Posts written by fallagain

  1. .
    Capitolo Trentadue: Le Montagne Russe


    Mi lasciai sommergere dall’acqua, chiudendo gli occhi.

    L’idromassaggio era acceso, coccolava il mio corpo dolcemente. L’acqua era calda, amabile e destabilizzante. La musica di R. Kelly alleggiava nell’aria grazie ai potenti impianti audio installati nel bagno.

    Adoravo quella stanza. Era grande e spaziosa, illuminata da luci regolabili manualmente. La vasca era bianca, più o meno di forma rettangolare ma con gli spigoli arrotondati, posta in un angolo estremo della stanza proprio accanto ad ampie finestre; il bordo della vasca era in marmo nero e lucido. L’acqua scorreva dal becco di un cigno dorato.

    Lasciai cadere la testa all'indietro, fissando la figura di quell’incantevole animale.

    Tante cose erano cambiate rispetto ai mesi precedenti. Solo cinque giorni prima Michael e io avevamo ufficialmente detto addio al vecchio rapporto di amicizia, trasformandoci in una specie di migliori amici e al contempo amanti.

    Si poteva essere amanti e migliori amici assieme?

    Probabilmente sì, ma io sentivo di non rientrare in nessuna delle due categorie. Amare Michael, stare con Michael, essere una cosa sola con Michael anche solo attraverso uno sguardo, non era cosa da potersi classificare, figuriamoci se sarebbe potuto esserlo la nostra relazione. Era un legame che non si poteva etichettare – almeno secondo me. Non eravamo né fidanzati, né amici, né tanto meno padre e figlia o marito e moglie, o fratello e sorella. Eravamo un po’ di tutto. Anime gemelle? Non avevo la presunzione di esserlo, non mi passava neanche per la testa. Ci avrei sperato, ma sapevo che in qualche parte del mondo ci sarebbe stata un’altra donna capace di renderlo più felice e completo di me. Dovevo accettarlo, godermi quel che veniva senza preoccupazioni.

    Ma a volte venivo presa dallo sconforto.

    Improvvisamente la gioia si trasformava in dubbio, paranoie, paura, e diffidenza. Cominciavo a definirmi parte di qualcosa che non poteva esistere per davvero. Non capivo che felicità potesse trarre Michael da me, stando in mia compagnia. Forse era questo che metteva in caos tutto il mio mondo. Avevo paura, non potevo negarlo, e c’erano momenti in cui avrei desiderato tornare indietro... attimi in cui lo sconforto prendeva possesso di me e mi raggelava.

    E Michael, come se lo percepisse, mi stava accanto. Silenziosamente comprendeva quando avevo bisogno del suo sostegno. E di colpo, grazie al suo amore, tutte le angosce si zittivano. Magari momentaneamente, ma succedeva.

    La scuola e i bambini mi avevano rapito quasi tutti i giorni; Michael era totalmente concentrato su nuovi pezzi in sala di registrazione e sulle udienze preliminari del processo per le accuse di pedofilia. Faticava a fare pause dal lavoro: quando si puntava, non lo si smuoveva con niente. Ciò nonostante, quel venerdì tornammo a Neverland come di routine.

    Io e Michael stavamo insieme alla sera, finita di raccontare la fiaba ai suoi bambini, oppure quando questi giocavano assieme ed erano sotto il controllo di Grace. Allora Michael mi sorrideva, mi abbracciava, chiudeva gli occhi e cominciava a baciarmi. Nessuno dei due emetteva parola. Io personalmente non ne ero capace.

    Non ero una persona sdolcinata e, tutto sommato, neanche Michael lo era. Eppure non rifiutavo mai l’affetto che mi offriva. Amava accarezzarmi i capelli e io di risposta le mani; mi osservava tanto, io arrossivo e gli dicevo di smetterla perché mi metteva in imbarazzo, e lui rideva... guardavamo film, ridavamo come due scemi, mi invitava a fare l’idiota comportandosi come un ragazzino, e io gli andavo dietro come se niente fosse: era bellissimo, perché non avevamo perso la voglia di essere amici.

    La cosa che mi metteva più angoscia era l’avvicinarsi della fine della scuola di Prince e Paris. Per i normali bambini delle elementari era finita da un pezzo, ma avendo perso qualche settimana di lezione a novembre, il loro programma non era stato terminato. E Michael ci teneva all’istruzione dei suoi bambini.

    Quasi tre mesi di vacanza e io avrei preso una pausa... ma cosa avrei fatto? Sarei rimasta a Neverland? Non avrei potuto vedere Michael per un bel pezzo, probabilmente. Sarebbe stato troppo sospetto. Che cosa avrebbe detto lui al riguardo? Mica poteva tenermi con sé per sempre.

    Mi sistemai meglio il mollettone dietro la nuca, stando attenta a non bagnare i capelli, e mi strinsi le ginocchia al petto. Un fremito mi avvolse il corpo al ricordo delle mani di Michael sulla pelle. Me le infilava sotto la camicia, sotto la canottiera… arrivava ai fianchi, alla schiena, e qualche volta anche ai glutei. Gli piaceva baciare la mia carne e sentirne l’odore di pulito e io facevo lo stesso. Mi diceva che avevo un buon profumo. Amava darmi piccoli buffetti sul sedere, sulle cosce o sul viso; cercava di abbassarmi le spalline del reggiseno come sempre, studiava le mie curve quando capitava che mi dovessi chinare per afferrare qualcosa... con un sorriso indefinibile sul volto.

    Qualcuno bussò alla porta e il mio istinto fu subito quello di alzare la voce dicendo «Occupato». In quella casa erano tutti molto educati e rispettosi: non si entrava in una stanza senza aver prima chiesto il permesso.

    «Sarah, sono Michael».

    Giusto, i bambini erano andati al parco con Grace.

    «Scusa se ti disturbo, posso entrare un secondo?». Piccola pausa. «Penso di aver lasciato dei demo in bagno e mi servono. Ci metto poco».

    Lasciato dei demo in bagno?

    Guardai l’acqua e notai che le bolle e la schiuma del potente getto idromassaggio riuscivano a coprire le mie parti nude. Ma perché cavolo stavo cercando di nascondere il mio corpo? Ero forse insicura?

    «Oh, sì» dissi crucciandomi dal dubbio. «Entra pure»

    La porta si aprì di poco e non persi l’occasione di nascondere le mie curve con le mani; solo il seno veniva scoperto per metà, o quasi.

    Michael entrò a passo deciso. Sotto il mio sguardo impenetrabile si avviò verso lo stereo e, chinandosi a terra, aprì un cassetto; estrasse un paio di CD da una scatolina chiuso a chiave. Si alzò e con una lentezza esasperante li osservò uno alla volta, corrugando la fronte. Umettandosi frequentemente le labbra rimase in silenzio, muovendo il capo a ritmo di musica. Solo il basso rumorio dell’idromassaggio e l’inizio della canzone Your body’s calling sembravano far scorrere il tempo.

    Chinai lo sguardo sulla porzione di seno appena visibile. Avvicinai le ginocchia al petto – ancor più di prima – e osservai il cigno d’oro alla mia sinistra. Rimasi puntata su di esso per un periodo indefinito, ma sentendomi fin troppo osservata, volsi la mia attenzione verso Michael; le sue iridi si spostarono velocemente dal mio viso ai suoi CD.

    Si era incamminato verso la finestra, sedendosi a bordo della vasca, su un punto non bagnato del marmo nero. Incrociò una gamba sull’altra. Fingeva di esaminare altro, ma in realtà sapevo benissimo dove stesse vagando il suo sguardo. Con un’espressione leggermente maliziosa rimasi a osservarlo in silenzio, cercando di trattenere un sorriso divertito. Chissà quanto avrebbe portato avanti quella pessima messinscena.

    «Uhm». Michael drizzò la schiena. «Strano...»

    «Che cosa?», chiesi mordendomi un labbro per non scoppiare a ridergli in faccia.

    «Pensavo di aver lasciato dei demo qui, ma non ci sono», mormorò. Mi gettò uno sguardo penetrante, uno sguardo da ragazzino ingenuo per niente credibile.

    Risi, scuotendo il capo. «Sì, certo...»

    Alzò un sopracciglio.

    «Hai controllato bene il cassetto?», ridacchiai ignorandolo. «O da qualche altra parte?», mi sistemai un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, accennando al ripiano chiuso a chiave con un gesto del capo.

    Lo guardai e non rispose. Anche a Michael veniva da ridere.

    «No, Sarah», si sistemò bene sul posto, poggiando il peso su una mano. La sua espressione era un misto fra dubbio e ilare curiosità. «Ripetimi cosa hai detto, non penso di aver capito...»

    «Niente, niente…», sghignazzai sventolando la mano davanti alla faccia per chiudere il discorso.

    Michael non fece una piega. Rimase a studiare ogni dettaglio, ogni capello fuori posto, ogni lineamento del mio volto e ogni espressione che facevo inconsapevolmente. Mi analizzava e ciò mi faceva arrossire, ma non smettevo di ricambiare con un’occhiata altrettanto attenta e intensa.

    Ad un certo punto parlai, alzando un angolo delle labbra in un sorriso birichino. «Vuoi rimanere a scrutarmi fino a quando non finisco il bagno?».

    «Anche dopo, se vuoi».

    Risi, facendo cadere la testa all’indietro.

    «Perché?», domandò lui, curioso istigatore. Sorrideva appena. «La mia presenza ti infastidisce per caso?». Posizionò il busto in mia direzione, poggiando anche l’altra mano sul marmo.

    Il suo sguardo era eccitante. Serietà e desiderio in una cosa sola. In più era vestito completamente di nero: pantaloni neri stretti e camicia leggera dello stesso colore. I primi due bottoni erano slacciati. Era una combo micidiale. I capelli erano perfettamente ondulati come al solito.

    «No, no, figurarsi!», esclamai con schiettezza, ridacchiando con palese ironia. «Ma mi pare strano che tu possa dimenticare dei demo proprio qui. Una parte di me, forse l’istinto, mi fa pensare che tu sia venuto apposta per controllarmi...», alzai un sopracciglio.

    Sospirai e senza il minimo pudore o ritegno lasciai che il polpaccio destro uscisse dall’acqua, seguito immediatamente dal ginocchio; drizzai il piede distendendo la gamba, poi essa compì un mezzo cerchio e si appoggiò sul ginocchio opposto. Sorridevo con nonchalance, come se quel gesto fosse fin troppo innocente e casto.

    Il mio misero e buffo tentativo di attirare il suo sguardo riuscì alla perfezione. Michael, attento, osservò il movimento della gamba: le labbra si incurvarono in un tenero sorriso, mentre gli occhi proiettarono esplicitamente un enigmatico bagliore di frastornazione.

    «Non capisco proprio da dove ti nascano certe idee in testa», mormorò sottolineando le ultime parole con divertimento. Mi puntò e mi squadrò profondamente. «Potrei dire che quella che provoca sia proprio tu»

    Sorrisi maliziosamente, stringendomi nelle spalle. «Io non direi proprio».

    «Ah no?», esclamò inarcando le sopracciglia.

    Stando attenta ai movimenti che facevo mi coprii i seni e mi avvicinai al bordo vasca, quello dove era seduto. Mi osservò mentre stringevo le mani sul bordo e adagiavo il capo su di esse. Iniziai a tirare fuori discorsi senza senso, con uno sfrontato sorriso in faccia.

    «Lo sai che da piccola amavo il cartone La Sirenetta? E ti dirò una cosa che ti farà ridere un sacco: ogni volta che andavo al mare e beccavo uno scoglio, mi fingevo Ariel».

    Ridacchiò per quella mia confessione, scuotendo il capo.

    «Poi mi sono resa conto che le vere sirene non sono affatto come Ariel. Sono tentatrici e portano i marinai e i navigatori a morte certa». Gli scoccai un'occhiata furbetta. «Se fossi una di loro, ti avrei già fatto cadere in acqua e affondare...»

    «Lo stai per fare, principessa», mormorò appena.

    Arrossii sorridendo compiaciuta.

    Michael si umettò nervosamente le labbra. Respirò a fondo, a pieni polmoni, innalzando un muro di calma apparente. I suoi due occhi scuri esaminavano tutto, anche il seno che sporgeva appena dal livello dell'acqua.

    «Non lo so, sai?» arricciai il naso scetticamente. «Penso che non sarei mai in grado di farti cadere in vasca. Non sono un bottino così allettante, e tu non avresti mai il coraggio di immergerti...», lo provocai con un sorriso di sfida.

    Michael distese la fronte in un’espressione sorpresa. Pochi secondi più tardi la corrugò, mordendosi il labbra inferiore. I suoi occhi si accesero dal divertimento e dall’eccitazione. Mi puntò con un dito.

    «Tu mi stai sfidando

    Mi morsi le labbra anch’io e mi trattenni dal ridere, ma non abbassai lo sguardo.

    «No, sto semplicemente alludendo alla verità!».

    S’incupì. «Be’, ti sbagli».

    «Io non credo».

    «Lo fai solo per provocarmi».

    «Perché dovrei?» risi. «Non ne ho alcun motivo. Hai troppo rispetto della mia intimità per entrare in questa vasca con me. Non lo puoi fare».

    Michael fece per dire qualcosa, ma si trattenne. Mi guardò con due occhi carichi di sfida. Aveva compreso che mi stavo divertendo.

    «D’accordo» affermò all’improvviso, in tono serio. La sua faccia era il riflesso del lato permaloso del suo carattere, eloquente al massimo. «Hai ragione».

    Michael si alzò in piedi con una faccia di assoluta imperscrutabilità. Mi ignorò, poggiò i CD nel ripiano dal quale li aveva presi, richiuse a chiave e si incamminò verso la porta. Tutto questo senza dirmi una parola.

    «Dai, Michael…!» lo richiamai ridendo.

    Il mio tono pregante lo fece fermare sul posto. M’osservò fintamente gentile, le labbra serrate e le sopracciglia inarcate in una smorfia di leggero nervosismo. Sapeva essere davvero suscettibile. Sbatteva le palpebre in maniera molto veloce.

    «Uffa…» mormorai sbuffando. «E io che volevo chiederti un bacio».

    Silenzio.

    Il rumore dei passi di Michael fu attutito dalla musica movimentata. Alzai lo sguardo e me lo ritrovai chinato sulle ginocchia, con le mani appoggiate sulla vasca, la camicia un po’ sbottonata e quello sguardo in grado di farmi impazzire gli ormoni in un solo secondo. Il suo viso marcato, la fossetta del mento che mi mandava fuori di testa... i capelli corvini e leggermente ondulati... e quegli occhi in grado di scavare nell’anima in un istante.

    Lo desideravo ardentemente.

    Mostrandosi più sereno accostò le labbra alle mie e vi scoccò un gentile bacio. Ricambiai con la stessa amabilità, nascondendo il dolore che contrasse i miei poveri addominali e la mia femminilità. Si separò alzando gli angoli della bocca in un dolce sorriso.

    «A più tardi, sirenetta...» bisbigliò carezzevole.

    Un colorito rosato mi dipinse le guance. Si alzò in piedi e mostrandomi la lingua uscì dalla stanza.

    Abbassai lo sguardo.

    Quando sarei dovuta andarmene per le vacanze estive… be’, quelli sarebbero stati alcuni dei momenti che mi sarebbero mancati di più. Tre mesi, in fin dei conti, erano pochi. Ma il sentimento si sarebbe affievolito o si sarebbe rafforzato?

    Di che cosa avevo paura?

    Di me o di lui?

    Non passò neanche un minuto che, a metà della canzone Ignition (Remix), la porta si riaprì una seconda volta. Era Michael.

    Lo fissai sconcertata.

    Era tranquillo e composto. Chiuse la porta con un solo gesto del polso. Era concentrato, canticchiava silenziosamente la canzone, ma quell’accentuato sorriso in faccia non mi convinceva per niente.

    «Michael…?».

    Mi coprii per una seconda volta il seno con le mani.

    Michael mi scoccò una rapida occhiata. Un guizzo di luce nei suoi occhi e l’alzarsi di un lembo delle labbra mi fece intendere che le sue intenzioni non erano affatto caste. Lo guardai con le labbra socchiuse per un paio di secondi, fino al momento in cui non persi il fiato completamente.

    Michael si era seduto sul bordo di marmo nero della vasca, proprio come poco prima, ma si stava tirando via i mocassini. Poco dopo si tolse pure i calzini. Si alzò in piedi.

    «Michael…?!» lo chiamai con un fil di voce, ridendo.

    Sollevò le sopracciglia, fingendosi sorpreso. «Sì?»

    Senza rispondere lo guardai a bocca aperta mentre si sbottonava la camicia. La sua pelle era macchiata da alcuni segni di vitiligine, eppure era stupendo. Incantevole.

    Non potevo credere lo avrebbe fatto sul serio.

    Spalancai le palpebre e arrossii, capendo le sue intenzioni. Mi portai una mano sulla fronte, ridacchiando nervosamente.

    «Michael...» mormorai, imbarazzata. «Io scherzavo!»

    Ridacchiò piano, dirigendo le dita sui pantaloni scuri. «Prima ti sei mostrata decisamente convinta della tua opinione, o sbaglio? Sai che non metto in dubbio la tua parola. Tu mi provochi, e allora rispondo di conseguenza...»

    Abbassò la zip dei pantaloni e slacciò l’unico bottone che li teneva sui fianchi. Se li abbassò fingendo totale indifferenza, come se quella fosse una cosa da nulla. Ma davanti ai miei occhi risaltò subito quel particolare, quello strano allettante particolare che fece contrarre le pareti del basso ventre. Era tenuto in un paio di boxer bianchi, non troppo stretto a dire il vero, ma nemmeno in grado di “attenuare” la... be’, sì, avrete immaginato di cosa sto parlando.

    Avvampai vedendolo immergere un piede nell’acqua. Emisi un gracile mormorio, sconcertata ma divertita, indecisa se osservarlo e ridergli in faccia… o se saltargli addosso.

    Con un sorriso immerse tutte e due le gambe nell’acqua calda, si lasciò scivolare lentamente e sospirò piano. Appoggiò le mani sugli angoli della vasca. Mi studiò incuriosito e strafottente. Io mi ero raggomitolata nella parte opposta alla sua, troppo sbigottita per parlare; io ero nuda, mentre lui indossava soltanto un paio di boxer. Ero in trappola. Nella sua trappola.

    Alzò un sopracciglio. «Ancora convinta che io non sia capace di qualcosa?» domandò allegramente.

    I suoi occhi non avevano più un accenno di innocenza.

    «In teoria», gracchiai arrossendo, «io non ho detto che dovevi venire dentro con i boxer...»

    «Avresti preferito senza niente?» chiese sorridendo apertamente e maliziosamente, contraendo la mia intimità con una sola occhiata.

    «No, no!» esclamai. «Non oserei mai chiederti tanto!»

    Ero una scema. Qualunque donna sana di mente avrebbe detto di sì al posto mio.

    Michael inarcò maggiormente il sopracciglio sinistro.

    «Ma lo avresti preferito?».

    «Io...»

    Riuscii a ingoiare la saliva a fatica. Non risposi, vedendo come Michael – con sorrisetto sbarazzino e provocatorio – allontanava mani e corpo dal bordo vasca per avvicinarsi a me.

    «Michael...», risi imbarazzata e divertita assieme. «Non fare il dispettoso! Dai, ti credo, hai ragione…!», mi prese il polso che copriva una porzione di seno. «Michael!», gli risi in faccia arrossendo.

    «Non dirmi che ora hai paura...» sussurrò con voce roca.

    Quando utilizzava quella voce diventava ancora più sensuale del solito. Era un tono basso, maturo. Mi guardava come un leone ammira la sua preda. Come se non aspettasse altro che assaggiarmi. Quella morsa al ventre non smetteva di fare male.

    «In realtà ne ho tantissima!», ridacchiai nervosamente, cercando di fargli lasciare la presa, sistemandomi un ciuffo dietro l’orecchio.

    Rabbrividii, ma Michael non mi mollò neanche per un istante. Sembrava che riuscisse a vedermi nuda anche senza l’acqua, la schiuma e tutto il resto. Era ipnotizzato da me. Mi possedeva senza avermi ancora posseduto davvero.

    «E perché avresti paura?», sorrise.

    Mi tirò verso sé, mentre l’altra mano avanzava verso il mio viso. Le distanze si riducevano senza che io me ne accorgessi. Le mie guance scottavano e abbassai gli occhi di riflesso.

    «Sai, a volte non penso che ti piaceranno le sorprese che ti riserva il mio corpo» dissi con sarcastico divertimento, scuotendo il capo.

    Ma nonostante il tono allegro della mia voce, il suo sorriso si spense. La sua espressione felina e segretamente divertita tramontò lasciando spazio ad un’occhiata cupa e pensierosa. Compresi che quello che gli avevo detto non gli piaceva. E il mio tentativo di buttarla sul ridere non aveva funzionato.

    «Tu davvero ti preoccupi di questo?».

    Non risposi. Guardai le tende per non morire sotto la severità di quelle iridi perforanti. Sentivo di essere calda in viso come mai lo ero stata fino ad allora. Non ero sicura di volergli spiegare tutte le insicurezze che provavo. Anche io, di tanto in tanto, non mi piacevo. È una cosa normale.

    «Non credi di piacermi?».

    Pausa. Le mani che mi stringevano mollarono un po’ la presa.

    Borbottai. «Tutti gli uomini vorrebbero una donna con un bel fisico longilineo al proprio fianco. Con le curve, sì, ma nei punti giusti… non è che io sia ‘sta Venere greca».

    «Tutti gli uomini?» chiese lui.

    Lo adocchiai di soppiatto. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e non sapeva che rispondere; ma poi, d’improvviso, prese un respiro profondo. Scosse il capo. Sorrideva.

    «Sarah…».

    Si umettò le labbra. La sua espressione era intenerita.

    Rimasi immobile, sulla difensiva, ma mi lasciai trascinare dalle sue mani, piano pianino. Arrossii senza guardarlo negli occhi, respirando a fondo, autoinvitandomi a calmare gli ormoni impazziti.

    «Lascia andare la presa...» mormorò affabile.

    Lo osservai e vidi che indicava il seno.

    Dopo alcuni secondi di muta riflessione scostai le braccia e la mano sinistra dal petto. Ero così imbarazzata che sentivo uscire il fumo dalle orecchie come una locomotiva. Mai mi ero sentita così insicura. Si vedeva quasi tutto, compresi i capezzoli, già inturgiditi nel momento in cui era entrato nella vasca. Michael sorrise dolce e, incatenando lo sguardo al mio, si appoggiò con la schiena sul bordo della vasca. Distese le gambe e mi invitò a sedermi sopra di lui. Aprii le gambe per potermi posizionare sopra le sue cosce, attenta a non sfiorare la sua intimità.

    Mi sentivo così impacciata e al contempo stesso così protetta: le sue mani mi tennero dolcemente per la vita e mi fecero sentire nel posto più sicuro al mondo. Non avevo paura di niente, se non di quelle iridi intense come non mai. Tutto il resto, avvolta nel suo abbraccio, scompariva.

    Una volta sopra di lui, Michael mi guardò negli occhi e rimase in silenzio per un po’. Le sue mani scivolarono in basso, verso i fianchi coperti d’acqua. Li carezzò a lungo e analizzò amorevolmente il seno prosperoso. La lussuria nella sua espressione mi velocizzò il respiro.

    «Non devi più dire certe idiozie» bisbigliò.

    Le sue dita scesero ancora più in basso, verso i glutei. Trattenendo il fiato avvicinai il ventre al suo. Chiuse gli occhi ed inspirò a fondo, continuando quella perlustrazione al mio corpo con le dita.

    «Se mi sono innamorato di te è per la tua anima. Ma il tuo corpo, per quanto impossibile possa sembrarti...», mormorò rocamente. «E le tue curve...» La mano sinistra si diresse sul seno destro. «Queste adorabili curve...» Lo prese fra le dita e lo alzò piano. «Le amo con tutto me stesso».

    Pose le labbra sul capezzolo, schiudendole per farlo entrare. Lo portò piano in bocca e lo baciò appassionatamente, esitando e prendendo delle pause di pochi secondi tra un bacio e l’altro, leccandolo con maestria e gustandolo fino a irrigidirlo più che poté. L’altra mano avanzò sulla coscia e la massaggiò con devota cura, avvicinandosi e allontanandosi dalla mia zona più intima.

    Rilasciai un piccolo e strozzato gemito.

    La mia carne bruciò con ardore sotto le sue carezze. Fremevo sotto la sua guida, le palpebre si riducevano ad una fessura nonostante la voglia di guardarlo fosse immensa. Il cuore pareva sul punto di scoppiare.

    Michael abbandonò il capo fra i due seni, mi baciò e massaggiò con la mano sinistra il capezzolo, torturandolo e torturandolo ancora, fino a farmi gemere una seconda volta. Le mani scesero e si fermarono sul bacino, accarezzandomi la schiena e delineando la spina dorsale con due dita. Essa si sciolse e mille brividi parvero avvolgermi in un abbraccio destabilizzante.

    Michael mi lanciò uno sguardo intenso, duro, sensuale. I suoi occhi erano lo specchio dei suoi sentimenti.

    Serrai le palpebre e inclinai la testa all’indietro, sentendo le sue dita avviarsi verso la mia zona segreta e, fino a poco prima, protetta. Emisi un sospiro soffocato, mentre il seno si alzava e si abbassava a ritmo irregolare. Mi avvicinai al viso di Michael e lo baciai vicino alle tempie, bramandolo sconsideratamente.

    Con due dita della mano libera mi prese il mento e lo abbassò, premendo e assaporandomi le labbra. Tutto fu più rapido, più energico. Mugolai nell’istante in cui percepii l’altra sua mano vicinissima alla mia intimità. Quando fu sul punto di entrare in me si bloccò, lasciando che la mia schiena si incurvasse appena. Il dito medio saliva e scendeva piano, impercettibilmente, sulla zona più sensibile del mio corpo.

    Mi tenni saldamente alle sue spalle, rabbrividendo, e nascosi il viso tra i suoi capelli.

    Respirai a fatica.

    Scese ancora, ed infine entrò dentro. Lanciai un gemito breve ma acuto, alzando il viso verso l'alto e spalancando labbra e palpebre. Mi baciò il collo con lentezza. Come la lama di un coltello affonda la carne, scavò in me eseguendo le manovre più pazze e sconsiderate che avessi mai subito da un uomo.

    «Michael...», piagnucolai. «Oh... Dio...» chiusi gli occhi sentendolo più forte e più rapido dentro di me. «Michael...», ansimai.

    Il bacino si ritrovò a seguire le pressioni delle sue dita con movenze sinuose e lente. Le mani si tennero alle sue spalle nel tentativo di non far cedere le gambe. Avvicinai il seno alle sue labbra. Non attese oltre per assaporarli con dolcezza.

    «Sarah...» sussurrò. La sua voce era molto più bassa del solito, incontrollatamente rauca. La sua espressione era profonda e sicura. «Chiamami per nome...»

    Spinse di più e velocizzò il ritmo. Gemetti. La musica allo stereo diventava sempre più lontana.

    Era impossibile credere che solo con due dita fosse in grado di farmi impazzire così. Sapeva benissimo dove toccarmi. Non ero più nella condizione di sapere cosa stavo facendo. Non sapevo dove ero, quanto tempo fosse passato... niente.

    Spinse ancora, aumentando le pressioni. La sua unica mano libera si posò sulla mia schiena e mi invitò a spingere verso lui.

    «Chiamami...» rantolò, «voglio sentirti...».

    «Michael...»

    «Ancora...», sussurrò, «ancora...».

    Ero lì, ne ero sicura.

    «Michael, ti prego... Michael...»

    Lasciai cadere la testa all'indietro.

    «Mio Dio...» quasi urlai. «Oh Mi...»

    L'ondata di maestoso piacere si liberò, avvolgendo ogni parte di me. Fu rapido e tuttavia intenso, un momento che mi immobilizzò totalmente nel tempo e nello spazio.

    Sospirai aprendo gli occhi.

    Le mie pareti scalpitarono e le sue dita placarono la loro frenetica ricerca, proseguendo con carezze molto più lente. Il respiro rallentò di poco, mentre il cuore batteva rumorosamente in petto. Tutto divenne pian piano più lucido. I colori tornarono e le forme pure, così come anche la memoria.

    Adocchiai Michael solo per un secondo. Mi osservava con due occhi famelici e divertiti. Dopodiché posi il viso nell'incavo del suo meraviglioso collo. Con le labbra gli sfiorai l’orecchio.

    Lasciai che i miei polpastrelli scendessero lungo suo petto. Lo accarezzarono dolcemente. Michael si irrigidì ed io continuai a dirigermi verso il basso, senza trattenere l'impazienza. Gli lambii il collo con la bocca e respirai il suo inebriante profumo, percependo un’altra scossa al ventre.

    Lo sentivo chiaramente sotto di me, fiero e imponente, al di sotto della biancheria.

    Ero così spinta dal desiderio di averlo dentro di me ed essere sua che avevo detto addio ad ogni limite. Le sue dita erano ancora in me.

    Volevo di più. Volevo ogni cosa.

    «Sarah...» bisbigliò Michael nel mio cauto avanzare verso il suo membro, oltrepassando il confine segnato dalla stoffa di cotone. Il respiro tremò, la testa cadde all’indietro e gli occhi si socchiusero. «Uhm...»

    Mi apprestai a sfiorare il suo membro con le dita; dapprima titubanti e in seguito più sicure, più decise.

    Michael cominciò a gemere fra sospiri sommessi. Mi afferrò i fianchi.

    Delle voci vicine mi distrassero, segno che la cosa non poteva continuare ancora per molto. Ma io e tanto meno Michael eravamo sul punto di fermarci: continuai a cercarlo, lui continuò a stringermi a sé, fremente dal desiderio. Rabbrividiva... mormorava... gemeva...

    Poi di colpo un bussare alla porta ci fece sobbalzare.

    Tutti e due ci girammo di scatto, scossi e sgomenti, il cuore che scalpitava per lo spavento dopo un intenso attimo di estasi interrotto proprio sul più bello. Avevo il terrore che qualcuno potesse entrare e ci vedesse.

    Fu come cadere giù dal letto nel pieno di un sonno profondo: un risveglio brusco, terribile a dir poco.

    «Papààà?» domandò una voce.

    Prince.

    Porca miseria...

    Il mio sguardo fu subito su Michael, occhiata ricambiata con la stessa ansietà che descriveva la mia. Avvampammo. Tornai a fissare la porta.

    Ingoiai la saliva. «Prince, sono io, Sarah!», tentai di non balbettare.

    «Dov'è papà?» urlò per farsi udire sopra la musica.

    Ti prego, Prince: credi alle mie bugie. Fallo per me.

    «Non è in studio di registrazione?» arrossii più di prima, portandomi una mano sulla faccia per l’imbarazzo. «Hai provato a guardare?»

    Mi sentivo male.

    «No... a dopo, zia!»

    Eh, sì, zia… zia un cazzo…

    Alcuni passi.

    Poi il nulla.

    Passarono alcuni istanti prima che avessi il coraggio di muovere un solo muscolo. Il mio corpo era paralizzato. Il collo pure, verso la porta. Non ero sicura che se ne fosse andato.

    L'atmosfera era stata sicuramente interrotta dall'intervento del piccolo, troppo incosciente per capire cosa stesse succedendo per davvero o chi fosse in quel bagno con me. Perfino la musica che ascoltavo sembrava complice di un delitto perfetto.

    Sobbalzai all'improvviso, percependo il viso di Michael e il suo calore nello spazio fra i due seni. Il petto vibrò per l'emozione. Vi scoccò un bacio delicato.

    «È meglio che finiamo qui, sirenetta» sussurrò. «Altrimenti si preoccuperanno per me...»

    Annuii ma lui non mi vide. Alzò gli occhi con timidezza e tenerezza assieme, azzardando a un sorriso. Era un po’ accaldato. Annuii ancora.

    Sollevai le gambe e mi sedetti vicino a lui. Egli si alzò immediatamente e uscì dalla vasca. Prese un asciugamano poco distante da dove ci trovavamo e si avvolse completamente. Si asciugò il corpo in fretta e furia e – voltando la testa dalla parte opposta per non farlo sentire a disagio – si spogliò dei boxer, rimettendosi i vestiti di poco prima. Con le guance ancora tutte rosse mi si avvicinò: mi dette un bacio veloce sulle labbra e a testa bassa uscì dalla stanza, controllando che a destra o a sinistra non spuntasse uno dei bambini o dei domestici.

    Io mi lasciai seppellire dall’acqua dell’idromassaggio. In silenzio pensai e ripensai a quello che era avvenuto poco prima, al senso di beatitudine che avevo provato quando il piacere mi aveva invaso, al contatto con la sua intimità. Soprattutto, ricordai il volto di Michael e la sua espressione di orgoglio e incanto nel non avermi padrona di me stessa, ma semplicemente sua.

    *

    Con lo sguardo rapito da quel figurino dorato, rimasi a studiare ogni sua curva e ogni suo movimento. La musica era veloce, il ritmo straordinariamente scandito. Seguiva il tempo e danzava una coreografia in cui le movenze ricordavano la marcia di un esercito. I ballerini sparivano se paragonati a lui, ma non si poteva dire non fossero bravi, anzi.

    Michael non sembrava affatto che stesse ballando, no. Sembrava che stesse facendo sesso. E più guardavo quei video, più me ne convincevo.

    «In the suite, on the news, everybody dog food.
    Bang bang, shock dead, everybody's gone bad»

    Una folla immensa seguiva il ritmo di quella musica a mani alzate o battendole. Lo sguardo di Michael era serio, selvaggiamente strabiliante, e un ciuffo riccioluto gli ricadeva sulla fronte, donandogli un’aria ancora più sexy.

    Ritornello. Poi ancora danza.

    Era un professionista. Era un’altra persona. Ed era indescrivibilmente erotico.

    Lasciando perdere il fatto che ai miei occhi appariva eccitante anche se vestito in calzamaglia o con un sacco della spazzatura in testa, Michael aveva un fisico da paura. Un sedere da favola e delle gambe da far invidia alle donne. In quell’epoca era davvero in forma.

    Due mani mi pinzarono i fianchi all'improvviso e saltai sulla sedia dallo spavento. Emisi un urletto soffocato. Guardai il volto di quell’adorabile intruso e lo percepii appoggiare la guancia alla mia tempia destra. Avvampai all'istante, colta sul fatto, mentre Michael osservava se stesso con timida curiosità. Gli veniva da ridere.

    «Ma... cosa stai guardando?», domandò piano, sorridendo imbarazzato.

    «Sai» mi schiarii la gola «è molto interessante visitare i siti dedicati a te e leggere i commenti dei tuoi fan... soprattutto se donne...» borbottai sentendo le guance scottare per l'imbarazzo.

    Guardò il PC, scetticamente divertito. «Ahhh...»

    «Una di loro mi ha portato qui, a dire il vero... sono molto devote al tuo vestito dorato... stavo guardando per caso...»

    Ridacchiò senza controllo. Lo guardai con occhi spalancati.

    «Ero curiosa!», sbottai.

    «Non lo metto in dubbio», affermò ridendo sotto i baffi, bagnandosi le labbra.

    Ripose di nuovo gli occhi sullo schermo e la sua espressione cambiò: una smorfia di leggera insofferenza gli dipinse il viso.

    «Mio Dio...», emise in un sospiro.

    «Che c'è?» domandai piano. Avevo già capito tutto. «Non ti piace quello che vedi?»

    Non rispose. Accennò un sorriso amareggiato.

    Alzai gli occhi al cielo e sbuffai. Quando faceva così non lo capivo proprio. Forse ero limitata io, ma per me era bellissimo. Indescrivibile. L'uomo più bello al mondo, sia dentro che fuori.

    «Credimi, sei un uomo davvero affascinante» affermai guardando un Michael di qualche anno più giovane. «E poi dici a me che non devo farmi paranoie sul fisico, pff!», scossi la testa.

    «Tu sei una cosa diversa...».

    «No, non lo sono».

    «Sì, invece».

    Sospirai esasperata. Mi bagnai le labbra e mi allontanai da Michael, spostandomi con la sedia dalla parte opposta alla sua. Egli cercò di ravvicinarsi in tutte le maniere possibili, ma io lo rifiutavo rifiutando le sue mani o la sua bocca.

    «Io non sono te, Sarah» continuò bloccando ogni tentativo di riavvicinamento. «Tu sei meravigliosa. Sei bellissima e pura. Io invece...»

    Lo fulminai con lo sguardo ed egli rimase zitto, senza guardarmi di rimando.

    Tornai alla visione del live They don't care about us. Cercai di concentrarmi solamente sul suo corpo ricoperto d'oro e sulle sue facce da “Ti prendo e ti scopo sul posto”.

    «Tu mi guardi così soltanto perché mi ami».

    Mi voltai con gli occhi fuori dalle orbite.

    «E per te non è lo stesso che con me?», alzai eloquentemente un sopracciglio.

    Ancora una volta non rispose. Mi fissava con un’espressione indefinita.

    «Avanti, Michael, guardati!»

    Lui obbedì silenziosamente. Puntò lo schermo del computer. Davanti a noi vi era un Michael Jackson seducente, che passeggiava sulla pista sbattendo i piedi a terra, seguito dai suoi compagni di ballo. Si fermò in mezzo alla pista e fece quel suo tipico movimento di bacino mettendo in risalto il...

    Sbattei le palpebre per il piacevole shock procurato da quella visione.

    «Dimmi se con quel vestito non sei un gran pezzo d’uomo!» proruppi con enfasi, divertente e buffa nel mio modo d'essere.

    Egli ridacchiò arrossendo.

    «Non per dire, ma secondo me sapevi benissimo che effetto facevi alle donne. Insomma, quel vestito ti fascia benissimo il fondoschiena! Si vede proprio bene la forma curvilinea...» e imitai la figura con la mano sinistra.

    «Sarah!» esclamò avvampando. Mi dette un buffetto sul braccio, sghignazzò e mi osservò a bocca aperta dallo stupore… ma sapevo che gli piacevo troppo quando mi esprimevo in certi termini.

    Segretamente adorava l'idea di farmi quel effetto. Un pochino gli piaceva farsi adorare. Sapeva benissimo quando usare il suo potenziale, ma non lo ammetteva facilmente. A dir la verità non amava far vedere quel lato del carattere neanche alla sottoscritta, orgoglioso com’era. Ma io ero più perspicace di lui talvolta.

    «Cosa c'è?» chiesi alzando il tono di voce di un'ottava. Alzai le spalle e sorrisi da finta tonta. «Quel che è vero, è vero! E non solo ti evidenzia dietro... ma anche davanti! Però… scusa la schiettezza… portavi la biancheria in quelle occasioni, vero? Dai, non ridere, è una domanda seria!»

    Michael rideva così tanto che dovette allontanarsi – il sorriso coperto dalle mani, caldo sulle guance come non mai – e stendersi sul letto, scosso dai fremiti dei suoi stessi sghignazzi.

    Mi alzai dalla sedia.

    «Che poi, altra domanda...»

    «Sarah, ti prego!» mi pregò senza fiato.

    «No, no, aspetta! Ultima cosa!»

    Mi sedetti sul letto con un sorriso indecifrabile. Mi puntò divertito, inquietato e incuriosito assieme, in attesa di ciò che avrei detto. Mi sporsi verso di lui e inspirai a fondo.

    «Ma quelle donne le facevi svenire per l'emozione del concerto o per l'orgasmo?»

    Michael si sganasciò. Mi guardava e rideva, più per la mia espressione facciale che per la domanda in sé. Era arrossito tantissimo, basito per quei miei schietti e concisi exploit, ma in fondo sapevamo entrambi che lo allietava l’idea di eccitare il gentil sesso. Era inutile che venisse a raccontarmi palle.

    «Ma come ti viene in mente...?», balbettò fra le risa.

    «Avanti, è chiaro come l'acqua che scaturivi delle reazioni (e non capire male, ho detto reazioni) per niente caste!».

    «Sarah, ti prego... mi stai facendo morire!»

    Ignorandolo socchiusi gli occhi e mi afferrai il mento con atteggiamento meditabondo. Aggrottai le sopracciglia e le labbra. Mi scrutava allegramente spaventato.

    «Non ti sei mai chiesto se qualche donna fosse rimasta incinta?» domandai con tono da finta intellettuale. «In quel caso si spiegherebbe perché tante ragazze dicevano di essere le madri dei tuoi “ipotetici figli”. Pensa, uno sguardo da uomo selvaggio come quelli e un movimento di bacino... e bam! Test di gravidanza positivo!», battei le mani, sorridendo come se avessi appena scoperto l’America.

    Michael aveva le lacrime agli occhi. Non ce la faceva più e questo non succedeva spesso. Da parecchie settimane non lo vedevo ridere così di gusto. Mi dovette tappare la bocca con le mani per impedirmi di continuare a parlare, ma in seguito appoggiò la fronte sulla mia spalla destra, privo di forze. Ridemmo entrambi.

