Con il senno di poi penso che vada bene così. Certe cose non devono andare e basta. E perché mai non potremmo essere fortunati anche io e te, un giorno? Per me ce lo meritiamo», bofonchiai in tono divertente. Blanket adagiò la testolina nell'incavo del collo. Il suo debole respiro accarezzava la pelle. «Non credo che l'amore sia riservato soltanto a qualcuno. Un giorno lo troverai anche tu così come lo troverò anch’io. Delle volte non serve cercare, le cose arrivano quando meno te lo aspetti o le desideri».

    Adocchiai Blanket che borbottava tra sé e sé, strattonando appena la mia collana.

    Mi voltai per cercare gli occhi di Michael. Non mi ero neanche accorta che si era fermato un metro più indietro, impalato, e non muoveva un muscolo. Fissava il vuoto con aria assente, la mano sinistra sulla spalla destra. Era diventato una roccia.

    «Hai male da qualche parte?», mi preoccupai.

    Si risvegliò dalle sue riflessioni battendo le palpebre due o tre volte. Scosse il capo e mi venne incontro. Non osò più guardarmi negli occhi.

    Che avessi detto qualcosa di troppo?

    Con un filo di voce mi chiese se volessi sedermi su una panchina, dicendo che era parecchio stanco. Accettai.

    «Ti piace la tua nuova camera?», si chinò con un gemito e le palpebre abbassate.

    Annuii con forza. «Moltissimo! Anche se dovrò controllare che il letto non si sia rotto da qualche parte», gli scoccai un’occhiata complice.

    Sorrise imbarazzato. «Scusa...»

    «Non dirlo! Ve l'ho chiesto io dopotutto. Non ho mai fatto una cosa simile!».

    «Davvero?», era sbigottito. Al mio cenno d'assenso divenne serio. Diresse lo sguardo verso un punto lontano. «Il mio “scusa” non era soltanto per quello...»

    Aggrottai la fronte con aria interrogativa. Blanket cominciò a dimenarsi furiosamente e a chiedere di stare fra le braccia di papà. Lo allungai verso Michael ed egli lo strinse forte al petto, facendolo sedere sul ginocchio destro.

    «Ti volevo chiedere scusa per il mio comportamento di ieri. Mi sono lasciato prendere dal panico. Non avrei mai... mai voluto farmi vedere in quella condizione. Mi sono comportato da debole...», rispose con un'espressione di pentimento marcato, ammirando gli scalpitanti piedini del figlio più piccolo.

    Sorrisi. Avrei voluto mettergli una mano sulla spalla, ma mi trattenni.

    «Michael, tutti abbiamo dei momenti in cui cadiamo nel più completo sconforto. Non ti giudico. Essere forte non significa che non puoi piangere. Sei in una fase delicata, avere un crollo è più che naturale e comprensibile. Ti faccio un esempio personale: io non piango seriamente da – credo – due o tre anni. Ma non perché non sono mai stata male per tutto questo tempo, tutt’altro! Ho avuto e ho ancora dei crolli, ma evito di affrontarli. A volte tenere duro ed evitare di piangere non ci rende affatto forti».

    Mi scrutò senza emozione. «Tu sei forte, invece. Hai un bel caratterino».

    Risi. «Io forte? Ho un bel caratterino, è vero. Non mi arrendo facilmente e sono cocciuta. E so dare sempre i consigli giusti, da quel che mi è stato detto. Ma ti posso assicurare che quando parto a piangere non mi ferma più nessuno. Quando crollo vaneggio. E vaneggio completamente!».

    Rise delicatamente della mia espressione buffa. Serrò le labbra squadrandomi a fondo. Cominciavo ad abituarmi a quella sua vista da radar.

    Sospirai esaminando le punte dei piedi che oscillavano a destra e a sinistra.

    «Posso cercare di convincermi di stare bene quando sto male, ma so perfettamente che è una bugia. Non ho mai vissuto le tue stesse situazioni o emozioni, perciò l'unico mio "dolore" è causato dalla solitudine o dalla mia scarsa capacità di relazionarmi con le persone. A volte percepisco tutto come un mattone... con il tempo diventa solo più semplice da sopportare.

    Essere soli non significa non aver mai avuto una compagnia di amici. Si può essere soli anche quando sei circondato da tanta gente e nessuno sembra chiedersi davvero come stai. Si è soli quando ci si sente dire "Ma tu sei una roccia, te la stai cavando benissimo", e invece no, non te la stai cavando affatto bene. E se stai soffrendo ma non sai chiedere aiuto è ancora peggio».

    «Ti capisco», mormorò mestamente.

    Sentii il naso pizzicare e gli occhi lucidarsi. Non avevo mai fatto un discorso tanto intimo con qualcuno come con lui. Qualche volta utilizzavo le mie esperienze personali come esempio, ma in quell’istante mi sembrava di aver provato ad aprire una porta che doveva rimanere chiusa.

    Tacque continuando ad esaminarmi profondamente.

    Mi prese la mano e con sorpresa la portò sulla gamba sinistra, quella libera. La tenne stretta e l'accarezzò per qualche secondo senza emettere un fiato, mentre io fissavo quell'intreccio di polpastrelli con disorientamento.

    «Non ti preoccupare, possiamo farci compagnia».

    Lo guardai. Sorrideva.

    Allontanai lo sguardo arrossendo furiosamente. Michael mi dette un pizzicotto sulla guancia. Mi sentii sprofondare dall'imbarazzo, ma mi resi conto di essere felice.

    Per qualche minuto non dicemmo una parola.

    «Papààà! Signorina Saraaah!», una voce in lontananza attirò la nostra attenzione.

    Prince ci stava venendo incontro correndo. Gli mancava il fiato.

    «Paris stava correndo, stavamo giocando a nascondino, è inciampata nel marciapiede ed è caduta! Una caduta incredibile!»

    Michael si alzò di scattò e così anch'io. Mi porse Blanket, il quale protestò contrariato.

    «Tu raggiungici con calma, io seguo Prince», corse dietro al figlio.

    Li seguii con passo veloce fino ad un certo punto, fino a quando non scomparvero dalla mia vista. Udivo voci non molto lontane, perciò proseguii lentamente seguendo l’orecchio. Qualche minuto più tardi vidi Michael con Paris in braccio che mi venivano incontro, seguiti da un ansioso Prince e da una Grace calmissima. Michael era sereno – o almeno così sembrava – e la piccola si guardava impassibilmente il ginocchio.

    «Che è successo?», chiesi titubante.

    «Paris si è solo sbucciata le ginocchia e le mani, niente di grave», disse Michael sorridendo.

    Sospirai sollevata.

    «Sì, infatti, è Prince che è matto!», la piccola si crucciò scoccando un'occhiataccia al fratello.

    «Paris...», Michael sussurrò una nota di rimprovero.

    Prince si offese. «Io

    «Sì! Te lo avevo detto che mi ero solo sbucciata! Anche Grace lo ha detto, ma tu vuoi fare sempre come vuoi! Così hai interrotto papà e Sarah!»

    Mi accaldai e Michael con me. Anzi, lui divenne proprio rosso pomodoro e non guardò né me né la figlia. Non lo avevo mai visto così. Non fu neanche in grado di riprendere i due figli per quel battibecco inutile.

    Grace ci fissò con occhio indagatore. Prince puntò imbronciato la sorella e lei ricambiò mostrando la lingua con fare indispettito.

    «Torniamo in casa, è meglio».

    L'atteggiamento di Michael fu spiccio e sbrigativo, ma le guance erano ancora arrossate.


    *

    Il pasto era appena terminato. Tutti quanti i membri avevano cenato di gusto – anche Michael che, per quella rara occasione in cui l'avevo visto, aveva sempre mangiato come un uccellino. Mi congedai quasi immediatamente, dicendo di dover finire di sistemare le valigie.

    Proprio mentre mi incamminavo verso la mia stanza Michael mi seguì. Quando mi volsi sorrideva.

    «Ogni sera leggo una storia della buonanotte ai miei bambini e vorrei che ci fossi anche tu», disse bagnandosi le labbra. Arcuai le sopracciglia. «E mi piacerebbe leggere la favola di cui mi hai parlato tempo fa, quella di tua nonna», continuò con aria imperscrutabile. «Ti dispiacerebbe?»

    Un moto di timidezza mi avvolse completamente facendomi arrossire, sapendo che quella storia era stata creata e ispiratasi a me in tutto e per tutto. Ma da come Michael mi stava guardando sapevo che non avrei potuto dirgli di no.

    «Certo che no, affatto...», increspai la fronte e ammirai un punto indefinito del corridoio, nel tentativo di rimembrare in quale scatola l’avessi riposta.

    «Se non te la senti possiamo rinunciare».

    Feci finta di non sentirlo. «Avrò bisogno di un po' di tempo per capire dove l’ho messa... sarebbe un problema?».

    «Vuoi che ti aiuti?», si passò la lingua sulle labbra con occhi furbini.

    Lo fissai.

    «Non è una scusa per leggerla prima degli altri, vero?», storsi la bocca in un cenno divertito.

    «Be’, uhm...», roteò gli occhi verso l'alto frenando un sorriso. «Nooo... riesco a resistere».

    Mi accigliai. Rise della mia espressione sbarrando le palpebre e gesticolando per rassicurarmi.

    «Te lo prometto, non leggerò nulla!»

    Scossi la testa incamminandomi verso la "mia camera". Mi inseguì come un cagnolino, pur rimanendo dietro di qualche passo.

    «E se non capissi nulla della tua scrittura? Non posso permettermi di fare troppe pause, perderei l'enfasi. Magari potrei darci una letta veloce».

    Sogghignai di gusto e mi guardai alle spalle. Michael mi scrutava con una faccia da poker indescrivibile. «No, non è un buon motivo per farlo. Ma se riesci a trovarlo prima di me – fra tutti quegli oggetti in disordine – posso darti il lusso di farti leggere il primo paragrafo in anteprima. Ma solo quello!», lo ammonii buffamente con un dito.

    «È una proposta di caccia al tesoro la tua?», chiese rizzando un sopracciglio.

    «Tu che dici?»

    Nel suo viso si accese la sfida.

    Gli diedi la schiena e proseguii salendo le scale. Mi sentivo così osservata che non potevo far altro che camminare peggio di un palo.

    Una domanda alquanto strana e inaspettata mi appannò il cervello: e se mi stesse guardando il fondoschiena?

    Feci spallucce fra me e me convinta che non avesse chissà che da guardare. Dedussi che non ero affatto il suo tipo, pur non conoscendolo bene.

    Non avevo un fisico disgustoso, in realtà. La mia quarta di seno era stata gentilmente concessa dalle donne di famiglia (mia nonna materna e le sue figlie). Avevo un fondoschiena più grande del "normale" – praticamente la sola cosa del mio corpo, a parte il viso, che risaltava sempre all'occhio maschile. Non era sicuramente minuscolo come quello delle modelle in passerella. Tuttavia, anche senza essere un sedere scolpito, avevo compreso negli anni che molti uomini ne erano attratti comunque. Piaceva il fatto che – anche senza essere magra – le mie curve fossero tutte sui punti giusti, enfatizzate da una vita stretta che mi dava una leggera forma a clessidra. Per quello non mi preoccupavo molto per qualche rotolino di pancia in più o per delle gambe più grosse del normale. Certo, non mi sentivo gnocca, detta con il gergo di oggigiorno, ma rispetto a dieci anni prima ero molto più carina. Non una top model, ma carina. Accettabile.

    Magari anche Michael era un ass man. Chi ero io per dire quali fossero i suoi tipi di donna preferiti?

    Mi morsi le labbra per non ridere di quel mio pensiero sconsiderato.

    Arrivati in stanza gli indicai quale fosse la prima valigia da controllare. Era un piccolo trolley blu scuro e conteneva libri e appunti vari; io, invece, mi sarei occupata di altri scatoloni. Michael aveva fatto il saluto militare drizzando la schiena come un vero soldato, provocandomi una forte risata.

    In silenzio tutti e due ci mettemmo al lavoro. Più di una volta Michael interruppe la caccia al tesoro interrogandomi sui libri che portavo in valigia – confessandomi quali avesse letto anche lui, domandandomi soprattutto come mai mi piacessero e perché.

    Più che caccia al tesoro la nostra fu una chiacchierata lunghissima. Ci distraemmo così tante volte che i minuti volarono. Era incuriosito dai miei gusti; mi chiedeva quali fossero i miei film preferiti, i miei artisti musicali preferiti, il perché conservassi una cosa rispetto ad un'altra e la loro storia. Mi sentivo al centro dell'attenzione e per quanto ciò mi lasciasse confusa, mi rese anche genuinamente contenta. Era piacevole sapere che qualcuno potesse sinceramente interessarsi a me, di tanto in tanto.

    Alla fine fu Michael a trovare il racconto.

    «Dov'era?», gli corsi incontro.

    Aveva un libretto verde fra le dita, tenuto delicatamente fra i polpastrelli del pollice e dell’indice onde evitare di rovinare la copertina di fiori e farfalle sbiadite.

    «Era sepolto sotto tutti questi libri. Ho sfogliato e penso di aver indovinato».

    Aprì il libretto sulla terza pagina a righe.

    Per Sarah”.

    Ricordavo di aver trascritto sia la versione italiana, sia quella inglese, contrassegnate da due segnalibri di colori diversi (rispettivamente giallo e rosso).

    «Scrivi molto bene...», sussurrò Michael.

    Annuii... e quando capii il senso della frase lo sgridai.

    «Non devi leggere!».

    Gli presi il quaderno dalle mani e me lo posi sul petto, mentre Michael se la rideva a pieni polmoni.

    «Sei arrivata in ritardo, sai?», sogghignò vedendo che continuavo a guardarlo fintamente sconvolta. «Dai, posso leggerne almeno un pezzo? D'altra parte ho vinto, me lo avevi promesso».

    «Sono sicura che hai letto più di quanto avresti dovuto», gli feci una piccola linguaccia.

    Michael mi squadrò intensamente. Mi regalò un’occhiata furbetta per niente rassicurante.

    «Puoi almeno leggermi qualche riga nella tua lingua?»

    «Eh?».

    «La versione originale è scritta nella tua lingua madre, vero? L'italiano. Se me la leggi non capirò nulla, ma potrò avere la possibilità di sentire un'altra lingua che non sia la mia».

    Ci fu qualche attimo di silenzio. Michael continuò a scrutarmi impassibile e vedendo che io non reagivo in alcun modo – troppo sconcertata per rispondere – sollevò le sopracciglia e sorrise sventolandomi una mano davanti al viso, risvegliandomi dal mio stato catatonico.

    Mossi le ciglia velocemente.

    «Ok», mormorai titubante. Osservai il piccolo quaderno fiorito. «Ma credo che il mio accento sarà piuttosto inglese...»

    Fece spallucce. «Non ti preoccupare, tanto non noterò nulla».

    Era peggio di un mulo quando si metteva.

    Mi sedetti sul letto. Michael mi venne vicino portando il suo viso proprio sopra la copia originale per tentare di leggere assieme a me. Presi un profondo respiro.

    C'era una volta,
    Una principessina bellissima, dalle qualità più pure e amorevoli che si potessero desiderare. Ella non possedeva soltanto un'anima candida, ma anche un aspetto incantevole: lunghi capelli rossi come il fuoco, setosi come stoffa pregiata, le scendevano lungo i fianchi. Aveva due occhi verdi come il mare. Era molto dolce e buona con tutti, allegra e spensierata, sempre con un sorriso sulle labbra...

    Lo guardai interrompendo la lettura. I suoi occhi sguizzavano dal libretto alle mie labbra, affascinato da quelle strane parole dal significato a lui sconosciuto. Aveva un'espressione da bambino, così interessata che faticavo a crederci. Era veramente un uomo di cultura, molto intelligente e con la voglia di imparare ogni cosa.

    «Perché ti sei fermata?», chiese colto alla sprovvista. «Continua!»

    «Ora che te la leggo tutta i tuoi figli si saranno già addormentati», bofonchiai soffocando le risa.

    Sospirò.