    Ad un certo punto presi un respiro profondo e sorrisi dolcemente.

    «Tu sei l’uomo più bello che io conosca».

    Lo sentii irrigidirsi e smettere di ridere.

    «Non importa quale sia il tuo aspetto: la tua bellezza interiore risplende e ti rende un uomo magnifico. È vero che ti amo, ma tu hai qualcosa che nessuno ha: un magnetismo incredibile. Con uno sguardo riesci a conquistare tutti. Sei affascinante. Hai una personalità carismatica, intrigante, ma sei anche un uomo semplice e tranquillo. Sei un uomo forte, ma anche fragile. Sei timido, ma sei anche sessuale. Sei un ragazzino, ma sei anche un uomo maturo e intelligente, con un immenso desiderio di cultura e conoscenza».

    Si allontanò dalla mia spalla e lo vidi guardarmi con le lacrime agli occhi, luccicanti come non mai a causa di una gioia indefinibile. Sorrisi ancora di più.

    «Tu sei immenso. Basta guardare l’effetto che hai fatto e fai ancora sulle persone. Entri in una stanza ed è come se tutto ruotasse attorno a te e basta. E questo mi fa paura. Tra tutte le persone che potrebbero essere al tuo livello, in questo mondo, hai scelto me. Non sono invidiosa o gelosa, al contrario: ho un’ammirazione incredibile per quello che sei e che fai. Quando ti guardo è come se vedessi il Sole per la prima volta», smisi di fissarlo, colta da un improvviso moto di imbarazzo. Michael continuò a studiarmi attentamente, stupito ma serio. «Ho visto dei video in cui ti esibivi e video in cui semplicemente passeggiavi per un centro commerciale», ridacchiai e mi attorcigliai le dita delle mani nervosamente. Sembravo una bambina. «In ogni occasione riesci a incantare me e tutti coloro che ti circondano. Hai un grande potere sugli altri, ma non in senso negativo. È come se la tua aura si espandesse e circondasse ogni dannata cosa, capisci?

    Ti fai delle domande sul tuo aspetto – non ti piaci –, eppure io mi chiedo continuamente: perché? Perché tra tutte le possibili donne di questo mondo ha scelto me? Mi sento come se l’Universo mi stesse porgendo in mano un regalo troppo costoso e prezioso, unico nel suo genere, e io non fossi in grado di ricambiare con altrettanta grandezza, mi spiego? Ti amo immensamente, ma mi chiedo perché io. Molte altre persone meriterebbero di stare al tuo fianco. Persone più carismatiche di me, sicuramente. Non che io mi veda insignificante, questo no, ma non so come ricambiare qualcosa di così tanto immenso. Perciò quando pensi a certe cose – a come io possa amarti per il tuo aspetto – sappi che io le tue stesse insicurezze. Su cose diverse, questo è vero, ma neanche io mi vedo così meritevole di tante azioni e amore».

    Michael non disse nulla per qualche secondo e io non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi. Sentivo le sue iridi puntarmi e scavarmi all’interno, alla ricerca dei miei sentimenti e pensieri più intimi. Mai come in quel momento ebbi paura dell’interesse che provava nei miei confronti.

    «Io sono soltanto un uomo»

    Lo sentii accennare ad una risatina e lo guardai di riflesso. Uno scintillio di commozione e dolcezza gli faceva brillare gli occhi. La sua espressione era lo specchio della gratitudine, ma anche del rammarico. Strinse le labbra in un sorriso mesto e se le umettò velocemente. Con una mano passò il dorso sulla mia guancia destra.

    Rabbrividii appena.

    «E ho scelto te perché tu vedi oltre. Vedi ciò che gli altri non vedono, così semplicemente e senza il bisogno di giudicarmi».

    Gli lanciai un’occhiata confusa, aggrottando visibilmente le sopracciglia e la bocca. Ridacchiò ancora e scosse la testa.

    «Lo vedi? Sei proprio una piccola incosciente. Non hai la minima idea dell’effetto che tu hai su di me. Tutte le cose che dici di me, io le penso di te, Sarah. Entri in una stanza e il resto si annulla. Non te non accorgi neanche. Al compleanno di Janet hanno chiesto tutti di te, tutti. Nonostante cercassi di nasconderti dal mondo, non sei passata inosservata…», disse accennando un sorriso furbesco.

    Con un borbottio confuso appoggiai la fronte sulla sua spalla.

    «Tu sei bellissimo, Michael Joseph Jackson. Dentro e fuori. Quelli che tu vedi come “difetti”, contribuiscono a renderti l’uomo bellissimo che sei, non dimenticarlo mai».

    Chiusi gli occhi e inspirai il suo profumo. Era inebriante quanto l’affetto che provava per me.

    «Io ti amo... lo sai questo, vero?» mormorò sorridendo. Mi prese il viso tra le mani e io rabbrividii una seconda volta. Mi sorrideva. «Lo sai questo, mia adorabile e perversa ragazza?».

    Osservai le sue guance leggermente incavate, le sopracciglia perfette, il sorriso grande, quel naso sbarazzino e quegli occhi profondi in grado di incatenarmi a loro per ore.

    Lo baciai intensamente.

    Quel sapore di buono m’intorpidì il corpo. Le mie labbra seguirono il ritmo delle sue. Ero inebriata dal suo respiro. Inginocchiato sul materasso mi tenne per i fianchi e mi indusse ad appoggiarmi sulle sue cosce. Inserii le dita di una mano fra i suoi capelli corvini. Amavo il suo odore, il gusto di quel contatto, e affettuosamente disprezzavo quando il mio autocontrollo cedeva per mano sua. Andavo fuori di me quando mi teneva stretta in quel modo, quando la bocca cercava tutto di me. Annegare in lui era peggio di una droga.

    «Ti amo anche io» gemetti fra un bacio e l'altro, arrossendo, «e non pensare che io non abbia la stessa reazione delle tue fan...»

    Rise piano, ad occhi chiusi. «Era quello che speravo...»

    Si diresse verso i miei glutei e mi accostò al suo bacino. Gli addominali si contrassero, bloccai l'ossigeno nei polmoni e mi aggrappai alle sue braccia. Michael emise un roco mugolio compiaciuto.

    Mi abbracciò. Si lasciò cadere all'indietro e mi alzai di poco per fargli distendere le gambe. Mi distesi sopra di lui, tenendo le ginocchia puntate sul materasso. Infilò le mani sotto la mia canottiera e mi accarezzò piano. Avevo la pelle d’oca. Negli attimi in cui i nostri baci si interrompevano sentivo la testa girare vorticosamente.

    Le labbra scivolarono sul suo collo, flebili e desiderose di lui, mentre le dita proseguivano verso il petto: era così bello sentirlo respirare a fatica. Michael inclinò il capo all’indietro e chiuse gli occhi. La bocca era schiusa, ma pesanti sospiri uscivano ritmati e rumorosi dalle sue labbra. Rilasciai un piccolo gemito di piacere, ricambiato da una maggiore stretta sui fianchi da parte sua.

    «Sarah...» mugolò pregante.

    Le parole divenivano più graffiate minuto dopo minuto.

    «Ti amo» emanai in un fiato, affrescando le gote di un colore scarlatto.

    Percepii i lineamenti del suo viso delineare un sorriso.

    Lo adocchiai mentre ponevo instancabilmente la bocca sulla sua, pronta a gustarla una milionesima volta: le palpebre erano semichiuse, le iridi velate da una patina di lucente incoscienza.

    «Piccola...» sussurrò.

    Lo baciai ancora.

    «Ho bisogno di sentirtelo dire», gemette.

    Smisi di respirare. «Ti amo» mormorai. «Ti amo tanto».

    Le mie dita si dirigevano sempre più in basso, alla ricerca di quel bottino che mi mancava straordinariamente. Michael gemette. Avanzai verso il basso... ancora ed ancora... mi arrestai percependo quella forte protuberanza a contatto con le mie dita. Mi lasciai scappare un sospiro emozionato. Era eccitato da morire.

    Michael emetteva mugolii continui. La mano si muoveva da sola, saliva e scendeva e ad un certo punto s'infilò sotto i pantaloni. La sua biancheria non conteneva affatto quel virile membro. Era una delle più belle sensazioni che avessi provato nella mia intera esistenza. Lo sentivo bisognoso di affetto e di cura.

    Michael sobbalzò.

    «Sarah», mi strinse più forte a sé mentre gli baciavo il collo. «Tu sei... oh, ti amo... se ti amo...» chiuse gli occhi e si morse le labbra. Arrancò per il modo in cui lo massaggiavo.

    Aumentai le pressioni, le carezze e i baci su quella parte di petto che fuoriusciva dalla sua canottiera a V. Mi afferrò i glutei e mi strinse al suo bacino. Gemette con maggior fervore nel momento in cui lo torturai con più insistenza.

    Era così dannatamente eccitante. Così maledettamente... ardente... fuoco nelle mie mani, un oggetto che reclamava solo me ed un glorioso devastante piacere. Sembrava di essere sulle montagne russe.

    I muscoli del suo collo si tesero. I capelli neri come la pece ricadevano disordinati sul cuscino, le dita premevano sui miei glutei e li strizzavano appena.

    «Dio, come farò senza di te...?»

    Aprii gli occhi, prima piano e poi sempre più cosciente.

    Detti arrivederci al momento di piacere per dar il benvenuto alla paranoia. Quelle parole riuscirono a darmi più fastidio di quanto immaginassi.

    Rallentai le pressioni.

    La mia mente venne assillata da ronzii confusi.

    Quel “Come farò senza di te?” era la conferma che me sarei dovuta andarmene presto. Non era una condizione – non disse “Come farei senza di te?” – era una certezza. Che ne sarebbe stato di noi?

    «Sarah…?» chiese Michael a voce roca, scombussolato.

    Rinunciai alla dedizione verso il suo membro. Non gli baciavo più la pelle rosea del collo. Le mani erano timidamente tornate sui suoi fianchi. Si sollevò con la schiena dal letto dandosi una spinta grazie alla forza che aveva nelle mani.

    «Che succede...?».

    Non ebbi l’audacia di affrontare i suoi occhi. Inspirai e mi strinsi al suo petto.

    «Quando le lezioni scolastiche finiranno, io non potrò rimanere qui. Dovrò andarmene…» affermai rassegnata, mormorandolo con un fil di voce.

    Egli rimase in silenzio.

    «Sarah...»

    Mi rimisi in ginocchio e mi abbassai la canottiera. Girai la testa verso il computer e decisi ad andare a spegnerlo. Con i muscoli del collo irrigiditi, mi alzai dal letto.

    «Aspetta».

    Michael mi prese per mano. Sembrava preoccupato, eppure non volli guardarlo negli occhi.

    «Devo spegnere il computer...».

    «Lo farai più tardi».

    «No» dichiarai. «Lo voglio fare ora».

    Mossi un altro passo ma mi trattenne.

    «Devo dirti una cosa, ascoltami», sentenziò severamente. «Non fare sempre la testarda...»

    Mi umettai le labbra. Ascoltai le sue parole.

    Mi sedetti, ma non lo guardai. Il mio sguardo slittava dal computer alla tastiera, dalla tastiera alle pareti all'arredo della mia stanza. Più che mai desiderai che quei suoi occhi non potessero decifrare le mie emozioni.

    «Guardami».

    Non lo feci.

    Prese un respiro.

    «Io non voglio che tu venga coinvolta in scandali. Non voglio che la stampa o altre persone vengano a sapere di te. Non perché non ti amo, ma perché voglio proteggerti. Ti tortureranno come fanno con me. Non posso fidarmi nemmeno dei miei dipendenti... non posso fidarmi di nessuno. Di nessuno». Espirò a fondo. «Voglio proteggerti».

    Meditai a lungo, accompagnata da un pesante ed insolente silenzio. Pochi minuti più tardi accennai ad un sorriso comprensivo. Triste, sì, ma comprensivo.

    «Perciò l'unica alternativa è finirla qui...».

    Le sue mani avvolsero le mie.

    «No, Sarah, non intendo questo!» esclamò fin troppo frettolosamente. Lo guardai. Era agitato. «Vorrei che tu rimanessi con me giorno dopo giorno, ogni istante, per sempre. Ma non possiamo. Io sono un uomo di spettacolo, tu una donna che necessita della sua vita normale. Se ti portassi ovunque io vada, loro si accorgerebbero di te. Gli avvoltoi che ho attorno non aspetterebbero altro che fare della nostra relazione un inferno. Ti uccideranno... lo capisci questo, vero?».

    Lo osservai sperando di apparire impassibile. Il viso di Michael era afflitto da un mite rammarico, la fronte leggermente crucciata, gli enormi occhi scuri che lampeggiavano sia per il dispiacere sia per l'attesa di una mia qualsiasi reazione emotiva.

    «Lo capisco» sorrisi mesta. «Ed è vero, non intendo dire addio alla mia vita quotidiana. In più non voglio metterti nei guai con il mondo dello spettacolo, e neppure voglio che i tuoi subordinati possano intuire qualcosa di...», inspirai forte, «di noi...».

    Fu quando abbassai lo sguardo una seconda volta che finalmente Michael capì come mi sentivo, comprendendo le assillanti domande che alimentavano i miei dubbi. Sapeva esattamente cosa mi passava per la testa. Riusciva a tradurre con facilità le mie “criptiche” espressioni.

    «Sarah – »

    «Mi verrai a trovare qualche volta?» chiesi impacciata. Lo ammirai di soppiatto e sovrastai la sua voce, arrivando a zittirlo. Le mie guance divennero un po’ scarlatte. Il cuore batté velocemente.

    Mi fissò. Rilassò le spalle, mantenendo pur sempre uno sguardo pensoso.

    «Sarah...». I suoi occhi navigarono insolenti nei miei. «Non devi pensare che la tua partenza da questa dimora ci impedisca di stare assieme. Non devi pensarlo mai, ok?». Era inquieto. «No, non ho intenzione di perderti».

    Annuii. Guardai le nostre mani legate e sorrisi.

    Erano stupende, bellissime... calde... affettuose e grandi, piacevolissime da sentire sulls pelle. Quando mi accarezzava, percepivo una sensazione che andava ben oltre il fisico e il materiale. Eravamo due anime separate che si sfioravano, ma che non riuscivano a diventare una cosa sola; una missione impossibile, in una dimensione che non era la nostra.

    «Devi credermi».

    «Ti credo».

    «No, non abbastanza» affermò pacato e dispiaciuto. Lo osservai soffrire in silenzio, con quegli occhi neri, incantevoli e affranti. «Non abbastanza...»

    Accennai ad un sorriso più rasserenato. L'improvvisa accettazione di quello a cui saremo andati incontro non mi fece più così paura. Così, senza un comprensibile motivo. Come se aver visto l’amarezza dei suoi occhi fosse stata una consolazione – una piccolissima, minuscola consolazione –, nonché la prova che forse non mi avrebbe dimenticato.

    «Ti credo» dissi. «Ho intenzione di crederti».

    Gli sorrisi ancora. Michael inclinò il capo verso destra, studiandomi con innata dolcezza. Portò una mano sulla mia guancia sinistra e la tenne al caldo. Lasciai cadere il volto su di essa chiudendo gli occhi. Con il pollice mi accarezzò nella zona vicina alle labbra.

    «Penso proprio di amarti...», mormorò amabilmente.

    Aprii gli occhi, soffocando una risata. «Lo hai compreso solo ora?»

    Un piccolo sorriso gli marcò le guance. Le ossidiane nere che aveva al posto degli occhi erano lucenti come non mai. Provava una devozione in grado di togliere il fiato.

    Sollevò a malapena le sopracciglia. «A dire il vero lo scopro ogni volta che ti guardo».

    Arrossii e risi. Scossi il capo. Michael mi si avvicinò sorridendo come un bambino monello, cosciente di avere il mio cuore nelle sue mani. Poggiò delicatamente le labbra sulle mie e chiusi gli occhi.

    In seguito mi sarei alzata, avrei spento il computer e mi distesa a letto con Michael al mio fianco. Avrei passato una delle più belle serate della mia vita. Niente sesso, solo amore. Niente parole, solo silenzio. Il mio cuore che si contorceva su di sé mentre le sue dita mi pettinavano i capelli; il suo cuore, invece, che batteva non appena appoggiavo la fronte al suo torace; era tutto troppo bello per essere vero, così tanto da poter piangere felicità.






  2. .
    Capitolo Trentuno: Il Risveglio


    Ricordo di aver sognato.

    Avevo ancora gli occhi chiusi quando mi destai.

    Ero sola, al buio, e non vi era alcun rumore nel luogo in cui mi trovavo. Le orecchie avevano smesso di fischiare. Non sapevo né dove fossi né come fossi finita su quello che pareva il mio letto.

    I ricordi scorsero davanti all’oscurità, sfuocati, stuzzicando la memoria.

    Mi illusi di aver sognato.

    Ebbi il coraggio di spalancare le palpebre... prima lentamente, poi in maniera più rapida.

    Mi chiesi quanto fosse durato quel mio stato di incoscienza. Mi sembrava di aver chiuso gli occhi soltanto per un attimo, e di averli riaperti un secondo più tardi. Nonostante ciò, tutto era cambiato.

    La prima cosa che vidi una volta fu la sagoma di una donna.

    «Come stai tesoro?», disse con dolce voce. «Ti senti meglio?»

    Mi si bloccò il fiato in gola quando riconobbi chi fosse.

    La donna se ne stava seduta su una sedia al lato destro del letto. Il suo sorriso era affettuoso, un po’ crucciato, bloccato in un’espressione amabilmente preoccupata, vestita degli stessi abiti con cui l’avevo vista qualche ora fa.

    «Credo di sì…»

    Mi guardai intorno, smarrita. Ero nella mia camera – riconoscevo i mobili, le pareti, i tappeti e il grande armadio in legno scuro – e soltanto la fioca luce del comodino ravvivava l’ambiente. Tutto esattamente come prima.

    Adocchiai con la coda dell’occhio la signora Jackson mentre tentavo di mettermi seduta.

    Ella mi mise una mano dietro la schiena per aiutarmi.

    «Attenta... fai piano...», sussurrò.

    Mi aiutò ad appoggiarmi allo schienale del letto, sistemandomi il cuscino in modo che non mi sentissi scomoda. La osservai in silenzio, inerme; da come si comportava con me, che ero una completa sconosciuta, il suo istinto di mamma sembrava valere per qualsiasi essere umano.

    «Cosa è successo...?».

    Dov’è Michael?

    Katherine Jackson prese un fagotto avvolto in un telo bianco. Disfece l’involto estraendo un pezzo di pane. Porgendomelo sotto il mio sguardo perplesso, sorrise e rispose alla mia domanda.

    «Sei svenuta, tesoro...». Guardò la sveglia elettrica sul comodino. «Dieci minuti fa»

    Spalancai gli occhi. Non era mai successo in vita mia.

    Ella mi gettò un’occhiata mesta. «Eri con mio figlio Michael quando è successo. È riuscito a prenderti prima che cadessi e sbattessi la testa a terra», si bagnò le labbra. «È stato con te per un minuto, sperando che ti risvegliassi, ma non è successo. Perciò è corso giù per le scale, subito dopo averti portato a letto. Grazie a Dio ha incontrato mio figlio Randy e ha chiesto di me. Michael sta chiamando il dottore, ora...»

    «Sta chiamando un dottore?», ero sempre più allibita.

    Il pensiero di un Michael tormentato mi strinse il cuore; sia per il dispiacere di avergli procurato angoscia, sia per la lieve contentezza che mi dava nel saperlo preoccupato per me.

    La cosa che però più mi sconvolse fu il fatto che mi avesse preso in braccio e mi avesse portato a letto da solo; l’idea di avergli spaccato la schiena non mi piaceva così tanto. Quell’uomo, invece che fare la cosa più sensata e lasciarmi a terra, aveva pensato di distendermi su qualcosa di morbido, invece che correre e chiamare aiuto, ne ero sicura.

    Katherine sorrise e mi strinse la mano, quella con cui non tenevo il pezzo di pane.

    «Mio figlio è molto apprensivo con chi vuole bene. Si preoccupa per un nonnulla in effetti... è molto caro... ma in questo caso ci siamo preoccupati tutti. Gli svenimenti durano meno di un minuto, ma tu non riuscivi a svegliarti».

    Stetti per chiedere cosa intendesse con “Ci siamo preoccupati tutti”, ma la signora Jackson abbassò lo sguardo sul tozzo di pane che ancora non avevo toccato.

    «È meglio che mangi, tesoro. Ti vedo molto stanca e credo che tu non abbia mangiato niente, stasera. Potrebbe aiutarti a riacquistare le forze». Mi dette un buffetto sul braccio e si alzò in piedi. Mi scoccò un’occhiata addolcita. «Io vado ad avvisare mio figlio che ti sei svegliata. Pensi di stare bene anche da sola, almeno per qualche istante?»

    Annuii, ma avrei tanto voluto dire di no. Aspettò che mangiassi il pane e bevessi il succo di frutta adagiato sul comodino. Dopodiché si incamminò verso la porta della stanza.

    «E la festa...?», domandai in un sussurro.

    «È tardi ormai, la maggior parte degli invitati è andata a casa. Janet sta salutando gli ultimi invitati, ma avrebbe tanto voluto essere qui per darti sostegno».

    Mi studiai le mani con un profondo senso di colpa e imbarazzo.

    «Non ti preoccupare, Sarah», enunciò la madre di Michael. «Non è colpa tua se la festa è terminata. E nessuno ti fa una colpa per essere svenuta».

    Come se ciò fosse abbastanza per consolarmi.

    La donna si bagnò le labbra per la milionesima volta.

    «Penso che Michael sarà qui a momenti».

    «La ringrazio...», stirai un sorriso. «È molto carino da parte sua avermi fatto compagnia», arrossii e la guardai negli occhi.

    Sorrise anche lei. «Non ringraziarmi, l’ho fatto con amore».

    Una delle frasi tipiche di Michael.

    Sentii una lieve fitta al petto.

    Katherine mi salutò e uscì, lasciando la porta adagiata allo stipite. Avvolta nella completa solitudine e nel silenzio, meditai su quanto accaduto. La verità è che non riuscii a pensare a niente di concreto, nonostante mi sforzassi di farlo. Il mio cervello doveva essere entrato in quella fase di rifiuto che non mi permetteva di riflettere ulteriormente su una situazione avvenuta.

    Mi arrecai parecchie offese, ma non piansi per i miei rammarichi.

    Mi distesi sul materasso, mi coprii bene con le coperte portandole fino al naso e in ultimo mi misi di fianco, verso il lato vuoto del letto.

    I miei occhi si smarrirono nel vuoto.

    Volevo che Michael fosse lì. Esattamente come quando mi ero ammalata il dicembre passato.

    Le palpebre calarono sulle mie iridi lucide. Ero spossata. Mi mancavano le energie e il sonno. Non fu necessario sforzarmi di dormire, ma – nella zona fra veglia e sonno – percepii la presenza di qualcuno nella stanza. La sua mano si posò sulla mia nuca, scostò una ciocca di capelli dalla guancia e respirò a fondo. Si sedette in parte a me, sulla sedia, in modo soffice e quasi impalpabile.

    Michael mi accarezzò i capelli. Con il pollice della sua morbida mano mi sfiorò la gota, l’angolo vicino più alle labbra. Se fossi stata più lucida, avrei sentito le farfalle nello stomaco dalla gioia.

    Mi si avvicinò cautamente all’orecchio.

    Tratteneva il respiro.

    Dolci fremiti mi avvolsero la pelle, leggeri e vellutati come il soffio di una brezza mattutina.

    Le labbra si posarono tra la guancia e la bocca, soffici, umide, segno che sicuramente se le era bagnate più volte. Il contatto con queste fu il peggior scoppio di amorevoli formicolii che avessi mai percepito in vita mia.

    «Ti amo...», sussurrò al mio orecchio.

    Era il dolce tintinnio di campane a vento, il Sole di un pomeriggio d’estate che riscalda e asciuga il terreno dalla pioggia. Era le onde del mare mentre sbattevano contro le rocce di una scogliera, nel bel mezzo di una tempesta. Era la scintilla di luce risiedente nei suoi stessi occhi. Era ogni cosa.

    E poi, senza un perché, tutti i pensieri e le emozioni si persero in un sogno senza incubi.

    *

    Dormii parecchio, ma non abbastanza a lungo. Quando ripresi coscienza, i fiochi raggi solari penetravano pacatamente le fessure delle serrande abbassate, segno che era ancora l’alba.

    Me ne stavo a pancia in su, con le palpebre abbassate e il petto che si alzava e si abbassava, a ritmo dei miei lenti respiri. Ero da sola? C’era qualcuno al mio fianco?

    Non sapevo se Michael fosse con me oppure no.

    Non sapevo se ciò che avevo udito – poco prima di crollare nel sonno – era reale oppure una menzogna; il mio istinto diceva di aspettare, di osservare il suo atteggiamento nel momento in cui l’avrei guardato negli occhi, giusto per non rimanerci male nel caso in cui mi avrebbe evitato di nuovo. Non volevo illudermi.

    Potevo averlo immaginato, no?

    Certo, come no.

    La verità è che avevo una fottuta paura di sapere quello che provava per me, ma questo lo avevo capito già da un po’... così come comprendevo di provare due emozioni completamente differenti dentro di me: la voglia di amare e lasciarmi andare all’amore, in lotta con il desiderio di fuggire, scappare a gambe levate di fronte a sentimenti più grandi di quelli che potessi sopportare.

    Le paranoie umane sono assillanti ronzii nelle orecchie, tarme che distruggono le funzioni del cervello. Sono cannibali, affamati della stabilità emotiva. Ho sempre pensato che la maggior parte delle persone si diverte a contorcersi la mente con insensati e sconsiderati dubbi. Senza di questi, tutto sarebbe più tranquillo, più pacifico, più sereno. Se l’umanità non si complicasse la vita, di tanto in tanto, mancherebbe qualcosa. Qualcosa di straordinariamente inutile, qualcosa a cui ci siamo affezionati e che non riusciamo ad abbandonare.

    Cercai di voltarmi sul fianco destro, ma qualcuno mi bloccò dolcemente il braccio. Sobbalzai un po’. Avvertii qualcosa infilato sotto la carne, e temetti che fosse proprio quello che pensavo che fosse.

    Dopo qualche secondo di titubanza aprii gli occhi.

    Mi si mozzò il fiato in gola. La figura di Michael se ne stava seduta sulla sedia dove – qualche ora prima – si era seduta sua madre. Era sporto verso il materasso, con il volto rivolto a destra. Guardava la mano distesa sul mio fianco, il cui palmo era rivolto verso l’alto. Le sue dita mi sfioravano la pelle dandomi i brividi. Avrei voluto vedere meglio la sua espressione, ma in quella semi-oscurità riuscivo a vedere poco che niente.

    In compenso riuscii a vedere bene l’ago infilato nel braccio e la flebo accanto a me.

    Terribilmente inquietante.

    I muscoli del braccio s’irrigidirono e d’istinto provai a tirarmi su con la schiena. Stringendo la mano, incontrai le dita di Michael.

    «Shhh...», mormorò quest’ultimo, cercando di tranquillizzarmi. Il suo sussurro era affettuoso e rincuorante. «Tranquilla...».

    Lo squadrai con timore e finalmente, abituando lo sguardo al buio, riuscii a percepire il calore dei suoi occhi. Mi guardava intensamente.

    «Non muoverti troppo...»

    Assunsi una smorfia addolorata.

    «Perché c’è una flebo?», gracchiai piano.

    Michael si sporse verso il comodino e accese la luce della piccola lampada al nostro fianco. Nei suoi lineamenti vi era una traccia di serietà e compostezza che mi fece dimenticare l’ansia per l’ago nel braccio. Le iridi scure e le occhiaie parlarono al posto suo. I suoi due oceani scuri navigarono dentro di me, attraversandomi l’anima.

    Era nervoso quasi quanto me, forse di più. C’era ancora una questione da risolvere tra me e lui. Nessuno dei due se l’era dimenticata.

    «Mi dispiace averti messo questa cosa», parlò sottovoce, abbassando lo sguardo. Si riferiva alla flebo. «Quando mia madre è venuta a cercarmi, per dirmi che ti eri svegliata, sono corso qui. Ma tu dormivi. Preferivo non aspettare il tuo risveglio, ero troppo preoccupato. È venuto il dottore a controllarti. Secondo lui non è niente di grave, è solo un calo di zuccheri e di pressione… e tanta stanchezza accumulata. Hai bisogno di dormire e di ricaricarti di energie. Tornerà a farti visita tra qualche ora».

    «Non ho bisogno di un dottore...», borbottai stropicciandomi gli occhi con il braccio senza ago.

    «Sì, invece».

    Lo osservai. Mi studiava severamente. Aveva uno sguardo irremovibile.

    Non seppi che rispondere. Mi voltai per leggere l’ora sulla sveglia.

    «Sono le sei e un quarto del mattino» disse Michael. Accennò un debole e afflitto sorriso. «Hai dormito più o meno sette ore...»

    Sospirai.

    «E tu? Hai dormito?»

    Ridacchiò sollevando le sopracciglia e scuotendo il capo. «No. In effetti no...» le sopracciglia si aggrottarono e il sorriso si attenuò. «Non ho dormito granché...».

    Annuii lievemente. Posi gli occhi sull'ago della flebo, ben nascosto da un cerotto bianco. Immaginai che quello che mi stessero dando fosse un concentrato d'acqua e zuccheri, o qualcosa del genere.

    «Da quanto sei qui?», chiesi.

    Il mio era un timido bisbiglio. Lo adocchiai di sfuggita. Michael puntava la mano ancora stretta nella mia e si umettava le labbra. Sentivo il cuore sul punto di scoppiare.

    «Da tutta la notte».

    Mai come allora desiderai che fossimo una cosa sola. Volevo lui, solamente lui.

    «Non ti ho mai lasciata da sola... non avevo il coraggio di farlo...». Mi ipnotizzò con gli occhi. Quest’ultimi si addolcirono notevolmente. «Non volevo ti risvegliassi senza di me al tuo fianco».

    Le farfalle nello stomaco si ribellarono con ferocia. Nessuno come lui era capace di farmi impazzire in quella maniera. Lo odiavo e lo amavo assieme, costantemente, molto più profondamente di quanto credessi possibile.

    Chiusi gli occhi per trattenere l'emozione che provavo dentro. Mi tirai su e, come per qualche ora prima, mi appoggiai allo schienale del letto. Non riuscivo a respirare.

    «Sarah...»

    La sua mano libera scivolò sulla mia guancia, tremante e calda. Riaprii gli occhi con un sussulto e lo guardai sull’orlo della commozione.

    Neppure Michael sapeva come tenersi a freno. Teneva le labbra serrate – lo sguardo fisso su di me –, mentre quelle dita scivolavano con delicatezza innata sul mio collo, timorose all’idea di farmi male. Niente era più bello delle sue iridi scure: sofferenti, carezzevoli, scintillanti e lussuriose. Percepivo la mia anima espandersi oltre i confini del corpo e sfiorare la sua.

    «Mi dispiace, piccola...», la voce si incrinò e gli occhi si inumidirono. «Mi dispiace così tanto...», scosse il capo in maniera impercettibile. «Non era mia intenzione arrivare fino a questo punto. Non era mia intenzione farti soffrire così tanto...»

    Rabbrividii colta dalla tentazione di baciarlo.

    Abbassai lo sguardo, inspirando faticosamente. «Michael, non...».

    «No, ti prego. Ho bisogno che tu mi ascolti ora».

    Anche i miei occhi furono punti da lacrime calde e salate. Non volli guardarlo. Mi avrebbe fatto crollare. Mi avrebbe distrutto e così facendo avrebbe distrutto ogni mia difesa.

    «Guardami...».

    Il tono della sua voce era pregante, commosso.

    «Guardami negli occhi. Per favore...».

    Il mio respiro tremò.

    Con un coraggio che non avrei pensato di avere, feci come mi aveva chiesto.

    Era bellissimo. Lo guardavo e vedevo l’amore in ogni sua forma.

    Boccheggiò e mi strinse le mani tra le sue. «Io ti amo, Sarah. Io ti amo. Ti amo oltre ogni limite del possibile, dell’immaginabile e del non immaginato, e ti amo in un modo che non sarò mai in grado di descriverti. Ti ho sempre amato, molto prima mi accorgessi di provare questo... questo sentimento che non ha nome... che non è solo amore... ma è qualcosa di più... qualcosa che non è di questa Terra»

    Il naso mi pizzicò.

    Mi bagnai le labbra e il ritmo del respiro accelerò. Una lacrima mi scese dagli occhi e poco dopo un’altra ancora. Incapace di usare le mani, tentai inutilmente di cancellarle strofinando le guance sulle mie spalle nute, di nascondere il viso per non mostrarmi vulnerabile.

    Anche Michael lasciò cadere una lacrima. Inspirò a bocca aperta e serrò le palpebre, irrigidendo la mandibola.

    «Da mesi ruoto intorno a te… ad ogni cosa che fai, che sei, che mi provochi dentro». Aprì gli occhi e sorrise... sofferente e dolce assieme. «Ho sempre voluto sapere tutto di te, fin dall’inizio. Volevo poterti stare vicino ogni secondo. Ho tentato di combattere questo desiderio e di tenerti distante, inconsciamente e non. Volevo tanto... non staccare mai gli occhi dai tuoi – verdi da perdere il fiato –, toccarti, abbracciarti, baciarti... dirti che ti amo... dirti quanto sei bella...»

    Allungò una mano sulla mia guancia umida; l’asciugò con tenerezza, inclinando il capo verso destra, e mi guardò come se davanti a lui ci fosse qualcosa di assolutamente incantevole. Assolutamente e smisuratamente incantevole.

    Continuai a piangere in silenzio.

    «Voglio condividere ogni attimo della mia esistenza con te. Dire che amo ogni singolo particolare di te, difetto o pregio che sia. Perché è così… ti amo nella tua completa essenza. Voglio amarti, voglio possederti, voglio essere l’unico per te come tu lo sei per me. Perché da quando sei parte della mia vita – dall’istante in cui sei entrata in casa mia, a novembre – sento che il mio cuore ti appartiene...».

    Scostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, abbassando gli occhi.

    Avrei voluto credergli.

    Tutto ciò che mi stava accadendo non era reale... lui non poteva amarmi. Non così.

    Perché tremavo?

    Il mio mento si alzò sotto la guida di un dito di Michael. Mi diresse in sua direzione e aspettò pazientemente che lo osservassi. Il suo sguardo era indescrivibile e nessun aggettivo sarebbe in grado di rappresentarlo. Era colmo d’affetto per me, semplicemente.

    «Dentro di te vedo una bellezza innata, una moltitudine di qualità che ti rendono speciale... tu sei l’angelo in Terra che è venuto a salvarmi, ne sono sicuro. Il dono di Dio, la grazia, ogni cosa».

    Mi misi una mano davanti alla bocca per non fare rumore mentre singhiozzavo.

    «Io ti ho amato in passato... ti amo adesso e ti amerò in futuro. E questo sarà per sempre».

    Tentai di coprire stupidamente il volto con la mano sinistra. Egli la allontanò e la prese fra le sue.

    «Sarah, guardami. Guardami, ti prego. Ne ho bisogno. Innamorarmi pazzamente di te, Sarah, è il mio risveglio... la mia rinascita sei tu. Siete tu, i miei figli, i miei fans, la mia famiglia. Siete le uniche cose per cui vale la pena lottare».

    La vista era offuscata.

    Volevo scappare.

    Mi abbracciò le guance con entrambi i palmi delle mani. Mi aggrappai alla camicia del suo vestito bianco che – notai solo allora – non si era cambiato dalla sera precedente. La strinsi e posi la mia fronte nell’incavo del suo collo.

    Michael mi accarezzava, piangeva silenziosamente, mi toccava e cercava in tutte le maniere di farmi percepire quel suo amore irreale.

    «Michael...», emisi con un gemito spezzato. «Ho paura...»

    «Non devi...»

    Tirai su col naso e tremai. «Io… non ho mai provato nulla di così forte».

    Michael mi cinse, stando attento al braccio inerme e disteso al mio fianco, quello con la flebo attaccata; delicatamente mi baciò la fronte e la nuca. Mi accarezzò i capelli, li allontanò dalla mia fronte per poter osservare meglio i lineamenti del mio viso.

    «Fallo per me», pianse. «Non respingermi...»

    «Non voglio che questo mi uccida...».

    «Sarah...»

    Mi sfiorò il viso, mi guardò con adorazione e, chinandosi lentamente, adagiò le labbra sulle mie. Mi legò a sé con più energia, lasciando che quel contatto con la sua bocca mi demolisse dentro. Dapprima dolce, lento, in seguito più scandito, più passionale. Mi sostenni alla sua spalla. Respirai di dolore e gioia nello stesso momento, percependo il ventre e il cuore in preda a sottili ma dolenti contrazioni.

    Lasciai scivolare la mano dalle spalle al suo collo, per tenermi stretta a lui.

    «Ti amo...», mormorò. Emanò un debole e rauco sospiro.

    Mi baciò ancora... e ancora, sinuosamente... e ancora, in modo sempre più scandito, ritmato... come se avesse paura di lasciarmi andare.

    «Tu non immagini quanto ho aspettato questo giorno...», scosse la testa ad occhi chiusi, fronte contro fronte. «Quante notti ho pianto...», mi accarezzò le gote. «Quante volte ho cercato parole sufficienti per spiegarti cosa provo...»

    Sorrise e mi baciò tenendo le palpebre abbassate su quegl’incantevoli pozzi oscuri. La lingua entrò in me soffice e gentile, assaggiandomi con esultanza. Esalai un sottile gemito che egli ricambiò un secondo più tardi con uno strozzato alito d’ossigeno.

    «Ti ho aspettato una vita intera».

    Sorrisi con le lacrime agli occhi.

    Volevo sentirlo su di me, volevo sentirlo dentro di me, volevo essere una parte di lui per sempre e sentire quel bacio per il resto della mia esistenza. Non volevo smettere, volevo continuare ad amare. Volevo continuare a sentirlo sulla mia pelle.

    Volevo semplicemente che durasse. Per sempre.

    *

    «Miss Morris» disse il dottore con voce pacata, togliendomi l'ago dal braccio. «Si sente meglio ora?»

    Voltai il capo dalla parte opposta per non vedere estrarre quel coso dalla pelle, tentando di non mostrare il mio fastidio. Quando tolse l’ago contrassi appena i muscoli del viso, totalmente presa dalla mia ridicola sceneggiata per apparire indifferente.

    Michael se ne stava in piedi, vigile come un faro, a braccia incrociate. Era in piedi ed immobile accanto al letto, tra la flebo e il medico; qualche volta quest'ultimo gli lanciava occhiate eloquenti, intimandogli silenziosamente (ed inutilmente) di farsi da parte. Il comportamento di Michael mi faceva ridere, mi commuoveva e mi contrariava assieme.

    Guardai il dottore e sospirai. L'uomo che si stava occupando di me era un uomo di mezza età, molto silenzioso e sulle sue.

    «Ha idea di cosa possa aver causato questo svenimento?», chiese scoccandomi una rapida occhiata.

    Mi mise un cerotto sul braccio frattanto che mi apprestavo a rispondere.

    «Sì, credo di sì» sussurrai. «In due giorni non ho mangiato niente e non ho bevuto molto. Avrò dormito sì e no sei ore. Quindi deduco di aver avuto un calo di pressione o di energia».

    «Ha per caso vissuto un’esperienza di stress o ansia, in queste ultime ore?»

    Corrugai la fronte e arrossii violentemente.

    A Michael venne da ridere, ma si coprì il viso con una mano: mi stupii per quanto fosse capace di leggere attraverso le mie espressioni facciali. Non osai guardarlo per l’imbarazzo.

    «Sì...», risposi al medico.

    Chiuse la valigetta con i farmaci. La flebo l’aveva fatta sparire già da un pezzo. Mi osservò. «Allora direi che è stato un insieme di cose. È raro che uno svenimento duri così tanto, ma direi che la stanchezza non l’ha aiutata a riprendersi nel giro di un minuto. La pressione era molto bassa quando ve l’ho misurata. Stia attenta in questi giorni: mangi, beva tanto e dorma. Ed eviti ogni forma di stress».

    Annuii.

    «Nel caso in cui si presentassero altri casi del genere?», domandò Michael con sopracciglia aggrottate.

    «Non penso che accadrà di nuovo se la ragazza seguirà questi consigli» confermò l'uomo. «Il suo corpo necessita solo di zuccheri e di relax. Se le cose non miglioreranno, chiamatemi».

    Michael accennò un “Sì” con il capo, ringraziando. Il medico prese la valigetta e mi salutò; Michael afferrò l'asta pieghevole della flebo. Ricambiai il saluto del medico sorridendo appena. Lui e Michael si diressero fuori dalla porta ma, prima di farlo, quest'ultimo mi dette un'occhiata amorevolmente protettiva. Arrossii e sorrisi piano.