    «D'accordo... andiamo allora!», esclamò battendo le mani sulle ginocchia e alzandosi in piedi.

    Quando chiusi la porta della mia nuova camera da letto, mi prese per mano e senza voltarsi indietro mi fece correre con lui a perdifiato verso la stanza dei bambini.



    Edited by fallagain - 31/12/2020, 15:56
  12. .
    Capitolo Dieci: Il Colore Viola

    Ero a bocca aperta.

    Ormai si è capito quanto fossi facilmente propensa ad arrossire, anche per la minima cosa. Guarda caso con Michael ero una figuraccia continua. Più le mie guance si coloravano di rosso, più il suo sorriso si faceva ampio e disarmante.

    Avrei tanto voluto sparire dalla faccia della Terra.

    Lui – non chiedetemi perché proprio lui – mi faceva sentire molto più maldestra rispetto a qualsiasi altra persona che avessi mai conosciuto; nel senso che mi faceva imbarazzare con un nonnulla! Se Michael mi osservava, arrossivo; se Michael rideva per qualcosa che dicevo o facevo, arrossivo. Dopotutto era una persona di un certo calibro e riguardo, pensai fosse quella la ragione.

    Vederlo riapparire così mi fece dimenticare tutto quello che era successo dopo la telefonata.

    Ero arrivata alla conclusione di essere un po' irragionevolmente arrabbiata con lui; in realtà non ero soltanto preoccupata per la sua salute, ma anche triste perché non si era più fatto sentire. Temevo che non gli importasse più tanto della mia presenza, visto che avevo svolto e finito il mio lavoro da "consulente". Era un pensiero stupido, egocentrico a dir poco, ma non riuscivo a evitarlo.

    I bambini – grazie a Dio – trovarono il modo di sciogliere quell'intreccio di sguardi tra me e il padre correndogli incontro, includendolo nei loro innocenti discorsi. La mia attenzione ritornò alla televisione nel tentativo di dimenticare la figuraccia appena fatta.

    Respirai a fondo.

    Bastava non guardarlo negli occhi e tutto tornava come prima.

    Più o meno.

    Michael dette un bacio ai figli e si avviò verso il divano tenendoli per mano. Mi adocchiò con occhi vivaci e curiosi. Lo ignorai.

    «Posso unirmi anche io? Sempre che alla signorina Sarah non disturbi la mia presenza...», disse passandomi davanti e assumendo un'aria di chi la sapeva lunga.

    Dissentii col capo come risposta alla sua domanda. Prince e Paris lo fecero accomodare e gli si accalcarono sopra. Mi lasciai scivolare pian pianino verso un angolo estremo del sofà, ancora tiepida in volto.

    Malgrado ciò... qualcosa non andava. Non sapevo bene cosa, ma d'istinto credetti che dovesse essere accaduto un non so che a Michael: il suo volto era un incavato dai segni della stanchezza, lo sguardo esitante.

    E c'era un altro problema, che però riguardava me stessa. Sentivo che averlo lì, accanto, mi rendeva tesa.

    Doveva rimanere il mio datore di lavoro, mi dicevo, non un amico. Anche se mi diceva "Ti voglio bene", anche se io ero disposta a stargli vicino e a chiamarlo "Michael".

    Dovevo tenermi lontana e basta.

    *

    «Papààà...». Paris scese dal divano e si pose dinanzi al padre, appoggiando le piccole manine sulle sue ginocchia. S'imbronciò. «Andiamo a mangiare? Ho fame...»

    Il film era finito da qualche istante, permettendo ai titoli di coda di darci la forza per sollevarci dall'enorme divano cremino e andare a cenare una volta per tutte. Erano le sei e mezza, sebbene tutti quanti lo nascondessero bene – tutti tranne Paris – l'appetito non mancava.

    L'ansia per l'inaspettato arrivo di Michael si sciolse a causa di Prince: vedendomi ridere per le battute del film si era avvicinato alla sottoscritta per adagiare la testolina bionda sulla mia spalla. Ricordo ancora l'espressione che Jackson mi regalò: mi puntava orgoglioso, mentre io sorridevo come una bimba per il film.

    Michael annuì donandole un tenero buffetto sulla guancia, portandola a inclinare il capo tutto da una parte per la tenerezza. Il padre s'issò in piedi e si avvicinò al registratore, estraendo la cassetta solo nel momento in cui il nastro fu completamente tornato indietro. Nel mentre i bimbi mi accerchiarono con visibile allegria, imitando le scene più belle.

    «E... e... ti è piaciuta la scena dove l'orso balla? Con le cuffie e la musica nelle orecchie?» esclamò Prince con enfasi, riferendosi a Big Foot.

    Mentre Paris si affrettava a raccontarmi un'altra scena divertente, il mio sguardo ricadde (per l'ennesima volta) su Michael, il quale silenziosamente mi scrutava con un sorriso divertito ma attento. Aveva quel cipiglio indefinibile che non riuscivo a capire cosa potesse significare.

    C'era una cosa che io e Michael avevamo in comune: entrambi amavamo osservare. Analizzavamo le azioni del mondo come se ci stessimo godendo una pellicola cinematografica, studiandone le espressioni e i movimenti. Non giudicavamo in malo modo, piuttosto amavamo scoprire in silenzio. Desideravamo entrare in contatto con l'anima altrui nel modo più intimo possibile.

    Tutti e due preferivamo agire indisturbati e un certo "feeling" reciproco impediva a uno di esaminare l'altro senza che questo lo percepisse. Anche se decisamente affascinata dalla sua personalità e dal suo carisma, ero sicura che quella sensazione non fosse derivata dalla sua fama.

    Era bello che condividessimo quella particolare qualità, se così si poteva definire. Ero sicura che fosse arrivato a quella considerazione anche lui.

    Mi alzai dal divano stiracchiandomi. «Credo sia meglio che me ne torni a casa».

    I piccoli mi scrutarono tradendo una nota di delusione.

    «Puoi restare se vuoi...».

    Michael mi adocchiò con fare incerto ed io finsi di non rimanerne colpita. Fu sul punto di emetter parola, ma si trattenne lambendosi la bocca.

    «No, grazie», dissentii tra la felicità e il dispiacere. «È meglio che vada, altrimenti qua prendo un brutto vizio...».

    «Non ami stare con noi?», Prince si rabbuiò.

    Ci risiamo.

    «Certo che no!». Mi chinai in avanti per scompigliargli i capelli biondi provocandogli una leggera risata. «Io sto davvero bene con voi!»

    «E allora perché non vieni ad abitare qui?».

    «Vieni a vivere qua, signorina Sarah...», Paris mi tirò per una manica del maglioncino verde ottanio.

    Fissai Michael smarrita. Quest'ultimo ricambiò ma non fui in grado di capire se fosse soddisfatto o pensieroso per ciò che avevano appena detto i suoi figli. Si umettò il labbro inferiore e distolse lo sguardo dalla mia figura.

    «Bambini, credo che sia meglio che andiate a prepararvi con Blanket e Grace, io vi raggiungo dopo. Se mai non mi vedeste arrivare, iniziate pure senza di me». Accarezzò loro la testa. «Io parlo un momento con la signorina Sarah», mi puntò imperscrutabilmente.

    «Ok, papà...»

    I due si diressero quieti quieti verso la sala da pranzo, non prima di avermi dato un bacino sulle guance.

    Nel momento in cui scomparvero dalla visuale stavo già osservando Michael. Neanche lui ci mise tanto a ricambiare. Chinò il mento portandosi il pollice e l'indice sulla fossetta del mento, sfiorandola con lentezza. Mentre io mi lisciavo le pieghe del maglione con cura, egli ripose le mani nelle tasche dei pantaloni neri.

    «Ti dispiacerebbe seguirmi in ufficio?».

    Aveva due occhi scuri e luminosi.

    Acconsentii.

    Salimmo le scale del primo piano senza emettere una parola; arrivati alla porta mi fece entrare per prima e accomodare sulla stessa sedia in velluto della volta precedente. Quando fummo uno di fronte all'altro calò un silenzio quasi insopportabile.

    Aspettai a braccia conserte.

    Si bagnò le labbra puntando i gomiti sulla scrivania. Con una delicatezza innata intrecciò le dite delle mani e notai, per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, che le unghie erano molto più scure rispetto al suo colore di pelle bianco pallido, spennellata qua e là da minuscole macchie di quella malattia di nome vitiligine.

    Contemplò ogni mio lineamento.

    «Sei ancora decisa a non trasferirti?», chiese con voce morbida e profonda.

    Annuii. «Penso che sia ancora troppo presto. Vorrei avere la tua piena fiducia prima di fare un passo del genere».

    Michael alzò un sopracciglio, meravigliato.

    Arrossi istantaneamente e mi morsi l'interno guancia con forza, sviando l'attenzione sulla statuetta di Buzz Lightyear.

    Lo udii scoccare la lingua al palato.

    «Mi dispiace...»

    Corrugai la fronte. «Cosa?»

    Teneva gli occhi sulle sue mani con fare apparentemente assente.

    «Mi dispiace», sussurrò fissandomi, «di non essermi fatto sentire per tutti questi giorni».

    Colpita e affondata.

    «Oh, non fa niente, davvero», arrossii pur esibendo un finto atteggiamento disinteressato.

    Mi sentivo una bugiarda. Pur avendo la mia completa comprensione, sapevo di averla presa troppo sul personale. Michael non mi doveva assolutamente niente.

    «Però ti ho ferito».

    «Non mi hai ferito».

    «Ma ti ho fatto rimanere male».

    Aprii la bocca per parlare, ma non seppi cosa dire.

    Era il più ostinato e caparbio personaggio che avessi mai conosciuto in vita mia. Il più tenace ma anche il più intuitivo... non mollava la presa, non demordeva fin quando non gli dicevo che aveva ragione. E ce l'aveva eccome.

    Sorrise amaramente. Si accigliò e si lasciò cadere sullo schienale della poltrona, guidando le mani ancora legate proprio sopra la pancia.

    «Non ho scuse per il mio comportamento. Dico seriamente, quella notte sei stata straordinaria. Il giorno dopo mi sono messo subito al lavoro come mi hai consigliato. Sono andato alla ricerca degli avvocati migliori. Voglio trovare una figura che possa difendermi con professionalità e bravura mai vista prima.

    Mi dispiace se hai pensato male, in realtà non volevo disturbarti più di quanto non abbia già fatto. Ho aspettato anche per vedere se tu mi avresti cercato, in realtà», si passò la lingua sulle labbra con aria autoritaria.

    Ebbi un lieve tumulto nel petto.

    «Direi che entrambi abbiamo bisogno di una spinta allora!», borbottai ridacchiando. Mi fissò sorpreso. Tutta la tensione che avevo provato fino a quel momento si sciolse come un ghiacciolo al Sole. «L'importante è che la crisi sia passata».

    Mi puntò a lungo, senza rispondere, ed io non chinai la testa. Si sfregò le mani probabilmente alla ricerca di qualche altra scusa da darmi, ma capendo il suo stato di sincero dispiacere lo tranquillizzai con un'occhiata benevola.

    «È vero, ammetto che ci sono rimasta male. Mi è dispiaciuto molto, pensavo e penso ancora di non aver fatto abbastanza. È normale parlare con qualcuno e non riuscire a sentirsi capiti, vuol dire che non è la persona giusta per noi. Quindi ho pensato che fosse per quello», mi strinsi nelle spalle frattanto che Jackson mi scrutava sempre più sorpreso. «Non è tenuto a raccontarmi ogni cosa e a sentirsi in colpa per questo. E io, a mia volta, dovrei essere più trasparente e meno egocentrica».

    «Tu non sei egocentrica», ribatté.

    «Non mi conosci abbastanza, no?», un'estremità della bocca si alzò in un debole cenno d'intesa.

    Mi esaminò profondamente incupito.

    «Per me non sei egoista, almeno per ora. E ti lasci scoprire con facilità. Il tuo viso ne è una prova».

    Arrossii. «E io che per anni ho creduto il contrario!», sogghignai ammirando il caminetto acceso con imbarazzo.

    Michael annuì delicatamente. Soppesò le mie parole.

    «Vorrei che ti trasferissi qui a Neverland, con me e i miei figli».

    Lo guardai basita. Attendeva una mia risposta immobile come una statua. La voce autorevole e composta, però, veniva ingannata da due pietre stracolme di curiosità.

    «Mi fido di te, anche se so che ci vorrebbe molto più tempo per conoscerti e valutarti. I miei figli si stanno affezionando, piaci molto a tutti. Credo che sarebbero felici di avere una persona così buona e ben disposta alla loro compagnia. Sempre che a te non dispiaccia...»

    «Oh no, lo giuro!». Mi zittii vergognandomi del mio entusiasmo esagerato, vedendolo sorridere per la mia enfasi incontenibile. Presi fiato. «Ci devo pensare su. Anche se non credo di poter dire di no...».

    Michael sogghignò a fronte bassa. Dopodiché mi scrutò con una punta di divertimento. «Grazie».

    Increspai le labbra in una smorfia ingenuamente riconoscente.

    Feci dondolare il piede della gamba accavallata ammirandomi le scarpe. Andai avanti così per un po', fino a quando non mi richiamò con un bisbiglio.

    «Sarah...»

    «Mmh?».

    «Cosa ne pensi di Dio?»

    Increspai le sopracciglia. «Eh?»

    «Credi in Dio? Cioè...», deviò lo sguardo verso il basso e poi verso destra, serrando le labbra e bagnandosele successivamente. Sospirò. «Com'è Dio per te? Chi è?»

    L'osservai spaesata. Di certo non mi sarei immaginata una domanda del genere, di punto in bianco e senza il benché minimo preavviso. Era un argomento piuttosto difficile da trattare, ma credetti di aver capito il perché.

    Esibii una smorfia pensosa. Michael non distolse gli occhi dai miei nemmeno quando sorrisi leggermente e mi prestai a dire:

    «La mia opinione su Dio... è... particolare. C'è stato un libro, che lessi ancora quando ero adolescente, che rappresenta la mia opinione su di lui. O su di lei, qualunque cosa si voglia credere. Per me Dio è un'energia. Non ha la forma di una persona, non è neanche un'entità suprema di qualche tipo. La gente può dipingerlo come un vecchio dalla pelle bianca, capelli bianchi e tutto il resto, ma non deve essere per forza una verità universale. Per me Dio non ha forme. Vive negli alberi, nel vento. È un energia che sta dentro di noi e ovunque.

    Come dice un personaggio importante di questo libro, Dio vuole soltanto essere amato e far sentire a noi l'amore. Ci sono persone che smettono di avere fede perché dicono: "Che cosa ha fatto Lui, per la gente e per me?". Il nostro problema è che gli diamo le colpe per qualsiasi cosa, soprattutto quando succedono cose brutte. È la natura umana. Ma non è Dio il cattivo, è la vita che è cattiva. La vita accade, semplicemente. Non penso che qualcuno si diverta – da lassù o da dove si voglia credere che sia – a vederci stare male o bene. "I peccatori si divertono più degli altri perché non si preoccupano sempre di Dio", che non sono altro se non coloro che si divertono e vivono la loro vita per quella che è. "Se ci sentiamo amati da Dio, facciamo del nostro meglio per farlo contento con le cose che ci piacciono". Dio ci ama anche se non siamo mai andati in chiesa. Dio ama se fai le cose con il cuore, perché lui stesso dovrebbe rappresentare quell'energia. "Dio si arrabbia solo se passiamo davanti a qualcosa creato da lui apposta per noi senza ammirarlo, come ad esempio un campo colorato da..."»

    «Il colore viola...», sussurrò con lo sguardo perso nel vuoto.

    «Sì!», m'illuminai sorridendo.

    Smisi di gesticolare e parlare ininterrottamente. Michael, d'altro canto, non riuscii a non fissare qualcosa che non fosse la scrivania.

    Lasciai cadere la schiena sulla poltrona con un abbozzo di sorriso. «Io non credo che sia Dio a governare le nostre vite e l'andamento di questo pazzo mondo...».