    Quando i due furono usciti dalla porta non mi sembrò vero. Il cerotto sul braccio mi infastidiva. Volevo andare a farmi una doccia prima che Michael tornasse in camera: sicuramente lo avrebbe accompagnato all'uscita e gli avrebbe parlato...

    Mi alzai cautamente e mi immobilizzai sul posto, avvertendo un vuoto allo stomaco e un roco borbottio proveniente da esso. Respirai a fondo, ma non cambiai idea: andai alla ricerca di biancheria pulita, un paio di pantaloni larghi e neri e una maglia con cui potessi sentirmi comoda, magari a maniche corte. Avevo intenzione di farmi un bagno solo per freddare i miei ormoni impazziti e meditare su quello che era accaduto fra me e Michael nel giro di quelle 24 ore.

    “Che diavolo devo fare ora?”, mi domandavo.

    Dovevo comportarmi come se niente fosse? Dovevo aspettare che fosse lui a prendermi e baciarmi? Ad abbracciarmi e dirmi ancora “Ti amo”? O dovevo fare io il primo passo, mostrarmi volenterosa di riprendere ciò che avevamo interrotto?

    Un giorno prima eravamo amici, migliori amici. E adesso…

    Mentre sceglievo la maglietta da indossare, Michael entrò in stanza. La sua presenza mi strinse la pancia dall’emozione.

    Maledizione...

    Di fretta nascosi la biancheria intima fra pantaloni e maglietta. Mi guardò perplesso.

    «Che stai facendo?»

    «Vado a fare una doccia...».

    Si avvicinò scuotendo il capo.

    «Sto scegliendo il cambio per...»

    «No, assolutamente no Sarah». Mise le mani sui fianchi inclinando la testa da un lato. «Prima devi fare una buona colazione, hai sentito cosa ha detto il dottore...».

    «Ma la faccio... dopo...», borbottai.

    Sollevò un sopracciglio. Era contrariato, ma divertito. Più mi si avvicinava, più vibravo d’ansia e trepidazione. Abbassai lo sguardo con le gote che punzecchiavano dal calore.

    «Neanche mia madre mi tratta così...», mi crucciai.

    Michael si sistemò a pochissimi centimetri dal mio corpo. Mi sfiorò il braccio con il torace.

    «Forse ti tratto così», sorrise improvvisamente, «perché ci tengo troppo, piccola incosciente».

    «Be’, ti ringrazio...», sollevai le sopracciglia ridacchiando, «ma non è necessario che tu mi faccia da balia! Ce la faccio a stare in piedi, non sono mica sul punto di morire... posso resistere ancora un po’, fidati!»

    Più lo guardavo, più pensavo che avesse uno sguardo da pesce lesso. Doveva essere proprio fuso d’amore per ammirarmi così.

    «Uhm...», mugugnò insoddisfatto.

    Alzò gli occhi al cielo con un sorrisetto furbino. Diresse le mani lungo i miei fianchi, mi pose di fronte a lui e mi strinse. Ero pastafrolla fra le sue dita. Mi abbracciò così amorevolmente che mi sgretolai.

    «Io credo che stavolta dovrai arrenderti al mio volere».

    «Stavolta?», esclamai fintamente scioccata, sbarrando le palpebre.

    Rise splendidamente, ma continuò il suo discorso imperterrito.

    «...perché non ti lascio fino a quando non avrai deciso di mangiare qualcosa».

    Mi scoccò un bacio sulla fronte e mi mancò il respiro. Lo osservai incantata. Mi drogava senza iniettarmi alcuna sostanza stupefacente. Sorrideva in maniera splendida.

    «Lo sai», emisi in un fiato, «che se io decido di non obbedire al tuo volere – e tu deciderai di tenermi qua fino a quando non avrò cambiato idea – morirò di fame lo stesso?».

    Corrugò la fronte ed io sorrisi.

    «Le cose non cambiano molto, effettivamente...», borbottò perplesso.

    Si chinò sul mio collo e lo baciò, lentamente e con passione. Persi qualche battito cardiaco frattanto che il basso ventre si raggomitolava su se stesso.

    «Questo vorrà dire che ti dovrò portare in braccio fino alla cucina...».

    Mi allontanai con un gesto frenetico del collo. «A proposito!». Michael m’osservò confuso. «Non dovrai più prendermi in braccio, ok?», arrossii. «Io sono pesante, non devi spaccarti la schiena per me!»

    Sorrise.

    «Allora obbedisci a me, subito», alzò le sopracciglia sogghignando. «Altrimenti lo rifaccio un’altra volta... e, per la cronaca, non mi sono spaccato la schiena. Ero così preoccupato per te che non ci ho pensato due volte».

    «Adesso non senti male, ma vedrai fra due giorni!», annuì violentemente, manifestando tutto il mio disappunto. «Anzi, ti do tempo poche ore per sentire i primi segni di malessere».

    Mi baciò sulla guancia con una risatina sottile.

    «E non tentare di placarmi così, che tanto non ci riesci...».

    «Uhm...», mi baciò una seconda volta, più vicino alle labbra, mentre io tentavo inutilmente di resistergli, ridendogli in faccia. «Dici davvero?». Un terzo bacio. «Io vedo che fai molta difficoltà a resistermi, invece...», sussurrò allegramente.

    Emisi un gutturale borbottio di protesta, una specie di “Grrr” che, in realtà, appariva un contrariato ma gioioso miagolio, la silenziosa richiesta di ricevere ancora le sue labbra sulle mie.

    «E va bene», gli guardai la camicia bianca, stringendomi ad essa con le dita. «Obbedisco...»

    Mi baciò il naso e lo arricciai con un sorriso.

    «Vedo che hai capito».

    Mi prese la mano sinistra, facendo qualche passo indietro e alla cieca.

    Rimanemmo in silenzio per un po’... a fissare uno gli occhi dell’altro e le nostre dita intrecciate.

    Tutt’e due avremmo dovuto abituarci a quel cambiamento nella nostra relazione. Era una novità non facile da “metabolizzare” subito, bisognava avere pazienza. Solo quando saremo stati da soli, ognuno per conto nostro, avremmo potuto riflettere e sorridere, forse, per la strana situazione che stavamo vivendo.

    Accarezzò il dorso dell’arto e poco dopo, con un cenno della nuca, mi invitò a seguirlo. Mi fissava con il Sole negli occhi, e io avrei pagato per vedere se anche il mio – almeno una volta – avesse assunto quelle stesse sfumature di felicità.

    Quando fummo dinanzi alla porta – non prima di aver appoggiato il cambio pulito sul letto disfatto – mi arrestai.

    «Quando hai intenzione di cambiarti?».

    Sbatté le palpebre. «Uhm?»

    «Sei troppo bello con questo completo», bofonchiai.

    Michael spalancò la bocca senza dire nulla. Qualche secondo dopo scoppiò a ridere. Arrossì e tentò di mettersi una mano davanti alla bocca per placarsi. Mi tirò a sé con dolcezza.

    «Ti eccito?», mormorò soddisfatto.

    Feci una smorfia che era tutto un programma, un misto fra lo sdegnato e l’eccitato.

    «Be’», esclamai, sollevando un sopracciglio. «Direi che è l’abito perfetto per un femminicidio di massa».

    La sua risata scemò presto. «Be’, non è che tu sia da meno…».

    Lo scrutai con dubbiosità.

    Michael si morse il labbro inferiore.

    «Io?»

    Michael non rispose. Sorrise strafottente.

    Anch’io indossavo lo stesso abito di ieri. Quando ricordai la profonda scollatura del vestito – quella sul seno – arrossii appena. Michael fece scivolare la mano libera sui miei fianchi, spingendomi appena verso la porta chiusa della camera. Mi appoggiò al legno e io, inerme, lo scrutai eccitata ed intimorita al tempo stesso.

    Guardò la mia bocca, umettandosi le labbra. I suoi occhi luccicavano.

    «Il tuo vestito è proprio il contrario dell’innocenza».

    La sua voce era roca.

    Pose il viso nell’incavo del collo e cominciò a baciarlo con movimenti lenti e rumorosi, piccoli schiocchi che – al mio orecchio – erano come spari nella notte. Risalì verso l’orecchio.

    «Io...», gemetti.

    All’improvviso tornò sulle mie labbra, agguantandomi le guance con le mani. Con energia cercò ogni centimetro di pelle, l’assaporò, la gustò e la schiuse penetrandomi con la lingua; ricambiai utilizzando lo stesso ardore, la stessa devozione, emettendo senza volere un basso sospiro di piacere. Tremai.

    Michael si avvicinò di più, sospirando pesantemente. Il suo gusto divenne il mio, il mio divenne il suo. I secondi si persero uno dietro all’altro, seguiti dal ritmato aumento dei baci.

    Poi, a poco a poco, mi lasciò andare.

    Ci guardammo intensamente.

    Avevo il fiatone. Io ero smarrita e lui in cerca di autocontrollo.

    Sorrise un po’ scombussolato. «È meglio che andiamo, Moony...», mormorò. Il petto s’alzava e s’abbassava con scatti rapidi e fieri. «Altrimenti le cose potrebbero prendere una piega straordinaria...»

    Non risposi, troppo invaghita da lui e dal suo sapore per trovare le parole giuste.

    Quello che mi stava facendo era la migliore tortura a cui fossi mai stata sottoposta, un meraviglioso piacere, troppo grande da reggere ma impossibile da resistere. Lui era la mia bellissima condanna.

    Michael riafferrò la mia mano. Mi posò un bacio sulla fronte ed io chiusi gli occhi. Gli sorrisi ed egli fece lo stesso. Poi, silenziosamente, ci incamminammo verso la cucina.


  3. .
    Capitolo Trenta: Lo Yin e lo Yang

    Il suo sorriso illuminò ogni ombra del mio cuore e, al contempo, riaccese la stizza che provavo nei suoi confronti. Era come un soffio d’aria fresca che di colpo si trasformava in un tifone.

    Non potevo essere felice.

    Continuavo ad essere sospesa in un vuoto di risposte che non si affrettavano ad arrivare, tesa come una corda di violino.

    Non riuscii a capire se il petto mi stesse per esplodere per rabbia repressa oppure per un sentimento molto più intenso e piacevolmente devastante. Man mano che i secondi passavano, comprendevo che la sua presenza non era un miraggio, ma la pura realtà dei fatti. Le lancette del tempo ripresero a scorrere rumorosamente nella testa, arrugginite da quel lasso di secondi in cui ero rimasta ad ammirarlo in tutta la sua bellezza.

    Lo fissai senza dire una parola e senza muovermi di un millimetro dalla posizione in cui ero.

    Volevo emettere un sospiro pesante… invece lo trattenni in gola, fino a soffocare.

    Michael poggiò gli occhi sui suoi piedi, bagnandosi un labbro. Li batteva impercettibilmente a ritmo di musica. Inclinò il capo verso sinistra e si grattò la guancia destra con l’indice, forse un po’ imbarazzato per la durata e per l’intensità del mio sguardo. Dopodiché fece un altro passo in avanti e si massaggiò le mani.

    Mirai lo spazio vuoto della panchina sulla quale ero seduta. Mi persi nelle rifiniture sottili e disordinate del legno verniciato di bianco. Mi sembrò di percepire l’odore pungente della pittura, ma la mia era solo un’invenzione dei sensi per aiutarmi a sfuggire da quella situazione. Dovevo fingere indifferenza.

    «Posso sedermi con te?».

    Lo adocchiai e notai che mi stava studiando attentamente. Era esitante, ma le spalle erano alte e le mani legate tra loro. Per un attimo la vista si offuscò al ricordo della sera prima e delle sue labbra sulle mie. Assunsi una smorfia contratta e feci spallucce. Voltai il capo in direzione della piazzola.

    Incrociai le braccia al petto e mi lasciai andare sullo schienale della panchina.

    I passi erano soffici, delicati come sempre. Quando mi si sedette accanto, impercettibilmente, venni pervasa da un’ondata di emozioni: sollievo, rancore, eccitazione e angoscia primeggiarono su tutte.

    «Alla fine sei scesa...».

    Tremai sentendo la sua voce così vicina al mio corpo.

    Lo puntai con un’espressione un po’ spaesata.

    Sospirò e mi analizzò timidamente, bagnandosi le labbra con evidente nervosismo.

    «Non ci speravo quasi più...»

    Adesso ci speravi?

    Alzai un sopracciglio. Michael non fece una piega di fronte al mio scetticismo. Tornai a guardare con aria assente tutti coloro che danzavano in pista.

    Aveva un cipiglio così intenso e indecifrabile che mi destabilizzava. Era serio, ma le sue iridi tradivano una scintilla di preoccupazione. I lineamenti del viso erano rilassati, ma la schiena era più dritta e ferma di un palo.

    «Ho visto che hai incontrato mia madre» disse piano. «Ci hai scambiato anche qualche parola... come ti sembra?»

    Non mi chiedeva come stavo, ma le impressioni su sua madre sì? Lo scusai soltanto perché capivo che tirare fuori il discorso del bacio non era facile, non così e all’improvviso.

    «È molto dolce», inconsciamente i miei occhi cercarono la signora Jackson. Non riuscii a trattenere un sorriso addolcito. «Mi piace. Mi ha trattato gentilmente. Sembra una donna buona...»

    «Lo è» ammise Michael.

    Lo puntai.

    Era pensoso. Ammirava un punto vacuo davanti a sé.

    «Delle volte lo è anche troppo...».

    Abbassai gli occhi. Accavallai la gamba destra su quella sinistra facendo dondolare il piede nervosamente; mi fissai su esso e sul movimento circolare che compiva. Il mio volto era lo specchio della neutralità, ne ero certa pur non vedendomi. Eppure in petto mi ribolliva un fuoco che non si decideva a lasciarmi in pace.

    Michael si chinò sulle sue ginocchia. Adagiò i gomiti sulle cosce e abbandonò il viso fra le mani, unendole a coppa e nascondendo labbra e naso. Di soppiatto, lo vidi serrare le palpebre e inspirare a fondo.

    Capii che era venuto il momento della verità.

    Il mio petto cominciò ad alzarsi e abbassarsi per l’agitazione. Lo stomaco si intrecciò su se stesso.

    Michael raddrizzò la schiena dopo aver riflettuto in silenzio. Non ebbe il coraggio di osservare nulla se non le sue mani appoggiate alle gambe.

    «Sarah...».

    Mi veniva da vomitare.

    Lo guardai con timore, ma Michael non fece altrettanto.

    «Sono veramente dispiaciuto» disse cupamente e a voce bassa. «Ieri sera non avremmo dovuto fare nulla. Quel bacio non... non doveva esserci» Alzò di poco le sopracciglia, scuotendo piano il capo, senza ricambiare le mie attenzioni. «Non dovevamo farlo...».

    L’inizio della fine...

    Fissò il terreno con l’aria di chi è appena stato bastonato in testa. Avvampò sulle guance ed emanò un soffio tremante dalle labbra schiuse. La voce gli si affievolì ancor più di prima.

    «E io... non dovevo emozionarmi... in quel modo...»

    Michael s’interruppe e si umettò le labbra più e più volte. Sembrava non essere in grado di starsene seduto e fermo. Le dita gli tremavano e dondolava le gambe in maniera spasmodica. Io, al contrario, mi ero congelata sul posto.

    «Non so come dirti che mi dispiace... è... imbarazzante per me, ma sicuramente per te è... è stata una cosa orribile...» balbettò impacciato.

    Fece un’altra pausa.

    Tentennò e, infine, respirò a fondo.

    «Mi dispiace averti causato dolore». Ammirò le sue dita legate tra loro. «Voglio che tu sappia che ti considero ancora mia amica. Spero che quello che è successo possa essere cancellato. Non voglio perdere il legame che ci unisce per uno stupido errore...».

    Mi afferrò la mano senza che riuscissi a ritirarla per tempo. Al contatto sobbalzai. Osservai la sua come se temessi che, da un momento all’altro, potesse ferirmi fisicamente. Gli occhi mi si gonfiarono di lacrime. Il petto era scosso da sussulti.

    Michael notò il mio ritirarmi in me stessa e mi riservò un’occhiata preoccupata.

    Puntai le mie dita avvolte nelle sue e, fissandomi su queste, tentai inutilmente di liberarle. Mi cinse più forte ma io, come una bambina traumatizzata, cercai di sfuggirgli. Ero quasi in stato di shock… e la cosa mi infastidiva. Terribilmente.

    Quello che avevo udito non era ciò che volevo sentirmi dire... non era quello che pensavo che mi avrebbe detto. Non era amore.

    «Sarah» disse piano e in tono supplicante. «Ti prego, guardami... te lo giuro, non avrei mai voluto incrinare la nostra amicizia. Tu sei una grande amica, un’amica fedele e rispettosa... è stata colpa mia, ho sbagliato tutto io! Ma ho bisogno di sapere… dimmi se è per te è possibile ricominciare come se nulla fosse accaduto. Ho bisogno di saperlo, perché non voglio buttare all’aria questo rapporto. Non voglio perderti...».

    Mi hai perso

    Ero così confusa che non saprei spiegare come mi sentivo. Sapevo soltanto che ogni mia funzione vitale si era inceppata, a causa di un totale black-out che partiva dal cervello fino al resto del corpo. Quella rivelazione – di un amore non corrisposto – mi aveva procurato un buco enorme nel petto: inizialmente era avanzato lento e indolore, poi mi aveva catturato completamente e aveva eliminato ogni traccia di lucidità. Mi sentivo stordita.

    Decisi di alzarmi e andarmene.

    Non avrei retto un minuto di più.

    Le mie gambe tremarono ma riuscii a tenermi in piedi. Non volli dar retta al modo in cui Michael mi stava osservando, sempre più atterrito; mi tenne per mano e mi tenne stretta per non lasciarmi andare.

    Lo ignorai facendo un passo in avanti.

    Provai di liberarmi con un gesto rapido del polso, ma non mi mollò.

    Lo guardai.

    Avevo le lacrime agli occhi e gli stavo urlando di lasciarmi andare.

    Michael si pietrificò. Spalancò le palpebre e la bocca. Non si mosse di un millimetro, ma il volto si contrasse in un’espressione di sconcerto. Notai che gli mancò il fiato per qualche secondo.

    Nelle mie grida silenziose c’era tutto. Rabbia, perché non ricambiava i miei sentimenti. Dolore, perché quell’amore per lui era insopportabile da reggere. Vuoto, perché senza Michael al mio fianco non sapevo come andare avanti - e sapevo che non sarei riuscita a stargli accanto, se non ricambiava i miei sentimenti.

    Il suo sguardo smarrito assunse una nota di terrore e, sebbene la mia visuale fosse offuscata, anche i suoi occhi si riempirono di lacrime... lacrime che nascondevano segreti che ancora non mi erano stati svelati. Quelle due infinità nero lucido esprimevano un sentimento che nella mia completa cecità non ero in grado di riconoscere; un'espressione indefinita che – se fossi stata più perspicace – avrei potuto decifrare facilmente.

    «Sarah...».

    Tentò di alzarsi per venirmi incontro, ma lo rifiutai indietreggiando. Guardai le nostre mani unite con una sorta di delusione e sdegno. Quella stretta bruciava.

    Bastò stare zitta per qualche minuto per fargli capire la mia risposta. Ero certa che sarebbe potuto arrivarci da solo, al punto della faccenda, perché le parole non erano sufficienti. Non sarebbero servite a nulla.

    E di punto e in bianco si arrese.

    Michael mi lasciò.

    Allo scioglimento di quel legame tutto divenne più buio. L’ambiente si riempì di ombre e di spettri.

    Come un automa gli detti le spalle. Mi incamminai verso il terrazzo, sguardo basso e mani che, con la scusa di sistemarmi un ciuffo ribelle, andarono ad asciugare la guancia umida. Lanciai uno sguardo veloce per vedere se ci fosse qualcuno che mi stesse osservando - non desideravo che tutti assistessero a quello spettacolo.

    Janet era in pista e mi studiava.

    Tirai avanti senza fermarmi.

    Continuai a pensare alla sua faccia, alle sue parole, e al dolore che non faceva rumore in petto: il cuore non urlava, non disperava, non sussultava... continuava a battere, esattamente come le campane di una chiesa che suonano nel pieno della notte silenziosa per ricordare lo scoccare dell’ora. Le immagini di ciò che era appena accaduto apparivano continuamente dinanzi agli occhi, inducendomi a camminare senza fermarmi e senza sapere dove stessi andando. Non udivo la sua voce in sottofondo, tanto meno la musica o il vociare degli ospiti. Era una scena muta.

    Ricordo che salii le scale con sguardo vacuo e mi diressi verso il corridoio che portava al bagno. Poi, d’improvviso, sbattei contro quella che mi parve una persona, solo molto più piccola del normale; la mia attenzione si scosse in cerca di colui o colei con cui mi ero scontrata.

    Era un bambino. Era piccolino e abbastanza mingherlino. Aveva i capelli corti, neri come la pece. Non doveva avere molti anni. Di sicuro era più piccolo di Prince e Paris.

    «Scusa» mormorai. «Ti ho fatto male?»

    Lui scosse la testa. Gli occhi erano grandi e luminosi color marrone scuro. Mi fissava eloquentemente, con un pizzico di curiosità e confusione.

    Era agitato, perciò mi badò per poco più di tre secondi. Si voltò cercando qualcosa che non avevo la minima idea di cosa fosse. Dopo qualche attimo di riflessione, puntò una porta poco distante. Corse rapidamente verso questa, la aprì e vi si chiuse dentro.

    Rimasi a guardare la porta con un’espressione allibita.

    Sbattei le palpebre, inarcando le sopracciglia.

    Il bambino aprì di nuovo la porta. Sporse il capo guardando a sinistra e a destra. Mi esaminò con prudenza. Mi invitò con un energico gesto della mano ad avvicinarmi. Drizzai le spalle ed eseguii gli ordini; una volta che gli fui vicino, mi studiò seriamente.

    «Non dire a nessuno che sono qui!» disse con la serietà di un bambino di cinque anni. Corrugò la fronte. «Se mi cercano, io non esisto!»

    «Oh…» sussurrai.

    Stetti al gioco.

    Mi guardai intorno, un po’ circospetta. Lui fece lo stesso, notando con sincera e segreta approvazione il mio interesse nei suoi confronti. Quasi mi venne da sorridere per i suoi occhioni spalancati.

    «D’accordo, sta’ certo lo farò!» annuii energicamente.

    Non sapevo dove trovassi la forza per mostrarmi serena. “Forse mi comporto così per non pensare”, mi dissi in un primo momento. Invece, sentendo che stavo andando alla deriva, la mia mente aveva capito che l’unica cosa che mi potesse salvare dal pensar troppo era proprio l’allegria di un bambino.

    Il piccolo sorrise.

    Si richiuse all’interno della stanza udendo il rumore di passi che si avvicinavano. Quattro bambini correvano su per le scale discutendo animatamente. Vi erano anche Paris e Prince.

    «Jaafar, abbiamo già cercato qua sopra!» esclamò la bambina più grande della comitiva. Era magra ma con un viso paffutello, folti capelli ricci e uno sguardo vivace.

    Jaafar – il bambino in prima fila, probabilmente suo fratello maggiore o suo cugino, abbastanza alto, capelli ricci e occhi neri – la ignorò. Prince approvò la sua decisione sistemandosi al suo fianco. Paris se stette in silenzio sbuffando contrariata.

    Feci finta di incamminarmi verso il bagno che era proprio lì vicino.

    «Ziaaa!»

    Non appena mi vide, Paris mi venne incontro e si aggrappò alla mia gamba destra. Le sorrisi e mi inginocchiai a terra, chinandomi in avanti con il busto per abbracciarla. I due bambini, le cui identità erano sconosciute, mi fissarono perplessi.

    «Che state facendo?» chiesi inarcando le sopracciglia, sorridendo. «State giocando?».

    «A nascondino!» proruppe Prince. Alzò le mani e le spalle. «Non lo troviamo più!»

    «Chi?».

    «Jermajesty», disse l’altra bambina del gruppo, quella che qualche minuto dopo avrei scoperto si chiamasse Stevanne. Si avvicinò. «È nostro cugino».

    «Ah...». ‘Mazza oh, che nomi originali. «Mmh... mi piacerebbe aiutarvi, ma non l’ho visto», mentii. «Mi dispiace...», sorrisi mesta.

    «Vuoi giocare con noi?» chiese Jaafar.

    Guardai i bambini uno alla volta. Jaafar appariva sinceramente interessato alla mia persona. Stevanne era più diffidente, ma non assunse un’espressione contrariata di fronte alla proposta del cugino. Prince e Paris si illuminarono come due Soli. Io rimasi in silenzio.

    Non ero in vena di divertimento, non dopo quello che era accaduto, ma non me la sentii di rinunciare. Se mi era stata data l’opportunità di giocare con loro, doveva essere per forza un segno del destino.

    «Mi piacerebbe molto», esclamai sorridendo. «Potrei inserirmi nel gioco dal prossimo turno, che ne dite? E intanto vi faccio compagnia nella ricerca».

    I bambini furono d’accordo. Invitai gli altri a cercare da qualche altra parte - mi sembrava giusto rispettare il patto che avevo fatto con Jermajesty - e Paris mi prese per mano. Mi guidarono in lungo e in largo per tutta la casa, anche in giardino.

    Michael non c’era, era sparito, ed io ne fui sollevata.

    Percepii lo sguardo dei presenti su me e sui bambini quando, correndo, ci dirigemmo tra gli alberi del giardino, perdendoci tra essi; oppure quando mi videro ridere alle loro battute, assecondandoli e facendoli sghignazzare di rimando, camminando loro accanto di vialetto in vialetto.

    Probabilmente in molti si domandarono perché amassi stare più in compagnia dei bambini che degli adulti. Non era una sensazione sconosciuta.

    I bambini mi parlavano animatamente, entusiasti, ed io ricambiavo con altrettanta gioia. Iniziai a mettere da parte il dolore per un po’. C’era sempre, come una canzone di sottofondo che non termina mai, ma non era poi così terribile.

    Ancora una volta l’innocenza dei bambini mi stava salvando da un crollo psicologico ed emotivo incredibile. La loro compagnia era la mia ancora di salvezza, momentanea ma comunque rincuorante. Comprendevo perché Michael li amasse così tanto e, con l’amaro in bocca e il cuore che scalpitava, capii che non eravamo poi così differenti.

    *

    «Allora... allora...», esclamò Jermajesty tutto emozionato, gesticolando nel vario tentativo di placare la sua gioia. «Vuoi dire che dobbiamo cercare cristalli? Di che colore sono? Dove sono? Che cosa ci dobbiamo fare con questi?»

    Sorrisi. Paris fulminò il cugino come se avesse intenzione di saltargli addosso per tappargli la bocca. Prince e Jaafar guardarono la scena seriamente preoccupati. Stevanne sorrideva all’idea di calarsi in un gioco completamente nuovo per lei.

    «Lei non è tua sorella!», sbottò Paris. «Lei è la nostra regina, dobbiamo trattarla bene!»

    Jermajesty s’imbronciò e Paris gli fece la linguaccia non appena il bambino le dette le spalle. Dovetti mordermi il labbro inferiore per evitare di ridergli in faccia. Mi alzai dal marciapiede e loro rizzarono la schiena, ponendosi sull’attenti.

    In quello strano gioco di ruolo io ero una regale, una regina rapita da un mago perfido e potente. La missione dei guerrieri – ossia i bambini – era quella di ritrovare tutti i cristalli sparsi per il “regno”, affinché potessero sconfiggere il mago cattivo e liberarmi dalla prigione. Ogni cristallo aveva dei poteri magici incredibili. Due anelli mi permettevano di comunicare a distanza e guidare i miei fedeli guerrieri alla ricerca dei cristalli: un anello lo tenevo io e l’altro, ovviamente, Paris. Lei recitava il ruolo di mia figlia, una principessa guerriera.

    Mi schiarii la gola e assunsi un’espressione seria e composta. «La vostra missione è cercare i cinque cristalli fatati: ognuno troverà il suo, del colore che più rappresenta la sua anima. Dovrete cercare attentamente. Dovrete combattere e fare gioco di squadra, perché i draghi e gli orchi sono veramente forti. Appena sarete vicino a un cristallo, ve lo comunicherò. Ma state attenti, non avete molto tempo! Per prima cosa dovrete scegliere la vostra arma e allenarvi tra di voi. Solo con un po’ di allenamento e spirito d’unione riuscirete a trovare tutte le pietre preziose».

    Prince, Paris, Stevanne, Jermajesty e Jaafar rimasero col fiato sospeso, pendendo letteralmente dalle mie labbra. Sorrisi una seconda volta. Dio solo sapeva quanto mi divertivo a giocare con i bambini in quel modo. Mi ricordavano quel briciolo d’infanzia gioiosa che avevo avuto.

    I piccoli iniziarono subito a mettersi d’accordo sulle armi da usare. Cominciarono a fremere e a fendere l’aria invano, contro mostri invisibili e potenti. Litigarono anche per scegliere i colori dei cristalli: alla fine, sotto mio severo intervento, vennero scelti l’azzurro, il verde, il giallo, il viola e il rosso.

    La fantasia permetteva loro di vedere quello che gli adulti non erano capaci di notare: forse proprio per questo mi avevano preso in simpatia, perché avevo la fortuna di osservare il mondo – nonostante l’età – con gli occhi di una bamba. Era uno dei più grandi doni che la vita avesse potuto rendermi.

    Stetti ad osservarli con un’espressione bonariamente sorridente, risedendomi sul muretto in mattoni grigi. Ad un certo punto notai una figura che si incamminava in mia direzione; riconobbi lo sguardo e il sorriso: era TJ, uno dei nipoti di Michael.

    «Ciao» disse con un cenno del capo, ad un passo da me.

    Sorrisi e ricambiai sofficemente il saluto.

    Entrambi guardammo i bambini. Dalle sue labbra dischiuse uscì uno spasmo di risata intenerita. Era stupefatto dall’allegria di quelle piccole pesti.

    «Sei simpatica ai miei cugini!» sghignazzò. «Ora che ti hanno trovata non ti molleranno per tutta la serata!»

    Scrollai le spalle, mostrando i denti in un’espressione addolcita. «L’idea mi fa veramente piacere».

    Ridacchiò.

    Si massaggiò un braccio.

    Dedussi da sola dove volesse arrivare, non ero così scema (non sempre). Mi chiese se potesse sedersi accanto a me ed io annuii. Sebbene mi mostrassi grata per la sua compagnia, in realtà non mi faceva né caldo né freddo.

    Nessuno dei due parlò per qualche lungo minuto.

    I bambini lanciavano urla di gioia e schiamazzi divertiti, cercando di colpirsi a vicenda con le loro armi magiche. Uno della compagnia fu mandato a prendere “le provviste per il lungo viaggio” che avrebbero dovuto compiere a breve.

    «Si vede che ami i bambini e giocare con loro...» disse con dolcezza.

    Un altro sorriso imbarazzato da parte mia.

    «Penso di capire perché mio zio Mike ti ha scelto come tutrice dei suoi bambini» esclamò battendo le mani sulle ginocchia. Si lasciò cadere all’indietro. «Li adorate entrambi! Siete veramente uguali».

    Il cuore ebbe un fremito.

    Non sapevo se essere felice per quell’affermazione o devastata… perciò trattenni il respiro e basta. Mostrai una facciata assolutamente neutrale, indefinita... o almeno così speravo che fosse.

    «Sì, forse hai ragione».

    Continuai a guardare dritto davanti a me. Percepii TJ voltarsi in mia direzione.

    «Perciò se ora ti offrissi da bere, tu risponderesti di no, vero?».

    Un’altra lunga palpabile assenza di rumori. La mia espressione parlò da sola.

    Egli sogghignò. «Penso di aver capito la risposta...», si massaggiò il collo.

    Arrossii vivamente sulle gote.

    «No, ti prego, perdonami...! Non volevo sembrare maleducata, scusa…». Lo guardai negli occhi. Lasciai trasparire una nota di sincero dispiacere attraverso la mia voce. «In altre circostanze avrei accettato volentieri, ma oggi non è proprio la mia giornata. Preferirei rimanere con i bambini e giocare con loro».

    Dapprima sorpreso, TJ sorrise. I suoi occhi erano dolci. Mi dette un buffetto sul braccio.

    «Non ti scusare. Anzi, questa tua sincerità mi fa – in un certo senso – piacere...», ridacchiò per la mia espressione confusa. «Anche se non posso negare di esserci rimasto male, la tua schiettezza è da ammirare».

    Sospirai. «Be’... lo apprezzo. Per me è molto importante. Grazie per avermi compreso».

    TJ mi studiò come se un autobus lo avesse preso in pieno. Fece per aprire la bocca, ma non riuscì a dire nulla. Gli sorrisi con più ardore.

    «Però se vuoi puoi giocare con noi. Potresti fare il mago cattivo», sollevai un sopracciglio e le spalle.

    Lo sbigottimento che lo aveva pervaso si sciolse presto, non appena un altro sorriso gli si delineò in volto. Richiamai i bambini e annunciai la vera sembianza dello stregone malvagio. Con maestosa teatralità lo minacciarono, avvertendolo che lo avrebbero sicuramente sconfitto. TJ non comprese niente di tutta quella situazione, così sua cugina Stevanne gli spiegò più o meno tutta la storia. Facendo spallucce, TJ accettò di fare il cattivo.

    Avrei voluto che Michael fosse lì.

    Vorrei che fossi qui.

    «Ti senti bene?», mormorò TJ.

    Lo fissai con un’espressione scossa, ignorando il resto del mondo attorno a noi.

    Un momento cadevo in profonde riflessioni e quello dopo ritornavo in superficie. Ogni volta mi sembrava di essermi appena svegliata da un incubo, solo che la mia testa risiedeva ancora nel sogno. Desideravo chiudere gli occhi e non vedere più nulla.

    Non sarei mai stata abbastanza per Michael.

    Scossi il capo. «Non ti preoccupare».

    TJ serrò le labbra in un cipiglio poco convinto.

    Non so perché e come, ma quel ragazzo mi dava l’idea di un ragazzo profondamente empatico e comprensivo. Era umile, gentile e intuitivo.

    «Le provviste sono pronte, andiamo!», arrivò il piccolo Jermajesty, che nel frattempo era volato a prendere una decina di tramezzini adagiati su un piatto in ceramica color avorio… perché lì non si usavano i piattini di plastica, ovviamente.

    Attorno a noi accorsero tutti gli altri bambini, energici come non mai. Paris mi prese la mano e mi guardò intensamente.

    «Va tutto bene, zia?»

    Inspirai a fondo, colpita dall'intensità che trasudavano i suoi occhietti color verde mare.

    Si comprende così tanto che sto poco bene?

    Sorrisi e annuii piano. «Sì, tesoro, ho solo un po’ di mal di testa».

    «Andiamo allora!», Jermajesty mi afferrò l’altra mano libera e mi fece alzare in piedi.

    Per poco non fece cadere il piatto con tutti i tramezzini sopra. Per fortuna Stevanne prese il tutto prima che accadesse il disastro, squadrandolo con un’occhiata truce.

    Mentre ci dirigevamo lontano dalla piazzola cementata, verso la stazione del trenino, mi ci volle uno sforzo abnorme per non scoppiare a piangere per la seconda volta. Strinsi forte la manina di Paris, accarezzandola con le dita, mentre cercavo di concentrarmi sui fiumi di parole dei bambini. TJ rimase zitto per un po’, fino a quando non iniziò a ridere e scherzare come se nulla fosse.

    Ma io non ero lì.

    *

    «Ce l’abbiamo fatta, zia! Lo abbiamo sconfitto!»

    «Lei è nostra zia, Jaafar, non la tua!».

    «Non dire così, Prince», sogghignai teneramente. «Se tuo padre fosse qui non sarebbe contento. Sii gentile».

    Prince mi guardò turbato. E anche un po’ rattristato, a dire il vero. Si strinse nelle spalle e sospirando lasciò perdere. TJ fingeva ancora di essere morto, disteso a terra con la lingua fuori e gli occhi chiusi, mentre io mi asciugavo le lacrime agli occhi per le risate appena fatte. Anche i suoi due fratelli, Taryll e Taj Jackson, ci avevano raggiunti e si erano messi a fare il dragone e l’orco gigante. Sperai che non fosse colato tutto il mascara o l’eyeliner, perché mi stavano facendo sbaccanare da un’ora e passa.

    L’orologio della stazione del trenino segnava le 22.32.

    Io, i tre fratelli Jackson e i bambini avevamo passato tutto il tempo a giocare. Da quando ero stata brutalmente rifiutata da Michael non ero più tornata alla piazzola cementata, anche a costo di morire di fame e di sete. Non volevo pensare a niente. Non volevo guardarlo negli occhi. L’idea di ritornare in quel giardino mi faceva star male.

    Era stata la scelta più saggia che avessi compiuto quella sera. Stare con i bambini, intendo. Erano uno più simpatico dell’altro. Ma quelli che mi facevano ridere più di tutti erano TJ, Taj e Taryll: i tre fratelli – tra smorfie e parlantine allegre – mi avevano fatto crepare. Uno faceva il mago schizofrenico, un altro l’orco dalle movenze di un gorilla e il terzo – più che un drago – pareva un avvoltoio, sbattendo le braccia in aria ogni volta che faceva un salto. Anche i bambini ridevano, stando al gioco e calandosi nella parte dei guerrieri mezzi matti. Jermajesty, invece, credevo avesse un debole per me. Appena poteva mi veniva appresso, mi prendeva la manina, e da vero galantuomo cercava di baciarla. Voleva fare il cavaliere romantico, senza macchia e senza paura. Una volta – come complimento – mi dette della “Beyoncé bianca”. Avevo riso così tanto che avevo inclinato la testa all’indietro e avevo unito le mani al petto, facendo impazzire tutti con la mia risata da strega malvagia e sadica; Paris aveva preso per mano il cugino e lo aveva trascinato via, rimproverandolo e dicendogli di concentrarsi sulla battaglia finale, non di corteggiare la regina del gioco.

    Se non fosse stato per loro, mi sarei ritirata in camera mia e avrei pianto fino al giorno dopo. O mi sarei subito addormentata per non pensare. Invece, grazie a quel gruppetto di giovani adulti e bambini, avevo ritrovato un po’ di sollievo. Non stavo meravigliosamente, ma non stavo neanche peggio. Il che era un bene. Inoltre, a son di risate, ero riuscita a diventare più spontanea e chiacchierona, facendo divertire tutti con le mie battute o le mie facce sempre molto espressive.

    Ero infinitamente grata ad ognuno di loro.

    In quel momento, molto più che in altri, mi sentii viva. Viva nonostante tutto il dolore che covavo dentro. Era una strana sensazione, quella di sentirsi sprofondare nell’oblio e – al contempo– sentire che è proprio lì che stai imparando a respirare di nuovo.

    TJ si alzò da terra, mentre i suoi fratelli e i bambini gioivano per la vittoria dei guerrieri. Mi venne incontro sorridendo e si pose accanto a me, ancora con il fiatone per le corse fatte. Io in confronto ero calmissima e composta.

    «Ti senti meglio ora?»

    «Sì». Annuii con un pizzico di amaro sollievo. «Più o meno». Lo guardai con occhi carichi di gratitudine. «Grazie per ogni cosa, davvero. Avevo proprio bisogno di tutte queste risate».

    Egli espirò a fondo e sorrise di riflesso.

    Per la prima volta da quando ce ne eravamo andati dalla pista da ballo e ci eravamo messi a giocare, lo guardai negli occhi. Cercava in tutti i modi di capire cosa pensassi, sinceramente felice e soddisfatto per le parole che gli avevo appena rivolto.

    Era proprio bello e ci avrei fatto sicuramente un pensiero, se non fossi stata presa da qualcun altro.

    «Posso chiederti una cosa, anche se penso di sapere già la risposta?»

    Temetti il peggio, ma annuii.

    «Sei innamorata, vero?»

    Il cuore dimenticò di funzionare per un millesimo di secondo, al ricordo del sentimento che mi pervadeva ogni qualvolta avessi di fronte quella verità. Scostai gli occhi dai suoi, increspando le labbra in un sorriso amareggiato, e puntai i bambini che saltavano sull’erba.

    «Sì. Ma non è un sentimento ricambiato. Sto ancora cercando di gestire la cosa, a volte ho dei crolli».

    Mi tremò la voce ma riuscii a finire la frase. Non mi venne da piangere, ma in compenso il naso pizzicò, segno che quel dolore era ancora lì, nascosto sotto risate rumorose e sorrisi allegri.

    Cominciavo a rassegnarmi, credo.

    «Mi dispiace molto», mormorò tristemente.

    Emisi uno spasmo di risata priva di gioia.

    Mi scrutò. Poco dopo sollevò gli angoli delle labbra in un cenno cordiale e sincero.

    «So che le mie parole non avranno alcun effetto positivo sul tuo umore, ma penso che ti debba divertire, ora più che mai. Penso che tu debba ridere – e, fra l’altro, sappi che hai una risata meravigliosa. Una delle più divertenti che abbia mai udito in vita mia».

    Risi. «Oh, be’, grazie di cuore». Presi un profondo respiro e lo ringraziai con gli occhi. «Ci sto provando… a divertirmi, dico. Per ora posso dire che siete riusciti – voi tutti – a farmi dimenticare gran parte del malessere che provo».

    Prima che potesse dirmi qualcos’altro, una voce di donna in lontananza richiamò il piccolo Jermajesty. Questa si avvicinò ansimando. Era bella, moltissimo direi. Indossava un vestito verde smeraldo e teneva i capelli lisci e neri lungo le spalle.

    «Ma dov’eri finito? Mi stavo preoccupando!»

    «Scusaci zia, colpa nostra che non ti abbiamo avvisato», intervenne TJ con uno sguardo di scuse. «Ci siamo messi a giocare con i bambini e ci siamo dimenticati di che ore fossero».

    Lei ci osservò tutti, esaminando la mia figura in particolare, e con un ultimo grande sospiro sorrise al figlio. «Venite, è ora di andare a mangiare la torta».

    I bambini non aspettarono di sentirselo dire due volte. Scattarono come fulmini e superarono la donna di qualche metro, correndo a per di fiato. Lei sbuffò e velocizzò il passo per non perderli di vista, nonostante i tacchi. A seguire s’incamminarono pure Taryll, Taj, TJ ed infine io. Non avevo la minima voglia di tornare di là.

    TJ notò che mi tenevo in disparte. Rallentò il passo.

    «Ti va di danzare?»

    Sbattei le palpebre, visibilmente perplessa. «Uh?»

    Si fermò e lasciò che i due fratelli continuassero senza di noi.

    «Ti va di ballare, dopo il taglio della torta?»

    «Oh», risi imbarazzata, facendomi piccola piccola. «Io non…»

    «Non fraintendermi», m’interruppe. Mi osservava con mani nelle tasche e spalle rilassate. Anche Michael faceva così, spesso e volentieri… «Non voglio conquistarti. Immagino che tu non sia in vena di corteggiamenti. Ma penso che ti aiuterebbe a vivere il momento. Adesso non vale la pena soffrire per qualcuno che non ci merita. Mandare tutto al diavolo con un bel ballo, di tanto in tanto, è la cosa migliore», e sorrise apertamente.

    Lo fissai per un tempo che mi sembrò interminabile, intrecciandomi le dita delle mani nervosamente. Dalla piazzola in lontananza provenivano fischi di giubilo e di sorpresa. Probabilmente avevano fatto entrare in scena la torta. Immaginavo che fosse buonissima, ma non avevo fame. Certo, mi sentivo spossata, stanca e senza energie – visto che non avevo praticamente mangiato e bevuto nulla in due giorni – ma non riuscivo a farmi venire l’appetito.

    Fanculo Michael.

    Fanculo la mia tristezza, la mia riservatezza e la mia timidezza.

    Fanculo il mio bisogno di isolarmi e di soffrire in silenzio.

    Fanculo tutto.

    Rilassai la postura, continuando a mirare il punto da cui proveniva la musica e quel fitto vociare entusiasta.

    «Va bene». Lo scrutai profondamente. TJ si accigliò. «Ma aspetterò seduta su una panchina, nel frattempo che mangerete la torta. Non ho fame al momento», sorrisi appena. «E dopo potrai offrirmi da bere e un ballo, come promesso».

    *

    Adoravo osservare la gente, soprattutto quando questa si divertiva.



    Quando ero troppo giù di morale per prendere, alzarmi e ballare o cantare senza freni – cercando di scrollare di dosso la momentanea tristezza – trovavo confortante restare ad ascoltare le risate altrui. Non mi sentivo triste o isolata. Semplicemente riuscivo a percepire la loro allegria e renderla mia per un istante.

    La torta era stata tagliata e tutti se la stavano godendo di gusto, in particolare i bambini. Tutti tranne me, che preferivo non farmi notare da nessuno e starmene per conto mio.

    Quando tutti finirono di gustarsi il dolce la musica cambiò. Il basso e melodico soul lasciò il posto a canzoni più allegre e infantili, per dare spazio ai bambini di divertirsi e danzare. Anche alcuni adolescenti presenti – con cui non avevo minimamente interagito durante la serata – si buttarono immediatamente in pista.

    Prince e Paris si dettero da fare; il loro ballo consisteva in tante giravolte su loro stessi e mosse che centravano poco e niente con quello che stavano danzando. Ma erano bellissimi, fenomenali. Anche Stevanne, Jermajesty e Jaafar si scatenarono.

    Una risata acuta e penetrante attirò subito la mia attenzione. La riconobbi subito, perché risaltò sopra tutti e tutto.

    Il cuore tremò.

    Evitai di cercare Michael con lo sguardo, pur sapendo di essere nascosta e lontana dalla piazzola per poter farmi trovare. Era difficile non rimanere incantati dallo charme di quell’uomo – soprattutto lo era per me; l’abito, il portamento e lo sguardo sicuro mi davano un fremito di piacere che non avrei mai pensato di provare per lui. Era un brivido familiare che, prima d’allora, non avevo capito si trattasse di attrazione fisica.

    Successivamente alcune zie, madri e padri di famiglia senza mogli accompagnarono i bimbi nelle danze. Fu molto divertente e una parte di me – quella che amava profondamente il ballo – desiderò farne parte.

    Ero certa che Michael fosse ancora lì. E la delusione e l’angoscia che mi avevano colpito poche ore prima come una valanga erano tutt’ora presenti; non mollavano la presa e non mi lasciavano respirare un attimo. Cominciavo ad abituarmici.

    Dopo una mezz’ora la musica cambiò. Stavolta era una canzone che conoscevo benissimo e che amavo con tutto il cuore. Purple Rain di Prince. Il disk jockey comunicò che era giunto il momento dei lenti.

    Chissà come avrebbe reagito Michael, sentendo il suo caro “rivale” risuonare dalle casse.

    Un soffio d’aria fresca s’infilò sotto la pelle e mi fece rabbrividire.

    Alzai gli occhi al cielo. Le chiome degli alberi si scuotevano leggermente. Non potevo vedere le stelle, non da quei piccoli squarci di blu non coperti dalle foglie… eppure sapevo che brillavano anche per me. Sempre con la testa all’insù serrai le palpebre. Restai così per un po’, inspirando ed espirando profondamente. Non so se fosse la canzone ad avere quell’effetto su di me, o se invece fosse colpa della lieve brezza che mi accarezzava il viso e la pelle, ma per un momento mi sentii parte di un tutto e di un nulla. La tristezza si trasformava in rassegnazione. La solitudine si trasformava in un vuoto carico di parole non dette ed emozioni impossibili. Accettavo il vuoto e l’arresa. Mi convincevo che non potevo essere felice, non con Michael. Cominciavo a credere che fosse giusto che non mi amasse. E ciò mi portò quasi a piangere, nonostante fossi troppo debole e troppo persa nella musica per avere la forza di farlo.

    «Sarebbe così gentile da concedermi un ballo?»

    Aprii gli occhi e guardai la figura di fronte a me. Era TJ.

    Mi si accostò piano e, con uno sguardo addolcito, mi porse il braccio, attendendo che mi alzassi dalla panchina e che mi aggrappassi a lui. Lo guardai con la stessa espressione di un animaletto sperduto – tant’è che, intenerito, mi dette un buffetto sulla guancia. Sorrisi imbarazzata.

    Mi sollevai, incatenai il mio braccio al suo e ci dirigemmo verso il terrazzo all’aperto. Ebbi un giramento di testa ed un intenso senso di nausea, ma non volli dire niente. Non avevo più niente da perdere e non volevo deluderlo.

    Rallentammo il passo presso le tavolate bianche ricolme di stuzzichini e bevande. Lì sciolsi la presa dal braccio di TJ. Quest’ultimo fu così gentile da offrirmi un bicchiere di spremuta, che bevvi solo a metà.

    Ero alla perenne ricerca di lui, ma non avevo il coraggio di farlo sul serio. Temevo che se avessi incrociato i suoi occhi, non sarei più riuscita a mantenere una maschera di apparente indifferenza.

    Alcuni adocchiavano me e TJ incuriositi; due donne, particolarmente interessate, bisbigliarono fra loro. Taryll, sorridendo ad una signora di passaggio che evidentemente conosceva – la quale lo esaminò con fare interrogativo –, si avvicinò al mio orecchio.

    «Ci sono tante persone che non fanno altro che osservarti da tutta la sera. Sembra che tu sia proprio un colpo nell’occhio». Forse era colpa del rossetto troppo appariscente. Arrossii e TJ continuò ridacchiando. «Perfino zio Mike ti fissa in continuazione».

    Il fiato morì senza mostrarsi apertamente.

    Strinsi la presa sul bicchiere. Lo appoggiai al tavolo con la lentezza di una tartaruga.

    «Purtroppo non amo essere al centro dell’attenzione… ma ci sto facendo il callo, stasera», alzai un sopracciglio e compii un mezzo passo all’indietro.

    Le parole “Perfino zio Mike ti fissa in continuazione” rimbombavano in testa senza sosta.

    «Non ti preoccupare, staremo da questa parte della piazzola. Andrà tutto bene. Anzi…». Mi prese la mano e ne baciò il dorso. «Grazie per aver accettato il mio invito».

    Arrossii, emettendo un piccolo spasmo di risata, e scossi il capo abbassando gli occhi sul pavimento cementato.

    Volevo guardarlo. Volevo incrociare Michael senza sentirmi, subito dopo, sull’orlo di un precipizio. Volevo che le cose fossero andate diversamente e volevo che lui ricambiasse i miei sentimenti.

    «Pronta?».

    Scrutai il bellissimo volto di TJ. Annuii timidamente.

    Ci dirigemmo a due metri dalle tavolate bianche. Non eravamo nel bel mezzo della pista, tuttavia non si poteva dire che passassimo inosservati. Per fortuna non eravamo i soli a danzare.

    Il cuore batteva ad una velocità incredibile.

    TJ mi posò le mani sopra le sue spalle. Presi un profondo respiro – senza smettere di ammirare il mio compagno di ballo negli occhi – e in quell’istante percepii il suo profumo: era buono, certo... ma non era Michael.

    Non sarebbe mai stato Michael.

    E questo mi fece sentire a disagio.

    Abbassai le palpebre. Mi lasciai coccolare dalla musica, mentre le dita di TJ mi cingevano dolcemente la vita e mi facevano ondeggiare; prima a destra e poi a sinistra, poi avanti ed infine indietro. Sapeva come condurre senza far sentire impacciata la propria compagna.

    Cercai di non pensare a nulla, ma fu impossibile.

    Non avrei mai voluto che sarebbe andata a finire così. E non lo pensavo solo per quanto riguardava la serata, ma anche per la situazione tra me e Michael. Allora desiderai non aver mai fatto il colloquio, a novembre. Mi pentii di non essermi tenuta distante dalla famiglia Jackson quando era il momento. Desiderai non aver mai voluto bene a Michael. Desiderai che Janet non mi avesse mai posto di fronte ai sentimenti per il fratello. Desiderai annullare ogni singola cosa.

    Inconsciamente aprii gli occhi e, dinanzi, mi apparve la figura Michael.

    Sentii male al petto.

    Aveva le spalle dritte, totalmente avvolte nel suo abito bianco, e lo sguardo impenetrabile. Teneva in braccio Blanket e i suoi due bambini, Prince e Paris, gli stavano accanto tenendosi uno alla sua mano e l’altra alla sua giacca. Dondolavano a destra e a manca, fissando il vuoto con sguardo carico di sonnolenza. Accanto a loro c’era Janet, il suo fidanzato e un altro uomo di cui non sapevo il nome.

    Mi guardava.

    Eccome se mi guardava.

    Fu un secondo soltanto, ma bastò per dare una risposta alle mie domande: era un’occhiata dura, fulminante. Perfino i muscoli del viso erano tesi, inaspriti da una sensazione di visibile ma offuscata irritazione. Fastidio, sì, e anche uno sprazzo di inquietudine.

    Chinai il mento e le iridi chiare sulla spalla di TJ.

    Presto o tardi avrei dovuto affrontare l’inevitabile.

    Tutto mi stava scivolando via dalle mani.

    Non era servito a niente ballare con TJ. Non era servito a nulla giocare con i bambini e ridere a più non posso. Non era servito a nulla mandare a quel paese Michael con il pensiero. Io ero sempre io, il dolore era sempre dolore, e l’amore per quell’uomo sopravviveva comunque.

    Purple Rain finì
    .1TJ mi baciò la guancia sinistra e io sorrisi debolmente. Lo ringraziai con gli occhi. Stette per aprire la bocca e dire qualcosa ma gli fu impedito. Quando lo vidi fissare un punto alle mie spalle con fare stupito, mi girai.

    La mia visuale s’illuminò della sua presenza.

    Il suo viso era magnifico. Mi accorsi che si era truccato con poco e niente, lasciandosi il più naturale possibile. Stessa espressione indurita di prima. Stessa postura eretta. La serietà celata da un sorriso di cortesia, una luce negli occhi così abbagliante da non poter essere descritta a parole.

    Michael...

    «Posso rubartela per un ballo?», chiese sofficemente.

    La sua voce era così profonda che mi fece vibrare il respiro in gola.

    «Non chiederlo a me, zio», sorrise. Mi guardò negli occhi. «Devi chiederlo a lei...»

    Michael mi puntò, gentile e affascinante. Issò appena le sopracciglia. «Posso avere l’onore?»

    Cercai prima TJ e poi lui. Ero completamente smarrita. Non seppi cosa dire, ma annuii comunque.

    TJ se ne andò lanciandomi un occhiolino che non riuscii a ricambiare. Il disc jockey stava ancora scegliendo il prossimo brano da suonare. Mi sembrava di essere avvolta nel silenzio e il resto – mormorii allegri e borbottii confusi – fu ovattato dall’emozione di ansia e gioia che provavo nel sentire Michael così vicino.

    Mi venne incontro di un passo.

    Sentivo la sua presenza pulsare quanto il mio battito cardiaco... percepivo quelle immensità scure fissarmi intensamente, scavando fin sotto i vestiti e fin sotto la pelle, alla ricerca dei miei veri sentimenti. Un passo e ci saremmo toccati di nuovo.

    Cercai di nascondere la palpabile difficoltà che avevo nell’atteggiarmi da persona normale. Non lo guardai, non osai farlo: se soltanto avessi provato, probabilmente sarei annegata in lui e non avrei avuto più la capacità di muovermi.

    Mi morsi il labbro inferiore.

    Il suo strano profumo di sandalo mi invadeva l’olfatto.

    Improvvisamente lo sentii prendere un lungo respiro. Non enunciò alcun suono dalle labbra.

    Prima che potessi arrivare a scorgere i suoi occhi, mi bloccai a metà strada, restando a esaminare la sua giacca bianca e il suo petto che si alzava e si abbassava a ritmi piuttosto irregolari... profondi, ma irregolari...

    «Stasera io e te siamo come lo Yin e lo Yang…».

    Rabbrividii.

    Afferrò la mia mano sinistra, tirandomi con dolcezza disarmante verso di sé. Per un momento dimenticai di essere nel bel mezzo di una pista da ballo, insieme a tanti altri invitati che potevano sospettare dei sentimenti che provavo per Michael.

    Lo guardai confusa.

    Non sorrideva, ma i suoi occhi, persi nei miei e rapiti dalla mia figura, non tentennarono. Erano intensi, folgoranti. Di nuovo scorsi quel fuoco incendiare le sue iridi buie, lo stesso che mi pareva di aver visto più di una volta e che non avevo mai compreso del tutto.

    «Stanotte, molto più delle altre volte in cui siamo insieme, io e te siamo come lo Yin e lo Yang…».

    Non ci stavo capendo più nulla. Che cosa?

    «Non lo hai notato?» distese la fronte fingendo stupore. Il fuoco che aveva dentro era come lampi di luce nella notte. «Io sono vestito di bianco; ho la pelle – be’ – scura, in origine, gli occhi scuri, i capelli scuri... sono un punto nero circondato dal bianco. E tu... sei vestita di nero, con la pelle chiara, gli occhi chiari, i capelli... be’, più o meno chiari...». Ridacchiò, ma il risolino scemò subito. I suoi occhi non osavano lasciarmi andare. «Al contrario di me sei un punto bianco rivestito dal nero... eppure siamo così uguali...»

    Pensai che avesse bevuto, o che qualche valvola del suo strano cervello non funzionasse in modo corretto. Quel ragionamento non aveva senso e la mia smorfia pensosa fu capace di farlo sorridere.

    Pendevo dalle sue labbra, dal suo ragionamento tanto sconsiderato quanto… quanto innocente e colmo di magia. Non sapevo se riporre attenzione a quella stretta, che delicata mi portava sempre più vicina al suo corpo, o a quello sguardo magnetico e deciso. Michael sapeva stregarmi ogni volta che voleva. Lo faceva con una tale sicurezza e dolcezza che mi ritrovavo spiazzata, inerme di fronte alla sua anima e al suo piacevole ed affettuoso raggiro.

    Abbracciò la mia mano con la sua, grande e protettiva.

    Si bagnò le labbra e studiò il ciondolo di mezza Luna che tenevo al collo.

    «È destino. Io e te siamo legati da una forza più potente di quanto crediamo. Siamo diversi, ma fondamentalmente conserviamo la stessa scintilla nell’anima. Siamo parte della stessa essenza, siamo legati da un filo che non si può distruggere, sciogliere o bruciare. Non possiamo stare uno senza l’altro».

    Una lieve musica cominciò a innalzarsi nell’aria.

    La conoscevo. Michael mi aveva parlato di quella band. Erano i Boyz II Men, End of the Road. La sentivo distante, in confronto alle parole che Michael mi stava sussurrando con tale passione. I suoi occhi erano talmente splendenti che sarebbero riusciti a competere con la luce del Sole.

    Senza che me ne accorgessi, fece scivolare la sua mano libera dietro la mia schiena. Mi fece tremare non appena il contatto fu effettuato con maggior decisione e il mio petto si scontrò con il suo. Mi persi nei contorni del suo viso leggermente spigoloso, nella fossetta marcata, nelle labbra e nelle sopracciglia praticamente perfette.

    Inclinai appena la testa all’indietro. Il viso di Michael si pose a pochi centimetri dal mio orecchio sinistro; con il respiro accarezzò dolcemente una ciocca di capelli, il collo, la gota, un lembo del vestito... questa carezza mi avvolse completamente – gambe, braccia, petto... dalla punta dei piedi fino all’ultimo capello.

    Il ritmo della musica si fece lentamente più scandito, ma ancora non ci muovevamo.

    «Ci apparteniamo, principessa»
    2.

    Tutto sembrò svanire. Le persone, il ranch, il mondo intero. Eravamo solo io e lui.

    Mi strinse a sé, facendomi dondolare piano mentre io – incapace di trattenermi – chiudevo gli occhi. Li chiusi e mi abbandonai a lui. Mi abbandonai con la fronte sulla sua spalla.

    Fottiti, avrei voluto dirgli. Fottiti tu e le tue coglionate, ecco cosa avrei voluto dirgli. Avrei anche voluto dirgli che era uno stronzo. Avrei voluto dirgli di lasciarmi in pace. Avrei voluto dirgli che non mi illudesse. Ma soprattutto avrei voluto chiedergli che mi amasse.

    Non importava quanto fossi triste, quanto lo odiassi o quanto mi sentissi schiava di sentimenti troppo grandi da gestire: Michael era sempre il centro di ogni cosa. Era l’essenza della mia essenza. Era parte dell’aria che respiravo. Era l’unico per me, e lo sarebbe stato per sempre.

    Michael mi si avvicinò all’orecchio.

    «Girl, I know you really love me… you just don’t realize, you’ve never been there before…»

    Feci scivolare la mano che tenevo sul suo braccio – lo stesso che mi cingeva la schiena – verso il luogo dove si trovava il suo cuore, afferrando spasmodicamente la stoffa della sua giacca e le mie palpebre. Inspirai l’odore della sua pelle.

    Michael ricambiò. Credetti di sentirlo tremare.

    Impercettibilmente si scostò, vagando verso il basso, e mi baciò il collo. Mi accarezzò la schiena percependomi rabbrividire. Serrai le labbra per non lasciare che un gemito fuoriuscisse dalla bocca.

    Quando la canzone finì e riaprii gli occhi, sembrò essere passato solo qualche secondo. Tutto sembrò riacquistare forma. Mi ripresi da un sonno ad occhi aperti, un viaggio che avevo intrapreso con Michael che quasi non riuscivo più a ricordare. Un viaggio nel silenzio, attraverso il quale due anime riuscivano ad abbracciarsi nella loro forma più pura.

    Michael ed io ci osservammo. Le sue profondità arsero, sorrisero, analizzarono ogni lineamento del viso che gli era sfuggito, che amava, che non riusciva a smettere di ammirare. E io lo amai – lo amai con tutta me stessa – fino a non poterne più. Fino a desiderare di interrompere lo scorrere del tempo.

    «Scusa...»

    Un mormorio raggiunse le nostre orecchie, destandoci. Era Janet.

    Scrutò Michael e in seguito me. Mi squadrò, con labbra incurvate in un enigmatico cipiglio straboccante di domande.

    «Posso ballare con mio fratello?»

    Guardai Michael senza rispondere. Egli rimase puntato su di lei ignorandomi completamente. La luce nei suoi occhi e tutta la loro poesia erano scomparse.

    «Sì...», sussurrai, annuendo e arrossendo al tempo stesso. «Assolutamente…»

    Lei fece un cenno di ringraziamento col capo. Mi sorrise ed io provai a far lo stesso. Michael mi lasciò andare, mi inseguì con gli occhi, ma io gli voltai le spalle senza degnarlo di attenzioni.

    A piccoli passi mi avviai lontano, dentro casa, incapace di fermarmi.

    Tutto l’amore che avevo provato in quei miseri tre minuti di pace fu ancora una volta seppellito da una sensazione d’assoluta afflizione, e dalla consapevolezza che niente poteva essere rimediato. Non trattenni neppure una lacrima.

    *

    Non riuscirei a quantificare quanto tempo spesi in camera mia, a letto, con il volto affondato nel cuscino, fino a quando non mi sollevai per asciugarmi le guance con una mano.

    Le lacrime continuarono a bagnarmi la pelle imperterrite. Ero sicura che quello fosse lo sfogo “definitivo”, quello che avevo represso e che non ero riuscita a esternare per quasi due giorni.

    Mi sentivo... mi sentivo ferita e tradita. Mi sentivo presa in giro – prima mi rifiutava e poi mi rivolgeva parole colme d’amore, e inaspettatamente l’attimo dopo non esistevo più.

    Mi venne in mente ciò che mi aveva detto quando ballavamo.

    Siamo simili, sì, ma non siamo uguali – come diceva la canzone degli U2 che attraversava le finestre… segno che c’erano ancora ospiti che ballavano o non accennavano ad andarsene.

    Ricordai le tante occasioni in cui lo avevo abbracciato, il calore della sua mano, la soavità della sua voce – a volte bassa e a volte leggera come il vento. E poi il suo respiro sul collo, i brividi che ogni volta mi causava quando mi passava accanto, quando mi cingeva da dietro quando meno me lo aspettavo, quando mi accarezzava inaspettatamente.

    Per un momento mi mancò tutto di Michael. Ogni cosa. Mi mancava non averlo lì.

    Volevo che fosse di nuovo il mio migliore amico, ma sapevo che in fondo non l’avevo mai considerato tale: lui era sempre stato uno scalino più in alto rispetto a tutti. Sempre al primo posto.

    Come diavolo facevo a dimenticarmi di lui, quando il mio cuore scoppiava d’amore? Eppure lo contenevo – ero obbligata a farlo – perché non potevo fare altrimenti. Forse mi avrebbe anche licenziato, adesso che le cose erano decisamente cambiate.

    Andai in bagno, trascinandomi di peso, e mi guardai allo specchio. Il trucco era sbavato e rovinato. Uno scempio. Presi dei dischetti di cotone e lo struccante e mi tolsi tutto. Mi sciolsi i capelli. Dopo aver fissato il mio riflesso con gli occhi ancora lucidi dal pianto, ritornai a letto. Mi girava la testa e mi sembrava di avere la febbre. Mi sedetti sul bordo del materasso e fissai la finestra.

    L’amore si dimenava nel sangue e nei miei occhi; voleva uscire, voleva diramarsi in tutto il corpo, avvolgermi completamente e farmi volare chilometri e chilometri sopra la Terra. Voleva trasformarsi in mille fuochi d’artificio, risplendere.

    Solo per lui.

    Sempre e unicamente per lui.

    Non ce la facevo più.

    Qualcuno bussò alla porta. Non invitai quella persona ad entrare, ma questa si aprì lo stesso. Quando girai il capo in direzione del fascio di luce che attraversava l’oscurità della mia stanza, la mia faccia si contorse in un’espressione irrigidita. Non avevo neanche la forza di arrabbiarmi.

    Puntai di nuovo la finestra.

    «Sarah...», mormorò gentile.

    Chiusi gli occhi.

    Avrei potuto riconoscere la voce di Michael anche in mezzo a un milione di persone.

    Ebbi la pelle d’oca.

    «Possiamo parlare?», chiese Michael con una dolcezza che – per quanto fosse in grado di liquefarmi – al momento mi sembrò perfino disgustante.

    Chiuse la porta senza aspettare la mia risposta. Fece qualche passo in avanti, ma si bloccò alla vista dei miei occhi arrossati e stanchi. Mi lasciai cadere sul materasso una seconda volta, di schiena, ammirando il soffitto.

    Avrei voluto rispondergli, ma non ci riuscivo, anche se ero conscia del fatto che quell’emozione di inettitudine non sarebbe durata molto.

    «Sarah...». Il tono divenne cupo. «Mi fa male vederti così...» Sentii lo stomaco chiudersi in una morsa terrificante e subito dopo un gran senso di nausea. «Per favore...»

    Non illudermi, basta.

    La sua voce, profonda e intimorita, si indurì. Avanzò fino ad arrivarmi praticamente a fianco, in piedi e immobile al bordo del letto.

    «Non riesco a sopportare questo silenzio... guardami».

    Distesi la fronte in un’espressione fintamente stupita.

    «Che cosa vuoi che ti dica?» sussurrai rialzandomi a sedere, guardando la finestra con occhi assenti, utilizzando un tono neutrale.

    Sentivo lo sguardo di Michael su di me, ma non mi rendeva nervosa. Ero così dipendente da quel senso di impotenza e stanchezza – mentale, emotiva e fisica – che anche il più minuscolo briciolo di timidezza passava in secondo piano.

    «Dimmi cosa provi...»

    Serrai le palpebre e storsi il naso in un cipiglio schifato.

    «Che cosa dovrei spiegarti, Michael?» sibilai il suo nome, contraendo la mascella. Sentii le lacrime pungermi gli occhi come se fossero spilli. «Ma fammi il piacere

    Così dicendo mi alzai e gli schivai la spalla. Mi diressi verso la finestra. Rimasi con le braccia incrociate per un secondo, dandogli la schiena. Mi tremavano le gambe.

    Mi portai una mano fra i capelli. Anche le dita sussultavano.

    Respirai con leggera fatica. Lo stomaco era una morsa d’acciaio, la gola era chiusa e mi faceva male. Quando lo puntai con due occhi colmi di risentimento, mi guardò scioccato e addolorato assieme. Le sue iridi, grandi e spalancate, erano lo specchio dei suoi sentimenti.

    Boccheggiò, gesticolando. «Sarah... posso spiegare...»

    «Spiegare cosa? Cazzo, Michael, tutto questo... non... non c’è NIENTE da spiegare!» esclamai alzando la voce e le mani in aria. Mi osservava con afflizione e pentimento. «Pensavi che non lo avrei capito da sola? Porca puttana, M-Michael!»

    Stavo piangendo. Le lacrime scendevano da sole e non me ne rendevo conto. Mi bagnai le labbra nervosamente e mi passai i dorsi delle mani sulle gote bagnate, scrutando il soffitto. Il fiato era instabile, oscillando a ritmo dei singhiozzi.

    «Per favore», mi pregò cercando di venirmi accanto. «Puoi... puoi dirmi cosa ti ho fatto? Voglio... voglio sentirtelo dire»

    «Sei uno stronzo, Michael! Un vero STRONZO!» urlai e mi venne da ridere sarcasticamente.

    La testa mi girava e sentivo le tempie pulsare.

    «Mi illudi e poi... Dio, Michael… hai... hai baciato le mie labbra l’altra notte, il... oh... il tuo sguardo sembrava così pieno di amore e... e affetto per me... che mi sono sentita in grado di credere che tu... che tu mi amassi…».

    Uno spasmo di pianto mi bloccò. La voce si incrinò dal dispiacere e gli detti le spalle, inspirando ed espirando a bocca aperta, cercando di contenere il mio pianto.

    «Credi… credi che sia una statua di pietra? So benissimo di essere imperfetta... di essere solo un’insegnante e un’amica… so di essere chiusa, asociale, tendenzialmente bloccata nelle mie paure... so di essere insignificante nel mio modo di essere, ma questo non ti dà il diritto di prendermi per il culo… MAI!»

    Tantissimi brividi di freddo mi pervadevano per la tensione e il nervosismo, stritolandomi le viscere. Mi appoggiai alla finestra con un palmo.

    «Non sei affatto insignificante». La bassa voce di Michael era carica di amarezza e rimpianto. Sembrava commosso, perché le sue iridi erano velate da una spessa patina bagnata. «Per me non sei insignificante. Sei una delle persone più meravigliose che io abbia mai incontrato...»

    «Ti prego...», rantolai coprendomi il viso con le mani.

    Percepii come le mie labbra sussultassero ogni qualvolta inspirassi.

    Quando i nostri occhi s’intrecciarono ancora, eravamo entrambi lo specchio della sofferenza. Michael teneva un piede e un braccio in mia direzione, pronto ad afferrarmi, ma il corpo non si muoveva.

    «Basta, Michael… non sarò mai abbastanza per te...».

    «Lo sai che non è vero», era serio.

    Provò ad avvicinarsi con cautela. Rifiutai la sua vicinanza e, mentre indietreggiavo, venni colta da un forte giramento di testa e da un possente conato di vomito. Stavo male, tanto da pensare che non fosse semplicemente per il pianto.

    «No...», faticai a respirare. Guardai in basso, verso i suoi piedi. «Smettila di farmi del male... i-io non potrò mai valere qualcosa per te... io non varrò mai n-niente per uno come te...», sorrisi con la vista offuscata, sollevando l’attenzione sulla sua camicia bianca, leggermente sbottonata.

    Michael si passò le mani sulla faccia, muovendosi sul posto.

    Il silenzio invase la stanza. L’aria divenne più pesante. Mi parve che stesse piangendo anche lui, ma non avevo voglia di scoprirlo.

    «Io... io non pensavo che soffrissi così tanto» mormorò straziato. Mi osservò, voltando il busto a tre quarti in mia direzione. Con una mano si pettinò i capelli all’indietro. Lo sguardo era perso nel vuoto. «Io volevo solo proteggerti… non avrei pensato che – ».

    «Che cosa? Che sotto questa mia indifferenza ci fosse qualcos’altro?».

    Mi studiò con le lacrime agli occhi.

    Accennai un sorriso beffardo e provocatorio. «Lo sai anche tu che faccio difficoltà ad aprirmi. Sai quanto è difficile per me esprimere sentimenti del genere. Prima ricambi e poi mi ignori… sei stato così egoista, egocentrico, che hai pensato solamente a te stesso! Non ti è mai interessato nulla di me. Non ti è mai importato nulla... se io restassi o me ne andassi, a te non fregherebbe proprio niente!»

    Michael si immobilizzò, così come la sua espressione addolorata cambiò completamente. Diventò freddo come il ghiaccio, tutto ad un tratto. La sua fronte si distese e le iridi scure assunsero una serietà incredibile. La bocca si storse in segno di fastidio.

    Avevo detto delle brutte cose, ma non mi importava. Ero irritata. L’idea di ferirlo nel profondo era uno dei metodi che avevo creduto più efficaci per liberarmi di lui e cacciarlo via. Probabilmente pensavo che non avrebbe reagito a ciò che gli avrei detto, che se ne sarebbe restato zitto e incapace di reagire, e invece mi sbagliavo. Non era affatto pronto a lasciarmi dire quelle cose.

    Mi fissò sorridendo di rabbia, esattamente come avevo fatto anch’io poco prima. La fisionomia del suo volto pareva esprimere turbamento, ma gli occhi fiammeggiavano d’ira. Spalancò le labbra alla ricerca di qualcosa da dire e, scuotendo la testa, si mise una mano al petto.

    «Ciò che TU provavi? E A ME non hai mai pensato?!», alzò la voce.

    La sua faccia era esterrefatta, furibonda. Non lo avevo mai visto così, se non quando parlava del processo o mi accennava dei suoi problemi con il suo personale o team manageriale.

    «Per... per tutti questi mesi ho cercato di farti capire quello che sentivo! MESI, Sarah! Cazzo, fin dall’inizio mi sono mostrato interessato. A TE. Pensi che sia facile – al posto mio – fidarsi di qualcuno, con tutto quello che sto vivendo di recente? Pensi che io non mi sia mai chiesto se ne valesse la pena, dirti quello che provavo? Anche io sono riservato, eccome se lo sai... e non credi che sia stato difficile per te come lo è stato per me? Forse anche di più?!»

    «Tu non ti fidavi di me?» annaspai strabuzzando gli occhi.

    Evitò di ricambiare la mia occhiata sconvolta. Si bagnò le labbra per ben due volte e si pose le nocche sui fianchi, mentre emozioni di collera e sconforto saettavano nelle sue iridi oscure. Mi sentivo disarmata.

    «E poi... Dio, Michael, come avrei potuto minimamente pensare che tu mi stessi corteggiando?!»

    Sbarrò occhi e bocca a sua volta, fulminandomi. «E tu non pensi che io abbia provato lo stesso, dannazione?!»

    Silenzio.

    Prese fiato e gesticolò nervosamente, andando avanti e indietro sul posto.

    «Anche io sono stato male, avrei voluto gridare al cielo cosa provavo per te! Avrei voluto dirti subito ciò che sentivo, ma dovevo capire se tu mi amavi!»

    Non ci credevo.

    Risi amaramente, dissentendo con il capo.

    «No, tu ti sei divertito a giocare», mi si mozzarono le parole in gola. «Non mi hai mai dato alcuna certezza dei tuoi sentimenti, non ti sei nemmeno sprecato».

    Sapevo che non era vero.

    Mi puntò un dito contro, scuotendo la testa e inclinandola da un lato. «No, questa è una bugia! Non ho mai giocato con te, non l’avrei mai fatto!».

    Lo fissai sul punto di piangere una terza volta.

    Michael espirò ad occhi chiusi. Tentò di placare la sua ira.

    «Sei tu l’egoista... io NON HO MAI goduto, NON HO MAI gioito per come ti ho fatto sentire stasera e molte altre volte. Sapevo di spezzarti il cuore. Sapevo molto bene che prima o poi avrei rischiato di perderti, e se sono venuto qui è perché mi sentivo in colpa. Tu... tu non hai mai capito che ti amavo. Eppure sei sempre stata il centro del mio mondo».

    Guardò altrove. Mostrò un ghigno sardonico, con collera e stupore assieme. Torturò il labbro inferiore con la lingua.

    «La prima volta che ti ho visto, io... io sono rimasto affascinato dai tuoi occhi e dalla luce che possedevano. Dentro di me sentivo qualcosa di insensato che mi spingeva a cercarti. Ti guardavo e mi sentivo tanto a casa quanto disorientato e scosso. Ho lottato per reprimermi. Ma volevo capire se al di sotto di quella tua assurda formalità ci fosse qualcosa di puro e genuino... e così è stato! Col tempo mi sono reso conto che tu non mi piacevi soltanto, ma che mi ero fottutamente innamorato di te! E tu mi dai dell’egoista insensibile!»

    Le parole di Michael erano dure, crudeli quasi. Ridacchiò senza divertimento. Si bagnò la bocca e fissò il pavimento, scuotendo il capo con un’espressione che pareva addirittura sdegnata.

    «Ma tu non hai mai capito nulla. Ti sei sempre vista inutile, ingombrante, una seccatura, una persona non degna del mio amore. Come se io fossi un essere incapace di innamorarmi. E non capivi che ero io quello che pensava di non essere meritevole della tua compagnia. Sei così cieca... tu – Sarah – eri così occupata e convinta di essere immeritevole del mio amore, che non ti sei mai accorta del mio sentimento. Tu sei terrorizzata dall’amore. Il mio!»

    Non riuscii a rispondergli.

    Ero felice, davvero felice, perché era quello che desideravo di più al mondo: sentirmi amata da Michael. Una parte di me non riusciva a trattenersi dal desiderio di corrergli incontro, baciarlo e lasciare che i miei timori scomparissero al contatto con le sue labbra e con il suo corpo. Ma più di ogni cosa, ero schifata da me stessa.

    Ero riuscita a deludere la persona che amavo di più.

    Non mi ero mai accorta di nulla. Non me ne ero mai voluta accorgere.

    Michael non osava guardarmi. Pensai che fosse così furibondo che il solo rivolgermi attenzioni lo avrebbe portato ad odiarmi di più. Teneva le braccia incrociate al petto, fissava il letto pieno di avversione e, anche se da lontano, lo vedevo oscillare in avanti e indietro concitatamente.

    Io, invece, riuscivo soltanto a tremare.

    Ero sicura che – per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti – detestasse chi fossi.

    La lucidità venne meno, mentre la vista si oscurava sempre più velocemente. Non erano solo le lacrime a rendermi cieca. Stavo male e volevo vomitare. C’era qualcosa che non andava.

    Cercai un appoggio.

    Ero stordita.

    Non riuscivo più a pensare.

    «Sarah!».

    Il grido di Michael mi giunse come un eco e rimbombò rumorosamente nell’aria. Non mi accorsi che la luce si era spenta dinanzi ai miei occhi.






    1 Consiglio ai lettori di leggere il testo o la traduzione di Purple Rain ed End of the Road. Come per tutte le canzoni che inserisco nella storia, nessuna viene inserita a caso. Penso che rispecchino entrambe il punto di vista di Michael, in questo caso.
    2 Per chi non se lo ricordasse, questa frase riporta al capitolo 14.


    Edited by fallagain - 9/4/2020, 22:19
  4. .
    Capitolo Ventinove: L'Eclisse

    Fu un raggio di sole, la mattina dopo, a destarmi.

    Era avanzato timidamente nella stanza, dritto verso il mio viso, e aveva bussato alle porte di quella zona che divide la veglia dal sonno.

    Ancora mezza addormentata, voltai il capo dalla parte della finestra.

    Sul momento non ricordai niente del giorno precedente. Tenni gli occhi chiusi fino a quando i ricordi avanzarono nella profondità della mente, risvegliandomi dalla fase REM. Le guance erano increspate dai residui delle lacrime.

    Aprii le palpebre sbattendole piano.

    Una serie di immagini riaffiorarono dinanzi al mio sguardo assente; i ricordi vennero scatenati dal delicato profumo di Michael, rimastomi sulla pelle per tutta la notte. La sensazione del bacio, quel meraviglioso contatto con le sue labbra... i sospiri, l’eccitazione e in seguito il modo in cui mi ero rannicchiata su di lui, mentre Michael ricambiava stringendomi fortissimo. Il suo sapore, il bagliore dei suoi occhi angustiati e bramosi, le vertigini che avevo provato nonostante fossi distesa e immobile.

    Il cuore batté forte ed io m’irrigidì di rimando.

    Mi accarezzai le labbra con la lingua, sperando di sentire ancora il gusto del suo bacio. Trattenni il fiato, immaginando di poter tornare indietro nel tempo, nell’attimo in cui tempo e spazio si erano annullati.

    Non riuscivo a comprendere se Michael stesse dormendo vicino a me o meno.

    Quale sarebbe stata la cosa migliore da fare? Affrontarlo? Scappare? Avrei dovuto chiedere scusa per aver agito d’istinto? O avrei dovuto confessare cosa provavo, paura compresa? Non ero sicura di aver agito bene. Non lo ero per niente.

    Lo amavo, di questo ero certa, ma il timore di non sapere a cosa andassi incontro mi faceva rabbrividire: volevo illudermi di provare amicizia e basta; ero spaventata, perché tentavo di trattenere un sentimento più grande del mio stesso corpo; cercavo con tutte le forze di reprimerlo, di cancellare quello che era accaduto, nonostante non riuscissi a sbiadire nemmeno un dettaglio dal cuore.

    Dopotutto cosa aveva spinto Michael a ricambiare il bacio? Perché eccitarsi fino a quel punto? Semplicemente perché era un uomo e come tale sarebbe stato scemo a rifiutare una simile occasione?