    Il silenzio regnò sovrano. Michael mi squadrò per un lungo istante ed io feci lo stesso. Poco dopo inclinò lo sguardo, si piegò verso un cassetto della scrivania, lo aprì e ne tirò fuori un fazzoletto di seta. Si asciugò gli occhi. Non si soffiò nemmeno il naso. Lo puntai tra lo stupito e il rattristato, intuendo che si fosse commosso.

    Ripose il panno in una tasca dei pantaloni.

    «Scusa», la voce era leggermente incrinata. «Trovo affascinante conoscere le opinioni altrui riguardo un concetto così vasto e incognito». Evitò di andare dritto al punto sperando che fossi io a tirar fuori l'argomento. «Si vede che sei molto devota al tuo concetto di "Dio"».

    Distesi la fronte. «Diciamo che gli voglio bene per quello che penso che sia», sorrisi.

    Michael pitturò la dolcezza nei suoi tratti marcati. «Il tuo sembra un credo davvero stupendo».

    Arrossii ancora.

    Mi puntai le ginocchia. Analizzai le scarpe nere con un filo di tacco, le rifiniture del legno, il piacevole tepore che invadeva la stanza, non facendo caso al silenzio che ci cingeva in un abbraccio disumano.

    «Pensi che io meriti di conoscere la tua personalità?».

    M'osservò senza palesare emozione.

    Spalancai di poco la bocca, senza ribattere.

    «Perché ti fidi di me?», si chinò con i gomiti sulla scrivania.

    «Perché non ti vedo cattivo».

    Lo sussurrai con ingenua sincerità. Mi fissò.

    «Pensi che io non sia cattivo?»

    Continuai ad arrossire sempre di più.

    «No».

    «Perché?»

    Guardai le sue mani; i polpastrelli tamburellavano nervosamente contro il legno freddo. Rilassai i lineamenti del viso e respirai a fondo, prendendomi tutto il tempo che necessitavo per rispondere.

    «Perché i tuoi occhi non diventano tristi per nulla. Vedo il tuo sguardo farsi vacuo, soprattutto quando i tuoi figli non sono lì a guardarti. Non perché non possiedi un'anima, ma perché c'è una sofferenza quasi tagliente che ti perseguita. Si vede... e solo una persona veramente buona può avere dentro tutta questa... angoscia», mossi le mani in aria. «Una persona cattiva o ipocrita non si fa tutti questi esami di coscienza, mi spiego? Non ci sta così male. La tua non è una scenata, senti davvero questo malessere. E poi perché dovresti fingerlo con me? Non sono un giornalista o una giuria. Sono soltanto un'insegnante».

    Si tirò indietro piegando la testa verso destra, ammirando la libreria e torturandosi le labbra con la lingua. Le due ossidiane che aveva al posto degli occhi brillarono; ma non di gioia, bensì di lacrime.

    Ingoiò la saliva rumorosamente e mi guardò smarrito. Il cuore si spezzò nel attimo in cui mi perforò l'anima con tutta la sua rassegnazione.

    «Come fai a vedere tutto questo?», domandò con tono quasi pregante.

    Non sapevo se il fatto che potessi capirlo così facilmente lo infastidisse o lo consolasse, oppure se silenziosamente pregava affinché gli indicassi una via di fuga da se stesso.

    Serrò le palpebre corrugando la fronte.

    «Vuoi dirmi cosa ti fa star male?», mormorai dolcemente.

    «Io, non...»

    Gli occhi rimasero ancora chiusi.

    Il volto si contrasse in un cipiglio agonizzante. Si portò le mani sulla faccia e si chinò lentamente sulle ginocchia.

    Non gridò. Non scoppiò rumorosamente. Non esalò neppure un gemito. Anche se era chiaro che stesse piangendo, Michael non si mosse nemmeno di un centimetro.

    Le mie gambe si irrigidirono e tutti i muscoli del corpo si tesero. Ben presto mi trovai sollevata dalla sedia. Mi posi al suo fianco con passi inudibili, indecisa se accarezzargli o meno la schiena – almeno per dargli un senso di confronto.

    «Non ho speranze, Sarah...», biascicò con le dita che lo nascondevano dal mio sguardo. «Ci provo ma fa male... è tutto così difficile, non riesco a dare una svolta alla mia vita. Ogni tanto vorrei solo scomparire... non sentire più nulla... vivere senza questo peso che non mi permette di essere mai veramente felice».

    Appoggiai il peso sulle ginocchia e mi piegai a terra. Gli massaggiai la schiena con pressioni leggere. I polpastrelli lasciarono la presa sugli occhi annebbiati dal pianto, ammirando il nulla con espressione vitrea: la pelle era completamente bagnata da gocce salate, la vista offuscata da un velo di lucida disperazione.

    «Sono i miei figli che mi permettono di restare vivo. Non ho controllo della mia vita, non ho un attimo di pace, vado avanti a tentoni... non ho mai avuto nessuno che potesse aiutarmi a capire cosa dovessi fare della mia esistenza nel modo più saggio. Mi fido sempre e soltanto delle persone sbagliate...».

    Gesticolò per tutto il tempo, piangendo senza il minimo spasmo. Ogni volta che una lacrima scivolava lungo la sua guancia mi affrettavo a raccoglierla: le dita tremavano mentre cercavo di essere più delicata possibile per l'ingiustificato timore di fargli male. Mi sembrava di avere a che fare con una bambola di ceramica.

    «Si fiderà di te chi ha cercato di capirti davvero, senza nessun pregiudizio o remore. Vedrai che qualcuno ci sarà, che la tua innocenza verrà comprovata. Lo so che è difficile, ma hai già fatto un passo avanti! Non vedi? Hai cercato gli avvocati per il processo e questo è già un primo traguardo! Dovresti essere contento, sei riuscito a fare qualcosa per te... so che non è molto, ma è molto più consistente del nulla. Vedrai che troverai chi ti saprà difendere a dovere e non dovrai fare tutto da solo. Oh sì che lo farà, spaccherà il culo al procuratore e a tutti coloro che si metteranno contro».

    Anche se con gli occhi umidi di paura riuscì a sorridere. «Non dire quelle parole, Sarah...»

    «Che parole?», ammisi scioccata. Arrossii. «Be', non importa! Quando ci vogliono, ci vogliono, no? E se vuoi te lo ripeto: spaccherete il culo!».

    Rise come un bambino, nascondendosi il viso fra i palmi.

    Sorrisi. «Sono felice che tu abbia fatto qualcosa per te. E dovresti esserlo anche tu. Non sei solo, lo sai. È solo la paura che ti fa sentire così...». Il mio sguardo s'allontanò dalle sue iridi nere e improvvisamente attente. «Sei coraggioso, perché ci sono persone che si lascerebbero morire nonostante la presenza di figli accanto. Ma questo non è il tuo momento di andartene».

    Lo scorsi rabbrividire. Riprese il fazzoletto dalla tasca e si asciugò il viso. Mi sollevai in piedi e indietreggiai incrociando le braccia dietro la schiena.

    «Ti credo...»

    «Hai qualcosa per cui vale la pena vivere, Michael. Non sei perduto fino a quando non perdi questo "qualcosa". E non lo perderai mai. I tuoi figli aspettano soltanto che il padre si faccia valere, così un giorno urleranno al mondo quanto sono orgogliosi di lui, più di quanto non facciano già adesso. Ti vorranno bene per sempre. Sei il loro supereroe preferito».

    Michael lasciò cadere un'ultima lacrima dai suoi occhi profondi.

    «Grazie. Davvero, grazie...», mi puntò intensamente.

    Feci spallucce. «Non faccio nulla di che», mugugnai. «Penso che tu, come ogni persona buona, meriti un sostegno».

    Michael si alzò con lentezza, lisciandosi la camicia e osservando il parquet distrattamente. Mi scrutò con amabilità disarmante, con due labbra incurvate all'insù tipiche di un ragazzino sconsolato. Le sue spalle ampie si alzarono quando i polmoni si riempirono di ossigeno.

    «Posso abbracciarti?»

    Gli sorrisi maggiormente. «Certo che puoi!».

    Spalancai le braccia ma la sua stretta arrivò prima che potessi prepararmi. Colsi un'essenza profumata a cui prima non avevo fatto minimamente caso: sandalo. Quella nota speziata ed esotica, mista all'essenza del borotalco, fu in grado di annebbiare le facoltà motorie per un istante.

    Mi cinse con forza ed io lo sentii inspirare. Gli enormi palmi mi avvolgevano perfettamente la schiena.

    Arrossii con un'espressione di beatitudine che si fondeva con l'amarezza, mentre permettevo alla spina dorsale di tremare di fronte a un contatto così dolce quanto strano. I miei occhi si inumidirono, il naso pizzicò.

    Quando si separò dal mio petto, teneramente, Michael mi guardava ancora. Da vicino il suo sguardo riusciva a intimidirmi più di quanto non facesse già a distanza. Notai le sue mascelle leggermente squadrate, il mento marcato, le sopracciglia perfette e soprattutto gli occhi, profondi come l'obbiettivo di una macchina fotografica che punta il soggetto fin troppo nitidamente.

    Rispetto al primo incontro avevo cambiato idea su di lui. Sapeva essere un uomo affascinante.

    Arrossii curvando le iridi in un'altra direzione, verso la finestra a muro alla mia sinistra.

    Lui ridacchiò. «Ti ho imbarazzato?»

    «Un po'», sorrisi spontaneamente e Jackson fece lo stesso, concentrato solo su di me. «Tutta questa vicinanza mi ricorda tanto un tentativo di flirt», proruppi con incurante schiettezza.

    Michael mi ignorò chinandosi sulla mia guancia destra. La baciò delicatamente e sussurrò: «Potresti anche avere ragione. Ma per il momento è meglio rimanere solo buoni amici, che ne dici?»

    Rabbrividii da capo a piedi. Il cuore si fermò nello stesso istante in cui la sua voce mi penetrò l'udito. Lo fissai nell'immediato e con le palpebre sbarrate dallo shock.

    Cosa?

    «Allora? Che ne pensi?».

    Mi mancò la capacità di formulare una frase di senso compiuto. Solo quando sollevò entrambe le sopracciglia, come a volermi chiedere "Allora? Che mi rispondi?", mi ridestai dal mio stato quasi catatonico.

    «Oh... sì, nessun dubbio».

    In realtà non capivo a cosa si stesse riferendo, se al trasferimento o al rimanere solo buoni amici. Perciò borbottai in tono divertente, lasciando la sua presa attorno al mio corpo ed indietreggiando di un passo.

    Sogghignò fra sé e sé, leccandosi il labbro inferiore e ponendo le nocche sui fianchi.

    «Ora è meglio andare, altrimenti non riuscirai a sistemare le tue...»

    Lasciò la frase a mezz'aria e incompiuta. Gli lanciai quel mezzo sorriso di chi aveva già capito dove volesse andare a parare. Aveva un cipiglio così apparentemente tranquillo da renderlo una faccia tosta.

    «Per il trasferimento ci vorrà un po' di tempo. Sia per disdire il contratto d'affitto, sia per tutti i bagagli da rifare e la ditta del trasloco da contattare», dissi accigliandomi e torturandomi i polpastrelli con insistenza.

    «Oh, non ti preoccupare. Farò mandare alcuni dei miei dipendenti per i bagagli. E per qualsiasi altro problema con il tuo contratto d'affitto posso sicuramente darti una mano», disse. Sorrideva così tanto che ebbi la tentazione di girarmi dall'altra parte, per evitare di rimanere abbagliata dalla luce che emanava quella gioia a dir poco folgorante.

    «Be'...», lo studiai di soppiatto. «Grazie... sorriso ultra-bright».

    Michael issò un sopracciglio rispetto a un altro. Schiuse la bocca per la meraviglia e un secondo più tardi esplose in una sonora e pazza risata, congiungendo le mani davanti alla bocca. Nell'attimo in cui gli spasmi terminarono mi squadrò con fare malizioso e la lingua che scivolava continuamente sulle labbra.

    «Che cosa? "Sorriso ultra-bright"?», sorrise.

    «Certo», arrossii ma senza mostrare insicurezza. «Perché hai un sorriso che illumina perfino il Sole», alzai le spalle.

    Le iridi erano luccicanti. Sghignazzò imbarazzato con le nocche pinzate sui fianchi.

    «A me piace dare nomignoli simpatici alla gente a cui voglio bene, non dovrai mai dimenticarlo! Se questo non ti piace ne posso trovare di più originali», incrociai le braccia al petto.

    «Oh, be', per me questo è stupendo», fece spallucce e mi puntò allegramente.

    Guardò in basso e si avvicinò alla mia fronte con una sola falcata: mi diede un bacio sulla tempia destra e il fiato incespicò su se stesso.

    «Scusa se non ti accompagno al parcheggio, i miei figli hanno bisogno di me questa sera».

    «Oh sì, scusa!», dissi balzando sul posto. «Scusa, vado subito! Arrivederci!», e così feci retrofronte per accorrere alla porta, pronta a scendere per recuperare borsa a tracolla e valigetta da insegnante.

    Mi sentii afferrare per un braccio.

    Mi voltai.

    Mi scrutava con una severità mozzafiato.

    «Ti voglio bene, ricordalo».

    Poi un angolo della bocca si piegò all'insù. Con un dito mi punzecchiò la guancia e, sghignazzando a voce roca, osservò il colore delle gote cambiare da un bel rosato ad un rosso perfettamente acceso.

    Si divertiva parecchio a imbarazzarmi.

    «Sì, be', anche io...», bofonchiai senza dirgli un "Ti voglio bene" diretto.

    Non ero brava a dire alle persone quanto le amavo - non ero abituata a quelle manifestazioni di affetto così esplicite - ma con lui pensavo che prima o poi ci avrei fatto l'abitudine. Sotto quell'aspetto sembrava tutto il contrario della sottoscritta.

    Dette un secondo buffetto affettuoso alla guancia e mi lasciò uscire. Lo salutai rapidamente, dirigendomi impettita verso il piano inferiore. In un batter d'occhio – senza nemmeno accorgermi – mi ritrovai sul viale in direzione del parcheggio, e successivamente in macchina, destinazione "casa". Le situazioni che avevo vissuto fino a pochi momenti prima erano come flash di luce che a scatti mi accecavano la vista.

    Pensavo al futuro, alla voglia di rifare nuovamente i bagagli e di trasferirmi all'Isola che non c'è una volta per tutte.



    Edited by fallagain - 31/12/2020, 16:20
  13. .
    Capitolo Nove: La Chiamata

    Ero a bocca aperta.

    Ormai si è capito quanto fossi facilmente propensa ad arrossire, anche per la minima cosa. Guarda caso con Michael ero una figuraccia continua. Più le mie guance si coloravano di rosso, più il suo sorriso si faceva ampio e disarmante.

    Avrei tanto voluto sparire dalla faccia della Terra.

    Lui – non chiedetemi perché proprio lui – mi faceva sentire molto più maldestra rispetto a qualsiasi altra persona che avessi mai conosciuto; nel senso che mi faceva imbarazzare con un nonnulla! Se Michael mi osservava, arrossivo; se Michael rideva per qualcosa che dicevo o facevo, arrossivo. Dopotutto era una persona di un certo calibro e riguardo, pensai fosse quella la ragione.

    Vederlo riapparire così mi fece dimenticare tutto quello che era successo dopo la telefonata.

    Ero arrivata alla conclusione di essere un po' irragionevolmente arrabbiata con lui; in realtà non ero soltanto preoccupata per la sua salute, ma anche triste perché non si era più fatto sentire. Temevo che non gli importasse più tanto della mia presenza, visto che avevo svolto e finito il mio lavoro da "consulente". Era un pensiero stupido, egocentrico a dir poco, ma non riuscivo a evitarlo.

    I bambini – grazie a Dio – trovarono il modo di sciogliere quell'intreccio di sguardi tra me e il padre correndogli incontro, includendolo nei loro innocenti discorsi. La mia attenzione ritornò alla televisione nel tentativo di dimenticare la figuraccia appena fatta.

    Respirai a fondo.