    Riconobbi che il problema di fondo ero io, io che non riuscivo a capire perché dovesse amare me con tutte le altre persone presenti in questo mondo; il problema ero io, che non credevo di meritarmi quell’ondata di energia così intensa e pura. Che non ero in grado di gestirla. Ero così cieca da non vedere quello che, chiaro e limpido come l’acqua, avevo avuto di fronte per mesi. Se tutto fosse stato un’illusione – se Michael mi avesse baciato solo per compassione o qualsiasi altro motivo che non fosse amore – era troppo tardi per rimediare.

    Difficilmente le cose sarebbero ritornate come prima.

    Ricordai la sensazione del bacio, umido e caldo, e percepii uno strano dolore allo stomaco e al basso ventre.

    Girai impercettibilmente il collo verso il lato vuoto del letto. Respirai a fondo nell’istante in cui vidi che non c’era. Angoscia e lieve sollievo allagarono me e l’ambiente circostante.

    Perché non ci sei?. Me lo chiedevo in continuazione.

    Mi voltai verso il mio comodino per vedere se avesse lasciato un messaggio – un foglio di block notes, una lettera, qualsiasi cosa. Non vidi nulla, ma per sicurezza mi alzai a sedere.

    La stanza era illuminata dallo spuntare del Sole mattutino. Tutto sembrava intoccato, pietrificato nel tempo e nello spazio: il letto, l’armadio, i quadri, perfino la polvere che volteggiava in aria se la si guardava controluce.

    Se ne era andato.

    Michael era svanito completamente.

    Le coperte non erano state toccate né tanto meno disfatte. Ciò nonostante, la sensazione di devastante benessere – scatenatasi dal momento in cui lo avevo baciato, in cui le braccia di uno si erano avvinghiate sul corpo dell’altro – riuscii a farmi sentire un piccolo soffio al cuore. L’impronta delle sue labbra e delle sue dita bruciavano ancora la pelle.

    Se ne era andato senza aspettare il mio risveglio. Era scomparso e nemmeno lo avevo udito alzarsi. Non sapevo neanche a che ora avesse abbandonato la stanza, e il perché ancora meno.

    Vergogna? Pentimento? Dolore?

    La consapevolezza di aver fatto uno dei più grandi errori della mia vita non era niente in confronto all’opinione che Michael poteva avere di me. Temevo così tanto di aver rovinato il mio rapporto e il mio futuro con lui che mi venne da piangere: i migliori amici non si baciavano sulle labbra, così come non dovevano eccitarsi a vicenda.

    Mi misi le mani fra i capelli e portai le ginocchia verso il torace. Fissai le lenzuola, attonita… svuotata.

    In seguito serrai le palpebre, aggrottando le sopracciglia.

    Stavo così male che non avevo fame.

    Nascosi la faccia tra il petto e le ginocchia. Respirai a fondo. Mi feci cullare da quella interminabile assenza di rumori, pungente ma allo stesso tempo rassicurante, forse l’unica cosa che mi potesse far compagnia in un momento del genere.

    Ero nella merda, di questo ne ero assolutamente certa.

    Mi sentivo fragile come un castello di carte: un solo alito di vento avrebbe potuto farmi crollare a terra. Un solo sguardo di Michael avrebbe potuto mandare la mia anima in fiamme o sotto terra, a seconda della sua ipotetica reazione.

    Che cosa provi per me?

    *

    «Sarah, senti la nuova canzone che abbiamo imparato!»

    Paris mi trascinò per mano verso il muretto in mattoni, quello vicino ad un grande albero, a pochi passi dal villino. Eravamo uscite dall’enorme terrazza in corridoio, in direzione del giardino che fronteggiava il ruscello. Prince ci aspettava.

    «L’abbiamo preparata per te!».

    «Oh, davvero?», li guardai amabilmente, sorridendo.

    Paris mi strinse la mano. «Sì! Te la dedichiamo!».

    I piccoli mi fecero sedere. Mi osservarono emozionati mentre io cercavo con tutte le mie forze di rimanere concentrata su loro e basta. Non era facile fingere serenità.

    Michael non si era presentato né durante la colazione né durante il pranzo. Per reazione alla sua assenza, non avevo mangiato niente se non un piccolo pezzo di pane. Neppure nei corridoi lo avevo visto passare. Nessuno sapeva dov’era, o almeno così sembrava; Grace mi aveva evitato per tutta la giornata.

    I due fratelli bisticciarono un po’ per decidere le postazioni da prendere e io li ripresi gentilmente. Così Prince si sistemò a destra e Paris a sinistra; il primo sorrise e si mostrò abbastanza sicuro di sé, la seconda invece si dondolò a destra e sinistra, dolcemente entusiasmata ma imbarazzata; la gioia traspariva dai loro occhi.

    «Pronta?».

    Sorrisi e annuii. «Pronta!»

    Prince raddrizzò la schiena. Paris si schiarì la voce e, dondolandosi più velocemente, puntò lo sguardo sulla chioma dell’albero alla sua destra.

    Tra poche ore sarebbero iniziati i festeggiamenti a casa Jackson.

    «Somewhere... out there... beneath the pale moonlight... someone’s thinking of me... and loving me tonight...»

    Mi sciolsi letteralmente, senza esitazione, non appena riconobbi la canzone che i due mi stavano dedicando. Si chiamava Somewhere Out There, dal film Fievel Sbarca in America.

    Soltanto qualche tempo prima avevo guardato il seguito di quel cartone con Michael... e quella stramaledetta coincidenza non poté far altro che – a dispetto della commozione – farmi male al petto. Il mio sguardo – anche se costantemente rivolto ai bimbi – fu colto da una scintilla di cupa malinconia.

    Aveva iniziato Prince a cantare. Quando venne il turno della piccola Paris, questa mi studiò eloquentemente. Le feci l’occhiolino per infonderle più coraggio.

    «Somewhere... out there... someone’s saying a prayer... that we’ll find one another... in that big somewhere out there...»

    Vedendomi canticchiare silenziosamente e osservando la mia immensa felicità – temporaneo sollievo alle mie preoccupazioni – Prince e Paris partirono in un susseguirsi di note alte – a volte intonate, a volte più gracchianti. Ma non mi importava se stonassero o meno. Continuai a incoraggiarli, senza fare una piega per le piccole stonature, notevolmente messe da parte dall’allegria e dalla dolcezza dei loro sguardi.

    «Somewhere... out there... if love can see us through... then... we’ll be together... somewhere out there... out there... dreams come true...»

    La canzone terminò con un delizioso finale e un piccolo applauso partì dalle mie mani. Paris arrossì gongolante e Prince si riempì d’orgoglio: entrambi mi corsero incontro per essere abbracciati. Li strinsi forte scoccando loro due grandi baci, lasciandomi andare a quell’ondata d’affetto che solo i bambini sapevano regalare.

    Tuttavia, sebbene io avessi smesso di battere le mani, qualcuno continuò a farlo al posto mio.

    Ci voltammo tutti e tre di scatto.

    Impallidii.

    Osservai Paris sorridere e sia lei che il fratello corsero incontro a lui, il loro papà... Michael. Cominciai a sentirmi sempre e sempre più pesante, sola...

    «Papà!» la piccola gli saltò in braccio.

    Michael si chinò a terra, ridacchiando teneramente, e accolse fra le braccia prima uno e poi l’altro. Li cinse con un sorriso straordinariamente caloroso. Mi parve di percepire quell’amore dentro le membra, anche a distanza di qualche metro, sebbene non fosse rivolto alla sottoscritta.

    «Bravissimi! Avete cantato davvero bene!», mormorò felice. Prince e Paris furono così presi dall’emozione che cominciarono a parlare a raffica, incuranti del rumoroso caos che stavano creando.

    Non feci tempo a deviare lo sguardo che, nel giro di un secondo, quegli occhi scuri mi stavano già squadrando intensamente.

    Il tempo si annullò.

    Le voci dei due bambini diventarono offuscate, incomprensibili. Ricordai il suo sguardo nello scintillare timido ed amabile della Luna, nell’attimo prima di baciarmi. Niente a che vedere con l’occhiata seria che, in quel momento, mi stava lanciando.

    Rimasi immobile ed incapace di agire.

    Inspirai a fondo, ma non ebbi il coraggio di buttare fuori il fiato.

    M’osservava in modo talmente profondo che mi sembrò tremare. Ebbi paura – così tanta che tutto sembrò perdere colore... tutto tranne Michael. Mi irrigidii in un’espressione tesa, sgomenta, dura. Ero smarrita di fronte alla sua presenza. I miei occhi gli urlarono tutte le domande che volevo fargli, ma a cui non avevano trovato risposta.

    Michael puntò i bambini senza fare una piega. Li allontanò da sé e li guardò sorridente, continuando ad ascoltarli.

    Fece come se nulla fosse accaduto.

    Come se tutto fosse normale, pacifico e tranquillo, come se non ci fosse nessun problema.

    Mi ignorò totalmente, senza mostrare alcun segno di interesse. Non mostrò odio, non mostrò rabbia, non mostrò disprezzo e soprattutto non mostrò affetto. Non mi fece intendere nulla.

    Si sedette a terra, accolse i piccoli fra le braccia e li fece sedere sulle proprie cosce. Continuò ad accarezzare loro il capo con un sorriso felice, seguendo con lo sguardo prima uno e poi l’altro.

    Per quanto quella scena fosse incredibilmente dolce, mi sentii sprofondare in un sentimento diverso, peggiore.

    «L’abbiamo dedicata a zia Sarah! Le è piaciuta tantissimo!», esclamò Paris, voltandosi verso di me e indicandomi. Anche Prince si girò sorridendo.

    Cercai con tutta me stessa di ricambiare il sorriso, ma il mio sguardo era fisso sul sentiero grigio fumo.

    «Ah sì?», domandò Michael fingendo contentezza. Non mi guardò. «Ne sono felice».

    «Daddy...», sussurrò Prince confuso. La manina scivolò sulla spalla del papà in cerca di risposte. «Dove sei stato oggi?»

    «Avevi promesso che avresti giocato», bisbigliò una Paris rammaricata.

    Lo osservai.

    Per un attimo mi parve vedere i suoi occhi scivolare lontano dai suoi bambini, verso terra, e uno sprazzo di pentimento tradire la sua espressione impenetrabile e apparentemente sereno.

    Ero talmente fastidiosa quando mi arrabbiavo, perché il mio sguardo diventava penetrante e insistente. Ero peggio di un martello pneumatico, scrutavo a lungo per mettere sotto pressione, incessantemente.

    Michael se ne accorse. Si umettò nervosamente le labbra.

    Mi venne da ridere in maniera sarcastica.

    «Mi dispiace non aver mantenuto la promessa», mormorò. Le labbra si contrassero in una smorfia di felicità stirata. «Ho avuto degli importanti impegni di lavoro»

    Alzai un sopracciglio, scostando lo sguardo in direzione completamente opposta alla sua. Mi veniva da sputargli in un occhio, da quanto ero nervosa, tant’è che cominciai a ondeggiare spasmodicamente le gambe nel tentativo di non emettere un suono.

    «Ma ora puoi giocare con noi?»

    Vidi Grace avvicinarsi con Blanket in braccio, la quale se n’era stata per tutto il tempo dentro in casa. Ero così assorta nei miei pensieri, quel giorno, che mi ero totalmente dimenticata di lei. A breve se ne sarebbe andata per lasciar festeggiare la famiglia Jackson in santa pace. Forse era meglio che me ne andassi anch’io.

    Sorrise. «Giocheremo quanto vorrete. E ci prepareremo insieme per la festa»

    Paris s’avvinghiò al petto di Michael. «Possiamo giocare a nascondino, papà?»

    Le baciò la nuca. Il suo sguardo scivolò a qualche passo di distanza da dove mi trovavo, pensieroso e cupo. Lo percepii e rabbrividii come se un’ombra stesse tentando di avvolgermi e risucchiarmi nelle sue tenebre senza che io avessi la possibilità di salvarmi.

    «Possiamo giocare a tutto quello che vorrete».

    Un moto di rabbia stritolò la parte più alta della pancia e decisi di alzarmi in piedi.

    Non era così che doveva trattarmi.

    Non ero quella che doveva baciare e il giorno dopo ignorare.

    «Dove vai, zia?», domandò Prince con sguardo interrogativo.

    Solo allora Michael mi guardò. Puntai i bambini ignorando completamente il padre. Mostrai un sorriso di cortesia. Con la coda dell’occhio riuscì a captare l’agitazione che quello stronzo (non c’era altro termine per descriverlo) stava trasmettendo attraverso lo sguardo.

    «Penso che andrò a comporre qualcosa al pianoforte. Mi è venuta l’ispirazione per qualcosa di nuovo».

    Feci un passo in avanti e mi bloccai.

    «Dopo ce la farai sentire?», chiese Paris.

    Per un secondo mi addolcii.

    «Ovviamente».

    Drizzai il capo e le spalle e m’incamminai verso quei pochi scalini che mi avrebbero portato dentro la dependance. Grace teneva lo sguardo basso e Blanket – come se percepisse la mia tensione – non mi chiese di venire in braccio. Mi parve di avere le gambe pesanti nonostante fossi sul punto di correre. Il filo sottile che mi legava a Michael era teso, come un elastico che mi invitava a tornare indietro. Le iridi si offuscarono a causa di una leggera patina di lacrime.

    Mi diressi verso il salotto, aumentando la velocità dei passi.

    Salii le scale e mi chiusi in camera mia.

    Mi sedetti sul bordo del letto e fui colta dall’improvvisa tentazione di spaccare qualcosa. Inspirai ed espirai rabbiosamente. Strinsi le mani a pugno. Fui colta dalle vertigini.

    Tutto ciò che avevo nella mente si annebbiò.

    Sarei scoppiata nel giro di breve tempo.

    Perché ogni cosa, con Michael, assumeva dimensioni maggiori. Non solo l’amore, ma anche la rabbia, la tristezza, la delusione, la gioia, i rimpianti... tutto diventava più grande, più immenso, e ci voleva un miracolo per riuscire a contenere tutte quelle emozioni. O le ignoravo e tentavo di reprimerle, o ne venivo sommersa. Michael non era normale, era qualcosa di fottutamente straordinario. Era troppo per un comune essere umano come me.

    Una lacrima punse i miei occhi e scese lungo la gota sinistra.

    Ho sbagliato tutto.

    Mi sentivo sola.

    Guardai il soffitto, sbattendo le palpebre per trattenere il pianto, e invece quello si lasciò andare senza riguardo.

    Quando mi distesi a pancia in su rimasi in quella posizione per ore, ad occhi chiusi o con i palmi a coprirmi il viso, fino a quando la luce del giorno non calò definitivamente e io non fui obbligata a muovermi per accendere la luce.

    *

    Avevo perso il conto del tempo passato.

    Ad un certo punto, un lieve vociare raggiunse le mie orecchie come una piccola onda del mare sulla spiaggia, spazzando via i residui di cupi pensieri per un attimo.

    Drizzai le orecchie nel tentativo di distinguere bene cosa stessero dicendo quelle voci in giardino. Percepii risate di donne, scalpiccii vivaci di bambini e borbottii bassi e rochi di uomini: la festa per Janet stava per iniziare.

    Mi tirai su dal letto, in posizione seduta, e chiusi il libretto sul quale stavo scrivendo alcune bozze di storie senza trama e senza senso. Lo appoggiai sul comodino e colsi l’occasione per vedere che ora fosse.

    18:38, così diceva la sveglia elettronica.

    Sospirando fissai la porta.

    Avevo riflettuto tanto – non sapevo neanche quanto – per decidermi se sarebbe stato giusto presentarmi o meno alla festa. Non volevo avere a che fare con nessuno. Non volevo vedere Michael nemmeno per sbaglio.

    Non mi aveva cercato eppure sapeva dove trovarmi; non aveva bussato alla mia porta, non mi aveva sorriso, non mi aveva neppure cercato per chiarire... non aveva fatto niente. Anche se, in realtà, mi era bastato il suo atteggiamento di qualche ora prima per farmi passare la voglia di parlarci.

    Continuai a scrutare la porta per cinque minuti, con uno sguardo teso ed indefinito.

    Mi passai una mano fra i capelli e ad occhi chiusi mi massaggiai la tempia sinistra. Mi sentivo debole. D’altra parte, era dal pranzo del giorno prima che non facevo un pasto come si deve.

    Gli invitati erano arrivati da un’ora, più o meno, ma non avevo sentito le loro voci così nitidamente fino a quell'istante. Probabilmente dovevano cenare. Mi domandai se avrebbero mangiato nella sala da pranzo di Neverland – che forse era troppo piccola per una cinquantina di persone – oppure fuori, nell’enorme giardino di casa, in piedi e nei pressi della cucina all’aperto, sotto il gazebo in legno.

    Mi alzai e m’incamminai lentamente verso la finestra. Da lì potei scorgere, nascosta fra le bianche tende di seta, il gran capolavoro che era divenuto il giardino.

    Ai lati estremi dell’enorme piazzola in cemento era state poste due tavolate bianche. Erano lunghissime, piene di stuzzichini e bevande di ogni genere (tranne alcolici, vino escluso); a parte queste, la piattaforma cementata era completamente svuotata, e notando le casse e l’elaborato amplificatore, dedussi che quello fosse lo spazio adibito al ballo, per chi volesse ovviamente danzare. C’erano diverse panchine bianche sull’erba accuratamente tagliata. Alcune lanterne galleggiavano in aria, seguendo i diversi sentierini che portavano al lago o alla piscina, appese sui rami degli alberi circostanti grazie a lunghi fili trasparenti. Dal giardino sul retro fino alla piscina, dall’immenso lago adornato di fontane fino alla cucina all’aperto, si poteva scorgere un intenso via vai di persone, tra cui moltissimi camerieri. Alcuni bambini giocavano a rincorrersi urlando a squarciagola (tra essi vi erano anche Prince e Paris). Una donna urlò di stare attenti e di non farsi male.

    Qualcuno bussò piano alla porta, impercettibilmente.

    Il cuore smise di battere.

    Non ero psicologicamente pronta per affrontare Michael, ma sperai con tutto il cuore che fosse lui.

    Il corpo si trasformò in una statua di marmo non appena vidi la porta aprirsi, ma un secondo dopo tirai un sospiro di sollievo e delusione assieme.

    Era Janet.

    Mi sorrise timidamente.

    Provai a manifestare allegria, invano. Rimasi immobile sul posto.

    «Ciao Sarah».

    «Salve...», inarcai gli angoli della bocca all’insù.

    «Posso entrare?», domandò osservandomi da capo a piedi. Probabilmente si chiedeva perché fossi vestita con jeans e canottiera bianca, abbigliamento che sicuramente non era adatto ad una festa.

    «Certo».

    Non appena entrò, chiuse la porta dietro di sé cercando di fare meno rumore possibile. Mi venne vicino a piccoli passi e rimasi senza parole per quanto fosse bella. Indossava un tubino stretto, indaco, che sottolineava la sue forme curvilinee in modo assolutamente perfetto. Il vestito aveva una sola spallina, la sinistra. I capelli erano perfettamente raccolti in un chignon alto sopra la nuca.

    «Sei bellissima con questo colore», sorrisi sinceramente, fissando il vestito come se fossi incantata dalla sua bellezza.

    «Grazie». Janet ridacchiò e si lisciò il tessuto sulla pancia. «Sono felice che ti piaccia».

    Sentire la sua voce fu come sentire, per un attimo, quella di Michael. Mi si strinse lo stomaco.

    Ci fu un attimo di silenzio e colsi immediatamente la domanda a seguire. Mi studiava attentamente.

    «Perché non sei vestita? Pensavo che avresti partecipato al party...»

    Il mio sguardo passò dal suo viso alla finestra. Percepii i miei occhi perdere la lucentezza di prima, quando l’avevo complimentata per l’abito che indossava. Una parte di me desiderò parlare e confessarle ogni cosa, dato che non avevo nessuno accanto che potesse ascoltarmi. Ero sola, e avevo bisogno di aiuto. Eppure rimasi zitta.

    «Non faccio parte di questa famiglia...», scossi il capo lentamente. «In più sono una persona estremamente introversa. Credo che mi sentirei a disagio, se avessi troppi occhi puntati addosso». La guardai e le sorrisi imponendomi di non piangere. «Io sono solo un’insegnante».

    Rimase in silenzio, impassibile. Ticchettava le unghie della mano destra sulla coscia.

    Inaspettatamente, sorrise.

    «Mio fratello ha richiesto espressamente che tu fossi presente». Quando la esaminai allarmata, Janet sorrise ancora di più. «Penso che dovresti farti coraggio e scendere».

    Ero rigida come un palo.

    Rise della mia espressione crucciata e dubbiosa e cambiò discorso.

    «Ti voglio far conoscere tre miei nipoti. Hanno più o meno la tua stessa età, sono figli di mio fratello Tito», fece scattare le sopracciglia verso l’altro e mi lanciò un’occhiata maliziosa.

    «No, io non...».

    Mi bloccò con la mano. «Lo so, non ti interessano in quel senso... ma non rinunciare al divertimento».

    Non ti interessano in quel senso...

    Lei sapeva?

    «Intanto vedi di parlarci… con quei ragazzi, dico. Magari potresti diventare loro amica». Fece spallucce. «Sono simpatici e carini, credi a me. Se non provi non puoi saperlo. E in più avresti qualcuno della tua età con cui ridere e scherzare. Ti avrei fatto conoscere anche tutti gli altri miei nipoti, ma non tutti i figli o le figlie dei miei fratelli sono potuti venire, questa sera».

    Inspirai ed espirai lentamente, mirando un punto vago alla mia sinistra.

    Storsi le labbra.

    «Nessuno ti farà sentire un’estranea».

    Le scoccai un’occhiata intimidita. Non sorrideva, ma il suo viso mostrava un cipiglio comprensivo.

    «Magari all’inizio sì, perché sarai la novità della serata. Tuttavia non sei obbligata per forza a stare con i miei fratelli e con le loro mogli. Prendila come un’occasione per vivere qualcosa di nuovo. E se ti senti a disagio, allora sì, potrai andartene… ma senza il rimorso di non aver tentato».

    Sciolsi le spalle. Mi ci volle un’immensa forza d’animo per dirle sì.

    «D’accordo...»

    «Perfetto», sorrise. Indirizzò uno sguardo interessato al mio armadio. «Hai già pensato a cosa metterti?»

    Con un attimo di incertezza, le mostrai la mia scelta. Janet emise un basso fischio di ammirazione. Era una tuta elegante – una jumpsuit – nera e con le spalline senza maniche. La stoffa era di seta pura, morbida e leggera, perfetta per quella serata di inizio estate. Presentava una scollatura abbastanza ampia sul seno, interrotta qualche centimetro più in giù da una fine cintura argentata, proprio sul punto stretto della vita. Quel tipo di abito mi avrebbe risaltato le spalle e i fianchi larghi, compreso il mio seno abbondante. Essendo una jumpsuit, non mi evidenziava troppo la pancia. I pantaloni si allargavano scendendo ampi verso le caviglie, in modo da sembrare quasi una gonna. Non me la sentivo di indossare un vestito, perciò avevo puntato su qualcosa di comodo, ma comunque elegante e sensuale al punto giusto.

    «Ti devo fare i complimenti», ammise Janet con uno certo stupore. «Hai dei gusti eccezionali».

    Mi chiese come volessi truccarmi e pettinarmi, ma sul più bello venne richiamata da una squillante voce di donna. Era ora di cenare e tutti la stavano cercando. Janet mi sorrise dispiaciuta.

    «Penso sia meglio che io vada, prima che ti scoprano». Fece una piccola pausa. «Ti va di scendere per cena?»

    Scossi il capo. «No, grazie. Non ho fame al momento. Mi preparo e scendo più tardi».

    «Ok, allora ti vengo a prendere quando finisco e scendiamo assieme, ok?».

    La sua gentilezza e la sua cordialità improvvisa mi fecero temere che Michael le avesse raccontato qualcosa. Ad ogni modo, lo pensai molto improbabile. Era più logico che avesse capito i miei sentimenti più intimi e si fosse intenerita per il mio stato d’animo.

    Sorrisi con altrettanta dolcezza. «Grazie... per tutto».

    Mi venne incontro e mi abbracciò. Il mio sguardo si fece vacuo, ma solo e unicamente perché lei non mi poteva vedere. La sua stretta era delicata quasi quanto quella di Michael, ma non la stessa; lui mi stringeva con un calore che Janet non metteva... un affetto il cui ricordo mi velò le iridi di acqua salata.

    Sentii le farfalle nello stomaco ripensando al suo abbraccio, ma mi imposi di mantenere la maschera della freddezza. Era tutta una vita che mi comportavo così. Potevo tenere duro per qualche altra ora.

    «A dopo allora», mormorò allontanandosi, facendomi l’occhiolino. «Andrà bene, vedrai».

    Annuii soltanto, con un sorriso per niente convinto.

    Janet se ne andò immediatamente, così come era apparsa.

    «Sì, come no...» mormorai demoralizzata, una volta che si chiuse la porta alle spalle. «Non andrà bene niente...».

    Come un fiume in piena, il silenzio inondò nuovamente la stanza e la sottoscritta. Mi mancò il respiro, improvvisamente pentita di ciò che avevo detto e fatto, ma tentai di scuotermi dandomi due schiaffetti in faccia con le mani. Andai in bagno per fare una doccia veloce e per lavarmi i capelli.

    Non avevo molto tempo per prepararmi.

    *

    «Miss Janet, aspetti...», la fermai per un braccio.

    Quest’ultima era già in procinto di raggiungere le scale e fare un passo verso il primo gradino e io – al contrario – mi nascondevo. Si voltò al mio bisbiglio e la scrutai intimorita. Tutta la mia sicurezza venne meno.

    «Penso di aver cambiato idea»

    Mi rivolse una smorfia di rimprovero. «Adesso non si può tornare indietro. Insomma… guardati!». S’avvicinò prendendomi il polso. «E chiamami Janet, Sarah. Non servono formalità».

    Sospirai.

    «Ok... ok...» mi arresi.

    Janet Jackson fece retrofronte con un sorriso compiaciuto. Scendendo verso il piano inferiore udii il vociare di alcuni uomini di famiglia trasformarsi in esclamazioni di sollievo. Tutti avevano pensato che fosse scomparsa per chissà quale preoccupante ragione, quando invece era solo venuta a prendermi di peso e portarmi via con lei.

    Mi ero truccata con eyeliner nero e mascara, affinché i miei grandi occhi verdi fossero messi in risalto. Una lieve spennellata di fondotinta in polvere e correttore ed ero apposto. Niente contouring, non mi piaceva. Però avevo puntato a un bellissimo rossetto color rosso acceso, Ruby Woo di Mac, uno dei migliori in circolazione. Adoravo i rossetti e questi – soprattutto se rossi – risaltavano il colore chiaro e rosato della mia pelle. In più avevo raccolto l’enorme massa di capelli in un chignon sopra la nuca, incorniciando il viso con un paio di orecchini lunghi e argentati, esattamente come la cintura dell’abito che indossavo.

    Non appena Janet mi aveva visto, aveva spalancato gli occhi dallo stupore e mi aveva detto che ero mozzafiato. Mai quanto lei, comunque.

    Mossi qualche passo verso la scalinata in legno. Janet era ormai verso la fine e stava parlando tranquillamente con tutta quella gente che non conoscevo.

    Non avevo paura di chi avrei incontrato, ma di cosa avrebbero pensato vedendomi sbucare dal nulla. Non era nemmeno il fatto che fossi l’unica con la pelle chiara presente – che sicuramente faceva il suo colpo nell’occhio… la mia preoccupazione principale era che mi avrebbero osservato e avrebbero domandato continuamente chi fossi, fino al momento in cui avrebbero abbassato lo sguardo e avrebbero capito che con loro non c’entravo nulla.

    Michael avrebbe evitato di rispondere, così come aveva tentato di ignorarmi per tutto il giorno. O magari, invece, avrebbe avuto la faccia tosta di dire che ero solo la dipendente più scema che avesse mai avuto.

    Presi coraggio e mi feci avanti.

    Mi appoggiai al corrimano dando un’occhiata a chi vi era in basso. Vi erano tre giovani parecchio simili fra loro, più o meno della stessa età, e un uomo che di sicuro aveva passato i cinquanta. Immaginai che fossero i nipoti di cui mi aveva parlato Janet poco prima, e che l’uomo accanto fosse un loro parente: quest’ultimo aveva un corpo massiccio, un viso tondeggiante, nonostante le mascelle fossero ben marcate; gli occhi erano marrone chiaro, le sopracciglia spesse e il naso abbastanza grosso. I tre ragazzi erano veramente molto belli; due avevano un viso molto simile, il terzo invece aveva un’espressione più bambinesca rispetto agli altri. Probabilmente erano sulla trentina o giù di lì.

    Ma quegli uomini passarono in secondo piano quando vidi lui.

    Michael.

    Unico, bellissimo e sensazionale nel suo elegante abito bianco; le braccia allacciate dietro la schiena, i capelli lisci e composti fino alle spalle, ed una posizione da Re, dritta e sicura. Lo sguardo da immancabile osservatore era concentrato sui visi delle persone con cui parlava, mostrando un lieve sorriso di circostanza.

    «Prima mi hai chiesto se ti pensassi affascinante…».
    La luce nei suoi occhi si riaccese e drizzò le spalle.
    Sorrisi maliziosamente. «Sì, ti pensavo affascinante. E lo penso anche ora. Credo che con uno smoking bianco lo saresti ancora di più» 1

    Il cuore batté all'impazzata non appena lo vidi e capii che nonostante l’odio, il dolore e la rabbia che provavo, Michael restava sempre e comunque il centro del mondo. Era lui quel meccanismo che dava forza al mio cuore di fare le capriole in petto; poteva togliermi un battito in un secondo e restituirmelo l’istante successivo.

    Un attimo e il suo sguardo si rivolse a me.

    Un attimo e il tempo interruppe il suo corso per la milionesima volta.

    Fu come se lo avessi richiamato silenziosamente. Sembrava che Michael provasse la stessa sensazione di rinascita che percepivo io sotto la pelle. Voltò il capo e le spalle in mia direzione, mentre la forma del viso si distendeva in un’espressione di meraviglia e candore innato. Gli occhi parvero infuocarsi. Il suo petto s’alzò e capii che stava trattenendo il respiro... esattamente come la sottoscritta, che non aveva ancora mosso un piede per scendere le scale.

    Quegli occhi... quei dannati fottutissimi occhi mi puntarono, mi avvolsero e mi imprigionarono nella loro profonda oscurità. Mi sorrisero. Mi abbracciarono e, dentro me, sperai che provassero il desiderio di baciarmi ancora, così come lo desideravo anch’io. Quei cieli d’infinito ignoto contrassero il mio ventre, il mio petto, e fui presa dall’irrefrenabile smaniosità di averli su di me per tutto il resto della vita, fino a morirci dentro.

    Le labbra di Michael si schiusero appena. Non riuscii a decifrare bene il senso di quella reazione. Scostai lo sguardo arrossendo, mi sistemai una piccolissima ciocca di capelli ribelli dietro l’orecchio e mi bagnai nervosamente le labbra.

    Non solo Michael m’osservò, ma anche il resto del gruppetto con cui Janet aveva iniziato a chiacchierare. Tutti loro furono attratti dalla mia persona, chi meravigliato chi curioso chi dubbioso... e mi pentii di aver dato retta a lei. Odiavo essere l’inaspettato invitato alla festa.

    Drizzai la schiena nel tentativo di mostrarmi più sicura di me, ma ero troppo stordita da quel lungo e inebriante sguardo avuto con Michael per sentirmi tranquilla. In più, quelle curiose e insistenti attenzioni che ricevevo dai presenti erano come migliaia di spilli nella pelle.

    Cominciai a scendere i gradini lentamente – e i tacchi non mi aiutavano certo a velocizzare il passo. Non mi resi neanche conto, una volta arrivata al piano terra, di essere uscita sana e salva da quella scalinata. Ricordo soltanto di essermi detta: “Non cadere, non fare figuracce, non cadere, ignorali, non cadere, non fare figuracce”.

    «Eccoti!»

    Janet mi venne incontro e mi sfiorò il braccio. La guardai con un sorriso imbarazzato, lievemente irrigidita per tutti gli interrogativi sul mio conto. Percepii Michael pungere il mio interesse per tutto il tempo: distavamo solo qualche passo e la cosa mi innervosiva.

    Evitai di dargli retta. Non perché non volessi, ma per un istinto di auto-difesa.

    «Chi sarebbe questa giovane?» disse l’uomo più anziano del gruppo, quello massiccio e con un neo vicino al naso. Era vestito con uno smoking grigio fumo.

    «La presento io, Mike?» domandò Janet.

    Gli scoccai una rapida squadrata. Mi osservava profondamente e qualche istante dopo il richiamo di Janet si scosse. Michael puntò la sorella inarcando le sopracciglia e spalancando le palpebre.

    «Oh, sì. Certamente», sussurrò e abbassò lo sguardo, bagnandosi le labbra.

    La sua voce era vellutata come il miele. Mi sembrò di non averla udita da anni.

    «Lei è Sarah Morris, Tito» sorrise Janet. «È l’istruttrice dei bambini di Michael e mia amica. L’ho invitata io a partecipare», mentì.

    Studiai ogni presente, escluso Michael.

    «Oh! Piacere di conoscerti» disse l’uomo.

    «Sarah, loro sono mio fratello Tito e i suoi figli, TJ, Taryll e Taj...»

    «Piacere mio» sorrisi.

    Strinsi le loro mani e analizzai la forza con cui si legavano alle mie dita; sembravano tutti interessati di conoscermi... forse anche troppo, visto il modo in cui si comportavano.

    Il mio sguardo si immobilizzò su uno dei tre nipoti di Michael e Janet, TJ. Aveva dei bei occhi scuri e un gran sorriso, i capelli corti e riccioluti, decisamente alto. Lui e Taryll si assomigliavano un sacco: non solo per l’abbigliamento (pantaloni neri e camicia bianca), ma anche per l’acconciatura. Taj indossava pantaloni e camicia nera, teneva i capelli più lunghi ed era il più basso dei tre, anche se di poco.

    TJ pareva un tipo silenzioso, ma non per questo infelice di essere di là. Era un osservatore gentile.

    «Mike, non capisco perché non ce l’hai presentata prima!» esclamò Tito Jackson. «Sei arrivata ora?»

    «No, io – »

    «Sarah vive qui con me».

    Sentire Michael pronunciare il mio nome, in quell’istante, fu come se glielo avessi sentito dire per la prima volta. Guardai quest’ultimo sbalordita. Il tono con cui aveva parlato non ammetteva repliche, era serio e leggermente autoritario – anche se visto da fuori poteva dare l’idea di uno sereno e per nulla innervosito. Ma non era da lui rispondere così. Il suo sguardo era impenetrabile, quasi strafottente, come la posa delle sue spalle.

    Janet rideva con gli occhi. Anche i tre nipoti abbassarono lo sguardo, nel tentativo di trattenersi.

    Cercai di rimediare al silenzio imbarazzante intervenendo nel discorso.

    «Non avevo molto appetito e perciò sono rimasta di sopra» indicai il piano superiore con un cenno della testa. «Sono scesa adesso perché Janet ha insistito tanto per la mia presenza».

    Le sorrisi e lei ricambiò. Percepii Michael irrigidirsi sul posto.

    Incrociai lo sguardo di TJ. Ridacchiava e io ricambiai con un sorriso altrettanto complice. Aveva un'espressione dolce e, vista l’intensità con cui ci guardammo, ebbi la pazza idea che io e lui condividessimo un certo feeling.

    «A proposito di cena» esclamò Janet sofficemente. Mi prese per mano. Osservai solo allora che il nostro gruppetto non era l’unico presente in corridoio e che altre persone erano state attirate dalla mia presenza. «Vieni Sarah, ti porto a mangiare qualcosa...»

    «Non ne ho bisogno Janet, davvero!»

    «No, no, tu vieni!» insistette. Mi tirò leggermente. «Arrivo subito, ragazzi».

    E ci congedammo. Salutai i quattro membri della famiglia che avevo appena conosciuto con una smorfia imbarazzata. TJ assunse un’aria decisamente più affettuosa della precedente – quel ragazzo mi piaceva già di primo acchito.

    Con la coda dell’occhio esaminai la reazione di Michael. Mi studiava cupamente, battendo un piede a terra e tenendo le mani nelle tasche.

    Gli detti le spalle e feci finta che non esistesse.

    *

    Non riuscii a mangiare nulla.

    Janet mi aveva portato controvoglia in giardino, vicino ai tavoli degli stuzzichini salati. Le avevo detto che non me la sentivo di fare una cena completa, perciò mi obbligò a mangiare almeno qualche tramezzino. Dopodiché mi aveva lasciato lì, da sola, perché il suo fidanzato era appena arrivato. Giustamente.

    Tutta la casa pullulava di membri della famiglia Jackson e la cosa mi metteva ansia. Ce ne erano troppi. Troppi Jackson nello stesso posto.

    Nonostante mi fossi isolata in un’estremità del piazzale dedicato alla danza, mi sentivo al centro dell’attenzione. Non che tutti guardassero me, dovevo ammetterlo... probabilmente non mi guardava proprio nessuno. Quindi la mia doveva essere proprio un’angoscia insensata.

    Feci di tutto per essere invisibile come l’aria.

    Fu quando addentai una pizzetta – non volentieri – che percepii una presenza alle mie spalle. Mi voltai lentamente – tesa come una corda di violino – e scoprii che era una donna anziana, con lo sguardo dolce, che mi si era messa accanto per prendere un bicchiere di vetro. Era robusta, bassina, con due occhi piccoli e scuri ma luminosi. Mi sorrise ed io ricambiai di riflesso.

    Gentilmente le passai un calice vuoto, quello che non riusciva a raggiungere.

    «Tenga», sussurrai con cordialità.

    «Grazie mille, cara».

    L’anziana signora mi guardò affettuosamente. La sua voce mi metteva i brividi. Era soffice, bassa e rincuorante.

    «Sei l’istruttrice di Paris e Prince, vero?».

    Cosa?

    La fissai visibilmente stupita. Mi ci volle un po’ per capire che stava parlando proprio con me.

    «Sì, sono io».

    La donna mi scrutava sbattendo le palpebre molto lentamente. Ad un certo punto si umettò il labbro inferiore, annuendo appena, nello stesso modo di…

    «Piacere di conoscerti. Io sono la madre di Michael, nonché la nonna dei tre piccoli…».

    Arrossii, cercando di non sbarrare le palpebre più del dovuto. Irrigidii le spalle e pregai affinché nessuno (e con nessuno intendo Michael) mi stesse guardando.

    «Oh… il piacere è mio. Mi chiamo Sarah Morris»

    Una lampadina si accese nel cervello: se sapeva chi fossi, Michael doveva averle assolutamente parlato di me. Nessuno mi aveva chiesto – fino ad allora – se fossi l’insegnante dei bambini di Michael, proprio perché nessuno se l’aspettava.

    Le porsi la mano e la signora Jackson mi guardò distendendo la fronte, incredula, per poi accennare un timido sorriso. Le venne da ridere, ma si trattenne per educazione, ammirando la mia mano sinistra stretta al calice di analcolico appena riempito. Non capii cosa ci fosse di buffo in quel mio gesto, ma ritrassi l’arto avvampando sempre più. Mi sentivo imbarazzatissima.

    «Noi non porgiamo la mano a qualcuno, tra famigliari...» sussurrò in tono carezzevole. Mi gettò un’occhiata comprensiva. «Piuttosto ci abbracciamo, ma capisco che ti possa sembrare strano ora come ora».

    Quella frase mi fece sobbalzare il cuore.

    Sembrava una persona tanto buona. Quelle parole mi fecero intendere che mi considerava parte della sua famiglia, nonostante non ci avessi nulla a che fare. Non comprendevo come e perché, ma non chiesi nulla. Sorrisi e basta.

    La signora Jackson si versò dell’acqua.

    «Io mi chiamo Katherine. Puoi chiamarmi come desideri, ma lo preferisco a “Signora”...».

    Annuii ringraziando e la osservai bere con la coda dell’occhio.

    Non potei fare a meno di notare la classe con cui era vestita: indossava un bel tailleur blu notte, elegantissimo, e al collo portava gioielli in perle bianche. Anche il suo profumo era raffinato. Quand'ebbe sorseggiato tutta l’acqua poggiò il bicchiere sul tavolo, accanto a tutti quelli già usati. Talvolta un cameriere passava a ritirarli e a cambiarli con altri puliti.

    «Che ne pensi dei miei nipotini?», mi sorrise. «Ti fanno diventare matta?»

    Negai con il capo. «Assolutamente no. Sono degli angeli. Sono i bambini più educati con cui abbia mai avuto a che fare. Suo figlio li ha educati benissimo, lo dico con il cuore».

    Nominare indirettamente Michael, in quel caso, non mi fece tentennare. La mia ammirazione per lui non se ne andava mai, a discapito di tutto, nonostante stessi male. Sotto quell’aspetto riuscivo a separare l’emotività dalla professionalità.

    Se ne stette in silenzio per qualche secondo, soppesando le mie parole, e poi mi sorrise maggiormente.