    Bastava non guardarlo negli occhi e tutto tornava come prima.

    Più o meno.

    Michael dette un bacio ai figli e si avviò verso il divano tenendoli per mano. Mi adocchiò con occhi vivaci e curiosi. Lo ignorai.

    «Posso unirmi anche io? Sempre che alla signorina Sarah non disturbi la mia presenza...», disse passandomi davanti e assumendo un'aria di chi la sapeva lunga.

    Dissentii col capo come risposta alla sua domanda. Prince e Paris lo fecero accomodare e gli si accalcarono sopra. Mi lasciai scivolare pian pianino verso un angolo estremo del sofà, ancora tiepida in volto.

    Malgrado ciò... qualcosa non andava. Non sapevo bene cosa, ma d'istinto credetti che dovesse essere accaduto un non so che a Michael: il suo volto era un incavato dai segni della stanchezza, lo sguardo esitante.

    E c'era un altro problema, che però riguardava me stessa. Sentivo che averlo lì, accanto, mi rendeva tesa.

    Doveva rimanere il mio datore di lavoro, mi dicevo, non un amico. Anche se mi diceva "Ti voglio bene", anche se io ero disposta a stargli vicino e a chiamarlo "Michael".

    Dovevo tenermi lontana e basta.

    *

    «Papààà...». Paris scese dal divano e si pose dinanzi al padre, appoggiando le piccole manine sulle sue ginocchia. S'imbronciò. «Andiamo a mangiare? Ho fame...»

    Il film era finito da qualche istante, permettendo ai titoli di coda di darci la forza per sollevarci dall'enorme divano cremino e andare a cenare una volta per tutte. Erano le sei e mezza, sebbene tutti quanti lo nascondessero bene – tutti tranne Paris – l'appetito non mancava.

    L'ansia per l'inaspettato arrivo di Michael si sciolse a causa di Prince: vedendomi ridere per le battute del film si era avvicinato alla sottoscritta per adagiare la testolina bionda sulla mia spalla. Ricordo ancora l'espressione che Jackson mi regalò: mi puntava orgoglioso, mentre io sorridevo come una bimba per il film.

    Michael annuì donandole un tenero buffetto sulla guancia, portandola a inclinare il capo tutto da una parte per la tenerezza. Il padre s'issò in piedi e si avvicinò al registratore, estraendo la cassetta solo nel momento in cui il nastro fu completamente tornato indietro. Nel mentre i bimbi mi accerchiarono con visibile allegria, imitando le scene più belle.

    «E... e... ti è piaciuta la scena dove l'orso balla? Con le cuffie e la musica nelle orecchie?» esclamò Prince con enfasi, riferendosi a Big Foot.

    Mentre Paris si affrettava a raccontarmi un'altra scena divertente, il mio sguardo ricadde (per l'ennesima volta) su Michael, il quale silenziosamente mi scrutava con un sorriso divertito ma attento. Aveva quel cipiglio indefinibile che non riuscivo a capire cosa potesse significare.

    C'era una cosa che io e Michael avevamo in comune: entrambi amavamo osservare. Analizzavamo le azioni del mondo come se ci stessimo godendo una pellicola cinematografica, studiandone le espressioni e i movimenti. Non giudicavamo in malo modo, piuttosto amavamo scoprire in silenzio. Desideravamo entrare in contatto con l'anima altrui nel modo più intimo possibile.

    Tutti e due preferivamo agire indisturbati e un certo "feeling" reciproco impediva a uno di esaminare l'altro senza che questo lo percepisse. Anche se decisamente affascinata dalla sua personalità e dal suo carisma, ero sicura che quella sensazione non fosse derivata dalla sua fama.

    Era bello che condividessimo quella particolare qualità, se così si poteva definire. Ero sicura che fosse arrivato a quella considerazione anche lui.

    Mi alzai dal divano stiracchiandomi. «Credo sia meglio che me ne torni a casa».

    I piccoli mi scrutarono tradendo una nota di delusione.

    «Puoi restare se vuoi...».

    Michael mi adocchiò con fare incerto ed io finsi di non rimanerne colpita. Fu sul punto di emetter parola, ma si trattenne lambendosi la bocca.

    «No, grazie», dissentii tra la felicità e il dispiacere. «È meglio che vada, altrimenti qua prendo un brutto vizio...».

    «Non ami stare con noi?», Prince si rabbuiò.

    Ci risiamo.

    «Certo che no!». Mi chinai in avanti per scompigliargli i capelli biondi provocandogli una leggera risata. «Io sto davvero bene con voi!»

    «E allora perché non vieni ad abitare qui?».

    «Vieni a vivere qua, signorina Sarah...», Paris mi tirò per una manica del maglioncino verde ottanio.

    Fissai Michael smarrita. Quest'ultimo ricambiò ma non fui in grado di capire se fosse soddisfatto o pensieroso per ciò che avevano appena detto i suoi figli. Si umettò il labbro inferiore e distolse lo sguardo dalla mia figura.

    «Bambini, credo che sia meglio che andiate a prepararvi con Blanket e Grace, io vi raggiungo dopo. Se mai non mi vedeste arrivare, iniziate pure senza di me». Accarezzò loro la testa. «Io parlo un momento con la signorina Sarah», mi puntò imperscrutabilmente.

    «Ok, papà...»

    I due si diressero quieti quieti verso la sala da pranzo, non prima di avermi dato un bacino sulle guance.

    Nel momento in cui scomparvero dalla visuale stavo già osservando Michael. Neanche lui ci mise tanto a ricambiare. Chinò il mento portandosi il pollice e l'indice sulla fossetta del mento, sfiorandola con lentezza. Mentre io mi lisciavo le pieghe del maglione con cura, egli ripose le mani nelle tasche dei pantaloni neri.

    «Ti dispiacerebbe seguirmi in ufficio?».

    Aveva due occhi scuri e luminosi.

    Acconsentii.

    Salimmo le scale del primo piano senza emettere una parola; arrivati alla porta mi fece entrare per prima e accomodare sulla stessa sedia in velluto della volta precedente. Quando fummo uno di fronte all'altro calò un silenzio quasi insopportabile.

    Aspettai a braccia conserte.

    Si bagnò le labbra puntando i gomiti sulla scrivania. Con una delicatezza innata intrecciò le dite delle mani e notai, per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, che le unghie erano molto più scure rispetto al suo colore di pelle bianco pallido, spennellata qua e là da minuscole macchie di quella malattia di nome vitiligine.

    Contemplò ogni mio lineamento.

    «Sei ancora decisa a non trasferirti?», chiese con voce morbida e profonda.

    Annuii. «Penso che sia ancora troppo presto. Vorrei avere la tua piena fiducia prima di fare un passo del genere».

    Michael alzò un sopracciglio, meravigliato.

    Arrossi istantaneamente e mi morsi l'interno guancia con forza, sviando l'attenzione sulla statuetta di Buzz Lightyear.

    Lo udii scoccare la lingua al palato.

    «Mi dispiace...»

    Corrugai la fronte. «Cosa?»

    Teneva gli occhi sulle sue mani con fare apparentemente assente.

    «Mi dispiace», sussurrò fissandomi, «di non essermi fatto sentire per tutti questi giorni».

    Colpita e affondata.

    «Oh, non fa niente, davvero», arrossii pur esibendo un finto atteggiamento disinteressato.

    Mi sentivo una bugiarda. Pur avendo la mia completa comprensione, sapevo di averla presa troppo sul personale. Michael non mi doveva assolutamente niente.

    «Però ti ho ferito».

    «Non mi hai ferito».

    «Ma ti ho fatto rimanere male».

    Aprii la bocca per parlare, ma non seppi cosa dire.

    Era il più ostinato e caparbio personaggio che avessi mai conosciuto in vita mia. Il più tenace ma anche il più intuitivo... non mollava la presa, non demordeva fin quando non gli dicevo che aveva ragione. E ce l'aveva eccome.

    Sorrise amaramente. Si accigliò e si lasciò cadere sullo schienale della poltrona, guidando le mani ancora legate proprio sopra la pancia.

    «Non ho scuse per il mio comportamento. Dico seriamente, quella notte sei stata straordinaria. Il giorno dopo mi sono messo subito al lavoro come mi hai consigliato. Sono andato alla ricerca degli avvocati migliori. Voglio trovare una figura che possa difendermi con professionalità e bravura mai vista prima.

    Mi dispiace se hai pensato male, in realtà non volevo disturbarti più di quanto non abbia già fatto. Ho aspettato anche per vedere se tu mi avresti cercato, in realtà», si passò la lingua sulle labbra con aria autoritaria.

    Ebbi un lieve tumulto nel petto.

    «Direi che entrambi abbiamo bisogno di una spinta allora!», borbottai ridacchiando. Mi fissò sorpreso. Tutta la tensione che avevo provato fino a quel momento si sciolse come un ghiacciolo al Sole. «L'importante è che la crisi sia passata».

    Mi puntò a lungo, senza rispondere, ed io non chinai la testa. Si sfregò le mani probabilmente alla ricerca di qualche altra scusa da darmi, ma capendo il suo stato di sincero dispiacere lo tranquillizzai con un'occhiata benevola.

    «È vero, ammetto che ci sono rimasta male. Mi è dispiaciuto molto, pensavo e penso ancora di non aver fatto abbastanza. È normale parlare con qualcuno e non riuscire a sentirsi capiti, vuol dire che non è la persona giusta per noi. Quindi ho pensato che fosse per quello», mi strinsi nelle spalle frattanto che Jackson mi scrutava sempre più sorpreso. «Non è tenuto a raccontarmi ogni cosa e a sentirsi in colpa per questo. E io, a mia volta, dovrei essere più trasparente e meno egocentrica».

    «Tu non sei egocentrica», ribatté.

    «Non mi conosci abbastanza, no?», un'estremità della bocca si alzò in un debole cenno d'intesa.

    Mi esaminò profondamente incupito.

    «Per me non sei egoista, almeno per ora. E ti lasci scoprire con facilità. Il tuo viso ne è una prova».

    Arrossii. «E io che per anni ho creduto il contrario!», sogghignai ammirando il caminetto acceso con imbarazzo.

    Michael annuì delicatamente. Soppesò le mie parole.

    «Vorrei che ti trasferissi qui a Neverland, con me e i miei figli».

    Lo guardai basita. Attendeva una mia risposta immobile come una statua. La voce autorevole e composta, però, veniva ingannata da due pietre stracolme di curiosità.

    «Mi fido di te, anche se so che ci vorrebbe molto più tempo per conoscerti e valutarti. I miei figli si stanno affezionando, piaci molto a tutti. Credo che sarebbero felici di avere una persona così buona e ben disposta alla loro compagnia. Sempre che a te non dispiaccia...»

    «Oh no, lo giuro!». Mi zittii vergognandomi del mio entusiasmo esagerato, vedendolo sorridere per la mia enfasi incontenibile. Presi fiato. «Ci devo pensare su. Anche se non credo di poter dire di no...».

    Michael sogghignò a fronte bassa. Dopodiché mi scrutò con una punta di divertimento. «Grazie».

    Increspai le labbra in una smorfia ingenuamente riconoscente.

    Feci dondolare il piede della gamba accavallata ammirandomi le scarpe. Andai avanti così per un po', fino a quando non mi richiamò con un bisbiglio.

    «Sarah...»

    «Mmh?».

    «Cosa ne pensi di Dio?»

    Increspai le sopracciglia. «Eh?»

    «Credi in Dio? Cioè...», deviò lo sguardo verso il basso e poi verso destra, serrando le labbra e bagnandosele successivamente. Sospirò. «Com'è Dio per te? Chi è?»

    L'osservai spaesata. Di certo non mi sarei immaginata una domanda del genere, di punto in bianco e senza il benché minimo preavviso. Era un argomento piuttosto difficile da trattare, ma credetti di aver capito il perché.

    Esibii una smorfia pensosa. Michael non distolse gli occhi dai miei nemmeno quando sorrisi leggermente e mi prestai a dire:

    «La mia opinione su Dio... è... particolare. C'è stato un libro, che lessi ancora quando ero adolescente, che rappresenta la mia opinione su di lui. O su di lei, qualunque cosa si voglia credere. Per me Dio è un'energia. Non ha la forma di una persona, non è neanche un'entità suprema di qualche tipo. La gente può dipingerlo come un vecchio dalla pelle bianca, capelli bianchi e tutto il resto, ma non deve essere per forza una verità universale. Per me Dio non ha forme. Vive negli alberi, nel vento. È un energia che sta dentro di noi e ovunque.

    Come dice un personaggio importante di questo libro, Dio vuole soltanto essere amato e far sentire a noi l'amore. Ci sono persone che smettono di avere fede perché dicono: "Che cosa ha fatto Lui, per la gente e per me?". Il nostro problema è che gli diamo le colpe per qualsiasi cosa, soprattutto quando succedono cose brutte. È la natura umana. Ma non è Dio il cattivo, è la vita che è cattiva. La vita accade, semplicemente. Non penso che qualcuno si diverta – da lassù o da dove si voglia credere che sia – a vederci stare male o bene. "I peccatori si divertono più degli altri perché non si preoccupano sempre di Dio", che non sono altro se non coloro che si divertono e vivono la loro vita per quella che è. "Se ci sentiamo amati da Dio, facciamo del nostro meglio per farlo contento con le cose che ci piacciono". Dio ci ama anche se non siamo mai andati in chiesa. Dio ama se fai le cose con il cuore, perché lui stesso dovrebbe rappresentare quell'energia. "Dio si arrabbia solo se passiamo davanti a qualcosa creato da lui apposta per noi senza ammirarlo, come ad esempio un campo colorato da..."»

    «Il colore viola...», sussurrò con lo sguardo perso nel vuoto.

    «Sì!», m'illuminai sorridendo.

    Smisi di gesticolare e parlare ininterrottamente. Michael, d'altro canto, non riuscii a non fissare qualcosa che non fosse la scrivania.

    Lasciai cadere la schiena sulla poltrona con un abbozzo di sorriso. «Io non credo che sia Dio a governare le nostre vite e l'andamento di questo pazzo mondo...».

    Il silenzio regnò sovrano. Michael mi squadrò per un lungo istante ed io feci lo stesso. Poco dopo inclinò lo sguardo, si piegò verso un cassetto della scrivania, lo aprì e ne tirò fuori un fazzoletto di seta. Si asciugò gli occhi. Non si soffiò nemmeno il naso. Lo puntai tra lo stupito e il rattristato, intuendo che si fosse commosso.

    Ripose il panno in una tasca dei pantaloni.

    «Scusa», la voce era leggermente incrinata. «Trovo affascinante conoscere le opinioni altrui riguardo un concetto così vasto e incognito». Evitò di andare dritto al punto sperando che fossi io a tirar fuori l'argomento. «Si vede che sei molto devota al tuo concetto di "Dio"».

    Distesi la fronte. «Diciamo che gli voglio bene per quello che penso che sia», sorrisi.

    Michael pitturò la dolcezza nei suoi tratti marcati. «Il tuo sembra un credo davvero stupendo».

    Arrossii ancora.

    Mi puntai le ginocchia. Analizzai le scarpe nere con un filo di tacco, le rifiniture del legno, il piacevole tepore che invadeva la stanza, non facendo caso al silenzio che ci cingeva in un abbraccio disumano.

    «Pensi che io meriti di conoscere la tua personalità?».

    M'osservò senza palesare emozione.

    Spalancai di poco la bocca, senza ribattere.

    «Perché ti fidi di me?», si chinò con i gomiti sulla scrivania.

    «Perché non ti vedo cattivo».

    Lo sussurrai con ingenua sincerità. Mi fissò.

    «Pensi che io non sia cattivo?»

    Continuai ad arrossire sempre di più.

    «No».

    «Perché?»

    Guardai le sue mani; i polpastrelli tamburellavano nervosamente contro il legno freddo. Rilassai i lineamenti del viso e respirai a fondo, prendendomi tutto il tempo che necessitavo per rispondere.