    «Ne sono felice», si bagnò le labbra. «Mio figlio mi ha parlato molto bene di te. Dice che hai una grazia e una passione innata con i bambini. Grazie a Dio esistono donne come te».

    Ebbi una fitta al cuore.

    Non seppi se mi mancò il respiro per il fatto che Michael avesse parlato di me con la madre – e bene, tra l’altro – o se fossi felice per il complimento di una donna tanto gentile ed educata come lei. Arrossii un po’, chinando gli occhi sui miei piedi, in segno di timidezza e rispetto.

    «È stato un piacere conoscerti» disse all’improvviso. «Spero di poter avere l’opportunità, in futuro, di poter scambiare qualche altra parola con te. Magari in un’altra occasione».

    «Lo spero anch’io, signora Jack...» mi bloccai e ridacchiai per l’imbarazzo. «Katherine...»

    E la donna fece qualcosa che non mi sarei mai aspettata. Sempre col sorriso sulle labbra mi accarezzò il braccio nudo; una pressione amorevole, ma decisa. Come a sostenermi e a confortarmi: sembrava aver capito tutto quello che provavo. La morbidezza di quelle dita era molto simile a quella del figlio, tant’è che mi fece venire la pelle d’oca.

    Se ne andò salutandomi con un cenno che io ricambiai.

    La guardai allontanarsi con una sensazione di dolceamara soddisfazione e lo sguardo perso nel vuoto, sconvolta per la sua disarmante amabilità. Ero in uno stato di shock.

    I miei occhi vagarono alla ricerca di una panchina vicina; ne trovai una libera, non molto lontana dalla piazzola dove mi trovavo; la musica si stava alzando e diventava sempre più fastidiosa all’orecchio, soprattutto perché mi trovavo proprio sotto le casse. Quella panchina era poco illuminata, nascosta tra gli alberi e la notte, abbastanza isolata da potermi permettere di guardare tutto senza destare attenzioni. Era il posto perfetto per me.

    Bevi tutto il cocktail analcolico e consegnai il bicchiere vuoto ad un cameriere che passava di lì, al quale rivolsi un “Grazie” a fior di labbra. Mi incamminai velocemente verso la panchina e decisi di starmene là per un po’, sola soletta.

    Quando mi sedetti, tirai un sospiro di sollievo e rimasi ad osservare la gente parlottare e scherzare fra loro, in compagnia del lieve scrosciare dell’acqua del ruscello e della musica black in lontananza.

    Le persone che mi circondavano provenivano più o meno tutte dallo spettacolo – gente che non poteva condividere assolutamente nulla con una come me. Dopotutto la famiglia Jackson era una delle più conosciute al mondo… una di quelle che più faceva parlare di sé.

    Non facevo parte di quel mondo tutto riflettori e business, con gente che è a conoscenza di vita, morte e miracoli di ognuno, per filo e per segno. Non avevo la benché minima intenzione di farne parte. Non ne ero minimamente interessata. Entrare nelle loro conversazioni di punto in bianco significava impicciarmi degli affari altrui senza il loro permesso. Non conoscevo nulla delle loro vite, e io non volevo che facessero parte della mia.

    Ero una misantropa, ma una misantropa fiera.

    Il mio carattere solitario e piuttosto diffidente amava starsene per i cavoli suoi, senza che nessuno le facesse compagnia mal volentieri; non disprezzavo l’idea di starmene per conto mio e osservare tutti senza avvicinarmi... no, anzi, l’idea mi piaceva parecchio. Se non avevo nulla da condividere, non aveva senso parlare.

    Pensai a Michael, focalizzandomi sui miei piedi che vagavano a destra e a sinistra a ritmo di musica.

    Se lui fosse stato con me, forse non avrei esitato a entrare nella massa. Sarei stata sicura, sarei stata protetta perché avrei avuto un paio di occhi sicuri e buoni che mi proteggevano dolcemente. Anche se non avessi detto nulla, sarei stata tranquilla, perché Michael non se ne sarebbe mai andato. Avrei potuto trovare un appiglio in lui, il quale si sarebbe delicatamente accostato a me e mi avrebbe fatto sentire al sicuro, anche solo con la sua vicinanza silenziosa...

    Sì, come no.

    Lanciai uno sguardo in direzione della pista da ballo.

    Sperai di vederlo.

    Incrociare i suoi occhi non sarebbe stata la più meravigliosa delle esperienze – non in un’occasione come la nostra, in cui la tensione era alle stelle. Eppure lo volevo.

    Michael non c’era.

    Sospirai.

    Puntai il terreno. Avevo così tanti pensieri in testa che sentivo il desiderio di esplodere.

    «Sapevo che ti saresti nascosta da tutto e da tutti...»

    Piegai la testa alla mia destra, con uno scatto fin troppo rapido.

    Rabbrividii.

    Avanzò piano, con le mani nelle tasche, esattamente come lo avevo lasciato al di sotto della scalinata, prima di scomparire con Janet.

    «Ti conosco troppo bene...», sussurrò piano.

    Gli angoli delle labbra di Michael si alzarono in un’espressione di indefinita bellezza. Arcuò leggermente le sopracciglia. Le sue iridi, tanto oscure quanto la notte, brillavano ed emanavano una sensazione di apparente tranquillità. I suoi passi emettevano un suono delicato a contatto con l’erba appena tagliata.

    «Potrei dire che siamo uguali anche su questo».

    E in quel momento mi fu chiaro perché, nonostante tutti i nodi alla gola e il cuore in fiamme, Michael fosse l’unico che mi permettesse di respirare ancora. Come se nulla fosse accaduto.



    1 Riferimento al capitolo 18, “Lo scambio”. Chi è riuscito a ricordarselo senza la mia citazione è bravo/a!


    Edited by fallagain - 6/4/2020, 14:10
  5. .
    Capitolo Ventotto: Lo Scontro fra Titani

    «Wow, sei bravo a fare le bolle con il chewing-gum!», mi complimentai con Michael, piacevolmente stupita. Lui sorrise soddisfatto e questa scoppiò producendo un piccolo schiocco.

    Era notte inoltrata. Era passata una settimana da quando avevamo fatto pace. Eravamo in camera sua, seduti sul letto, e avevamo appena finito di guardare un documentario sulla natura e sugli animali tipici dell’Africa. Nutriva un profondo affetto per quel Paese.

    «Visto? Io sono un mago!».

    «Ne hai un altro? Di chewing-gum, intendo»

    Alzò un sopracciglio. «Perché? Vuoi sfidare il Maestro?»

    «E anche se fosse?» sorrisi maliziosamente. «Ricordati che spesso l’allievo supera l’insegnante».

    Emise uno spasmo di risata ironica.

    «Perciò», si umettò il labbro inferiore, scoccandomi un’occhiata penetrante, «io sarei il Maestro e tu la mia Allieva?»

    Feci spallucce. «Direi di sì».

    Prese le mie dita e le tenne al caldo. In realtà ero io ad averle bollenti e lui tiepide.

    «Purtroppo no, le ho finite...»

    Mollò la presa e con due dita si diresse all’interno della bocca. Estrasse il chewing-gum masticato e sogghignando – vedendo la mia espressione esterrefatta – me lo porse.

    «Tieni, se vuoi ho questo a disposizione!», ridacchiò.

    Adocchiai l’oggetto che teneva fra i polpastrelli e la sua ridente occhiata di scherno. Non feci nemmeno una smorfia schifata, anzi, sorrisi di rimando. Allungai la mano verso la sua e glielo presi: non mi feci nessun riguardo. Nell’istante in cui portai la gomma alla bocca, Michael sbarrò gli occhi. Schiuse le labbra dall'incredulità vedendo come, con una naturalezza innata, incominciavo a masticarla senza fare una piega.

    Iniziò a ridere così tanto che se non l’avessi tenuto per i piedi sarebbe letteralmente caduto all’indietro, cascando dal letto per poi sbattere la testa sul pavimento.

    «Oh. Mio. Dio!», esclamò fra gli spasmi, unendo i palmi delle mani. Mi fissava allibito.

    «Che c’è?», sorrisi masticando la gomma. «Me l’hai offerto tu, credevi che non avrei accettato? Oh, dai... la vuoi smettere?».

    «Scusa, ma sei troppo buffa!». Si portò una mano davanti alle labbra. «Ti solito quando faccio questi scherzi tutte le persone reagiscono male, facendo una faccia tipo...», assunse un’espressione al limite dell’orrore. «E tu non lo hai fatto!»

    Alzai spalle e mani al cielo. «Be’, che c’è di male?»

    «Di solito i comuni mortali dovrebbero rifiutare», puntualizzò sollevando un sopracciglio. «E di solito chiunque mi pensa un pazzo, quando faccio certe cose... anche se mi domando quando mai pensano che io sia una persona normale...», fece scemare la frase con un sospiro. Abbassò lo sguardo.

    Gli presi la mano.

    «Dovresti saperlo che io non sono una comune mortale». Lo guardai e lo scorsi studiarmi intensamente. «E dovresti sapere che a me piacciono i pazzi come te... da morire. Non sarei tua amica se così non fosse, non credi?», inclinai il capo verso destra.

    Il telefono di Michael suonò. Puntammo il comodino sul quale vi era appoggiato. Egli mi scoccò un’ultima occhiata e sollevò gli angoli della bocca, scuotendo leggermente il capo mentre si allungava verso il comò. Pigiò il tasto d’avvio chiamata e pronunciò un leggero «Hello». Mi venne da ridere per la sofficità con cui lo disse, molto più lieve rispetto al tono che utilizzava con me, molto più basso e maschile.

    La fronte si distese. «Oh, ciao Dunk».

    M’illuminai: era Janet Jackson.

    Dalla visita a sorpresa a Neverland non avevo avuto più notizie di lei. Alla fine, tra un impegno e l’altro, non era più venuta a trovare i suoi nipoti.

    «Mmh... quindi ci stai?», Michael si umettò la bocca con fare pensoso.

    Fra qualche giorno ci sarebbe stato il suo compleanno. Michael e tutta la famiglia avevano organizzato un rimpatrio a Neverland, usufruendo della sua immensa ampiezza e della possibilità di svago che questa poteva concedere; la sua famiglia non era solita organizzare compleanni – non tutti per lo meno – e perciò avevano approfittato del compleanno della sorellina più piccola per riunirsi. Da come mi fece intendere Michael, ci sarebbero state forse più di una quarantina di persone (era una famiglia molto numerosa, nonostante avessi capito che sarebbe mancata parecchia gente).

    Mi alzai per lasciare a Michael un po’ di privacy – credendo che avrebbe preferito chiacchierare indisturbato – ma egli mi indicò con la mano di rimanere seduta, scuotendo la testa debolmente. Mimai un “Ok” un po’ perplesso con le labbra. Mi risedetti.

    «Uhm...» mugugnò Michael. Dall’altro capo del telefono sentivo appena la voce di Janet. «A-ha... perciò nessun problema...», mi sorrise. «Be’, ci sono quasi tutti. Randy è ancora in forse. Sigmund e Brandi sicuramente non verranno, da quel che ho capito». Poi sogghignò per una battuta della sorella.

    Frattanto che Michael s’occupava di discutere con Janet, io mi misi d’impegno a fare le bolle col chewing-gum. Volevo sfidare il Maestro, perciò tentai e tentai di farne una più grande delle sue; Michael, infatti, nonostante parlasse con la sorella, mi fissò per tutto il tempo con un sorrisetto canzonatorio stampato in viso.

    Dopo una decina di prove tecniche riuscii a farne una grandissima. Richiamai l’attenzione di Michael colpendolo piano ma nervosamente sulla gamba, emettendo mormorii soddisfatti. Proprio come una bambina piccola.

    «Ehi, Dunk, aspetta un secondo...», disse il fratello. «Resta lì...»

    Michael si inclinò in avanti e rimase a contemplare la bolla che si ingrandiva, sempre più velocemente, emettendo degli “Uhhh” incuriositi… fino a quando fu preso dall’istinto di scoppiarmela in faccia. La punta dell’indice schioccò rapida, e la materia gommosa s’incollò alla mia pelle.

    Egli se la rise come un matto, dondolandosi avanti e indietro col busto, frattanto che la sottoscritta si toglieva la gomma dal naso e dalle guance con un’espressione infastidita.

    Lo linciai – occhi socchiusi e ghigno sarcastico – e immediatamente mi alzai per andare in bagno, per ripulirmi per bene. Rideva così tanto che pensai si fosse dimenticato del cellulare adagiato sul letto. Prima che compissi qualche passo verso il bagno, mi lanciò una debole pacca sul fondoschiena. Lo vidi mordersi il labbro inferiore, maliziosamente, e io lo fissai di rimando con labbra storte in un sorrisino vendicativo. Mormorai un “Ahia” per niente sincero.

    «Ahia? Ma se non ti ho fatto nulla!» esclamò con espressione fintamente meravigliata.

    «Mph!».

    Ormai io e Michael avevamo un rapporto così intimo da sembrare irreale; qualche volta capitava che mi desse dei buffetti sui fianchi o dei colpetti molto leggeri sul sedere. Lo faceva per due motivi: il primo era perché si divertiva a darmeli; il secondo perché desiderava attirare la mia attenzione. Non mi arrabbiavo mai, anzi, mi divertivo. Quando eravamo insieme tutto ciò a cui ambiva era la mia esclusiva attenzione.

    Me ne andai in bagno. Michael riprese a conversare con Janet, continuando a sogghignare. Socchiusi la porta e mi lavai il viso. Lo sentii pronunciare il mio nome e drizzai immediatamente le orecchie. Quando uscii mi risedetti sul materasso nel giro di pochi secondi.

    Fulminai Michael.

    «Sì... è tornata, Dunk, te la devo passare?» disse sorridendomi con gli occhi. Rimasi spaesata. Gli dissi di no scuotendo veemente il capo, ma non mi badò nemmeno. «Ok... ok, te la passo subito... si tiene in bagno per delle ore, non hai nemmeno idea di quanto ci mette per...»

    Avvampai. «Ma Michael!».

    Esplose in un’altra risata senza togliermi gli occhi di dosso e gli detti uno schiaffetto sul braccio. Gli saltai addosso per rubargli il telefono dalle mani. Lui allontanò l’aggeggio elettronico dall’orecchio e lo alzò in aria. Arrancai nel tentativo di afferrarlo.

    «Aspetta un secondo, Dunk, la leonessa si è irritata!» urlò Michael per farsi sentire. «Non ama che queste cose vengano fatte sapere!»

    «Dammi quel maledetto telefono, scemo!» risi e urlai al tempo stesso. «Per favore, non lo ascolti! È lui che ci mette anni quando è in bagno!»

    Gli calò la mascella; esibì un ghigno che non prometteva nulla di buono. Quando riuscii a sfiorare il cellulare mi prese per il polso e con un rapido scatto gli saltai sopra, a cavalcioni, facendolo automaticamente stendere sotto di me. Mi allungai verso la sua mano con uno slancio, gli afferrai il telefono e mi risollevai sulle ginocchia. Lui tossicchiò per aver masticato involontariamente un ciuffo dei miei capelli.

    «Buonasera…», dissi ansimante.

    Dovevo chiamarla Miss Jackson? O Janet? No, Janet era troppo informale.

    Michael mi lanciò un’occhiata imbronciata. Sorrisi soddisfatta, pur sapendo che quella sua arresa era volontaria: più di una volta negli scorsi mesi avevamo fatto quel tipo di lotte (soprattutto perché lui mi provocava con piccole spinte e con il solletico) e non era solito perdere. Vinceva sempre, o perché mi arrendevo o perché era decisamente più forte di me.

    «Ciao Sarah, tutto bene lì?» chiese divertita e preoccupata assieme. La voce era bassa e soave come quella del fratello. «Avete fatto così tanto casino che pensavo al peggio».

    Pensai immediatamente al doppio senso nascosto.

    «No, io…», adocchiai colui che se ne stava tranquillo sotto di me. «Suo fratello non sa farsi un esame di coscienza... e spara balle!»

    Janet rise. «Ah sì, è sempre stato un tipo così».

    «Non è vero!» arrossì il fratello aggrappandosi ai miei fianchi.

    Per un attimo persi il lume della ragione. Percepii un acuto e fastidioso dolore al ventre. Ero seduta sopra di lui, sopra il suo ventre, poco distante dalla sua intimità; sentivo la mia carne toccargli la pancia ogni qualvolta questa si alzasse, a seconda del suo respiro.

    Michael si bagnò la bocca. Gli occhi erano stranamente fiammeggianti.

    Un’altra fitta al ventre, ma stavolta molto più in basso...

    «Sarah?»

    «Sì?» mi scossi. «Sì, mi scusi...»

    «Volevo chiederti se sabato sarai a Neverland con Michael e i bambini. Probabilmente passerò a controllare l’allestimento della festa. Sono sicura che mio fratello te ne ha parlato. Mi piacerebbe scambiare qualche parola con te, se non è un disturbo. Vorrei conoscerti meglio», disse dolcemente.

    Un attimo di silenzio imbarazzante.

    Janet Jackson stava chiedendo di me. Voleva parlare con me. Voleva vedere me.

    «Oh…», dissi piano. «Sì, sabato ci sarò, sì. Sarebbe un onore…»

    Michael inclinò la testa di lato e non lo badai. Pensavo solo a Janet e mi imponevo – con difficoltà – di non balbettare. Michael fece scivolare una mano sulla mia coscia destra, lentamente, dandole un leggero schiaffetto nel momento in cui si fermò. Gli mostrai la lingua.

    «Ne sono felice», la sentii sorridere. «Allora ci si vede sabato. Passerò verso le quattro, più o meno».

    Mi morsi la lingua per non scoppiare a piangere di gioia.

    «D’accordo... ora le ripasso suo fratello… buonanotte… e grazie. Dico davvero».

    Ridacchiò. «Non serve ringraziare. Buonanotte anche a te».

    Riconsegnai il telefono nelle mani di Michael. Si scambiarono qualche ultima parola e, prima di congedarsi, le disse uno dei suoi tipici “I love you more”. La sorella, dall’altra parte della cornetta, sembrò sbuffare intenerita. Si salutarono e terminarono la conversazione.

    «Cosa ti ha detto mia sorella?» domandò Michael in un sussurro.

    Teneva le mani dietro la testa e le caviglie incrociate. Era disteso e dondolava un piede su e giù. Il modo in cui guardò mi fece venire la pelle d’oca.

    Ero ancora sopra di lui.

    «Janet mi ha chiesto se sabato sono a Neverland con te e i bambini». Lo scrutai attentamente. «Ha detto che verrà a controllare i preparativi per la festa e che le farebbe piacere parlare con me».

    «Mmh…», ammiccò con fare furbetto.

    Si alzò a sedere e io indietreggiai, giusto per potermi sciogliere da quella posizione molto stuzzicante quanto innaturale. Michael mi guardò a lungo, alzò l’angolo sinistro delle labbra in un cenno per niente rassicurante.

    Il mio sguardo fu attratto dalla TV accesa, la quale mandava in onda un programma musicale in cui venivano trasmessi i videoclip dei cantanti più famosi del momento. C’era Beyoncè. Afferrai il telecomando e alzai il volume immediatamente.

    Il video che stavano mandando in onda era Naughty Girl: vi era una Beyoncè super gnocca che ballava per il cantante Usher; gambe sode e toniche, neanche un filo di pancia, muovendo i fianchi e sculettando a più non posso; il suo fisico era perfetto. L’ammiravo. La trovavo una delle donne più belle che avessi mai visto nello show business... e Michael era d’accordo con me.

    Dovreste aver visto la sua faccia.

    La fissava con occhi attenti. Quasi non respirava. Non distoglieva nemmeno un secondo lo sguardo da quel fisico scultoreo. Per tutta la durata del video avevo tentato di non osservarlo nonostante fossi curiosa di indovinare quando, prima o poi, si sarebbe messo a sbavare. Se non ci fossi stato io l’avrebbe fatto... o meglio, si sarebbe visibilmente eccitato. Giustamente era un uomo... ma con me, credo, si tratteneva. Per quanto difficile potesse essere.

    Seh, Sarah, mi dissi, quando troverai un uomo che ti guarda come Michael fa con Beyoncé, sarai già bella che morta.

    «Mmh. È un gran bel pesciolino...», sussurrò con voce roca, analizzando la cantante in maniera accurata.

    Gli gettai un’occhiata divertita.

    «Uh? Intendi Beyoncé?»

    Lui annuì impercettibilmente, inarcando le sopracciglia.

    «Be’, sì. È un gran pezzo di donna, ne sono convinta» esclamai con finto avvilimento. Percepii i suoi occhi su di me e sospirai. «Anche se il termine “pesciolino” è riduttivo...».

    Spostai maliziosamente gli occhi su Michael.

    «Moolto riduttivo...», bisbigliò.

    Più di una volta mi guardai le gambe e le misi in confronto a quelle della cantante, cercando ovviamente di non farmi scoprire da Michael. Erano quasi uguali; le mie erano leggermente più grosse, ma non minimamente paragonabili alle sue. Lei era tutto muscolo. Non so perché lo feci, ma mi venne naturale.

    Tornai a fissare il video e vedere come la scena si sviluppava: Beyoncè e Usher avevano tanto di quell’erotismo in corpo che, uniti alla musica, erano capaci di donarmi un bel po’ di sana adrenalina. Il modo in cui la toccava e si adocchiavano mi fece assumere una smorfia buffa. Ad una loro mossa piuttosto “lussuriosa” parlai.

    «Quei due lì non me la contano giusta...». Buttai uno sguardo veloce a Michael. «Secondo te c’è del feeling tra di loro, al di fuori del set?»

    Lui sogghignò. Entrambi guardavamo la Tv come stregati.

    Tentò di rimanere serio. «Per me sì, assolutamente».

    Ero divertita. «Buona affermazione!». Gli battei una mano sulla spalla. «Gli istinti primordiali maschili non mentono mai!»

    Ridacchiò fra sé e sé. Mi scoccò occhiate cariche di malizia. Lentamente si afferrò il labbro inferiore con i denti, poi lo bagnò con la lingua.

    «Vorresti dire che tu non li hai, questi istinti?».

    «Mai detto questo».

    S’allungò verso di me. «Perché tu, mio piccolo esserino curioso, sei più informato in questo campo di quanto potrei immaginare... non è vero?», mi dette un buffetto sulla guancia.

    Ridacchiai e assunsi l’espressione di chi la sa lunga. «Non lo nego: sono una donna e amo l’unione fisica – chiamalo sesso o fare l’amore, è indifferente. È una delle cose più belle al mondo. L’argomento non mi spaventa affatto, mi incuriosisce», dichiarai scrollando le spalle.

    Mi studiò a lungo. «Le tue frecciatine lo dimostrano...».

    Incurvai gli estremi delle labbra in un sorriso furbesco.

    «E tu le comprendi perfettamente, vero?»

    «Sono un uomo. Mi pare giusto», puntualizzò. «E sono decisamente più preparato di te su questo argomento… sia in pratica che in teoria. Ricordati che sono il tuo Maestro».

    Lo conoscevo abbastanza da capire che mi stesse provocando apposta.

    Stetti al gioco.

    «Stai insinuando che io non sono esperta quanto te?». Lo fissai con scetticismo velato. Michael ricambiò con due occhi che esibivano tutto il suo acceso interesse. Poi ridacchiai. «Nessuno dei miei ex ha mai fatto una sola critica riguardo a come lo facevo. Mai una lamentela, solo elogi su elogi. Lo so perché lo venivo a sapere per vie indirette. E sai perché? Perché sono sempre stata una tipa instancabile».

    Michael si incupì improvvisamente. Risi sotto i baffi.

    Per qualche minuto abbondante nessuno dei due disse nulla. Rimanemmo a guardarci negli occhi come due stoccafissi, uno serio e l’altra spudoratamente sorridente, soddisfatta per averlo fatto rimanere di stucco.

    «Instancabile?».

    «A-ha», annuii gravemente.

    Altro silenzio. Attesi una sua reazione stupefatta ed invece no: roteò le iridi verso l’alto, assunse una smorfia pensierosa e scoccò la lingua al palato.

    «Mi dispiace, non ti credo».

    «Ah…», esclamai offesa, chinandomi su di lui. «Vorresti dire che tu sei più instancabile di me?»

    I suoi occhi saettarono veloci nei miei, luminosi e attenti.

    «Un giorno te lo dirò...»

    Lo incenerii con un'espressione. Espirai, incrociando le braccia al petto. Puntai la televisione davanti a me. Michael ridacchiò e tentò di avvinghiarmi la schiena con un braccio. Lo allontanai, dichiarandomi profondamente oltraggiata.

    «Dai, Moony, un giorno te lo dirò...», sorrise. «Mi credi?»

    «No!»

    «Avanti...»

    «No! Questa è la seconda volta in due settimane che mi fai una cosa del genere, ossia stuzzicare e poi evitare di rispondere! Lo sai che non lo sopporto!»

    Ero irritata sul serio e Michael se ne preoccupò.

    «Sarah...»

    Non detti segno di voler continuare la conversazione. Mi masticai nervosamente le pellicine attorno alle unghie.

    «Sarah...»

    «Stammi lontano...», bofonchiai.

    «Non posso credere che tu sia instancabile...», mormorò ridacchiando. «Non ti immaginavo così – »

    «Be’, a me piace il sesso», sentenziai senza arrossire. Lo squadrai severamente. «E se per quello neanche io credo alla tua immagine di “troppo esperto”. Vedo che il sesso ti piace – basta vedere come ti mangi con gli occhi Beyoncè – ma non ti vedo così... “troppo esperto”, ecco...», gesticolai.

    Issò un sopracciglio, chinando il mento. «Te lo dico un’altra volta: ricordati che sono un uomo».

    «Non ho detto il contrario, perciò rimango della mia idea».

    «Mmh...», si prolungò verso di me, sorridente come non mai. Sembrava un pesce lesso. «Sappi che mi piaci quando sei arrabbiata, e in particolar modo quando sei così schietta su questo argomento...»

    Arrossii.

    Guardai la televisione fingendomi offesa; sapeva che lo facevo apposta, che mi divertivo a comportarmi da bambina permalosa. Difatti cominciò a fare il ruffiano accarezzandomi il braccio e la nuca con le dita di una sola mano, avvicinando le labbra al mio viso. Lo rifiutai fino a quando, bofonchiando divertita, non mi lasciai baciare.

    La sensazione che mi provocò quel gioco di provocazioni fu indescrivibile. Lo stomaco si era annodato su se stesso nel momento in cui la sua bocca era scivolate su di me. Il cuore fremeva in gola, nelle tempie, ovunque. Batteva veloce – troppo veloce – ma poco importava.

    Mi abbracciò e mi sciolsi totalmente.

    «Con pochi sono arrivato a parlare di questi argomenti, e per di più sei una donna... mi sembra di parlare con un ragazzo...».

    Sorrisi aspramente. Inclinai il capo verso Michael e lo puntai con l’indice.

    «Prenderò la tua frase come un complimento, ignorando il fatto che tu mi abbia dato del ragazzo».

    Emise una risata bassa e roca. Il modo in cui si mordicchiò le labbra mi mandò nel pallone… eppure finsi indifferenza.

    «Sto peggiorando in tua compagnia. Mi stai facendo diventare matto...», arrossì debolmente.

    Mormorai sorniona. «Ti eccito troppo, per quello ti si sballa il cervello, ammettilo».

    Ridevo. Non lo pensavo sul serio.

    Ma Michael si mostrò impassibile.

    «Sì, lo ammetto. Mi ecciti»

    Accostai un ciuffo di capelli dietro l’orecchio destro, guardando la televisione. Mi morsi le labbra per evitare di esplodere in uno sghignazzo irrequieto.

    Poco dopo lo osservai, per vedere se mi fissasse ancora: analizzava ogni mio lineamento con un cipiglio ambiguo... e fu allora che, spinta dal profondo desiderio di provocarlo, mi bagnai le labbra esattamente come faceva lui. Solo che lo feci più lentamente, con uno sguardo da gattina provocatrice.

    «Smettila!» avvampò sbigottito, indietreggiando. Mi dette una spintarella sul braccio vedendomi esplodere in una pazza risata. «Altrimenti mi ecciti davvero!».

    «Uhhh». Ridussi le palpebre in due minuscole fessure. «Allora sto ferma e non dico nulla! Anzi, non ti guardo proprio, così è ancora meglio», alzai le mani in segno di arresa.

    Michael scosse la testa, improvvisamente intimidito.

    Ad un certo punto piegai il capo da un lato, sul punto di fare una domanda.

    «Che c’è?», mi anticipò.

    «Come ti vedi nelle relazioni amorose? Non parlo in generale, parlo di esperienze personali… quando ripensi a te e ai rapporti avuti con altre donne, che conclusione ne trai?».

    Incrociai lo sguardo di Michael e vidi che era serio. Rifletté sulla mia domanda a lungo. Gli ci vollero un paio di minuti prima che mi rispondesse.

    «Sarah, sarò sincero», mi puntò intensamente. «Non è facile, per me più che per altri, avere una relazione fissa, sincera e duratura. L’ho cercata per tanto, tanto tempo... e non l'ho mai trovata. Ancora ci spero e non abbandono la speranza di trovare quella relazione, ma è dura. Sarei il più felice del pianeta se ciò accadesse. L’amore e le relazioni derivanti da questo sentimento sono complicate, tu lo sai... e sai come sono io.

    Inoltre, per quanto possa avere istinti di quel tipo e brevi relazioni, non farei mai del male a nessuno volontariamente... se devo fare quel passo, ossia avere un rapporto serio con qualcuno, non lo faccio con la prima che capita. Se amo davvero una persona, è molto probabile che non la porti subito a letto. Preferirei fare le cose con calma», puntualizzò.

    Marcò le ultime parole come un ferro caldo sulla carne.

    Abbassai le iridi chiare sull’unica mano libera che teneva appoggiata alla gamba. Non riuscii a controllarmi, gliela presi e accarezzai ogni dito; Michael lasciò che ci giocherellassi tranquillamente: lanciò continue occhiate curiose a me e alla mia mano. L'afferrò.

    «Parteciperai alla festa di Janet?» mormorò. Accarezzò il dorso dell’arto con un pollice. «Ci sarà tutta la mia famiglia... potresti fare amicizia...».

    Strinsi le labbra. «Tutta?»

    «Sì» assentì. «Saremo circa una quarantina... o una cinquantina… alcuni membri della famiglia non festeggiano i compleanni e altri non potranno proprio esserci. Ma è un’ottima occasione per riunirci».

    «E tu come ti senti all’idea di incontrarli?».

    «Se ci sarai tu, potrei sentirmi meno solo...» mi fissò sfiorandomi il polso. «Probabilmente mi guarderanno con timore, o riguardo, aspettandosi di vedere un me terrorizzato e angosciato».

    «Pensi che ti chiederanno del processo?».

    Evitò di guardarmi. Sospirò.

    «Non ne ho idea. Non vedo la mia famiglia al completo da tempo...»

    «Ma non sarai solo, ci saranno i tuoi fratelli... Janet... tua madre...». Cercai di tirarmi fuori dall’impegno di partecipare. «I tuoi nipoti... i tuoi figli!».

    Sorrise abbassando le palpebre. Infossò il capo sull’incavo del mio collo ed inspiro a fondo. L’aria tiepida che rilasciò mandò a far benedire la mia frequenza cardiaca. La nuca pulsava.

    «Mi stai dicendo questo perché non vuoi venire, vero?», sbiascicò raucamente.

    Detti ordine al petto di smetterla di sobbalzare per l’emozione.

    «No... be’...».

    La mia capacità di mentire faceva schifo.

    «Non è che non voglio venire...»

    Alzò il viso e mi fissò eloquentemente. Storse la bocca con visibile scetticismo. Non mi credeva affatto, non era così stupido: l’intelligenza era una qualità che non gli si poteva negare di avere.

    Sospirai.

    «Sei sicuro che io c’entri qualcosa con la tua famiglia?»

    Come previdi, Michael roteò gli occhi al cielo.

    «Grace parteciperà?».

    S’incupì capendo dove volessi andare a parare.

    «No...»

    «Allora non vengo nemmeno io! Mi prendo un giorno libero!», sorrisi e mi sfregai le mani soddisfatta.

    Di rimando mi scagliò un’occhiataccia.

    «E se te lo impedissi?»

    Mi zittii. Sussurrò quelle parole in modo sensuale, utilizzando la voce più profonda e ammaliante che aveva. Mi lanciò uno sguardo terribilmente malizioso e affabile.

    Mi accigliai. «Vuoi obbligarmi a partecipare?»

    «Mettila pure come vuoi...» sorrise abbandonando il capo sulle mie cosce. Si rannicchiò portando le ginocchia al petto come un bambino, ma non per questo il suo atto fu innocente. «Ho bisogno della tua presenza nella mia vita, tutto qui...»

    «“Tutti qui”?» esclamai sbalordita.

    Avvampai quando alzò la testa per analizzare meglio la mia faccia. Scostai gli occhi in direzione della televisione. R. Kelly stava cantando una delle mie canzoni preferite, Home Alone. Sia io che Michael stavamo seguendo il ritmo coi piedi, inconsapevolmente.

    «Vorresti di più?» sussurrò alzandosi a sedere.

    Feci finta di non capire a cosa si riferisse.

    «Che?»

    Michael sorrise amabile e mi si accostò al viso. In automatico mi ritrassi all’indietro, anche se di poco, voltando la testa verso il muro. Arrossii e inarcai le sopracciglia, meravigliata per l’atteggiamento con cui flirtava.

    «Che stai facendo...?» chiesi imbarazzata e sbalordita al tempo stesso.

    Il cuore smise di battere quando Michael mi baciò la guancia. Vi rimase per qualche secondo, poi si avviò un pochino più in basso, in direzione del mento. Il suo respiro sottile mi dette le vertigini.

    Ridacchiò timidamente.

    «Parteciperai, vero?» domandò senza scostarsi. «Non mi lascerei da solo, alla festa… in mezzo a tutta quella gente?»

    «Mmh...»

    «Avanti, ci sarò io con te...» mi adocchiò con un’espressione ridente e inebetita. «Non ti lascerò sola, te lo prometto... nessuno avrà niente da ridire...»

    Mi passai una mano fra i capelli e presi fiato.

    «Va bene» esclamai. «Va bene… basta che non mi costringi a presentarmi a tutti – oddio, se lo chiedono sì, purtroppo… ma preferirei essere il più invisibile possibile. Voglio starmene nel mio angoletto. Non mi piace...»

    «...essere al centro dell’attenzione. Sì, lo so» sorrise.

    «Contento ora?».

    «Molto, principessa». Mi abbracciò teneramente. «Molto più di quanto immagini...», ed infine mi dette un bacio sulla tempia. «Grazie dal profondo del cuore. Ti amo...».

    Qualcosa mi si bloccò in gola.

    «Ti amo... sei un’amica grandiosa».

    E improvvisamente quelle due parole, quel devoto “amica grandiosa”, mi lasciarono l’amaro in bocca. Una sensazione di apparente tranquillità soffocata dal desiderio di non vedere la realtà dei fatti, una realtà che comunque non poteva essere repressa o ignorata.

    Quel termine non era più sufficiente per me.

    *

    «Che ne dici se mettessimo qui gli stuzzichini salati? Magari dei tramezzini o della pizza», disse Janet, indicando il tavolo a destra della piazzola in cemento.

    «Secondo me è perfetto», dissi seriamente. «O magari dividere le portate, posizionandole agli angoli estremi del mobile, e al centro mettere solo le bevande.».

    Sorrise e annuì.

    Era sabato 15 maggio, il giorno prima della grande festa a casa Jackson. Come promesso Janet era venuta a Neverland e stava discutendo – con alcuni inservienti – su come organizzare e posizionare le cose per il giorno dopo. Michael le aveva dato carta bianca, soprattutto perché era il suo compleanno. Quest’ultimo non era presente a causa di impegni lavorativi che non mi spiegò. I bambini erano con Grace, la quale aveva lasciato del tempo a me e a Janet per parlare da sole.

    «Da lunedì dovrò ricominciare palestra volente o nolente, per smaltire tutto il ben di Dio di domani» borbottò Janet. «Non immagini che voglia...»

    «Qualche volta ci sta sgarrare», proruppi gentilmente. «Posso chiederti una cosa? Segui una dieta particolare?»

    «Sì, in effetti sì» mi guardò dolcemente. Aveva lo stesso sorriso di Michael. «Un personaggio dello show business deve stare attento a cosa mangia. E deve fare sempre ginnastica per tenersi in forma. Io ho un metabolismo lento, perciò sono sempre sotto controllo». Currugò le labbra in un’espressione amareggiata. «È dura, soprattutto perché sono una persona che ama mangiare».

    «Come ti capisco» mormorai. Alcuni uomini stavano sistemando i tendoni bianchi per il giorno dopo in giro per il giardino. «Anche io devo stare molto attenta. Ho il tuo stesso problema. L’alimentazione non è un problema, ma la ginnastica…», arrossii.

    Sorrise ancor più gentilmente. «Anch’io sono pigra. Però credimi, è essenziale. I risultati si vedono eccome se sei costante. Pian piano diventa un’abitudine».

    «Ci credo» annuii. «Un tempo amavo correre. Peccato che da un paio di mesi non pratico più nulla».

    Janet era una donna veramente cordiale. Non mi faceva pesare il fatto di essere l’insegnante dei figli di Michael. Mi parlava come se fossi una persona qualunque. All’inizio sembrava fredda e osservatrice, ma appena le si dava il via per parlare, lo faceva con una scioltezza incredibile. Lei stessa tirava fuori gli argomenti su cui discutere. A volte sembrava che stesse parlando con un’amica di vecchia data.

    Era decisamente meno timida di Michael, ma la sua cordialità e la sua compostezza erano uguali a quelle del fratello.

    «Se vuoi possiamo fare qualcosa assieme. Ti posso consigliare un luogo perfetto, in cui ti terranno sotto controllo per tutta la pratica. Io frequento una palestra privata, qui a LA. A me tocca andare ogni giorno, ma tu potresti cominciare con tre volte a settimana».

    M’illuminai immediatamente, ma mi sforzai di placare la gioia. «Non vorrei dare fastidio…»

    Scosse il capo. «Figurati! Se te lo offro è perché lo voglio davvero. Abbiamo tante cose in comune e ti aiuterei volentieri» Mi sorrise. «L’idea ti piace?»

    La sua dolcezza era straordinaria.

    «Mi piacerebbe tantissimo, sì» arrossii e chinai il capo in segno di rispetto.

    Si diresse verso l’interno della casa. Anche là molti inservienti stavano sistemando e pulendo per il giorno seguente. Io la seguii.

    «E poi non hai bisogno di lavorarci molto, sei già bellissima così come sei. Hai una bellissima forma a clessidra» disse piano, dandomi le spalle. La ringraziai. «E se migliori ancora di più, mio fratello Mike lo noterà eccome».

    Mi fermai sul posto e increspai la fronte.

    Lei fece lo stesso e mi puntò con uno sguardo serio e impenetrabile.

    Che cosa aveva detto?

    Dopo qualche istante di silenzio si umettò le labbra. Sentivo che qualcosa era cambiato. Era gentile, sì, ma i suoi occhi erano attenti come non mai; sembravano entrarmi nel cuore per mettere a soqquadro tutto quanto. Ogni certezza, ogni sentimento, ogni dubbio. Sembrava alla ricerca di un qualcosa che immediatamente non riuscii a capire. Mi stava mettendo alla prova, forse?

    «Che cos’è Michael per te?»

    Fu diretta. Senza esitazione alcuna.

    Mi voleva fare quella domanda dal principio, fin dal giorno in cui mi aveva incontrato.

    Affrontare quel quesito fu come avanzare alla cieca verso un burrone, un buco nero formato da contrastanti emozioni, e caderci dentro senza aver prima pensato alle conseguenze, ai “se” e ai “ma”. Ma non mi ero buttata di mia iniziativa. Qualcuno mi ci aveva spinto con la forza, lasciandomi completamente esterrefatta.

    Riflettei.

    Riflettei pur capendo il significato preciso di quella frase fin dal principio.

    «Tu e mio fratello avete uno strano rapporto» continuò imperterrita. «Chiedo scusa se questa mia domanda ti ha lasciato perplessa o ti ha causato disagio. Non volevo sembrare maleducata. Ma non ho potuto fare a meno di chiedermelo, a causa degli sguardi che vi date».

    Sbattei le palpebre e un'espressione perplessa mi si dipinse in faccia.

    Janet si passò la lingua sulle labbra. Portò la massa di folti capelli su una spalla. Poggiò il peso del corpo sulla gamba destra e abbozzò un sorriso stirato.

    «Voi due vi guardate in modo diverso. L’ho notato il primo giorno in cui ti ho conosciuto... ti ricordi la mia visita a Neverland? Ancora uno o due mesi fa?»

    «Sì, ricordo...»

    Non smise di fissarmi. «Il modo in cui ti guardava era incredibile. E i tuoi occhi brillavano ogni volta incrociassi i suoi. E si illuminano anche ora che lo nominiamo».