    «Perché i tuoi occhi non diventano tristi per nulla. Vedo il tuo sguardo farsi vacuo, soprattutto quando i tuoi figli non sono lì a guardarti. Non perché non possiedi un'anima, ma perché c'è una sofferenza quasi tagliente che ti perseguita. Si vede... e solo una persona veramente buona può avere dentro tutta questa... angoscia», mossi le mani in aria. «Una persona cattiva o ipocrita non si fa tutti questi esami di coscienza, mi spiego? Non ci sta così male. La tua non è una scenata, senti davvero questo malessere. E poi perché dovresti fingerlo con me? Non sono un giornalista o una giuria. Sono soltanto un'insegnante».

    Si tirò indietro piegando la testa verso destra, ammirando la libreria e torturandosi le labbra con la lingua. Le due ossidiane che aveva al posto degli occhi brillarono; ma non di gioia, bensì di lacrime.

    Ingoiò la saliva rumorosamente e mi guardò smarrito. Il cuore si spezzò nel attimo in cui mi perforò l'anima con tutta la sua rassegnazione.

    «Come fai a vedere tutto questo?», domandò con tono quasi pregante.

    Non sapevo se il fatto che potessi capirlo così facilmente lo infastidisse o lo consolasse, oppure se silenziosamente pregava affinché gli indicassi una via di fuga da se stesso.

    Serrò le palpebre corrugando la fronte.

    «Vuoi dirmi cosa ti fa star male?», mormorai dolcemente.

    «Io, non...»

    Gli occhi rimasero ancora chiusi.

    Il volto si contrasse in un cipiglio agonizzante. Si portò le mani sulla faccia e si chinò lentamente sulle ginocchia.

    Non gridò. Non scoppiò rumorosamente. Non esalò neppure un gemito. Anche se era chiaro che stesse piangendo, Michael non si mosse nemmeno di un centimetro.

    Le mie gambe si irrigidirono e tutti i muscoli del corpo si tesero. Ben presto mi trovai sollevata dalla sedia. Mi posi al suo fianco con passi inudibili, indecisa se accarezzargli o meno la schiena – almeno per dargli un senso di confronto.

    «Non ho speranze, Sarah...», biascicò con le dita che lo nascondevano dal mio sguardo. «Ci provo ma fa male... è tutto così difficile, non riesco a dare una svolta alla mia vita. Ogni tanto vorrei solo scomparire... non sentire più nulla... vivere senza questo peso che non mi permette di essere mai veramente felice».

    Appoggiai il peso sulle ginocchia e mi piegai a terra. Gli massaggiai la schiena con pressioni leggere. I polpastrelli lasciarono la presa sugli occhi annebbiati dal pianto, ammirando il nulla con espressione vitrea: la pelle era completamente bagnata da gocce salate, la vista offuscata da un velo di lucida disperazione.

    «Sono i miei figli che mi permettono di restare vivo. Non ho controllo della mia vita, non ho un attimo di pace, vado avanti a tentoni... non ho mai avuto nessuno che potesse aiutarmi a capire cosa dovessi fare della mia esistenza nel modo più saggio. Mi fido sempre e soltanto delle persone sbagliate...».

    Gesticolò per tutto il tempo, piangendo senza il minimo spasmo. Ogni volta che una lacrima scivolava lungo la sua guancia mi affrettavo a raccoglierla: le dita tremavano mentre cercavo di essere più delicata possibile per l'ingiustificato timore di fargli male. Mi sembrava di avere a che fare con una bambola di ceramica.

    «Si fiderà di te chi ha cercato di capirti davvero, senza nessun pregiudizio o remore. Vedrai che qualcuno ci sarà, che la tua innocenza verrà comprovata. Lo so che è difficile, ma hai già fatto un passo avanti! Non vedi? Hai cercato gli avvocati per il processo e questo è già un primo traguardo! Dovresti essere contento, sei riuscito a fare qualcosa per te... so che non è molto, ma è molto più consistente del nulla. Vedrai che troverai chi ti saprà difendere a dovere e non dovrai fare tutto da solo. Oh sì che lo farà, spaccherà il culo al procuratore e a tutti coloro che si metteranno contro».

    Anche se con gli occhi umidi di paura riuscì a sorridere. «Non dire quelle parole, Sarah...»

    «Che parole?», ammisi scioccata. Arrossii. «Be', non importa! Quando ci vogliono, ci vogliono, no? E se vuoi te lo ripeto: spaccherete il culo!».

    Rise come un bambino, nascondendosi il viso fra i palmi.

    Sorrisi. «Sono felice che tu abbia fatto qualcosa per te. E dovresti esserlo anche tu. Non sei solo, lo sai. È solo la paura che ti fa sentire così...». Il mio sguardo s'allontanò dalle sue iridi nere e improvvisamente attente. «Sei coraggioso, perché ci sono persone che si lascerebbero morire nonostante la presenza di figli accanto. Ma questo non è il tuo momento di andartene».

    Lo scorsi rabbrividire. Riprese il fazzoletto dalla tasca e si asciugò il viso. Mi sollevai in piedi e indietreggiai incrociando le braccia dietro la schiena.

    «Ti credo...»

    «Hai qualcosa per cui vale la pena vivere, Michael. Non sei perduto fino a quando non perdi questo "qualcosa". E non lo perderai mai. I tuoi figli aspettano soltanto che il padre si faccia valere, così un giorno urleranno al mondo quanto sono orgogliosi di lui, più di quanto non facciano già adesso. Ti vorranno bene per sempre. Sei il loro supereroe preferito».

    Michael lasciò cadere un'ultima lacrima dai suoi occhi profondi.

    «Grazie. Davvero, grazie...», mi puntò intensamente.

    Feci spallucce. «Non faccio nulla di che», mugugnai. «Penso che tu, come ogni persona buona, meriti un sostegno».

    Michael si alzò con lentezza, lisciandosi la camicia e osservando il parquet distrattamente. Mi scrutò con amabilità disarmante, con due labbra incurvate all'insù tipiche di un ragazzino sconsolato. Le sue spalle ampie si alzarono quando i polmoni si riempirono di ossigeno.

    «Posso abbracciarti?»

    Gli sorrisi maggiormente. «Certo che puoi!».

    Spalancai le braccia ma la sua stretta arrivò prima che potessi prepararmi. Colsi un'essenza profumata a cui prima non avevo fatto minimamente caso: sandalo. Quella nota speziata ed esotica, mista all'essenza del borotalco, fu in grado di annebbiare le facoltà motorie per un istante.

    Mi cinse con forza ed io lo sentii inspirare. Gli enormi palmi mi avvolgevano perfettamente la schiena.

    Arrossii con un'espressione di beatitudine che si fondeva con l'amarezza, mentre permettevo alla spina dorsale di tremare di fronte a un contatto così dolce quanto strano. I miei occhi si inumidirono, il naso pizzicò.

    Quando si separò dal mio petto, teneramente, Michael mi guardava ancora. Da vicino il suo sguardo riusciva a intimidirmi più di quanto non facesse già a distanza. Notai le sue mascelle leggermente squadrate, il mento marcato, le sopracciglia perfette e soprattutto gli occhi, profondi come l'obbiettivo di una macchina fotografica che punta il soggetto fin troppo nitidamente.

    Rispetto al primo incontro avevo cambiato idea su di lui. Sapeva essere un uomo affascinante.

    Arrossii curvando le iridi in un'altra direzione, verso la finestra a muro alla mia sinistra.

    Lui ridacchiò. «Ti ho imbarazzato?»

    «Un po'», sorrisi spontaneamente e Jackson fece lo stesso, concentrato solo su di me. «Tutta questa vicinanza mi ricorda tanto un tentativo di flirt», proruppi con incurante schiettezza.

    Michael mi ignorò chinandosi sulla mia guancia destra. La baciò delicatamente e sussurrò: «Potresti anche avere ragione. Ma per il momento è meglio rimanere solo buoni amici, che ne dici?»

    Rabbrividii da capo a piedi. Il cuore si fermò nello stesso istante in cui la sua voce mi penetrò l'udito. Lo fissai nell'immediato e con le palpebre sbarrate dallo shock.

    Cosa?

    «Allora? Che ne pensi?».

    Mi mancò la capacità di formulare una frase di senso compiuto. Solo quando sollevò entrambe le sopracciglia, come a volermi chiedere "Allora? Che mi rispondi?", mi ridestai dal mio stato quasi catatonico.

    «Oh... sì, nessun dubbio».

    In realtà non capivo a cosa si stesse riferendo, se al trasferimento o al rimanere solo buoni amici. Perciò borbottai in tono divertente, lasciando la sua presa attorno al mio corpo ed indietreggiando di un passo.

    Sogghignò fra sé e sé, leccandosi il labbro inferiore e ponendo le nocche sui fianchi.

    «Ora è meglio andare, altrimenti non riuscirai a sistemare le tue...»

    Lasciò la frase a mezz'aria e incompiuta. Gli lanciai quel mezzo sorriso di chi aveva già capito dove volesse andare a parare. Aveva un cipiglio così apparentemente tranquillo da renderlo una faccia tosta.

    «Per il trasferimento ci vorrà un po' di tempo. Sia per disdire il contratto d'affitto, sia per tutti i bagagli da rifare e la ditta del trasloco da contattare», dissi accigliandomi e torturandomi i polpastrelli con insistenza.

    «Oh, non ti preoccupare. Farò mandare alcuni dei miei dipendenti per i bagagli. E per qualsiasi altro problema con il tuo contratto d'affitto posso sicuramente darti una mano», disse. Sorrideva così tanto che ebbi la tentazione di girarmi dall'altra parte, per evitare di rimanere abbagliata dalla luce che emanava quella gioia a dir poco folgorante.

    «Be'...», lo studiai di soppiatto. «Grazie... sorriso ultra-bright».

    Michael issò un sopracciglio rispetto a un altro. Schiuse la bocca per la meraviglia e un secondo più tardi esplose in una sonora e pazza risata, congiungendo le mani davanti alla bocca. Nell'attimo in cui gli spasmi terminarono mi squadrò con fare malizioso e la lingua che scivolava continuamente sulle labbra.

    «Che cosa? "Sorriso ultra-bright"?», sorrise.

    «Certo», arrossii ma senza mostrare insicurezza. «Perché hai un sorriso che illumina perfino il Sole», alzai le spalle.

    Le iridi erano luccicanti. Sghignazzò imbarazzato con le nocche pinzate sui fianchi.

    «A me piace dare nomignoli simpatici alla gente a cui voglio bene, non dovrai mai dimenticarlo! Se questo non ti piace ne posso trovare di più originali», incrociai le braccia al petto.

    «Oh, be', per me questo è stupendo», fece spallucce e mi puntò allegramente.

    Guardò in basso e si avvicinò alla mia fronte con una sola falcata: mi diede un bacio sulla tempia destra e il fiato incespicò su se stesso.

    «Scusa se non ti accompagno al parcheggio, i miei figli hanno bisogno di me questa sera».

    «Oh sì, scusa!», dissi balzando sul posto. «Scusa, vado subito! Arrivederci!», e così feci retrofronte per accorrere alla porta, pronta a scendere per recuperare borsa a tracolla e valigetta da insegnante.

    Mi sentii afferrare per un braccio.

    Mi voltai.

    Mi scrutava con una severità mozzafiato.

    «Ti voglio bene, ricordalo».

    Poi un angolo della bocca si piegò all'insù. Con un dito mi punzecchiò la guancia e, sghignazzando a voce roca, osservò il colore delle gote cambiare da un bel rosato ad un rosso perfettamente acceso.

    Si divertiva parecchio a imbarazzarmi.

    «Sì, be', anche io...», bofonchiai senza dirgli un "Ti voglio bene" diretto.

    Non ero brava a dire alle persone quanto le amavo - non ero abituata a quelle manifestazioni di affetto così esplicite - ma con lui pensavo che prima o poi ci avrei fatto l'abitudine. Sotto quell'aspetto sembrava tutto il contrario della sottoscritta.

    Dette un secondo buffetto affettuoso alla guancia e mi lasciò uscire. Lo salutai rapidamente, dirigendomi impettita verso il piano inferiore. In un batter d'occhio – senza nemmeno accorgermi – mi ritrovai sul viale in direzione del parcheggio, e successivamente in macchina, destinazione "casa". Le situazioni che avevo vissuto fino a pochi momenti prima erano come flash di luce che a scatti mi accecavano la vista.

    Pensavo al futuro, alla voglia di rifare nuovamente i bagagli e di trasferirmi all'Isola che non c'è una volta per tutte.



    1 Riporto le informazioni sul processo di Michael: “Il 20 novembre 2003 fu emanato un mandato di arresto per Jackson. Il cantante era a Las Vegas, Nevada, e stava registrando un video musicale per il suo più recente singolo One More Chance del suo album greatest hits Number Ones: l'artista volò su un jet affittato al Santa Barbara Municipal Airport e si costituì alla polizia californiana. Fu portato al carcere di Santa Barbara County e uscì dal veicolo delle forze dell'ordine in manette. Jackson pagò 3.000.000$ di cauzione, dopo aver richiesto una riduzione della somma, alla quale l'accusa si oppose”.



    Edited by fallagain - 8/11/2021, 23:46
  14. .
    CITAZIONE (Martina D'Amico @ 10/3/2019, 21:56) 
    Sempre magnifico 😍.... “The rebirth”? Già mi piace

    throb throb throb
    Ti ringrazio di cuore, spero di non deluderti con i "cambiamenti" effettuati e il seguito hug
  15. .
    Capitolo Otto: Il Desiderio

    «Vuoi un gelato?»

    Io e Michael ci eravamo allontanati da qualche minuto e avevamo deciso di fermarci in un luogo stupendo: la piccola bancarella dei gelati.

    Storsi le sopracciglia, assottigliando le labbra in una smorfia afflitta.

    «Avrai sulla coscienza me e la mia linea».

    Curvò la bocca all’insù. «Preferisci non mangiarlo?»

    «Ma stai scherzando? Ovvio che sì!», strabuzzai gli occhi.

    Sghignazzò timidamente mentre raggiungevamo il bancone. Esaminai la serie di gusti proposti e mi accorsi che ce n'erano tantissimi, dalle scelte più comuni a quelle più strane, gusti che non avevo mai provato prima. Mi obbligai a contenere la mia euforia.

    «Vado prima io?», chiese notando la mia insicurezza.

    Annuii.

    «Ok, per me vaniglia e... mmh... tiramisù».

    La pronuncia di quel nome tipicamente italiano mi fece sorridere. Michael mi gettò un’occhiata meditabonda.

    «Cono o coppetta?», chiese il gelataio pur sapendo i gusti di Jackson a memoria.

    «Coppetta, grazie!»

    Nel momento in cui il gelataio mi rivolse la parola, con un garbo e una dolcezza tratteggiati nei lineamenti bonari del viso, gli chiesi: «Per me una coppetta con una pallina di fragola e una di, uhm... quello lì», indicai uno che ricordava vaniglia con aggiunta di biscotti.

    L’uomo in carne mi porse la coppetta, senza pagare, e ce ne andammo subito dopo aver ringraziato e salutato. Aggrottai così tanto la fronte che Michael si fermò, notando che non la smettevo di voltarmi indietro.

    «Qualcosa non va?», chiese piegando il capo a sinistra. «Non ti piace il gusto?»

    «No, no...». Lo guardai perplessa. «Devo tornare indietro e pagare».

    Michael sbatté le palpebre distendendo la fronte. Scoppiò a ridere.

    Lo puntai con il cucchiaino a mezz’aria.

    Per non farsi vedere si girò dall’altra parte, ponendosi una mano sul volto come quando i bambini devono cercare di sembrare impassibili di fronte a uno scherzo birichino. Quando si placò mi sorrise, senza parole.

    «Che c’è...?», chiesi sorridendo di rimando. Poi capii il senso della sua espressione. Ammirai la bancarella dei gelati e strabuzzai gli occhi. Osservai Michael con sbigottimento puro. «Vuoi dire che non si paga?»

    Lui confermò rizzando le sopracciglia.

    «Oh...» mormorai. Modellai le labbra in un riso infantile. «È stupendo!»

    Mi chiese se volessi fare una passeggiata fino al lago ed io acconsentii. Ignorai il fatto che ero da sola con Jackson e che non si sarebbe aggiunto nessun altro a noi. Soltanto io e lui, io e il mio datore di lavoro.

    Camminammo senza parlare e la cosa non mi appesantì per nulla. Per un po' ci accompagnarono le melodie dei megafoni, almeno fino a quando anche quelle non si affievolirono trasformandosi in sussurri ed echi distanti.

    Mi stava vicinissimo e cercavo in tutti i modi di non oscillare e cadergli addosso. Mi sembrava quasi di percepire la sua aura e so che è una cosa strana da comprendere, ma io stessa non riuscirei spiegarlo. Se lo avessi toccato credevo che avrei sentito i brividi ogni dove.

    Non ero una ragazza che amava parlare, lo ammetto, e forse per questo apparivo una tipa abbastanza noiosa o apatica; eppure, anche volendo, in quel momento non sarei stata in grado di farlo. Non avevo ancora troppa confidenza con lui – lo consideravo sempre il mio capo – e mi aprivo soltanto se qualcuno mi incitava a farlo, magari con qualche domanda o qualche discorso che poteva riguardare i miei interessi o la mia persona. Se incomprensibilmente si creava del feeling mi lasciavo andare; in caso contrario tra me e l’estraneo regnava sempre un velo di freddezza. Una bolla, per così dire. Ero selettiva. Con gli anni avevo imparato a chiudermi a riccio e scegliere cautamente le persone a cui aprire il cuore.

    Finito di ripulire per bene la coppetta cercai un cestino con lo sguardo. Michael, che camminava a fianco con una mano sull'ombrello nero e un’altra sulla vaschetta vuota, si accorse subito delle mie necessità.

    «Dammi, so dove buttarli», e nonostante la testardaggine nel volerlo portare da sola glielo consegnai.

    Non voleva mai darmela vinta.

    Quando tornò aveva un sorriso raggiante. Non aveva più messo gli occhiali da quando ci eravamo seduti sul carosello, ma potevo constatare che il Sole gli desse parecchio fastidio. L’ombrello era l’unica cosa che lo potesse proteggere dai raggi.

    Riprendemmo la nostra passeggiata.

    «Ora che hai visto quasi tutto di Neverland, cosa ti piace di più?».

    Piegai la testa con fare bambinesco. «Bella domanda. È un posto davvero incantevole e magico, non c’è niente che non sia stupefacente. La mia risposta spontanea sarebbe: “mi piace tutto”», ridacchiai. Un secondo dopo mi incupii. «Aspetta, “quasi tutto”? Significa che c’è altro?»

    Sorrise guardando avanti.

    «In realtà non molto. La maggior parte delle sue meraviglie le hai viste oggi. Questo è il cuore di Neverland, ma puoi sempre trovare un cinema - ».

    «Anche un cinema?».

    «Oh, sì, eccome!», sorrise maggiormente.

    Lo studiai senza dire niente, rapita dalla sua espressione serena. Quando si accorse dei miei occhi su di lui mi osservò interessato. Arrossii e scostai l’attenzione. Stavamo attraversando un vialetto di sassolini giallastri, circondati da aiuole fiorite macchiate di rosso e arancione qua e là.

    «È tutto molto sorprendente... dico davvero. Non vorrei sembrare adulatrice, ma adoro l’idea del parco giochi. Inoltre questo ranch è davvero enorme! È come visitare l’Isola che non c’è per davvero! Credo che poche star del tuo calibro sarebbero interessate ad un posto per bambini nella loro dimora». Inspirai a fondo, appiattendo il tono di voce. «Mi chiedo quanti adulti conoscano ancora l'importanza della gioia infantile».

    Con la coda dell’occhio lo vidi contrarre la fronte.

    «Sembra che tu ne sappia qualcosa».

    «Uhm?».

    «Da come parli e ti comporti sembra che tu sia rimasta ferita dal mondo. Eppure conservi in te un atteggiamento decisamente bambinesco, puro».

    «Sì, sono stata ferita», annuii. Mi puntò con un’occhiata profonda. «Ho sofferto nella mia vita, ma sicuramente il mio dolore non è paragonabile a quello di molti altri. Nella mia sfortuna sono stata fortunata».

    «Cosa ti ha fatto soffrire?»

    Non ne volevo parlare, ma sapevo di non avere altra scelta.

    Inspirai mirando avanti. «Hai presente la sensazione di essere fuori dal mondo? Di non appartenere a niente e a nessuno?»

    Si rabbuiò e asserì passandosi la lingua sulle labbra.

    Feci spallucce. «Mi sono sempre sentita un pesce fuor d’acqua. So che questo tipo di frase sta diventando di moda oggigiorno ma è così, almeno per me. Ho sempre fatto fatica a trovare persone con cui sentirmi davvero a mio agio. Non ho mai avuto una vita sociale. Avevo degli amici, sì, ma la maggior parte di loro non erano veri e propri amici, capisci che intendo? Poi in Italia, pff, là non ne avevo manco uno che potessi considerare neanche lontanamente “amico”. In più sono una persona molto riservata, il che non aiuta molto».

    Mi interruppi per passarmi una mano fra i capelli, tirandoli tutti all’indietro. «Ho sempre pensato di avere aspettative molto alte e in un certo senso è così. Ho degli ideali di amicizia e di amore molto difficili da accontentare. Voglio stare con chi arricchisce la mia anima con serenità, non chi mi fa sentire pesante. I litigi e le incomprensioni ci possono stare, siamo tutti esseri umani e non siamo tutti uguali, ma non voglio rinunciare ad essere me stessa per accontentare chi mi sta intorno.

    Quando mi lego a qualcuno dono un pezzo di me. Magari non sono la persona più affettuosa del mondo, ma la mia lealtà non svanisce mai, nel bene o nel male. Quando scendevo a compromessi pur di non perdere qualcuno venivo sempre presa sotto gamba.

    Penso di aver cominciato a rintanarmi nella mia solitudine per una sorta di meccanismo di difesa e questa è divenuta la mia fedele compagna di vita. Non riuscirei mai a viverne senza, non completamente. A volte la solitudine sa essere un vuoto incolmabile ed è ovvio che anch’io desideri dei legami solidi e stabili nel tempo, ma non ho mai avuto tutta questa fortuna. Ho avuto tanto dalla vita – salute, soldi, una buona istruzione e dei buoni lavori – ma a livello emotivo e sentimentale no.

    Per un periodo ho pensato che fossi io quella esagerata, la vittima. Credevo che ci fosse qualcosa in me che non mi permettesse di creare un rapporto duraturo con nessuno. Sicuramente ho dei difetti insopportabili, ma alla fine il segreto è proprio questo: trovare qualcuno con cui condividere i propri mostri».

    Restò in silenzio a soppesare le mie parole.

    Di colpo l’assenza di risposta divenne insopportabile.

    «Che cosa ne pensi dei giornali?», cambiò discorso scrutandomi intensamente.

    Feci una smorfia contorta. «Le persone mentono per vendere ed è risaputo da vecchia data. Una notizia che fa scandalo fa guadagnare molto di più rispetto a una che mostra la bellezza del mondo. Non mi riferisco alla tua situazione, parlo in generale. È un business. Farne parte non è la mia aspirazione di vita».

    Terminato con i miei infiniti e petulanti monologhi sospirai come se mi fossi tolta un peso dalle spalle.

    Quando lo adocchiai di sfuggita per capire se si stesse annoiando, Michael palesò una strana espressione. Mi scrutava con meraviglia e decisione.

    Ad un certo punto drizzò il viso e non mi rivolse più la parola, pur continuando a camminare imperterrito.

    Non l’ho ferito in qualche modo, no?

    «Davvero non hai mai letto niente di me?», chiese di punto in bianco, aspettando che mi voltassi affinché potesse analizzarmi e valutare la mia onestà.

    Ricambiai senza vacillare. «Sono certa di aver letto qualcosa ma onestamente non ricordo. La tua fama è nota ovunque e sarebbe strano pensare di non aver mai udito o letto nulla. Se delle voci mi avessero colpito in qualche modo te lo avrei detto fin da subito», arrossii.

    Mi esaminò per qualche altro istante, dopodiché rivolse il mento in direzione del sentiero.

    «Capisco...».

    Si posò due dita sulle labbra e giocherellò con quello inferiore, torturandolo con palese nervosismo.

    «Se leggessi che io sono un pedofilo, un nero che non accetta la sua razza e che per questo si è "sbiancato", un pazzo con la mania di Peter Pan che fa cose terribili ai bambini approfittando del suo parco giochi inaccessibile... che cosa diresti? Ci crederesti?»

    Lo squadrai accuratamente.

    La sua voce era specchio della sfumatura che gli affrescava il viso: malinconica e arrabbiata, delusa, rancorosa. Percepivo la sua attesa e la sua palpabile voglia di risposta dalle spalle rigide e dalla mascella contratta.

    «Dipende tutto dalla fonte. Io non ti conosco e al momento mi astengo dal giudicare, ma per quel che ho potuto vedere di te sei tutto fuorché una persona malvagia».

    Michael non rispose e non mi guardò.

    In realtà non sapevo cosa pensare.

    L’istinto mi diceva che Michael Jackson non era un essere ignobile: fin dal primo momento, stando con lui, l’unica cosa di cui ero stata certa era la sensazione di dolcezza e pace che trasmetteva – oltre all'impressionante modo che aveva di osservarmi. Era vero, avevo sbagliato tante volte nella mia vita, ma non pensavo che stessi compiendo un errore tanto madornale.

    «Che cosa hai vissuto per amare la solitudine così tanto?».

    Richiuse l’ombrello e se lo agganciò all’avambraccio sinistro, ponendosi le mani nelle tasche. Rallentammo il passo e lo lasciai ispezionarmi senza pietà. Il suo profumo, debole ma presente, odorava di borotalco.

    Il Sole si stava indebolendo e il freddo si stava approssimando. Il tramonto iniziava ad avvolgere ogni cosa. Eravamo quasi giunti a destinazione, ai pressi della stazione del trenino dove ci aspettavano i bambini e Grace.

    Sorrisi senza divertimento. Era da tempo che nessuno mi faceva domande così intime. Non per cattiveria – non tutti –, ma soltanto perché ero io quella a cui tutti si affidavano, mai colei che si sfogava. Ero sempre una montagna.

    «In realtà niente di così grave».

    «Spiegati», sussurrò.

    Aveva un’espressione viva, interessata. La sua diffidenza aveva lasciato posto ad una nuova emozione: la comprensione.

    «Ti ascolto».

    Emisi uno spasmo di risata ironica. I lineamenti del suo volto si contrassero in una sorta di delicata implorazione.


    Espirando tornai ad ammirare tutto ciò che ci circondava: i fiori minuti e colorati, il cielo cobalto decorato dalle prime passate di rosa e arancione, il vento tra le foglie ingiallite.

    «Sono figlia unica, ma sono sempre stata una bambina felice e spensierata. Ho avuto la fortuna di avere una famiglia che mi voleva bene ma, una volta iniziate le scuole, la mia personalità allegra ha cominciato a spegnersi. Provavo a relazionarmi con gli altri, ma ero molto timida».

    Michael mi osservò senza emettere un fiato, bagnandosi le labbra ogni due per tre.

    «Ricordo che non avevo un amico in nessun tipo di istituto. Giocavo da sola proprio perché faticavo ad integrarmi». Feci una pausa spremendo le meningi per ricordare qualcosa di preciso. «Se mi avvicinavo a un gruppetto di bambine che giocavano allegramente in giardino, mi fissavano e se ne andavano senza attendere un secondo di più, senza dire una parola... sai, le donne possono essere molto stronze», risi senza scusarmi per il termine appena enunciato, «Altre volte mi impedivano di giocare con loro; mi sbarravano la strada dicendomi che non c'era posto per me o qualcosa del genere ed io me la filavo».

    Ad un certo punto ridacchiai, alzando lo sguardo sulle fronde degli alberi. «Ti racconto un aneddoto divertente dell'asilo: un anno trovai tre bambine più piccole con cui feci subito amicizia. Erano simpatiche, ridevo e scherzavo con loro come se nulla fosse. Alla maestra la cosa non andava bene perché diceva che dovevo giocare soltanto con quelli della mia età e basta. Io continuai a fare quello che volevo imperterrita fino a quando questa non decise di mettermi in castigo, aggiungendoci pure uno schiaffo per farmi imparare la lezione».

    «Ti ha dato uno schiaffo e messo in un angolo?», domandò Michael. Era sconcertato, di sicuro non in senso buono. Annuii. Schiuse la bocca arricciando fronte e naso con disapprovazione e disgusto. «Io non lo concepisco...»

    «Lo so», mi strinsi nelle spalle con nonchalance. «Purtroppo molti adulti non capiscono e non capiranno mai come ci si comporta con i bambini. Anche se, a dire il vero, bisogna aggiungere che non tutti i bambini sono dei santi o possiedono un’anima buona... senza offesa». Michael non fu molto felice per ciò che avevo detto. Per lui i bambini erano la purezza in persona. Lo ignorai incurante. «Durante tutta l'infanzia fui vittima di bullismo. Furono degli anni orribili. Non avevo neanche un attimo di respiro. Venivo continuamente isolata, calpestata e offesa dalle mie compagne per la mia eccessiva bontà. Crescendo desiderai così tanto un amico, anche uno solo, che non mi resi immediatamente conto di essere tenuta per comodo per la mia bravura scolastica.

    Sai, sono cose piccole se ci pensi, ma segnano un bambino o un adolescente durante la crescita. Sono fasi molto delicate per la formazione della nostra persona. Oh, e fui vittima dei bulli anche fuori dalla scuola, per colpa del mio peso! Ho provato a fare diversi sport nella mia vita ma, come puoi ben vedere, ho sempre mollato. Scelta da codardi sicuramente, ma ad una certa ho cominciato a curarmi più della mia salute mentale che del mio corpo. E posso assicurare che ero molto più grossa di come mi vedi ora! In confronto adesso sono un fruscello!».

    «Non sei grossa», disse contrariato.

    «Be’, non sono neanche un fringuello di bosco!», puntualizzai sogghignando e guardandolo in faccia. Michael mi puntò imperscrutabile, pur ridendo con gli occhi per la mia battuta. Sorrisi dolcemente. «Ad ogni modo è stato il bullismo ad avermi colpito più di ogni altra cosa. Ho sofferto molto, ma è stato quello che mi ha insegnato a tirare fuori le unghie e non ingoiare mai il rospo. Mi sono fatta una corazza d’acciaio».

    Rilassai lo sguardo. «Comunque, davvero, ripeto: sono stata fortunata in molte cose. Ci sono persone che vivono situazioni peggiori rispetto alla mia. Sono in salute, sono indipendente, e soprattutto sono conscia di quello che sono e di quello che sono sempre stata».

    Lasciai correre il silenzio fino a quando Michael non lo spense.

    «Mi dispiace per il bullismo». Era scuro in volto e mi osservava con un miscuglio di sentimenti contorti stampati in faccia – dal sollievo alla tristezza, dall’irritazione alla tenerezza. «Mi dispiace per tutto».

    Mostrai i denti. «Non c’è niente di cui dispiacersi. Io sono una roccia!».

    Sorrise appena. Il suo torace venne scosso da un respiro pesante. Abbassò le palpebre sulla vista e le riaprì mirando il cielo, ostentando una luce negli occhi che definii malinconia.

    «Da piccolo avrei pagato qualsiasi cosa per passare il mio tempo con gli altri bambini...», bisbigliò senza emozione. «Ho iniziato a lavorare nello show business fin dalla tenera età, a cinque anni. Non mi era concesso giocare, andare fuori in giardino o al parco con i miei coetanei... non mi ero concesso niente a parte cantare, ballare e incidere album.