    Mi pietrificai.

    Non detti il minimo cenno di aver recepito il messaggio. Figuriamoci se fossi in grado di formulare una risposta concreta.

    Venni sommersa dalla sensazione di un vuoto indissolubile. Il silenzio mi invase la mente. Ogni pensiero si congelò. Era un argomento che non mai avevo affrontato con nessuno prima d’allora. Con Michael potevo parlare di tutto, tranne dei sentimenti che provavo per lui. E già per me non era semplice rendermi conto di cosa sentissi veramente.

    Il cuore tumultuò, ma non indietreggiai.

    «Suo fratello è una persona meravigliosa». Raddrizzai le spalle senza abbassare la testa. Tremai, ma cercai di nasconderlo. «Un grande amico. Il mio migliore amico, quello che cercavo da una vita intera. A volte è anche una sorta di fratello. Ed è un padre eccezionale. È un uomo forte, ma anche fragile. È un uomo che sa quello che vuole, testardo come un mulo, ma sa anche essere comprensivo e generoso. Le persone possono facilmente approfittare di lui perché sa cosa significa non avere niente, per questo dona ogni parte di sé. È la persona più bella che abbia mai incontrato, fuori e dentro».

    Janet rimase a studiarmi senza dire nulla. Il silenzio calò di nuovo, ma durò poco: le sue labbra si stesero in un sorriso indefinibile. Mirò un punto sconosciuto alla sua destra.

    «Capisco».

    Feci per dire qualcosa, ma Janet me lo impedì.

    «Che genere di musica ascolti? Vorrei stilare una lista di canzoni e darla al disk jockey, così da poterle far suonare domani sera. Più musica c’è, meglio è. Possibilmente niente che abbia a che fare con la mia famiglia, non voglio che i miei fratelli competano tra loro come al solito. Magari un misto di musiche lente e movimentate, così anche i bambini possono divertirsi… dai, seguimi».

    E io lo feci.

    Anche se tutto era diventato improvvisamente buio e confuso.

    *

    Quando Janet se ne andò da Neverland, salii le scale e me ne stetti in camera mia per ore. Dissi a Grace che non stavo molto bene e che probabilmente non sarei scesa per cena. Michael sarebbe tornato e probabilmente sarebbe venuto a cercarmi preoccupato, ma speravo di stare meglio, una volta fatta chiarezza con la mia testa. Dovevo stare da sola. Pensare da sola. Riflettere da sola. Affrontare tutta quella confusione da sola.

    Per una volta desiderai non vederlo fino al giorno dopo.

    Ricordo che non mi cambiai neanche. Mi distesi a letto e basta. Non mi nascosi sotto le coperte, nonostante tremassi come una foglia.

    Per tutta la sera mi sentii avvolta in una bolla che mi divideva dal resto del mondo – soprattutto da Michael. Il cuore annaspava e la mente lanciava segnali d’allarme che non riuscivano a fermare. Ero solo me, me stessa ed io a fronteggiare due sentimenti tanto opposti quanto devastanti: amore contro paura. Se uno veniva zittito, l’altro ruggiva forte in petto e mi rendeva vulnerabile – troppo vulnerabile. Se invece li lasciavo parlare entrambi, la testa mi scoppiava. Era un vero e proprio scontro fra titani.

    I primi pensieri furono rivolti a Janet e a quel discorso che da ore non faceva che importunarmi. Credevo che l’avesse fatto apposta per capire se fossi una persona sincera; dopotutto Michael era circondato da avvoltoi da tempo e, in un momento tanto critico come quello, dove il fratello doveva affrontare un processo non da poco, non era saggio che si circondasse di gente che lo facesse stare peggio o lo mettesse ancora di più nei guai. Eppure mi aveva sorriso, quando le avevo detto cosa Michael fosse per me. Un sorriso dolceamaro, il suo.

    Tentai invano di non pensare a Michael.

    Non volevo averlo in testa, né davanti agli occhi, né tantomeno nel cuore.

    Mi domandai se veramente mi brillassero gli occhi quando lo vedevo, se davvero la mia fosse soltanto amicizia, se veramente Michael potesse provare attrazione per una come me – figuriamoci amore vero. Ma non riuscii a rispondermi in alcun modo. Tutto non faceva che scomparire di fronte al quesito più importante a cui dovevo dare responso: lo amavo?

    Perché se lo amavo... ero in trappola.

    Alla fine lo vidi. Lo immaginai. Vidi Michael come mi se fosse realmente dinanzi. Vidi tutto ciò che avevo passato con lui. Il nostro primo incontro a novembre, la mia figura di merda, gli sguardi che mi aveva lanciato... e le telefonate, i suoi sfoghi e il suo pianto, la sua apertura di fronte all’estranea che ero; ricordai la nostra discussione in ufficio, quando mi aveva chiesto di Dio e poi lo avevo abbracciato. Ricordai la visita al ranch, il desiderio e la piuma. Ricordai il modo in cui abbracciava i bambini, il modo in cui il suo cuore volava quando giocavano assieme. Ricordai quel pranzo a base di peperoncino e le pulizie di casa, che a Michael piaceva fare per sentirsi come tutte le persone normali. Nella mia mente riapparve il cinema, i film che avevamo guardato, le chiacchierate nella notte, le risate che gli avevo fatto fare con la mia assurda espressività, la fuga da Neverland alla ricerca dei regali per i suoi figli e la scogliera, il posto in cui mi ero liberata di tutto il dolore che non avevo mai pianto. Il suo abbraccio e la sua voce che mi diceva di lasciarmi andare, che non dovevo avere paura. Ricordai Natale, ricordai Capodanno, i compleanni, così come ricordai il periodo in cui mi ammalai e mi stette accanto. Ricordai quando mi chiamò per la prima volta “Moon of my Heart”; la famiglia Cascio, Joanna; la rabbia verso i tabloid, verso tutti. Da un lato della medaglia vedevo il suo candore e la bellezza d’animo che possedeva; dall’altro lato, invece, la tristezza del suo cuore, nascosta tra i sorrisi e gli abbracci donati. Ricordai ogni cosa, ogni stretta, ogni bacio, ogni doppio senso, ogni sorriso, ogni occhiata d’intesa, e la sensazione che il mio cuore provava non appena lo vedevo.

    Sono in trappola.

    Chiusi gli occhi mentre mi portavo le mani sulla faccia, per impedirmi di piangere.

    Io lo amo.

    Lo amavo davvero.

    Lo amavo e questo mi faceva paura, una fottuta paura. Paura di soffrire per quella sconsiderata emozione che poco a poco sentivo liberarsi in petto. Lo amavo e non volevo riconoscerlo, ma lo amavo a tal punto che il cuore sarebbe scoppiato per lui, se non lo avessi affrontato di petto.

    Quell’amore era una gioia agrodolce. Quello che provavo, nonostante credessi fermamente il contrario, era Amore – non importava che tipo fosse o quanto riuscissi a percepirlo. Era un fuoco che bruciava e divampava ovunque; era il più puro dei sentimenti, e come tale non aveva termini adatti per potersi definire. Si sentiva e basta, e quando era così non potevi far altro se non lasciarlo uscire.

    Ero bloccata nella paura. Era qualcosa di profondo – un amore che non avevo mai provato prima di allora – e avrei preferito che non fosse niente di così intenso: semplicemente non ero abituata a un tipo di emozione così devastante. Io non sapevo gestire i sentimenti.

    Per anni mi ero detta che non avrei mai trovato l’amore che cercavo. Eppure, nel momento in cui ero resa conto di averlo finalmente trovato, negli angoli più sconosciuti della Terra, avevo deciso di ritirarmi in me stessa. Ero terrorizzata dall’amore senza riserve, nonostante lo desiderassi da tutta una vita.

    Se le cose fra noi non sarebbero funzionate, non sarei riuscita a sopravvivere.

    Ma io amavo ogni dettaglio del suo aspetto, interiore ed esteriore. Amavo la sua risata, la sua voce e quel maledetto e profondo sguardo con cui mi penetrava l’anima. Amavo la marcata fossetta sul mento, le guance ben delineate, il naso sbarazzino e i suoi capelli sempre disordinati. Amavo la sua dolcezza, la sua eccentricità, la sua bontà, la sua testardaggine, il suo altruismo infinito, il suo orgoglio, la sua incessante voglia di amare ed essere amato e la sua gelosia sempre così protettiva, sempre così tanto intimorita all’idea che potessi sfuggirgli dalle mani. Amavo ogni cosa che faceva e come la faceva, amavo quando sbagliava e quando ragionava. Amavo come si arrabbiava e come mi faceva arrabbiare. Amavo come toccava la mia fragilità e la trasformava in forza. Lo amavo perché se io piangevo, lui mi abbracciava e mi baciava le guance come un vecchio e intimo amico. Lo amavo perché se uno dei due soffriva, all’altro si spezzava il cuore. Lo amavo perché, con i suoi pregi e con i suoi difetti, era quello che era e nessun’altro, tutto ciò che avevo sempre sognato e tutto l’amore che avevo sempre cercato.

    Lo amavo e non riuscivo a quantificare quanto.

    Lo compresi senza riuscire a smettere di piangere, senza riuscire a smettere di tremare, in un periodo di tempo che non mi sembrò passare mai... fino a quando il mio Sole non apparse, bussando alla porta.

    Sobbalzai.

    La porta si schiuse con un rumore di serratura che si apriva.

    La sua voce fu come uno squarcio di luce fra le nubi in tempesta.

    «Sarah?».

    Non tentai neppure di rispondere o asciugare il viso. Ferma, incapace di muovere un muscolo, l’unica cosa che mi rimaneva da fare era aspettare. Aspettare una sua mossa, una sua parola, qualunque cosa.

    Alzò il tono di voce per la preoccupazione. «Sarah...?».

    Sentii i suoi passi e la porta che si chiudeva. Lo stomaco si contrasse dal dolore.

    «Sarah, che succede?».

    Percepii il peso del suo corpo adagiarsi sul bordo del letto, vicino alla mia figura che non smetteva di tremare, raggomitolata su se stessa. Affondai il viso nel cuscino.

    «Moony... ehi...», s’avvicinò e mi accarezzò la nuca.

    La sua voce era incrinata dall’emozione.

    Fu come temere di essere bruciata dal fuoco.

    «Non piangere...». Si abbassò sulla mia nuca e mi scoccò un bacio affettuoso fra i capelli. «Dimmi che è successo... non avere paura di me...», mormorò pregante. «Non temere, ci sono io... stai poco bene?»

    Venni scossa dai singhiozzi.

    Michael non badò al mio silenzio e mi si distese in parte. Mi avvolse e mi accarezzò dolcemente con un braccio.

    Sospirai tremando. Il suo profumo s’insinuò nell’anima, attraversò ogni piccola cellula di me stabilendosi nel sangue, nella carne e nelle ossa, e tutto fu di nuovo più doloroso.

    Un altro bacio sulla nuca.

    Un’altra carezza.

    Volevo soltanto scomparire. Tornare indietro nel tempo e rifare tutto da capo.

    «Michael...».

    Le dita che scivolavano fra i miei capelli si contrassero al richiamo.

    Mi asciugai le guance e gli occhi. Trovai la forza per girarmi verso lui. Lo feci con gli occhi chiusi e mi strinsi al suo petto afferrandogli la camicia. Mi aggrappai forte e piansi ancora. I suoi polpastrelli delicati scivolarono con esitazione sul mio volto. Poggiò le labbra sulla fronte.

    «Ho paura...».

    «Non devi... non devi...» Michael inspirò piano. «Io non ti lascio».

    Mi tenne la testa premuta sull’incavo del collo con una mano. Con l'altra mi prese le gambe e le adagiò sopra le sue cosce.

    Come avrebbe potuto liberarmi da un problema di cui non sapeva di esserne la causa?

    Cuore e cervello lottavano in una guerra senza risparmio di colpi, e chissà come era sempre l’ultimo ad avere la meglio sul primo: il cuore, infatti, continuava a sanguinare amore, implacabile, mentre l’altro gridava ciò che non faceva che ripetere da ore: non puoi amarlo, hai rovinato tutto adesso.

    Mi allontanai dal suo petto.

    Michael mi asciugò le lacrime e io lo guardai negli occhi. Lo guardai a lungo. La luce della Luna, al di fuori della finestra che mi dava le spalle, gli colpiva in pieno alcuni dettagli del viso. Era bellissimo.

    «Non avere paura, piccola. Non averne. Io non ti lascio da sola. Ci sono sempre», sorrise appena.

    Mi carezzò la guancia destra. Gli occhi erano profondamente dispiaciuti.

    Rabbrividii.

    Il suo sorriso scemò quando posai due dita sulle sue labbra... permisi al cuore di scalpitare e permisi a Michael di entrare, di abbattere quel muro che desideravo buttar giù da tempo. Lo feci a discapito delle conseguenze.

    Lo fissai mentre adagiavo la fronte alla sua, tremando piano. Schiusi le labbra, respirando a fatica, come se l’anima stesse soffocando per gli stessi sentimenti che provava.

    Capivo fin dove mi stessi spingendo, ma lo desideravo. Lo desideravo da morire.

    I suoi occhi si fecero languidi nel giro di un istante.

    «Mich…».

    Il suo respiro si spense sulla mia bocca con roco mugolio. Mi lasciai sfuggire un gemito sopraffatto, sentendo qualcosa - probabilmente il mio cuore - scoppiare in petto. Mi lambì le labbra, ricercando ogni centimetro di pelle che non aveva ancora toccato o sfiorato.

    Immediatamente mi ressi sulle sue spalle, lasciandomi guidare in una danza lenta e senza fine apparente; mi sembrava di cadere, ma era quel tipo di caduta che avrei fatto e rifatto un milione di volte ancora.

    Avevo le vertigini.

    Percepii ogni pressione che mi dava, ogni sospiro che si univa al mio, ogni basso piagnucolio di piacere che usciva dalle nostre gole. Nessun bacio che avevo dato o ricevuto, comparato a quello, appariva tanto intenso e destabilizzante quanto il suo.

    Abbandonai la schiena sul letto, guidata da Michael. Le dita di una mano scivolarono sul suo collo, per poi scavare delicatamente tra i suoi capelli corvini, espirando un lamento di lascivia mentre la lingua entrava nella mia bocca, smaniosa di assaporarmi. Si pose sopra di me e mi legai al suo bacino con una gamba.

    Mi sentivo ubriaca, esaltata dalla vibrazione dei nostri due corpi uniti in un bacio che non dava via di fuga. Ero completamente sua, prima ancora di essermi concessa. Erano le sue labbra – dolci ma passionali, sensuali ma delicate – quelle che avrei voluto sentire sulle mie per il resto della vita.

    Michael emise un gemito basso e roco, portandomi alla disperata voglia di togliermi i vestiti e lasciarlo entrare in me – così, senza nessuna inibizione o senso di colpa – pur non avendo la forza e il coraggio di farlo. Accostai il bacino verso il suo, liberando un debole sospiro, e lo percepii alla ricerca della mia femminilità, eccitato e scosso forse quanto me.

    Portò la mano sul mio collo, scosso dalla libido, facendomi inclinare il capo a suo piacimento, donando gentili carezze anche a quella parte del corpo.

    Assaporai, coccolai, rabbrividii di lui ogni istante in cui Michael fu su di me. Tutto quello che mi circondava non aveva più senso.


    Edited by fallagain - 6/4/2020, 13:54
  6. .
    Capitolo Ventisette: I Primi Sintomi

    Dopo la nostra discussione rifiutai di rimanere a Neverland. Uscii e passai la serata fuori, cenando da sola in un ristorante a Santa Barbara.

    Reggere le sue silenziose accuse nei miei confronti non mi avrebbe fatto bene, ma sostenere la sua indifferenza sarebbe stato ancora peggio. Sentivo che rimanere intrappolati ognuno nel proprio silenzio non era la soluzione più giusta, ma non ero in grado di reggere il suo sguardo o un rifiuto.

    Mi sentivo in colpa.

    Se hai qualcosa da dire, dilla e basta”.

    Glielo avevo detto con un tono quasi spregevole, un atteggiamento con il quale non mi ero mai rivolta a Michael. Sicuramente lo avevo ferito. Ne ero certa.

    Tu puoi farti tutte le ragazze che vuoi, ma io non posso uscire con un uomo?

    Era proprio questo il punto: volevo la verità. Volevo sentirmi dire qualcosa che entrambi sapevamo bene e lui si rifiutava di dirmi. Quello che io stessa mi negavo di riconoscere ed accettare, perché avevo troppa paura delle conseguenze che questo avrebbe portato.

    Non sarei mai uscita con uno come David.

    Nella mia mente e nel mio cuore c’era solo spazio per Michael.

    Ma questo io non glielo avevo detto.

    Mai.

    Il senso di colpa è infido. È come strisciare a una decina di metri sotto terra. È come essere rinchiusi in una prigione... solo che, per quanto tu possa provare a scappare, è solo attraverso il perdono altrui che potrai essere scagionato. È un peso sulle spalle. È la paura di perdere per sempre la persona che ami.

    Quando tornai a casa era tardi e i bambini erano già andati a dormire. Non volevo incrociare Michael neanche per caso, passeggiando tranquillamente per il corridoio, non quel giorno. Dovevo ragionare a mente fredda e da sola. Perciò, per tutta la mia camminata dal corridoio alla mia camera, ebbi il cuore in gola.

    Non era giusto. Michael non doveva essere così geloso di me e delle persone che decidevo di frequentare. Lui era stato quasi due settimane con Joanna, la sua ragazza, ignorandomi completamente. Michael non si era mai fatto scrupoli e non aveva rinunciato alla compagnia di quella donna, se non quando aveva capito che mi stavo distaccando sempre di più. Era stato egoista e si era meritato quel rimprovero da parte mia, quel pomeriggio. Eppure… eppure mi sentivo un’idiota.

    Rimasi sveglia fino a tarda notte, a girarmi e a voltarmi sul materasso fino a disfare le coperte. Non riuscivo a rimanere ferma né tanto meno a chiudere gli occhi ed obbligare me stessa a prendere sonno. Nemmeno l’assurda convinzione che il giorno dopo avrei potuto parlare con Michael – sperando che magari sarebbe stato più disposto a comunicare con la sottoscritta – fu sufficiente a tranquillizzarmi. Perciò mi alzai, indossai le ciabatte e uscii dalla porta della mia stanza; mi avviai verso la camera di Michael con il cuore che pulsava nelle tempie e lo stomaco che mi faceva un male terribile per l’ansia che provavo.

    Nell’istante in cui mi arrestai dinanzi alla porta, divenni una statua di ghiaccio. Il terrore di sentirmi rifiutata mi gridava di scappare lontano. Alzai la mano per bussare, ma la tenni a lungo sospesa in aria, senza decidere che fare: da una parte potevo fuggire, dall’altra potevo rimanere e sfidare i miei dubbi. Di sicuro non avrei chiuso occhio fino alla mattina seguente, non se non ci avessi provato.

    Mi decisi e bussai.

    Nessuna risposta.

    Bussai con più energia.

    Silenzio.

    E ancora silenzio.

    Sentii una fitta ancora più dolorosa allo stomaco. Mi invitai a non trarre conclusioni affrettate – mi imposi di non lasciarmi andare al pessimismo – ma non ce la feci. Mi sentii piombare in una tristezza incredibile. Ero triste, ma ero anche arrabbiata.

    Tentai di inspirare ed espirare con calma, ma il fiato si mozzò in gola.

    E così me ne andai.

    *

    La mattina dopo mi svegliai alle cinque.

    Con il passo pesante ero tornata in camera ed ero riuscita a dormire dall’una di notte in poi. Mi ero svegliata spesso. Alle cinque in punto, difatti, mi arresi: smisi di obbligarmi a dormire. Non ce la facevo e basta. Perciò andai in bagno, mi cambiai e decisi di fare colazione prima del previsto. Non aveva senso restare a guardare il soffitto fino a ricordare le rifiniture del legno a memoria.

    Scesi le scale senza fare troppo rumore. Bevvi un bicchiere di latte e mangiai una fetta di pane con la marmellata. Dopo aver guardato il buio al di fuori dalla finestra della cucina, ticchettando le dita sulla tazza in ceramica, pensai di andare a leggere qualcosa nella mia stanza. Non aveva senso rimanere là, nell’illusione di incontrare Michael da un momento all’altro.

    Poi la sorpresa. Notai che l’enorme veranda del salotto – quella che portava in giardino – era aperta. Un dettaglio che scendendo non avevo notato.

    Istintivamente temetti l’entrata in scena dei ladri, ma poco dopo scossi la testa ridacchiando tra me e me. Un pensiero stupido, effettivamente, considerando che il Ranch era controllato 24 ore su 24. Non pensavo che Michael fosse sveglio e che avesse deciso di farsi una passeggiata, ma magari qualcuno l’aveva dimenticata aperta la sera prima.

    Invece che serrarla e basta, andai a prendere una giacca e uscii a fare una passeggiata. Appoggiai la porta a scorrimento sullo stipite, lasciando entrare uno spiffero di aria in casa... onde evitare di rimanere chiusa fuori fino alle otto di mattina.

    Presi un bel respiro.

    Faceva freddo ma non troppo. Maggio stava arrivando e con lui anche le giornate più calde, così come le mattine più tiepide. La notte riempiva ancora il cielo con la sua oscurità, ma un sottile chiarore ad est indicava che presto sarebbe giunta l’alba. Gli uccellini non cantavano ancora. Tutto era coperto dal silenzio.

    Camminai. Camminai a lungo, senza una meta precisa, e pensai.

    Pensai anche troppo.

    Ciò nonostante – probabilmente a causa della stanchezza – non riuscivo a provare rabbia o tristezza come la sera precedente. Mi sentivo svuotata. Mi sentivo fisicamente spossata, ma il cervello non mollava la presa e mi stritolava le meningi con le sue riflessioni cupe e profonde.

    Aumentai il passo fino a quando, immersa nel buio, non sentii qualcuno chiamarmi.

    Mi paralizzai di colpo, spaventata. Mi guardai in giro senza scoprire nessuno. Per un attimo ebbi il terrore di venire assalita da qualcuno di temibile come...

    «Che ci fai qui?» chiese la voce in lontananza, curiosa.

    … come Michael.

    Il sangue riprese a scorrere nelle vene e il cuore a battere in petto. Rimasi immobile, non capendo da dove diavolo mi stesse parlando. Per non fare figuracce – più di quante non ne avessi già fatte in sua presenza – rimasi zitta.

    «Sono qui, Sarah» lo udii sopra di me. «Sono sopra questo albero, alla tua sinistra».

    Mi parve di sentirlo ridacchiare, ma la convinzione di saperlo arrabbiato con me m’impedii di udire la sua risata con chiarezza.

    Alzai il capo nella direzione che mi aveva indicato e finalmente lo vidi. Michael era seduto su un albero, più rilassato di quanto immaginassi, nascosto nella semioscurità dei grandi rami. Strinsi un po’ gli occhi per distinguerlo. Quando lo vidi ebbi un fremito.

    «Ciao» sussurrai.

    Inarcò le sopracciglia. «Ciao».

    Volli parlare, ma non ci riuscii. Un incontrastato silenzio gravò su di noi e sulla distanza che ci divideva, facendola apparire più insopportabile di quanto non fosse già.

    «Ti va di salire?» chiese Michael.

    Lo guardai umettarsi le labbra. La sua serietà mi dava uno straordinario senso di inquietudine. Lo sguardo mi penetrava la pelle.

    «Mi dispiace» sorrisi rammaricata. «Ma io non salgo sugli alberi».

    Spalancò le palpebre. «Non sei mai salita su un albero?».

    Fece per scendere.

    «No, non proprio...» mi avvicinai piano, fissando il tronco. «Qualche volta ci ho provato, ma non arrivavo... non arrivavo dove sei tu... se ci provassi ne uscirei terrorizzata!» sogghignai nervosamente.

    Michael roteò gli occhi al cielo accennando un sorriso. Scese scattante come un ragazzino, fin troppo agile per un quarantacinquenne comune. Lo osservai toccare il suolo con un saltello e mi venne incontro con le mani nelle tasche; indossava pantaloni di velluto e una camicia verde scuro, quasi del tutto coperta da una giacca di tuta larga e rossa: amavo la sua stravaganza nel vestirsi, molto più di quanto dessi a vedere.

    Si arresto al mio fianco e si dondolò avanti e indietro col busto, umettandosi le labbra. Tutt’e due ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Il silenzio non ci era mai pesato, ma in quell’occasione sì.

    Mi indicò l’albero con un cenno della testa. «Avanti, prova».

    «A fare cosa?».

    «A salire sull'albero».

    Impallidii. Scossi il capo, sorridendo.

    «No, no, grazie... è troppo alto, ho paura...»

    «Non ti succederà niente, ti reggo io» disse comprensivo. Michael indossò un’improvvisa maschera di rassegnazione mista ad amarezza e cordialità. Sospirò. «Prova almeno a fidarti di me...»

    Volli controbattere ma qualcosa – forse il suo sguardo terribilmente profondo, forse la mia voce bloccatasi in gola per codardia – mi impedì di farlo. Schiusi le labbra ma non emisi un fiato. Guardai la folta chioma dell’albero e mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

    Arrossii. «Non credo di potercela fare...» m’appoggiai al tronco.

    «Ce la farai, ti sono dietro» mormorò l’altro alle mie spalle.

    Quando mi girai a tre quarti, per guardarlo negli occhi, tremai impercettibilmente: sfiorai il suo petto con una spalla e quel contatto mi smarrì nel modo più totale. L’incontro con i suoi due oceani scuri mi portò a fronteggiare nuovamente l’albero, da brava codarda qual ero. Non riuscii a comprendere cosa mi volessero comunicare.

    «Metti un piede qui, così...».

    «Qui?»

    «Sì... forse un po’ più a destra, ecco, brava. Issati e butta l’altro piede qua. Non rischi di scivolare se ti togli le ciabatte»

    Feci come mi consigliò.

    «Quest’albero sembra che abbia degli scalini!» sbottai meravigliata. «È figo!»

    Ridacchiò leggermente. «Sì, hai ragione...»

    Un dubbio mi penetrò la mente nel momento in cui mi sollevai ad un metro da terra. Scrutai Michael, evitando di concentrarmi sull’incombente senso di vertigine. Gli scoccai un’occhiata perplessa che comprensibilmente non fu capace di comprendere. Dopo tutto quel tempo in cui ci conoscevamo, per la prima volta mi sentii in soggezione all’idea che mi guardasse il fondoschiena.

    Non che fosse un sedere straordinario, però...

    «Hai paura?» chiese Michael preoccupato.

    La sua mano destra scivolò sulla parte più bassa della schiena, sulla curva formata dalla colonna vertebrale, come se stesse tentando di reggermi da un’imminente caduta. Le dita premevano sulla giacca. La stretta era forte e sicura, ma non aggressiva.

    «No» sussurrai. «Va tutto bene...»

    «Sei sicura?»

    Desiderai scuotere la testa.

    «Sì, tranquillo».

    Ma Michael non mi mollò. Con un bel respiro, ancora scombussolata, borbottai un «Ok, ora salgo» per niente convinto. Proseguii nella mia scalata diretta a un ramo che pareva avere la forma di una sedia, seguita da un Michael piuttosto premuroso.

    «E se perdo l’equilibrio?» balbettai ad un certo livello d’altezza, quasi arrivata a destinazione. «Se mi lascio andare e mi spacco la testa?»

    Sogghignò. «Credo che moriremo tutt’e due. Sono proprio sotto di te, quindi se cadi travolgi anche me».

    «Oh, che gioia...» bofonchiai sarcasticamente, quasi piagnucolando. La voce mi tremava quanto le gambe. «Stranamente la cosa non mi consola. Preferisco saperti vivo piuttosto che morto».

    Michael non rispose. Quando mi resi conto di ciò che avevo appena detto, arrossii vistosamente.

    Con una leggera spinta mi permise di issarmi e sedermi su quel ramo a forma di sedia. Non mi toccò il fondoschiena, da vero gentleman che era, ma mi tenne per una gamba afferrandomi il polpaccio. Sudai sette camicie per sedermi comodamente e Michael rise della mia goffaggine. Non appena mi fu accanto, gli afferrai il braccio con una mano e con l’altra mi tenni stretta al ramo. Guardai in basso e lui mi osservò senza dire una parola.

    Tremai dalla paura.

    «Mi sa che da qui non scendo più... vivrò sopra quest'albero fino alla fine dei miei giorni...» balbettai.

    Michael mi afferrò la mano con la quale mi reggevo a lui.

    «Sei stata eccezionale» sussurrò sorridendo. «Sono fiero di te. Vedrai che, ora che sei salita, scendere sarà una passeggiata!»

    Scossi la testa, inspirando ed espirando lentamente.

    «Non credo proprio...»

    Affondai il viso nella sua felpa.

    Sentivo il calore di Michael. Lo percepivo respirare.

    Curiosamente scrutai un raggio di sole che faceva capolino oltre l’orizzonte. Anche Michael rimase a fissare il lieve bagliore che si stava innalzando in cielo, dando inizio a quel magnifico fenomeno chiamato “giorno”.

    «Ti piace l’alba, Sarah?»

    «Uhm... abbastanza» mormorai. Mi guardò osservare il cielo. «Purtroppo non sono una persona mattiniera, ma mi piace. Le tenebre danno spazio alla luce... la vita riprende il suo corso...»

    «Anche di notte la vita continua», puntualizzò.

    «Sì, questo è vero...»

    «Basta che vedi noi due, che spendiamo notti intere a parlare e ridere invece che dormire. Guarda me, che nella notte trovo una compagna fedele». Sorrise. «Io e te siamo due animaletti notturni».

    «Un gufo e una civetta, insomma...»

    Michael rise di gusto e pregai affinché stesse fermo il più possibile, visto che era il mio porto sicuro.

    «Un gufo e una civetta?» mi fissò stupito, a bocca aperta.

    Annuii.

    Inarcò un sopracciglio. «Lo sai che gufo e civetta sono simboli della chiaroveggenza?»

    «Davvero?»

    «A quanto pare sì... lo lessi una volta in un libro, era davvero interessante. Spesso vengono associati alla magia e a coloro che la sanno usare. Simboleggiano l’illuminazione che permette la risoluzione di un problema. La civetta, avendo uno sguardo che perfora le tenebre, la si accomuna alla luce. Al gufo invece spetta una connotazione negativa... è detto “uccello del malaugurio”, annunciatore di morte. Anche per gli egizi era simbolo di morte», ridacchiò.

    «Ah no, allora niente gufo», scossi il capo. «C’è bisogno di un altro animale notturno... uhm...».

    «Che ne dici del barbagianni?», sbottò Michael in tono da finto intellettuale.

    Mi sbellicai. Egli mi scrutò con preoccupazione vedendo che non riuscivo a fermarmi... l’immagine di lui associata a quella del barbagianni, aggiunto alla simpatia insita nel nome di quel rapace, mi fece venire le lacrime agli occhi.

    «Che c’è?», esclamò Michael emettendo uno spasmo di risata.

    «Scusa, mi immaginavo te col barbagianni sulla spalla...», sogghignai con una mano sulla bocca. La sventolai sul viso per farmi aria e, sempre sorridendo, dissi: «Non ti starebbe neanche male, avete gli stessi occhi profondi e scuri!»

    Sorrise. «Se per quello anche a te la civetta dona...»

    «Sì, perché abbiamo lo stesso sguardo da pazze psicopatiche», risi abbandonando il capo all’indietro.

    «No, sciocca...» sogghignò Michael. Mi dette un buffetto sulla guancia. «Avete gli stessi occhi grandi... e in più la civetta è l’animale di Harry Potter»

    «Edvige...».

    «Sì, Edvige...», sorrise.

    Sospirai e lo fissai in silenzio. «Comunque il barbagianni ti sta bene. Ti dà un’aria più autoritaria... più matura... e ti rende più sexy!», sentenziai battendogli una mano sul ginocchio.

    Michael se la rise per un paio di minuti, imbarazzato ma segretamente rallegrato da quella constatazione. Per un po’ di tempo eravamo riusciti a comportarci come se non avessimo litigato.

    Decisi di farmi coraggio e parlare.

    «Michael...» pigolai con un filo di voce. Notai che mi stava esaminando da parecchio. Arrossii. «Sei arrabbiato con me?».

    Non fece una piega.

    Abbassai lo sguardo.

    «Scusa...»

    La totale assenza di rumori non mi aiutava affatto a concentrarmi. Mi pettinai i capelli con una mano, mentre imponevo a me stessa di non fare scena muta.

    «Non volevo attaccarti sul personale, tantomeno infierire sulla tua storia con Joanna. Non sono affari miei. E in più ho usato un tono molto scortese. Inoltre… non ho mai avuto intenzione di uscire con quel ragazzo, David. Quando ti ho comunicato che forse ci sarei uscita, avevo già le idee chiare da un pezzo. Non sento il minimo interesse per lui e non voglio illudere nessuno, perciò no, non andrò all’appuntamento.

    Quello che mi hai detto è giusto e io stessa non mi fido di quel tizio. Tuttavia non ho trovato corretto che tu mi trattassi in quel modo, come se fossi una bambina». Presi fiato. Non volevo intrecciarmi con i suoi occhi. «Il modo in cui mi hai guardato mi ha stizzito e così ho detto la prima cosa che mi passava per la testa. Mi rendo conto di essere stata un po’ velenosa. Per quello ti chiedo scusa».

    Mi persi nel colore verde scuro dell’erba mattutina, non ancora illuminata dal sole. Per un attimo desiderai scendere e camminarvi sopra scalza, per sentire una delle sensazioni che più amavo al mondo e mi facevano sentire viva.

    La grande mano di Michael accarezzò la mia. Lanciai un’occhiata alle sue dita – che amavo profondamente – le quali teneramente mi sfioravano il dorso dell’arto. Sussultavo e non per il freddo.

    Lo adocchiai.

    Sembrava rammaricato quasi quanto me. Rammaricato, sì, ma anche sollevato.

    «Dispiace anche a me. Non volevo farti sentire una stupida. Ho sbagliato anche io, non dandoti fiducia». Si bagnò le labbra. «Ricordati che ti voglio bene, ok? Solo questo… sempre».

    Annuii con energia.

    «Bene», gli angoli delle labbra s’incurvarono all’insù. «Siamo migliori amici, no?».

    Mi dette una leggera carezza sotto il mento.

    Di colpo m’incupii.

    «Michael...» mormorai. «Hai mai pensato – da quando mi conosci – di non volere avere più a che fare con me?». Sospirai. «Non so come spiegarmi...»

    Mi strinse la mano. Gli gettai un’occhiata di sottecchi e notai che non la smetteva di fissarmi. Era perplesso, pensoso e silenzioso, ma poco dopo il suo sguardo si indurì.

    «No, Sarah. Perché dovrei?», disse aggrottando le sopracciglia.

    Arrossii. «Mi sento male quando mi allontani. Io ti... be’, forse te lo dicono tutte le persone che hai attorno… e non tutti quelli che dicono di tenerci sono – »

    Michael mi interruppe, prendendomi il viso fra entrambe le mani. Si avvicinò notevolmente ad esso e i suoi occhi parvero accendersi. Sentii la stessa scintilla impossessarsi del mio sguardo.

    «Sarah, tu cosa?» domandò attraversandomi con lo sguardo.

    Sembrava speranzoso, ma anche agitato.

    Fui incapace di rispondere.

    Mi sentivo in trappola.

    Allentò la presa sulle mie guance senza scostarsi e, con un grande sospiro, spense quel bagliore di impazienza negli occhi.

    «Non credi al fatto che io ci tenga veramente a te? Pensi che potrei abbandonarti e dimenticarti facilmente?», bisbigliò con voce bassa e roca.

    Mi si contrasse lo stomaco.

    Sputai la verità. «Qualche volta».

    Rimase serio, impassibile, mentre io lo puntavo con visibile timore. Dopodiché fece un gesto che non avrebbe dovuto compiere: si umettò le labbra. A quel punto il mio sguardo scivolò su di esse e il cuore eseguì un triplo salto mortale in petto.

    Michael scosse il capo e sorrise piano, ironicamente.

    «Sei proprio ingenua».

    Mi offesi.

    «Perché?», increspai la fronte.

    Sorrise ancora, ma evitò di rispondere. Rimane zitto a pensare. Tolse le mani dal mio viso e studiò a lungo l’orizzonte. I suoi occhi erano accesi da un’emozione che non capivo. Aveva un sorrisetto stirato... nervoso...

    «Io non ti lascerei mai...», sussurrò con un fremito.

    «Non hai mai dubitato di questo?».

    «Mai», mi uccise con la sua amorevolezza. Guardava il sorgere del Sole. «Mai una volta in cui avrei voluto smettere di abbracciarti. Mai una volta in cui avrei voluto dimenticarti... tu sei stata e sei ancora l’unica eccezione».

    Feci una faccia stranita.

    Ridacchiò senza divertimento. «Un giorno capirai...».

    «Capirò cosa?»

    Non ci fu risposta.

    «Michael...», lo presi per il braccio con un’adrenalina nel corpo che, ingenuamente, definii curiosità. «Che cosa capirò?»

    Insiste a starsene zitto!

    Lo tirai per la felpa. Finse di non sentirmi.

    Decisi di fare la ruffiana, tirando fuori la piccola e ammaliante volpina che c’era in me.

    «Non me lo puoi dire …?», dissi quelle parole in modo bambinesco e carezzevole.

    Gli accarezzai il braccio e Michael sembrò reagire alla provocazione; inclinò il capo in mia direzione, scoccandomi un’occhiata interessata e allarmata al contempo stesso. Spalancai gli occhi sorridendo furbescamente, aggrappandomi al suo arto.

    «Daiii... Michael...» lasciai cadere la testa da un lato. Lui arrossì e cercò di evitarmi. «Me lo dici…?»

    Provò a separarsi da me, ridacchiando, rispondendo con un moto di timidezza improvvisa. Sogghignando alzava le spalle e cercava di coprirsi la bocca con le mani; anche se trovavo il suo gesto estremamente adorabile, volevo soltanto che mi rivelasse i suoi più oscuri segreti.

    «No, non ci provare!» mi ammonì puntandomi un dito contro, ritirandosi in se stesso e gettandomi un rapido susseguirsi di sguardi carezzevoli. «Non provare a fare questo a me!»

    «Allora dimmi tutto!», lo cercai senza darmi per vinta. Poggiai il mento sul suo braccio ed egli smise di dimenarsi; m’osservò con un'espressione indefinibile. «Mi hai stuzzicato e ora voglio sapere!»

    Silenzio.

    «Mi dispiace», scosse il capo.

    Odiavo quando una persona faceva la vaga dopo aver aizzato così tanto la mia curiosità… perciò mi arrabbiai. Sollevai un sopracciglio con fare molto significativo, dopodiché – non appena capì di avermi irritato – portai lo sguardo sul terreno. Decisi di scendere dall’albero.

    «Dove vai?» domandò stupito.

    «Scendo».

    «Ti farai male, Sarah...» disse espirando rumorosamente.

    Lo ignorai e goffamente mi aggrappai al tronco, coi piedi ben piantati su due rami dell’albero. Fissai il basso alla ricerca del coraggio.

    «Non fare la bambina testarda, me lo hai detto tu che soffri di vertigini! E se ti cadi e ti fai male?»

    «Amen!» esclamai seccata. «Vorrà dire che è giunta la mia ora».

    Pian pianino trovai il modo di scendere senza fissare il vuoto sotto di me: il metodo migliore per uscire viva da quella situazione era utilizzare tutti i sensi esclusa la vista. Era un procedimento lungo, considerando che mi tremavano le gambe dalla paura, ma ero disposta a fare quel sacrificio.

    «Non sei spiritosa, per nulla...» mormorò incupito.

    Lo linciai con un’occhiataccia: era indeciso se ridere o arrabbiarsi per quel mio gesto insensato. Non me ne fregava assolutamente nulla.

    «Come farai a scendere senza il mio aiuto?» domandò inarcando le sopracciglia.

    «Per tua informazione, come vedi, sto già scendendo!» sbottai. «E ora lasciami concentrare, altrimenti cado veramente e muoio!»

    Michael roteò gli occhi al cielo e si bagnò le labbra. «A volte io non ti capisco...» scosse la testa sbalordito. La sua espressione si fece seria e stizzita. «Anzi, penso proprio che non mi capirai mai»

    Questa l’ha detta grossa.

    «Bene», sibilai.

    «Bene».

    «Bene», concludemmo fulminandoci a vicenda.

    Sebbene mi stessi concentrando su come scendere, la mia mente era posseduta dal pensiero di Michael; sentivo le sue iridi luccicanti su di me – o almeno speravo che così fosse. Pensava che non lo avrei mai compreso? Ottimo. Si divertiva a fare il vago? Perfetto. A maggior ragione avevo deciso di non parlargli più.

    Eravamo come due bambini dell’asilo.