    Ero quello che si definisce un ‘bambino prodigio’. Ciò che volevo davvero era ridere e divertirmi... essere come tutti gli altri, senza preoccupazioni e ansia di dover crescere in fretta. Sono sempre stato prigioniero della mia fama. Sono fiero di quello che sono, sì, perché amo quello che faccio. Voglio donare qualcosa di buono al mondo e so di riuscirci. Ma darei tanto per tornare indietro nel tempo e vivere un’infanzia normale. Quando ti viene preclusa la possibilità di essere un bambino si forma un vuoto nella tua vita e nel tuo cuore; alcuni riescono a riempirlo, altri invece usano quella mancanza per compiere brutte azioni».

    Lo ascoltai con la stessa attenzione che mi aveva dedicato. «Penso di capirti nel mio piccolo».

    Nonostante le diverse esperienze di vita, la solitudine è sempre solitudine. Entrambi volevamo qualcuno . Era una necessità di spensieratezza con cui poterci sentire liberi e felici. Tanto simili quanto differenti anni luce.

    «Sai perché ho costruito Neverland? Per godere delle cose che non ho mai avuto. Niente visita allo zoo con la famiglia, tenendo per mano mio padre o mia madre; niente sorrisi, niente risate, niente giochi. Tutto ciò che ho perso me lo sono riguadagnato».

    Quando mi osservò nuovamente Michael aveva un sorriso mesto in volto; le iridi scure fiammeggiavano di un'amara tristezza. Parlare di quell’argomento lo commuoveva.

    «Quando ti ho detto che Neverland non sarà per sempre è perché questo luogo ha perso la sua magia. Lo so che a te non sembra, ma è vero.

    Quando la polizia è venuta qui, a perquisirmi per via delle accuse, hanno totalmente sconsacrato quello che è il mio Paradiso. Non riesco a conviverci, non riesco a sopportare che la gente pensi che questo è il posto in cui… in cui faccio del male ai bambini... preferirei tagliarmi le vene piuttosto che toccarli in quel modo, comprendi?

    La gente non ha mai capito chi sono. Vero, ho sempre invitato bambini, molti bambini, ma soprattutto quelli ammalati. La maggior parte di loro avevano il cancro o qualche altra malattia incurabile. Lo facevo per dar loro una speranza e l’ho sempre fatto perché sono convinto che loro siano il futuro di questo mondo. Meritano di godersi l’unica infanzia che hanno. Mi circondavo di bambini anche durante i miei viaggi, ma l’ho sempre fatto perché con loro non avevo bisogno di nascondere chi ero. Erano miei amici e mi vedevano per il bambino che sono rimasto. Mi capiscono ed io capisco loro. Gli adulti mi vedono solo come una macchina dei soldi e nient'altro»

    Scosse la testa sempre più vigorosamente, ridendo con visibile sarcasmo. Gli occhi erano velati di lacrime, la voce malferma. Mi si strinse il cuore e la gola: mi chiesi come riuscisse, con quella apparente fermezza d’animo, a rendere invisibile la sua profonda fragilità.

    Quando dicevo di essere fortunata lo credevo veramente.

    «Se Neverland è stata sconsacrata – se per te non è più la stessa – allora fai bene a separartene. Dovresti cercare un luogo tranquillo, lontano da tutti... guarire potrebbe volerci molto tempo. So che è difficile lasciare andare, però non puoi continuare a soffrire perché tutto questo ti ricorda un incubo a cui non riesci a sfuggire».

    «Lo farò», mi scrutò con aria falsamente compiaciuta, «ma prima dovrò superare quello che sarà uno dei processi più seguiti nella storia».

    Trattenni un sospiro. Abbassai la testa.

    Immaginavo che avrebbe dovuto affrontare un processo, ma quel pensiero divenne reale solo quando me lo disse in faccia.

    Se per me era difficile, non riuscivo a immaginare quanto lo fosse per Michael.

    Evitai di porre ulteriori domande.

    «Sei fortunata, sai?»

    Gli rivolsi uno sguardo confuso. Di tutta risposta Michael mi regalò un’occhiata addolorata, comprensiva e tormentata insieme.

    «Puoi andare dove vuoi, liberamente, senza temere di essere inseguita per ogni cosa che fai. Se ci provo io vengo subito preso di mira dai media e dai tabloid. Trovano sempre un modo per farmi sfigurare, non importa cosa faccio. Non vedono l’ora di rendermi un mostro... lo desiderano più di qualsiasi altra cosa. Mentre tu hai ragione, sei fortunata... nessuno complotta contro di te per farti fuori e seppellirti prima ancora di essere già morto».

    Mi vennero i brividi udendo quelle ultime frasi.

    «Lo so».

    Sollevai la fronte al cielo.

    «Sei imprigionato in questa vita perché non hai potuto sceglierne altre. Sei una persona molto forte, dico sul serio. Ma posso assicurarti che non sei solo. La fama è soltanto la lente di ingrandimento di un'esistenza normale, che ingigantisce ogni situazione ed è in grado di colpire in maniera letale. Quello che hai passato è un vuoto che niente e nessuno potrà mai riempire, ma non sei abbandonato a te stesso. Qualcuno ti amerà e vedrà sempre oltre le apparenze».

    Un minuto di silenzio, forse anche meno, e ripresi a camminare per il sentiero senza aspettare che mi seguisse. Non ero arrabbiata o amareggiata, ero semplicemente pensierosa. Non ero sicura di aver detto cose giuste, affatto, ma non c’era nient'altro che potessi fare per farlo sentire… meno triste. Sperai che non avesse frainteso il tono o il motivo delle mie parole.

    Scorsi lo zoo in lontananza e Prince e Paris che correvano come matti.

    «Mi dispiace...»

    Mi girai. Se ne stava ad un passo da me con smorfia assente. La mascella tesa e la posizione eretta. Una brezza leggera gli accarezzava i capelli neri e mossi.

    «Perché?».

    «Non volevo appesantirti con i miei problemi».

    «No, dispiace a me», ammisi riprendendo il passo, fissandolo intenerita. «Non so come aiutarti per farti stare meglio. Vorrei solo che capissi che ce la puoi fare. Perché ce la farai».

    Quando mi fu vicino abbastanza alzai la mano sinistra verso il suo avambraccio e, sfiorandolo appena, glielo massaggiai. Michael curvò gli occhi sulle mie dita; quando risalirono sul mio viso erano a dir poco sbarrati: per un attimo parve che avesse visto un fantasma.

    Non mi vergognai neanche un po' per ciò che avevo fatto, non ero guidata da malizia o secondi fini. Non era un gesto per provocare o flirtare. Volevo soltanto essere rassicurante.

    Gli dedicai un sorriso triste e allontanai la mano con dolcezza, proseguendo la passeggiata da sola.

    «Non so bene cosa dire perché è una situazione – la tua – che non ho mai vissuto sulla mia pelle... ma hai certamente il mio supporto».

    Mi guardai indietro. Era rimasto esattamente dov’era, paralizzato.

    Non emise un fiato.

    Gli feci la linguaccia.

    Di fronte a quel gesto si scosse. Ridacchiò imbarazzato umettandosi delicatamente il labbro inferiore e mi puntò ancora, di sbieco, sorridendo attraverso le sue iridi scure.

    «Un giorno sarò lieto di ascoltare tutto ciò che riguarda la tua vita. Mi racconterai la tua storia e io la mia, esattamente come due raccontafavole... se ti farà piacere», mormorò. Mi venne incontro.

    Lo vidi tremendamente dolce nel pronunciare le ultime parole, ma per niente affatto insicuro.

    Avevo il cuore in fiamme.

    Forse qualcosa di buono ero riuscita a farlo, quel giorno.

    Sorrisi. «Ne sarei felicissima».

    Udimmo le voci di Prince e Paris farsi più vicine. Correvano verso di noi e Grace dietro di loro con il piccolo Blanket fra le braccia. Ci chiesero dove fossimo stati per tutto quel tempo. Michael spiegò loro che mi aveva fatto vedere il boschetto di Neverland e i fiori, poiché gli avevo confidato che mi piacevano molto. Era una bugia bell’e buona, ma non ci aveva visto male: che i fiori mi piacevano sul serio.

    Non dimenticherò mai Grace e i suoi occhi neri come pece, mentre squadrava me e Michael con un sentimento indecifrabile che non riusciva a mascherare.

    *

    «Tanto sono meglio di te!»

    «Non credo proprio! Io sono più veloce, sono meglio di un fulmine!»

    «Non significa niente, non è la velocità che conta! Non hai abbastanza esperienza!»

    «Perché, tu sì?», rispose la piccola inarcando un sopracciglio.

    «Ho fatto il supereroe più volte di te, papà te lo può confermare! Sei peggio di una tartaruga. I tuoi riflessi sono bleeeah. Vero papà? Io so fare un... un bravo supereroe e ho più esperienza, vero?!», chiese Prince afferrando un lembo della manica del padre. La sorella lo congelò con un'occhiataccia.

    Provai più e più volte a non ridere, ma era impossibile.

    Da quando eravamo scesi in stazione centrale, Prince e Paris si erano messi a discutere animatamente della loro eroica missione avvenuta durante l’assenza mia e del padre. Avevano giocato a fare i supereroi e a salvare Grace – la damigella in pericolo – e loro fratello Blanket – l’animaletto di compagnia della povera donzella – dalla ferocia del ragno gigante... che in realtà era lo Zipper. Battibeccavano su chi fosse il più bravo a coprire quel ruolo e visto che Grace si era astenuta dal giudicare avevano insistito per conoscere il Giudizio Supremo del padre.

    Sapevo che, se non avessero ottenuto niente, avrebbero chiesto anche alla sottoscritta.

    «Sì, Prince, tu hai molta esperienza», Michael soffocò uno spasmo allegro. Notai che, da quando eravamo tornati, era molto più sereno rispetto a quando eravamo partiti. «Però anche tua sorella è brava, ha talento. Magari potresti insegnarle come si fa».

    Prince e Paris palesarono un cipiglio imbronciato. Quando mi cercarono con gli occhi li bloccai sul nascere.

    «Concordo con l’idea di vostro padre!», alzai le mani in segno di arresa.

    Aggrottarono la fronte.

    Michael sogghignò. «Ora andate a lavarvi. Chi arriva per primo deciderà cosa fare più tardi, subito dopo aver mangiato. Pronti... partenza... via

    E i due corsero come bestie feroci verso il residence, il quale oramai distava pochissimi metri. Anche Grace si congedò per dar da mangiare a Blanket e metterlo a letto al più presto, visto che crollava dal sonno. Se ne andò solo dopo che Michael ebbe baciato il figlio sulla nuca. Io e Jackson rimanemmo nuovamente soli.

    Il cielo stava perdendo i colori del tramonto e si tinteggiava di pennellate bluastre. Entrambi rimanemmo incantati da quello splendido connubio di luci e venature calde e fredde: le nuvole, ancora infiammate, stavano per essere inghiottite dal nero della notte.

    «Ti piace il tramonto?», chiese Michael con un bisbiglio sottile.

    Assentii mirando l’orizzonte. «Sì, lo amo profondamente. Mi strega».

    Allacciò le braccia dietro alla schiena. «Il tramonto è un regalo meraviglioso. Le sue sfaccettature rapiscono gli sguardi di tutti. Quando ammiri il tramonto non riesci a pensare ad altro se non a quanto sia bella la vita...», sussurrò con occhi lucidi. «In casi come questi mi viene da pensare quanto sia splendido esistere. La Natura ci serve spettacoli che la maggior parte degli esseri viventi sembra ignorare.

    Ci sono giorni in cui guardo il tramonto e mi sento semplicemente grato. Grato alla Natura e a Dio, perché mi fanno capire che non sono solo. Sono sicuro che mi vogliono dire che la vita è degna di essere vissuta, che il Divino è presente in ogni cosa. Basta solo guardare con attenzione. Non importa il dolore che provo: questo scompare quando comprendo che Dio mi sta mandando dei segnali».

    Lo ascoltai con gli occhi sommersi nei suoi. Era una freccia, scoccata con bravura e precisione, che aveva centrato il punto giusto al primo tentativo. Avevo dimenticato cosa significasse sentirsi purificati dalla presenza di qualcuno. Anzi, mai nella vita ero stata benedetta da tale grazia. Tutto quello che diceva, faceva o sentiva lo percepiva dal profondo del cuore.

    In quell’istante riuscii a percepire Dio, qualunque cosa egli/ella fosse e qualunque forma egli/ella prendesse. E capii che lo vedeva anche Michael, scambiandoci un'occhiata che andava ben oltre le parole.

    Piegai le labbra in un sorriso che lui ricambiò.

    Improvvisamente, mentre dirigevo lo sguardo verso il basso, notai qualcosa che mi lasciò senza fiato: una piuma, piccolissima e bianca, se ne stava comodamente distesa su una margherita. Era incastrata fra i suoi petali e si lasciava cullare dolcemente dalla brezza serale. La osservai incantata, mentre una valanga di ricordi mi offuscava le iridi chiare. Quella era molto più di una semplice coincidenza.

    «Che succede?», Jackson mi richiamò.

    Lo scrutai con fare smarrito. Poi sorrisi e ridacchiai imbarazzata, arrossendo sulle gote. Michael aggrottò la fronte. Bagnò la bocca e si pose le mani nelle tasche, accostandomisi.

    «Oh, è una piuma... è...».

    Cercò la piuma con gli occhi e quando la vide tra i fili d'erba mi adocchiò con aria interrogativa. Scrollai le spalle arricciando naso e labbra con espressione bambinesca.

    «Quando vedo una piuma su un fiore mi viene in mente una storia dedicatami da mia nonna quando ero piccola. La “leggenda” dice che se trovi una piuma fra i petali di un fiore è un segno del destino. Tutto ciò che devi fare è prenderla, puntarla al cielo ed esprimere un desiderio soffiandola via, lasciando che l’aria la culli lontano. Più questa volerà distante, più il tuo desiderio sarà sincero e si manifesterà con successo... può sembrare una cosa ridicola, ma... ci ho sempre creduto. Dovrei avere quella storia scritta su un quaderno per appunti, se la memoria non mi inganna».

    In silenzio, dopo avermi rivolto un cipiglio stranito, si chinò verso il fiore. Afferrò la minuscola piuma e si raddrizzò con un sospiro leggero.

    La studiò con evidente curiosità e rivoltandosela fra le dita. Prima a destra e poi a sinistra, ostentando un sorriso compiaciuto. Le mie parole dovevano aver fatto colpo.

    «Perciò se miro al cielo e la soffio lontano, esprimendo un desiderio, questo si dovrebbe avverare?», chiese con tono soffice e vellutato.

    Mi esaminò ancora più profondamente del solito, con la mente rivolta a qualche strano pensiero che non avrei potuto comprendere. Sembrava che non riuscisse a staccarmi gli occhi di dosso.

    «Sì», sogghignai stringendomi nelle spalle, «o almeno così diceva mia nonna».

    Mi fissò. Dopodiché ammirò la piuma che teneva fra i polpastrelli.

    Si umettò le labbra e piegò il viso e la piuma all’insù. Con lo sguardo rivolto al crepuscolo soffiò quest’ultima ed ella prese il volo. La piuma si perse nella corrente incrociando la dolce luce del giorno che rimaneva.

    La perdemmo di vista poco più tardi.

    «Tentare non nuoce mai. E se il desiderio si avverasse sarebbe di certo una benedizione». Mi scrutò con intensità travolgente: perfino i suoi occhi riflettevano il fuoco del tramonto. «Sono certo che non mi pentirò mai di ciò che ho desiderato».

    *

    «L</>avoro qui da parecchio, in effetti», disse Grace osservando distrattamente i bambini. «Ho iniziato a lavorare per il signor Jackson nel 1991, ma sono stata ufficialmente assunta come tata a partire dal 1997, quando nacque il piccolo Prince. Da quell'anno non mi sono più separata da loro. Sono diventata un membro della famiglia anch'io. Il signor Jackson è una persona gentile».

    Grace ed io eravamo sedute in salotto, con Prince e Paris sul tappeto che si svagavano con i loro giocattoli ignorandoci del tutto. Un po' di riposo prima che Jackson si fosse preparato e ci avesse raggiunto per dirigerci in sala da pranzo. Blanket dormiva nella sua cameretta, ma Grace portava sempre un walkie talkie con lei per monitorarlo.

    Mi raccontò la sua storia - il suo arrivo a Neverland, gli anni che aveva dedicato ai figli di Michael, le impressioni sul suo datore di lavoro... ma sempre con discrezione. Non si era mai lasciata andare veramente. Capivo che non amasse parlare con le persone di questo argomento, soprattutto guardandole direttamente in faccia. Non mi osservava per più di un minuto consecutivo.

    Era intelligente. In più non si fidava degli altri. Se si considerava la storia di Michael e le indiscrezioni sul suo conto, Grace aveva più che ragione.

    Ad ogni modo coltivavo il sospetto che fra i due ci fosse qualcosa. Non che avessero avuto grandi gesti di interesse o affetto reciproco, ma di sicuro non si sarebbero mai fatti vedere apertamente nella loro intimità.

    «E i bambini?», chiesi in un sussurro. «Che tipo di carattere hanno?»

    Grace mi lanciò un'occhiata fulminea; guardammo Prince e Paris, i quali ricambiarono donandoci un sorriso spontaneo e tornando immediatamente a giocare. Grace parlò con gli occhi fissi sui movimenti dei piccoli.

    «Sono bambini teneri, docili, e non c'è bisogno di sgridarli troppo se fanno qualcosa di sbagliato. Capiscono i loro errori e se fanno i capricci basta usare un tono maturo e sicuro. Prince può sembrare schivo e chiuso, ma con le persone giuste è un gran chiacchierone. Paris invece è tenace, forte, non ha paura di niente. Sa cosa vuole. È anche tanto sensibile e proprio come Prince non sopporta vedere il dolore negli altri. Sono dei bambini meravigliosi... unici...»

    Sorrisi impercettibilmente fissando i giocattoli che stavano usando. Erano totalmente immersi in un mondo di fantasia e sogni.

    Una cosa bella dell'essere bambini è che tutto appare semplice. Il mondo è perfetto così com’è. Nulla è importante se non la voglia di condividere la propria felicità con altri. Si amano le piccole cose, le minuscole scoperte. Gli occhi di un bambino sono aperti al mondo, curiosi e affascinati.

    Ho incontrato persone che, in tenera età, ostentavano sempre un sorriso in volto. Una volta adulti questi non sapevano più cosa significasse possedere la spensieratezza di un bimbo; non erano più in grado di giocare, di valutare le più "irrilevanti" conquiste con candida gioia e spontaneità. La magia era svanita. La vita li aveva cambiati.

    Proprio nel mentre di quelle riflessioni arrivò Jackson. Entrò con il passo di un felino aggraziato e rimase a scrutarci dalla soglia del salotto. Indossava una camicia di flanella a quadri - bianca, rossa e nera - e morbidi pantaloni di tuta nera.

    Volsi la testa non appena lo percepii entrare. Lo colsi adocchiarmi e in un secondo spostò la testa in direzione dei figli, sorridendo, i quali si erano subito alzati in piedi ed erano corsi verso di lui.

    «Perché non mi avete aspettato a tavola? Scommetto che state morendo di fame», accarezzò loro la testa.

    Ci scoccò uno sguardo benevolmente inquisitorio e, mostrando i denti, io e la tata ci alzammo dal divano.

    *

    «Daddy, possiamo vedere un film più tardi?», Paris sporse i gomiti in avanti indirizzando gli occhi preganti verso la figura del padre.

    Nonostante l'orgoglio e la voglia di tornare a casa per cena, in quel momento dimenticai completamente quali fossero le condizioni che mi ero imposta quando avevo accettato di lavorare lì. Non riuscivo a pensare ad altro se non alla serenità dell'ambiente circostante, che penetrante ma delicata soffiava sul mio cuore come una piacevole brezza.

    Michael sollevò gli occhi dalla cena.

    «Potremmo guardare un film d'azione, pieno di combattimenti e scontri! O un western. Con le pistole e gli indiani!», disse Prince enfaticamente, sfoderando la forchetta con il boccone non ancora mangiato.

    Fissai Michael nello stesso momento in cui mi guardò. Sorrisi. Lui fece lo stesso.

    «Direi che non sarebbe una brutta idea, ma non penso che sia adatto in presenza di una signorina...» - eccolo lì, con un'altra frase che mi dava tanto l'idea di flirt - «Potremmo darle un'impressione sbagliata», issò visibilmente un sopracciglio.

    Arrossii ma non chinai la testa. «Per me non c'è problema. Mi va bene qualsiasi cosa».

    Qualcosa nella mia faccia non lo convinse perché il sorriso si allargò con stile enigmatico e divertito. La prese come una bugia... cosa che, effettivamente, era. Le gote si tinsero più vistosamente.

    Non mi piacevano i film di guerra o azione a meno che non fossero storici. Soprattutto ero attratta dal romanticismo, dalle commedie, dalla magia. Qualche volta dalla fantascienza, ma non sempre. A vedermi non sembravo proprio tipo da violenza e carneficine: non perché fossi altezzosa o alla moda - non lo ero - ma perché ero così tranquilla e silenziosa che nessuno avrebbe osato presupporre che fossi un maschiaccio.

    «Potremmo guardare un cartone, no? Così faremo felice la nostra ospite».

    I due bimbi si guardarono e annuirono senza fare una piega o mostrare segno di insoddisfazione.

    Michael mi scrutò. «Toy Story andrebbe bene?»

    Alzai le spalle. «Sì, non l'ho mai visto».

    Quattro paia di occhi si piantarono sulla mia figura come spilli.

    «Non l'hai mai visto?». Michael sbatté velocemente le palpebre e curvò i lembi delle labbra all'insù, allibito. «Una fan dei cartoni animati non può non conoscere Toy Story! È una cosa inaudita!»

    Considerai l'idea di lasciarmi scivolare sotto il tavolo; se lo avessi fatto velocemente, forse, nessuno mi avrebbe notato e nessuno avrebbe studiato il rossore sulle mie guance sempre più evidente.

    Michael guardò i figli e Grace. «D'accordo, allora! Guarderemo quello!»

    Tirai un sospiro di sollievo, lieta che non avesse proseguito con la sua allegra presa in giro.

    *

    «Siete pronti?»

    Prince e Paris annuirono eccitati. Successivamente Michael si rivolse a me con espressione cordiale ma eloquente. Ricambiai assentendo.

    Erano quasi le 20.00 di sera - piuttosto presto in effetti, ma sapevo che Michael aveva scelto quell'orario affinché potessimo finire il film ad un orario accettabile. L'indomani avremmo avuto lezione.

    Per tutto il tragitto dal residence al cinema i due bambini mi avevano raccontato la trama del cartone facendo anche qualche "spoiler" su alcune scene del film. Io avevo sorriso e ascoltato, evitando di mostrare che non ci stavo capendo nulla. Michael aveva sudato sette camicie per far comprendere ai figli, con delicatezza, che non era giusto farmi tutte quelle anticipazioni. E io me ne ero stata zitta, ridendo sotto i baffi.

    La sala era immensa, fin troppo per contenere solo quattro persone - difatti Grace aveva deciso di non unirsi a noi per rimanere a badare al sonno del piccolo Blanket.

    Eravamo seduti al centro della sala su quattro poltrone in stoffa rossa. La sala era illuminata da luci bianco caldo, le quali risaltavano il parquet chiaro e le lunghe pareti bianche. Dinanzi a noi vi era uno schermo cinematografico gigantesco, nero come la pece. Ero seduta accanto a Prince e oltre lui si trovavano in ordine Michael e Paris.

    «Papà, quand'è che inizia il film? Mi sto annoiando», la piccola alzò il mento verso il padre.

    Quest'ultimo, sorridendo appena, si alzò dalla poltrona scarlatta.

    «Vado subito a controllare».

    Così dicendo si alzò e seguì lo stretto passaggio fra le gambe di Prince e i sedili della fila successiva. Quando fu obbligato a superare anche me cercai in tutti i modi di raggomitolarmi sul posto; strinsi i polpacci verso l'interno della poltrona, puntando le punte dei piedi sul legno quel tanto da dargli più spazio per scavalcarmi.

    Durò pochi secondi, ma fu in grado di farmi tremare un istante; sfiorò le mie ginocchia con le sue, cercando di non inciampare, ed entrambi ci scusammo lievemente come due perfetti estranei al cinema, in tono così basso da sembrare inudibile.

    Perché rabbrividii? Non lo sapevo e non lo so ancora.

    Tutti coloro che avevano incontrato Jackson almeno una volta nella vita avevano potuto percepire una strana magia in lui. Non riuscivi mai a capire come facesse o che cosa avesse di così particolare per riuscirci; l'effetto che provocava non era mai legato al suo aspetto fisico o alle sue maniere d'atteggiarsi: era la sua essenza che ti attraeva non appena gli stavi accanto. E se ti sfiorava, be’, quella era una sensazione diversa da tutte.

    Svanì nell'ombra delle mie riflessioni.

    Lo attesi muta come una tomba. Fu come se mi fosse andato in tilt il cervello. Quando Michael riapparve da una porta di servizio, dalla parte opposta a quella da cui era uscito circa dieci minuti prima, gli scoccai un'occhiata di sottecchi.

    «Preparatevi, ora inizia il film», sussurrò emozionato.

    Cacciò una fugace sbirciatina alla sottoscritta, proprio mentre l’oscurità calava sulla sala. Con un sorriso furbetto stampato in faccia non ricambiai.

    *

    «Un film molto carino!».

    Paris mi dedicò un'espressione allegra.

    «Dici davvero, signorina Sarah? Ti è piaciuto?»

    «Certo! Quasi quasi mi pento di non averlo mai visto prima», arcuai il sopracciglio sinistro, arricciando il naso. Mentivo, in realtà non mi era piaciuto per niente.

    Michael rise sotto i baffi.

    Eravamo a due passi dalla salita che portava al residence principale. Ci fermammo sul posto e Michael si rivolse ai suoi bambini ordinando loro di proseguire da soli e di andare subito a coricarsi, dichiarando che sarebbe arrivato il più presto possibile per il bacio della buonanotte. Annuirono senza discutere.

    Mi presero le mani, prima Paris e successivamente Prince, ed io mi chinai sulle ginocchia cercando di non perdere l'equilibrio e al contempo capire cosa stesse succedendo.

    «Grazie per aver passato questo pomeriggio con noi, signorina Sarah», sussurrò Paris con un mormorio dolcissimo, arrossendo lievemente.

    «Ci siamo divertiti molto, siamo felici di averti come nostra insegnante. Ti vogliamo bene», proseguì Prince, svoltando gli occhi verso qualche direzione ignota per non farsi vedere imbarazzato.

    «Oh...».

    Ci abbracciammo.

    Assaporai quella stretta in silenzio, accuratamente, abbassando le palpebre sui miei occhi carichi di gratitudine.

    Mi separai con un sorriso. «Ed io ringrazio voi. È un sentimento ricambiato».

    Accarezzai le loro guance e mi sollevai. Con passo veloce accorsero in casa e si congedarono sventolando le manine. Io e Michael li tenemmo d'occhio fino a quando oltrepassarono la porta d'entrata.

    «Ti accompagno alla macchina, ok?», Jackson mi adocchiò intensamente.

    Lo studiai con cipiglio stranito come se fossi appena caduta dalle nuvole. Acconsentii. Continuò a esaminarmi insistentemente fino a quando non mi mossi e non lo superai di qualche passo, sentendomi di nuovo a disagio.

    Ripensai all'abbraccio, alla tenerezza di Prince e Paris e a quello che era successo poco prima al cinema; ripensai a Prince, con le labbra socchiuse e gli occhi accesi di interesse - con la schiena inclinata verso le proprie ginocchia - e a Paris, con la sua buffa espressione da bambina sveglia, lo sguardo vigile e attento e quelle piccole dita strette a quelle del padre.

    Era così bello vedere le persone felici.

    Tra padre e figli il clima era di assoluto amore. Non c'erano tensioni, rabbie o dispiaceri. C'era affetto, serenità e divertimento. I bambini non erano capricciosi, viziati o quant'altro, ma indescrivibilmente pacifici e gioiosi di vivere la loro infanzia senza preoccuparsi del futuro.

    Per un attimo mi ero sentita parte della loro famiglia. Era stata un’emozione indescrivibile.

    Mi sentivo fortunata.

    Quando arrivammo al parcheggio Michael si bloccò prima che potessimo raggiungere l'auto. Mi osservò estrarre le chiavi dalla borsa e aggrottare la fronte alla ricerca di quella giusta. Egli non disse niente, standosene con le mani nelle tasche e dondolando sulle punte dei mocassini.

    Trovai la chiave.

    «Grazie mille per la splendida giornata. Chiedo scusa se ho disturbato in qualche modo», lo adocchiai timidamente.

    Con espressione impassibile mi si avvicinò. «Grazie a te. Non hai disturbato nessuno, tantomeno me, in nessun modo».

    Fu allora che spalancò le braccia e mi avvolse. Le sue mani grandi si adagiarono sulla mia schiena cingendomi con dolcezza innata, sfiorandomi i capelli. La pressione si fece man mano più avvolgente.

    Sentii mancare il fiato.

    «Ti ringrazio per quello che fai per me e per i miei figli. Ti voglio bene, non dimenticarlo. Sono felice di averti qui».

    La sua voce era un sussurro, un roco ed emozionato bisbiglio che mi regalava la pelle d'oca. Lo sentii entrare fin sotto la pelle come il vento estivo scivola tra le finestre socchiuse di una camera da letto, dove il Sole non smette di brillare in cielo e la brezza scosta le tende bianche, avvolgendo l'intera stanza con un delicato profumo di pulito.

    La nuca fu colta da pulsazioni interminabili. Ogni punto sul quale aveva poggiato le mani pareva bruciare. La sua vicinanza eclissava ogni pensiero.

    «Anche... anche io», sorrisi spaesata.

    Si separò ed indietreggiò. Gli detti le spalle impacciata, senza guardarlo, ed infilai la chiave per aprire la portiera. Lo salutai con una mano prima di salire in auto e senza attendere la sua risposta. Mi sedetti, misi in moto e partii... il tutto senza pensare a ciò che stavo facendo.

    Solo quando oltrepassai i cancelli di Neverland - grazie al freddo notturno che pioveva dai finestrini abbassati - fui nuovamente in grado di respirare.

    *

    Il telefono squillò.

    Mi ci volle un po' per realizzare che ore fossero e che diavolo stesse succedendo.

    All'inizio credetti di star sognando, perciò non mi mossi. Ma quando gli squilli non accennarono a smettere mi alzai di soprassalto - gli occhi semi chiusi e la bocca tutta impastata. Con l'agilità di una gazzella inebetita mi alzai e accorsi verso il corridoio. Avevo messo il telefono a caricare sopra un mobiletto isolato, pensando che nessuno mi avrebbe cercato a quell’ora.

    Erano le 2.37.

    Afferrai il cellulare e risposi di getto.

    «Pronto

    Parlai italiano. Ero sicura che soltanto mia madre avrebbe potuto chiamarmi ad un simile orario.

    Pensai al peggio, ovviamente.

    Pochi secondi e qualcun altro chiamò il mio nome.

    «Sarah?»

    «Sì...?», risposi in inglese.

    Riconobbi la voce.

    «Scusa, stavi dormendo?»

    «Uhm...», dissi stropicciandomi gli occhi con le dita.

    «Sì, certo che stavi dormendo... che stupido a chiedertelo... vero?»

    «Un po’...», emisi un risolino piuttosto gracchiante. Michael sogghignò di rimando. Mi feci seria. «C'è qualcosa che non va? È successo qualcosa a Paris o a Prince? A Blanket?»

    «No, io... volevo soltanto sentirti...», biascicò fingendo tranquillità. «Non riuscivo a dormire. Non sapevo con chi altro avrei potuto parlare, e così... be', non so perché ho deciso di chiamare proprio te... forse sono uno stupido, ma... ne sento il bisogno».

    «Oh».




    Edited by fallagain - 8/11/2021, 23:25
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