    Finalmente scesi dall’albero e tirai un sospiro di sollievo. In silenzio mandai Michael a quel paese e senza salutare feci dietrofront, in direzione del residence. Tornai indietro quando mi ricordai di aver dimenticato le ciabatte vicino al tronco dell’albero. Le indossai e feci dietrofront una seconda volta, dirigendomi impettita verso casa.

    Non avevo più voglia di stare con lui.

    «Sarah, fermati un secondo...»

    Michael era tornato a terra in un battibaleno.

    «Oh, già qua?», domandai con sarcasmo. «Che è successo? Hai subito una trasformazione? Da gufo sei diventato un camoscio ora?»

    I miei passi erano lunghi e veloci nella speranza di seminarlo. Lo sentii soffocare una risata nel vano tentativo di rimanere serio e concentrato nel discorso.

    «Non fare la stupida, e fermati... ascoltami almeno!»

    Arrivò a prendermi per le braccia e a bloccarmi sul posto. Si pose davanti a me come se niente fosse, aspettando che lo guardassi... invece puntai il Sole che sorgeva. Deglutii a fatica, ansimante.

    «Mi guardi un attimo negli occhi, per favore?», mormorò dolcemente.

    Il suo tono non poté far altro che catturarmi. Non ero più risentita ma avevo paura di lui, del modo in cui mi guardava. Era troppo concentrato su di me... troppo... e questo mi avrebbe fatto morire, prima o poi.

    La sua fronte si rilassò e con essa tutti i lineamenti del suo viso. Si mordicchiò un labbro.

    «Mi dispiace averti detto che non mi capirai mai, ma talvolta lo penso. Anche la mia bocca ogni tanto fa uscire cose che non dovrebbe dire...».

    La stretta sulle mie braccia si allentò e in automatico anche le nostre espressioni si rasserenarono. Il corpo vibrò ad energie così intense che mi sentii improvvisamente spossata, stanca, desiderosa di andare a dormire e non svegliarmi per un bel paio d’ore. Michael risucchiava ogni particella d’amore che c’era in me e la rendeva sua, pur sempre donando una quantità d’affetto inebriante.

    Chiuse gli occhi. «Ora non me la sento di parlarne, ma prometto che un giorno lo farò. Presto, molto presto... sii paziente...». Prese un bel respiro, mi squadrò. «Promettimi che aspetterai, e che ti ricorderai delle mie parole».

    La sua preghiera mi rese priva di forza.

    Annuii debolmente.

    Michael sorrise e mi abbracciò piano.

    Mi strinsi nella sua giacca rossa.

    Per un attimo desiderai fondermi con lui. Non nel senso fisico del termine, ma proprio a livello emotivo e spirituale. Sentivo la spina dorsale pervasa da dolci sussulti.

    «Ti avevo detto di non dimenticare mai che ti voglio bene...» mi rimproverò, «devo ripeterti quanto sei importante per me ogni giorno?»

    Scossi la testa. «No, non pretendo così tanto...» bofonchiai, con il viso infossato fra i suoi capelli e l’incavo del collo. «Delle volte ho solo... paura...»

    «È normale, Moony» mormorò piano.

    Sentì il mio tremore.

    «Preferisci tornare in casa? Hai freddo?», lo percepii sorridere.

    Allontanai il viso e Michael continuò a stringermi; le mani mi cingevano la schiena e non mi lasciavano andare. Guardai il cielo nel vano tentativo di ignorare le sue attenzioni, determinata a non arrossire più di quanto non stessi già facendo.

    Una sua mano risalì la schiena, mentre con l’altra mi sfiorò una guancia. Illuminato dalla pallida luce del giorno ormai iniziato, Michael era ancora più affascinante di quanto già non fosse. Se io ero la Luna del suo cuore, allora Michael doveva essere per forza il Sole.

    «Hai veramente uno dei visi più belli e particolari che io abbia mai visto in vita mia» puntualizzò seriamente.

    Ridacchiai. «È la quarta volta che me lo dici in un mese».

    «Due, non esagerare».

    «Ok, due...» roteai le iridi verso l’alto. Feci una smorfia significativa. «Ma ti piaccio davvero così tanto?».

    Michael emise un “Mmh” pensoso, storcendo la bocca in un’espressione fintamente meditabonda.

    «Non è che mi piaci...».

    Mi legò a sé con vigore. Percepii il suo capo appoggiarsi sulla mia spalla, mentre abbandonavo la testa all’indietro. Michael mi sfiorò l’incavo del collo con le labbra e io non ci capii più nulla; il cuore si era fermato in gola.

    «È che mi fai impazzire…» confessò con voce rauca.

    Istintivamente chiusi gli occhi. Trattenni un gemito soffocato mentre invocavo tutti i Santi che conoscevo e che inventai sul momento affinché mi salvassero dall’imminente catastrofe.

    Sorrisi e ironizzai. «L’ho sempre saputo che ti facevo questo effetto...».

    «Mi hai scoperto, razza di piccola adulatrice».

    E di colpo mi accorsi che qualcosa stava cambiando.

    Era qualcosa che non avevo previsto.

    Michael soffocò il suo stesso respiro e sciolse l’abbraccio.

    Avevo la tipica espressione di una a cui è stata data una botta in testa. Fissavo il vuoto senza parlare. Nessuno dei due ebbe il coraggio di cercarsi per tre secondi di seguito, ma almeno Michael era decisamente più bravo a fingere serenità... a parte per le mascelle serrate, il sorriso teso e il volto arrossato. Se questi si possono chiamare indici di serenità...

    Quello tsunami di emozioni mi impediva di muovere un passo verso di lui o lontano da lui: in un modo alquanto incredibile e inconcepibile, ero incollata alla presenza di Michael. Legata da una catena invisibile, da un filo rosso, da un sentimento troppo grande per poter essere sostenuto senza barcollare.

    Mi venne da piangere.

    «Torniamo dentro, che ne dici?», si bagnò le labbra e mirò alla mia collana con la mezza Luna.

    Annuii.

    Mi prese per mano. Gli unici rumori che ci accompagnavano erano il debole cinguettio degli uccellini e lo scrosciare dell’acqua di una fontana in lontananza. L’aria che si respirava era fresca e gentile. Eppure dentro la mia testa c’era il caos più totale.

    Che mi sta succedendo?

    «Sai, a volte prego Dio affinché possa aiutarmi a sostenere il bene che ti voglio, ma neppure lui sa quanto ti amo», mormorò guardando avanti, scuotendo impercettibilmente la testa e arrossendo. «Non credo che riuscirà a salvarmi da te».


    Edited by fallagain - 6/4/2020, 13:38
  7. .
    Capitolo Ventisei: La Gelosia

    Sbuffando, posai il telefono sul comodino.

    Michael, il quale se ne stava comodamente seduto sul mio letto a gambe incrociate, mi scrutava curioso. Dondolava avanti e indietro col busto. La sua faccia era lo specchio dell’indifferenza… in apparenza.

    «Dalla voce la tua amica Margaret sembra una persona simpatica».

    Lo guardai storto, anche se divertita dal suo atteggiamento. Sapevo benissimo dove voleva arrivare a parare.

    Con lo scorrere delle settimane era tornato tutto alla normalità. La scuola procedeva più che bene per i bambini. Mi dedicavo alla loro educazione con tutta me stessa. Nel frattempo, Michael passava il tempo tra un impegno di lavoro e l’altro – si dedicava soprattutto alla raccolta di canzoni che di lì a qualche mese avrebbe pubblicato, The Ultimate Collection. Avevamo ridotto l'orario dei nostri incontri serali di qualche mezz'ora, finendo di chiacchierare massimo per le 23.00, esclusi i weekend.

    Era una sera di metà marzo 2004. Margaret mi aveva chiamato per sapere come stessi… ma, soprattutto, per sapere se quel David mi avesse cercato. Michael era rimasto con me tutto il tempo, tirando l’orecchio, e quando aveva udito quella particolare domanda mi aveva guardato sorpreso. Ma lo stupore era presto scemato in perplessità, e la perplessità si era trasformata in freddezza.

    «Che cosa c’è, Michael?»

    Storse un po’ il naso, proprio come avevo previsto.

    «Non mi avevi detto di aver incontrato un uomo, quel weekend a Los Angeles», mormorò con distacco, lanciandomi uno sguardo che avrebbe potuto inchiodarmi al muro.

    Socchiusi le labbra, sorridendo. «Ma… è un tizio qualsiasi!», risi, dandogli un buffetto sulla spalla, «Se fosse stato qualcuno di importante te lo avrei detto certamente. Sei il mio migliore amico, è ovvio che ti dico tutto».

    «Sei perfida, ragazza» mormorò a voce bassa. Si era un po’ offeso. «E soprattutto sei ingiusta».

    Inizialmente pensai che fosse semplicemente arrabbiato con me perché non gli avevo raccontato niente. Perciò, con un “Mmh” spazientito, feci roteare gli occhi verso l’alto. Mi sedetti di fronte a lui e Michael non fece una piega, pur non smettendo di osservarmi.

    «Ti racconterò tutto, allora». Battei le mani sulle cosce e gli rivolsi un sorriso tranquillo. «La prima e ultima volta che “questo David” mi ha chiamato è stata una settimana fa, per assicurarsi che fossi viva, a detta sua». Emisi un risolino divertito. Michael invece no. «L’ho incontrato in un bar con Margaret e ha insistito affinché ci scambiassimo i numeri».

    «E che tipo è?»

    Feci uno sforzo per ricordarmi come fosse. «Se non ricordo male è un tipo alto. Occhi azzurri, capelli castani. Magro, ma non troppo. Onestamente non rispecchia il mio tipo di uomo ideale. Ha un aspetto un po’ troppo infantile, nonostante abbia trent’anni».

    «Caratterialmente, intendo…», sussurrò con voce grave.

    «Mmh…». Feci spallucce. «Non ne ho la più pallida idea».

    Arcuò un sopracciglio.

    Stetti un attimo in silenzio, indecisa se proseguire con il discorso o meno. Non sembrava molto felice. Probabilmente mi pensava una sprovveduta, ma in quel caso non c’era da preoccuparsi. Di sicuro non avrei fatto il passo più lungo della gamba con uno sconosciuto. Non così su due piedi.

    «Perché quella faccia?», mi chinai in avanti, perplessa. Poi gli mostrai un sorriso, quello di chi la sa lunga. «Potrei quasi dire che tu sia geloso di me…».

    Evitò di rispondere.

    «Stai attenta», disse con tono serio. «Potresti avere incontrato un maniaco e non essertene neanche resa conto. Sii cauta, mi raccomando».

    Fui io a sollevare un sopracciglio, udendo quella frase. La sua espressione non cambiò di una virgola.

    «Mi stai dicendo che sono una stupida?»

    Scrollò le spalle.

    Spalancai la bocca. «Ma, Michael… non sono mica così incosciente!», esclamai basita. «E poi figurati se mi butto fra le braccia del primo che passa per strada! Non ci ho manco fatto una conversazione come si deve! Mi ha chiamato un mese dopo esserci “conosciuti”», feci il segno delle virgolette con le dita. «E se fosse un maniaco, mi avrebbe già tartassato di chiamate e domande fin da subito, no? Sono sicura che non mi pensa più!»

    Michael si umettò le labbra, incrociando le braccia al petto, e mi guardò di soppiatto.

    Gli poggiai una mano sul ginocchio. «Stai tranquillo. Non credo di interessargli. E neanche a me interessa, onestamente».

    Fece scoccare la lingua al palato. «Io non sono molto convinto, ma mi fido del tuo giudizio».

    Qualcosa in quella sua frase non mi convinceva. Anzi, diciamo che non mi piaceva proprio per niente. Era il suo atteggiamento nel complesso che mi irritava. Era geloso e non me lo voleva dire in faccia. Mi pensava una bambina di due anni e intanto diceva “Mi fido del tuo giudizio”, anche se in realtà non credeva manco ad una parola che avevo detto.

    Tolsi la mano, offesa.

    «Bene» dissi piano. Scostai gli occhi dai suoi – i quali improvvisamente mostrarono preoccupazione – e mi alzai in piedi. «Forse è meglio che ora io vada a dormire».

    Mi avviai verso il bagno.

    «Aspetta...», allungò un braccio.

    «Aspetta un corno! Si vede che me lo dici tanto per dire. Buonanotte!» sbottai dispiaciuta e irritata assieme, camminando veloce. Si era alzato in piedi, ma non mi impedì di andarmene.

    Con foga mi diressi verso la porta del bagno, intenzionata a nascondermi all'interno, in attesa che lui se ne andasse: non avevo più intenzione di parlarci, a meno che non si fosse deciso a dirmi quel che doveva dire – o almeno ci speravo. Volevo sentirmi dire che era geloso.

    Mi chiusi dentro e girai la chiave, rumorosamente, sbuffando. Rimasi appoggiata alla porta con le orecchie ben aperte, attenta a qualsiasi suono, per sentire cosa avrebbe fatto.

    Non ci fu nessun rumore per parecchio tempo. Qualche minuto dopo la porta della mia camera si aprì con uno schiocco, e il rumore della maniglia che si abbassava mi fece comprendere che se ne stava andando. La richiuse piano.

    Non udii più un passo.

    Michael se n’era andato.

    Indietreggiai e mi allontanai dalla porta. Mi sorressi al lavabo per guardare la mia immagine allo specchio: la mia espressione era un mix di delusione e risentimento. Mi pentii subito per ciò che avevo fatto.

    Mi lavai i denti e il viso ed uscii dal bagno. Pregai che Michael fosse lì ad aspettarmi, nascosto da qualche parte, o seduto sul letto... solo la debole luce del comodino mi faceva compagnia.

    Mi aveva lasciato lì come un’idiota.

    Lui era l'idiota.

    E solo perché era testardo.

    Presi il pigiama adagiato sulla sedia, quella accanto alla scrivania. Mi spogliai di jeans, maglia e pure reggiseno – mi dava un enorme fastidio dormire con quell'indumento – e mi coricai a letto pensierosa... pensierosa e ferita da Michael che stupidamente non si era curato di restare o parlare con me, come una persona adulta.

    Non che io però, fuggendo, fossi stata più matura di lui…

    Chiusi la luce e mi coricai a letto. Ero agitata come non mai, tanto da non sapere in che posizione stare. M’allungai per bere un sorso d'acqua dal bicchiere sul comodino. Prima che potessi raggiungerlo, due mani mi cinsero i fianchi, facendomi più o meno cadere dal letto. Emisi un urlo stridulo. Rimasi attaccata al pavimento con le mani, evitando un frontale diretto con il parquet, mentre il resto del corpo rimase ben saldo al materasso.

    Mi tirai su con un'espressione sconvolta e i capelli scompigliati... e quell'idiota di Michael che se la rideva al mio fianco a causa dei suoi scherzi cretini!

    Riaccesi la luce.

    Lo fulminai con un’occhiata, ma Michael se ne fregò completamente: lo scemo continuò a ridere a crepapelle. Aveva il capo nascosto fra le braccia, le quasi se ne stavano appoggiate alla sponda opposta del letto. Le spalle sobbalzavano per via degli spasmi di ridarella acuta. I vestiti erano quelli di prima. Michael non se ne era mai andato da quella stramaledetta stanza.

    «Da dove spunti fuori?!» stridetti con un'ottava più alta rispetto al solito, quasi fastidiosa da udire, sbarrando le palpebre.

    Alzò la testa con le lacrime agli occhi. «Mi sono nascosto sotto il letto» esclamò fra le risate sommesse. «Non... non immagini la tua faccia!».

    «Be’, sinceramente preferisco non vedermi» sbottai dalla rabbia. Tornò a ridere di me. Presi il mio cuscino e glielo gettai in faccia. «Tu e i tuoi scherzi stupidi!»

    Mostrò un ghigno malizioso. Lo afferrò con la velocità di una gazza ladra, prima che riuscissi a colpire il bersaglio.

    «Michael...» aggrottai la fronte. «Ridammelo subito! Devo dormire. Ho sonno. E in più dovresti essere lontano da qui, in camera tua!»

    Non andartene...

    Sorrise furbescamente. «Chi ti dice che io voglia andarmene?»

    «Lo dico io» arrossii. «Non abbiamo niente da dirci».

    «Lo dici tu...» Adagiò il cuscino e vi si sedette sopra. «Ma se lo rivuoi indietro hai due possibilità: o parliamo di quello che è accaduto prima, o...» M'allungai per prendere l'altro, quello in parte, ma Michael fu più veloce... «o mi salti addosso cercando di strapparmelo con la forza, cosa che non ti riuscirà facile», e lo gettò dall'altra parte della stanza.

    Fissai il punto dove era atterrato.

    Mi imbronciai.

    «Sei perfido».

    «Voglio solo risolvere questa cosa con te...». Fu disarmante. Mi squadrò dall’alto in basso con due occhi dolcissimi. «E tu mi ascolterai con calma, non è vero?»

    Assunsi un’espressione infastidita. «Questo tuo modo di fare mi alza così tanto il livello di glicemia nel sangue che tra poco vado in coma diabetico».

    Rise a voce bassa. «Non scherzare, sono serio!»

    Sorrisi piano e scrollai le spalle. Michael abbassò lo sguardo sulle sue dita, le quali ticchettavano sul materasso seguendo una melodia conosciuta a lui soltanto. Si bagnò le labbra per ben due volte.

    «Scusa»

    Lo guardai in silenzio.

    «Ma ho paura per te. Non voglio che ti cacci nei guai» sussurrò. Mi scrutò con dispiacere. «So che sei una donna responsabile e intelligente. Ma al contempo sono molto protettivo e non voglio che tu soffra inutilmente».

    Silenzio...

    Gli angoli della bocca si incurvarono all’insù.

    «Ho capito, non ti preoccupare. Scusami tu, per essermene andata così di botto…».

    Ricordai solo allora che non indossavo il reggiseno.

    Dannazione.

    Fingendo indifferenza mi tirai su le coperte fino al collo.

    «Ora ti devo lasciare dormire, credo... è fin troppo tardi per te, piccola» mi scoccò un'occhiata furbesca, osservando la delusione nei miei occhi. Distese la fronte. «O preferisci che resto...?»

    Gli indirizzai un sorriso a trentadue denti.

    Sogghignò deliziosamente, scuotendo il capo. «Ok, però devi dormire...»

    Con uno scatto si distese sul lato vuoto del letto, ponendosi sul fianco giusto per potermi guardare accuratamente. Michael si tirò via i mocassini dai piedi per potersi infilare sotto con me: ero distesa e con le lenzuola che mi coprivano fino al naso. I miei occhi ridevano.

    «Credo che se fossi un cagnolino, ora scodinzoleresti...», sorrise.

    Feci una smorfia stranita e indecifrabile, alzando un sopracciglio con una certa espressività. Iniziò a sghignazzare per l'ennesima volta. Si infilò sotto le coperte. Lentamente si lasciò cadere sul materasso, emanando con un debole sospiro.

    Ci guardammo in silenzio, scrutando l’uno il viso dell'altro.

    Era incredibile quanto non vedessi difetti in lui. Gli volevo un bene dell'anima, un affetto profondo che andava ben oltre l'aspetto, che s’insediava nella parte più intima della mia essenza. Questo sentimento lo avrebbe reso magnifico ai miei occhi anche se, col passare del tempo, la vecchiaia avrebbe fatto il suo corso. L'unica occasione in cui più mi faceva male vederlo era l'attimo in cui il suo sguardo s'intristiva. Se avessi potuto cancellargli dagli occhi quella spessa nebbia di sofferenza, quel dolore che talvolta gli accecava la vista, lo avrei fatto sicuramente.

    «A cosa pensi?» domandò Michael con un fremito. Mi guardò le labbra con occhi assorti. La sua mascella scolpita risaltò grazie ad un lieve sorriso. «Sembri pensierosa...»

    Espirai profondamente.

    «In realtà non pensavo a nulla» mentii.

    Lui mi sfiorò una guancia con un dito. Non rispose, rimase semplicemente a studiarmi... distante – forse neanche tanto – di venti centimetri.

    «E il cuscino non lo prendi?»

    «Uh?»

    «Il cuscino laggiù» indicai la parete alle mie spalle, in direzione del terrazzo. «Il cuscino che hai gettato...»

    «Ti dispiace se ne condividiamo uno in due?»

    Scossi il capo. «No, affatto».

    «Dai, avvicinati...» ridacchiò.

    Avanzò lentamente e io gli feci spazio. Michael distese il braccio sotto la mia testa, abbracciandomi la spalla; mi rannicchiai raggomitolandomi contro il suo petto. Vi adagiai la testa sopra e ascoltai il suo battito cardiaco: andava veloce. Al contatto con la sua maglia, quel suo profumo di uomo e di pulito mi mandò in estasi.

    «Sei comoda?»

    «Mmh-mmh...» annuii debolmente.

    Abbassò il capo. «Hai freddo?»

    «No...»

    Strofinò una mano sul braccio che lo cingeva e l'altra sulla nuca. Prese una ciocca di capelli e lo strofinò con cura tra i polpastrelli; ci giocò distrattamente. Rabbrividii. Michael mi cinse ancora più forte.

    Chiusi gli occhi, rilassata. Mi sentivo assonnata, avvolta in un mantello di pace totale... ma li riaprii nell'istante in cui lo udii, con un soffio carezzevole, cantare sottovoce al mio orecchio. Alzai lo sguardo.

    «Hold me, like the river Jordan, and I will then say to thee... you are my friend... carry me, like you are my brother... love me like a mother... will you be there?»

    Lo studiai tentando di capire quale canzone fosse. L'avevo già udita – ne ero certa – ma la dolcezza della sua voce mandò in tilt la mente e i suoi ragionamenti. Non capivo più niente quando mi sussurrava o cantava all’orecchio, cosa che avveniva spesso in quell’ultimo periodo. La sua attenzione puntava dritto al soffitto.

    «When weary, tell me will you hold me... when wrong, will you mold me... when lost will you find me?»

    Le iridi indugiarono su di me con un accenno di malinconia. Sorrise piano, forse imbarazzato, senza smettere di canticchiare quelle amabili parole d'affetto. Ero incollata al suo corpo, appesa al suono della voce, esattamente come una calamita è attratta dal suo magnete... e Michael sapeva di farmi quell'effetto.

    «But they told me... a man should be faithful... and walk when not able... and fight till the end, but I'm only human...»

    Venni percorsa dai brividi.

    Michael s'interruppe. Mi strofinò il braccio per scaldarmi, ma era ovvio anche a lui che non avevo freddo. Mi scoccò un bacio sulla fronte sfiorandomi i capelli; come reazione a questo gesto strofinai piano le tempie sulla sua maglia. Emise uno spasmo di risata.

    «Mi sbagliavo. Sembri più un gattino che un cane...» rise lievemente, con un tono decisamente più caldo del solito. Lo puntai proprio nel momento in cui si mordicchiava il labbro. Il fiato parve bloccarsi in gola. «Mi stai facendo le fusa?».

    «Ti piacerebbe», gli mostrai la lingua.

    Lo sguardo cambiò. Il sorriso non era più dolce e gentile. Era vagamente malizioso.

    «Non provocarmi...».

    «Provocarti io? E perché mai?», mostrai un sorriso e una faccia di bronzo senza precedenti.

    Mi prese il volto infossandomi due dita – pollice e indice – nelle guance. Avvicinò la mia bocca alla sua. Una nuova luce guizzò nelle sue iridi, illuminandole tanto quanto la più bella costellazione dell’universo.

    «Perché sei molto, molto pericolosa», sussurrò a fior di labbra. Le sue iridi scure studiarono ogni mio lineamento. «E non vorrei che ti cacciassi in brutti guai...»

    Non connettevo più.

    Credetti che parlasse così per scherzare... o almeno, volevo illudermi che così fosse.

    Cacciai fuori la lingua una seconda volta, socchiudendo gli occhi in assenza di parole. Michael sogghignò e mollò la presa; miagolai un «Ahia...» e m’imbronciai. Mi dette della «Esagerata». Ci mancò poco che lo incenerissi con gli occhi, ma la finta ostilità del mio sguardo era solo un modo per difendermi dalla situazione e dalle parole che mi avevano visibilmente scombussolata. Mi disse che era meglio che dormissi e che lui non se ne sarebbe andato... ragion per cui mi appoggiai di nuovo al suo torace e osservai con attenzione le mani che teneva sulla pancia, da sopra le coperte.

    Non sarebbe stato facile capire perché il mio cuore batteva quasi quanto il suo.

    *

    Ehi ciao, sono David.
    Sei sparita dall’ultima volta che ti ho chiamato, tutto bene?

    Meditai su cosa fosse più opportuno rispondergli. Scrissi un messaggio, ma lo cancellai. Lo riscrissi.

    Ciao! Scusami, sono stata molto presa dal mio lavoro.
    Chiedo scusa se sono sembrata scortese. Come stai?

    Inviai e attesi la risposta.

    Chiusi momentaneamente la chat e visitai il suo profilo MySpace con il computer.

    Mi ero iscritta al sito due settimane prima, solo perché Margaret aveva insistito tanto. In realtà non amavo quel tipo di social network. Non l’avevo utilizzato fino a quel giorno, quando per la prima volta mi ero messa a curiosare tra i profili della gente. Lì avevo visto che David, il ragazzo del bar, mi aveva inviato un messaggio in chat privata. Anche lui aveva insistito affinché creassi il profilo – durante la nostra prima chiamata. Così, a detta sua, avremmo potuto chiacchierare di più.

    Andai a vedere se – tra gli utenti iscritti – ci fossero anche alcuni dei ragazzi o delle ragazze conosciute molti anni prima, durante la mia carriera universitaria. Con mia grande sorpresa c’erano tutti. Evitai di inviare loro richieste di “amicizia”.

    Arrivò un nuovo messaggio.

    Io sto bene, e tu? Se non sono scortese, posso chiederti che lavoro fai?
    Qui al bar il lavoro non manca mai. Dovresti passare di qua, un giorno.

    Nel momento stesso in cui cominciai a rispondere David, Michael entrò in mia camera con passo silenzioso, avanzando piano verso la scrivania.

    Sono un’insegnante, grazie per averlo chiesto.
    Al momento non prometto nulla, ma ci farò un pensiero, lo giuro.

    «Che stai facendo?»

    Sobbalzai, emettendo un sottile grido spaventato. Mi voltai e vidi Michael appoggiato sullo schienale della poltrona con le mani. Aveva la testa qualche centimetro sopra la mia. Scrutava il monitor con aria curiosa ma impassibile.

    «Ah...» dissi incerta. Chiusi la chat e immediatamente apparve il profilo di David. «Sono in chat con il ragazzo di cui ti ho parlato tempo fa, quel David... ti ricordi?»

    Mi puntò interessato. «Ah sì? Come sta andando?»

    Dall’ultima volta in cui avevamo tirato fuori l’argomento sembrava più rilassato.

    «Mah, troppo presto per dirlo. È questo qui… vedi? Non ho idea di chi siano gli altri ragazzi in foto con lui… probabilmente colleghi di lavoro. Comunque mi ha scritto non appena mi ha visto online. Ora vediamo come va e come si comporta».

    Strinse gli occhi e si allontanò dal monitor per vederci meglio. «David Myers?»

    «Già» dissi. «Per ora l’educazione non gli manca».

    «Di che parlate?»

    Michael si inginocchiò – in mancanza di una sedia dove sedersi – e rimase lì a rompermi le scatole per un po’, continuando a fissare me e il computer con una faccia da schiaffi. Da quando gli avevo comunicato che mi ero fatta MySpace solo per Margaret – praticamente per caso e qualche giorno prima – mi stava continuamente addosso. Lui lo definiva “farmi compagnia”, io invece “invadere la mia privacy”.

    Ricevetti un altro messaggio in chat e Michael drizzò subito le orecchie.

    Quando vuoi. Sarebbe una buona occasione per conoscersi meglio.
    Al telefono mi hai detto che hai studiato alla Harvard di Boston, ricordo male?

    «Ecco di cosa parliamo» ridacchiai aprendo il messaggio.

    Lo sguardo di Michael era incollato al computer. Mostrò un’espressione indefinibile e io lo ignorai.

    «Conta che la prima volta che abbiamo parlato al telefono ci siamo detti due parole in croce. Quindi sicuramente ci vorrà del tempo per capirsi e conoscersi. Stai tranquillo, per il momento sembra andare tutto bene».

    «Certo...» bisbigliò impercettibilmente.

    «Uh?»

    Non rispose. Nei suoi occhi si rifletteva il bagliore azzurrino dello schermo.

    Scrissi un messaggio a David come se niente fosse, scrollando le spalle. Credetti che Michael stesse male per paura che mi scordassi di lui e dei suoi figli... ma soprattutto di lui. Cosa che era assolutamente impossibile.

    «Michael», lo fissai, attirando il suo sguardo. Se ne stava a braccia conserte, esaminandomi in maniera imperturbabile. «Perché non ti fai anche tu un profilo MySpace? Magari ti inventi un’identità!»

    S’accigliò. «Inventare un’identità?»

    «Sì! Sarebbe divertente, no? Poi diventiamo “amici”».

    Gli proposi questa idea soltanto per farlo sentire meno solo.

    «Mmh...», sfoggiò una smorfia pensosa. Rimase in silenzio e io ne approfittai per rispondere ad un messaggio di David. «Ci penserò...»

    Gli sorrisi. «Sì, pensaci... mi farebbe piacere».

    Per dieci minuti nessuno dei due disse una parola. Io continuai a chattare con David dimenticandomi, non volontariamente, della presenza di Michael. Quest’ultimo si alzava e si chinava continuamente; tentò di attirare la mia attenzione mettendo mano sulla tastiera e premendo tasti a caso, o addirittura “spogliandomi” della t-shirt che indossavo, o tirando gli elastici del reggiseno... tutto questo con lo scopo di farmi arrabbiare. Ad un certo punto – quando comprese che avevo capito la sua tattica e mi mostravo indifferente ad ogni tipo tortura – sospirò.

    «Sai che al processo forse testimonierà Lisa Marie?»

    Aggrottai le sopracciglia. Lo guardai. «Chi?»

    «La mia ex moglie, Lisa Marie Presley», rimase impassibile.

    Schiusi le labbra, meravigliata.

    «La figlia di Elvis Presley. Sì... non fare quella faccia, ero davvero sposato con lei!», ridacchiò. «Siamo stati insieme per quasi due anni, ma non è andata», si umettò le labbra e fissò lo schermo.

    «Ohhh...», mormorai sbalordita. «E che tipo era?», mi feci più seria. «Che provi all’idea di rivederla?»

    La mia curiosità gli fece abbassare lo sguardo.

    «Well, uhm...». Era pensieroso e nostalgico. «Era dolce. A primo impatto non sembrerebbe, ma è una donna molto gentile. Ad ogni modo è una storia conclusa e non credo che accetterà assolutamente. Ha la lingua un po' avvelenata quando di parla di me, da un paio di anni a questa parte...», si accigliò appena. «Tuttavia mi è sempre rimasta vicina quando…».

    Si ammutolì per qualche istante.

    «Quando...?» pigolai curiosamente.

    Emise un respiro meditabondo, allacciando le dita delle mani in una forte stretta. Si umettò le labbra con fare nervoso, non proprio felice di dovermi spiegare quella storia. Prima di parlare si mise una mano dietro il collo, massaggiandoselo piano.

    «Quando venni accusato di pedofilia nel ‘93».

    Lo puntai senza enunciare una parola. Mi gettò un’occhiata penetrante.

    «E», proseguii, «perché non è andata?»

    «Non è facile starmi accanto». Era serio, non tentennava. «Con il senno di adesso, capisco che non potevamo andare d'accordo. Avevamo un carattere tosto, entrambi a fare i capricci per cose futili. Lei c'è sempre stata per me, ma non eravamo compatibili. Forse pretendeva troppo e io non ho saputo apprezzarla abbastanza, ma Lisa non mi comprendeva del tutto e mi fece promesse che poi non mantenne...», gesticolò.

    «Ad esempio?»

    Inspirò. «Io... io volevo dei figli. Da morire. Volevo diventare padre. Lei mi promise che lo sarei diventato, che mi avrebbe dato dei bambini tutti per me, per noi. Ma così non successe. La cosa mi ferì profondamente. Lei ne aveva già due. Allora perché fare promesse che non poteva mantenere? Lisa non è mai stata una cattiva persona. Era particolare, con un carattere un po’ difficile, così come lo è il mio. I media pensavano che fosse tutta una facciata, ma io l’amavo. È stata speciale, nel bene e nel male».

    Michael curvò la schiena e poggiò le mani sulle ginocchia. La sua mente vagava nel vuoto, l'espressione era assente. Assunsi un’aria dispiaciuta, mentre l’animo si appesantiva con amare sensazioni che non seppi riconoscere immediatamente.

    «Scusa», dissi. «Non avrei dovuto farti raccontare questa storia...»

    Sentii che mi osservava, ma non disse nulla.

    Io neppure.

    Michael dette uno spasmo di risata improvviso e sollevai la testa per incrociare i suoi occhi; scuoteva il capo e mi fissava con un'espressione che nemmeno io, or ora, sarei capace di definire. Sbattei le ciglia con stupore.

    «Tu, piccola ragazza ingenua», mi si avvicinò al viso. Era stranamente incupito. «Non devi chiedermi scusa, hai capito? È un avvenimento che non si può cancellare. Il passato è passato, sono andato avanti da un pezzo. Era giusto che ti parlassi di lei... o che almeno te ne accennassi... ma se sei curiosa, presto ti racconterò di me e di Lisa nei dettagli, lo giuro».

    Stirai un sorriso pregante. «Non me ne puoi parlare subito?»

    «Mmh-mmh...» dissentì sorridendo.

    Sbuffai.

    Un trillo. Era arrivato un nuovo messaggio da parte di David. Riportai la mia attenzione sul computer e congedai Michael con un frettoloso «Aspetta, eh...». Quest'ultimo non emise parola, finché non si alzò in piedi. Gli gettai una rapida occhiata dubbiosa. Sembrava tranquillo.

    «Se vuoi puoi anche cercare qualcosa su Internet – riguardo me e Lisa, intendo. Ma non credere a tutto ciò che leggerai» disse. «Internet non è sempre affidabile...» e con questo fulminò lo schermo.

    «Dove vai?» chiesi.

    «Vado a leggere la favola della buonanotte ai miei bambini» spiegò frattanto che si avviava alla porta della mia camera, dandomi le spalle. «Ci vediamo fra poco, se vuoi...»

    E prima che gli potessi rispondere uscì fuori; la reazione a quel suo atteggiamento fu palesemente eloquente: non credevo possibile che fosse geloso di me e del computer!

    O di me e David...

    Quando Michael era geloso – e il signorino lo era – aveva due modi per farlo capire: o si mostrava smielato, pieno d'attenzioni verso colei per cui era geloso, affinché lui ritornasse il centro del mondo, oppure semplicemente ignorava; qualche volta spariva per delle ore, si mostrava spensierato sebbene ribollisse di rabbia. Sapeva di essere un tipo geloso, protettivo nei confronti di chi amava, ma lo nascondeva grazie a una impalpabile coltre di orgoglio; gli piaceva ricevere attenzioni, farsi pregare, e in casi peggiori utilizzava anche un metodo spietato per restituire la sofferenza incassata: la vendetta. Michael era sottilmente vendicativo: ti dava tutto l’amore del mondo e un attimo dopo te lo toglieva come se nulla fosse, per fartela pagare: era un vero e proprio stronzo se si metteva.

    Ritornai al PC.

    Parlai con David a lungo, chiedendogli scusa per le mie assenze improvvise, ma lui disse che non dovevo preoccuparmi; più passava il tempo, più quel ragazzo continuava a farmi complimenti sulla mia persona... e io non mi fidavo di chi me ne faceva troppi, soprattutto senza neanche conoscermi bene. Parlammo di una delle nostre serie Tv preferite, The Fresh Prince of Bel Air, e nel bel mezzo della conversazione il PC si spense. Tutte le luci divennero ben presto prigioniere del buio, mentre la sottoscritta si guardava intorno con esitazione.

    Un blackout...

    Michael.

    Un grugnito seccato mi scappò di bocca. Ero consapevole che fosse stato lui la causa del misfatto.

    Non che ne avessi le prove, ma… un blackout alle 23 di sera? Incrociai una gamba sopra l'altra e attesi, impaziente per il suo arrivo – perché ero sicura che sarebbe arrivato, prima o poi – e anche decisamente contrariata.

    Se c’era una cosa che non sopportavo erano quegli scherzi idioti, fatti solo per una sorta vendetta personale.

    Attesi qualche minuto.

    Quando i miei occhi si abituarono al buio – e la mia pazienza si ridusse al minimo – mi alzai dalla sedia. A tentoni e piccoli passi avanzai nel buio, fino a quando la porta d'entrata non venne aperta. Mi immobilizzai di colpo.

    «Sarah?»

    «Sì...?»

    «Stai bene?»

    «Una meraviglia», dissi con una sottile vena di sarcasmo. «Tu, Michael? E i bambini?»

    «Stanno già dormendo, grazie a Dio» mormorò. Di già? Ma che velocità straordinaria, mi dissi con una certa ironia. La sua voce si fece più vicina, così come il rumore dei piedi che echeggiavano a contatto col pavimento. «Io sto bene. C’è stato un blackout»

    «Eh» dissi. «Chissà quale spiritello lo ha causato».

    Lo percepii a qualche centimetro da me.

    «Cosa intendi?»

    Andai dritta al punto. «Sei stato tu?»

    Mi trattenni dal ridergli in faccia. Quella situazione – per quanto irritante che fosse – era anche comica.

    «Io?»

    «A-ha»

    «Non ho fatto nulla!».

    «Ti conviene dire la verità. Non ti mangio se così fosse...» borbottai, «anche se a dir il vero ti ucciderei volentieri, solo per aver interrotto la mia conversazione con David!».

    Glielo dissi apposta.

    Michael espirò pesantemente.

    «Scusa» chiese in tono inflessibile, «ma ci scriverai ancora? Tutta la sera?»

    Era allibito. Potevo immaginare la sua mascella irrigidirsi, le sopracciglia aggrottarsi impercettibilmente e i suoi occhi formare una fessura di finta perplessità. Ormai prevedevo le sue reazioni.

    «Sì, e pensavo di continuare fino a domani mattina. Sempre che questo blackout non mi rovini i piani...»

    «Già» disse seriamente. «Immagino».

    D'improvviso fui colta da un moto di schiettezza assurda. Posi le mani sui fianchi e m'avvicinai.

    «Perché sei geloso?» chiesi. «Insomma, di cosa lo sei? Lui non è te. Nessuno è come te… non capisco cosa temi!»

    Michael non rispose.

    Il mio seno sfiorò il suo torace.

    Battei un piede a terra. «Michael?»

    «Sei mia amica» rispose a bassa voce, molto lentamente. «E queste conoscenze online non mi piacciono. Non mi piace il modo con cui ti scrive, ti fa troppi complimenti...»

    «Solo questo?»

    Secondo silenzio.

    «Sì».

    «Ne sei sicuro?»

    Terzo silenzio.

    «Sì...»

    Sospirai.

    «Ok».

    Feci dietrofront. Tastando il vuoto, osai fare un passo verso la scrivania, ma Michael mi prese per le braccia e mi tenne ferma. Tremai, ma non fece segno di accorgersene. La presa era energica, più di quanto potessi immaginare.

    «Aspetta...» bisbigliò trattenendo una risata soffusa, «non si vede nulla, potresti andare a sbattere».

    Michael aveva compreso, col passare dei mesi, che ero un pericolo ambulante. Nonostante sembrassi una ragazza posata e raffinata, in realtà ero molto goffa: andavo a sbattere sugli spigoli, sulle porte, o inciampavo sui miei stessi piedi come minimo una volta al giorno, soprattutto in sua presenza, e questa mia goffaggine lo faceva sempre sganasciare. Non mi meravigliai che si stesse trattenendo.

    «Mi prendi anche in giro?».

    «Capitan Ovvio, mi preoccupo solo per la tua incolumità. Con la tua sbadataggine potresti ammazzarti!», sogghignò.

    Risi, abbandonato il capo all’indietro. Mi accarezzò le braccia affettuosamente.

    «Come sei spiritoso!».

    Cercai di scampargli ma non ci riuscii.

    «Non far lo scemo, dai...!», ridacchiai nervosamente.

    «Chi ha detto che sto facendo lo scemo?», La sua meravigliosa voce rauca mi dette alla testa. Sentii il suo petto riempirsi di ossigeno. Smisi di sorridere. «E se il sottoscritto non volesse lasciarti andare?»

    Il cuore mi batté forte.

    «Perché mai?», abbassai la voce. «Io non ho intenzione di fuggire...»

    Feci un passo verso di lui. Il petto di uno si scontrò con quello dell’altro, stavolta più forte di prima. Michael mollò la presa. Il respiro si era trasformato in un nodo in gola, ma feci finta di nulla. Tenni lo sguardo alzato, pur non vedendo nulla, e nessuno ebbe il coraggio di muoversi; la sua mano destra si sollevò piano, si bloccò a mezz’aria e poi si ridistese sul fianco.

    «D’accordo», disse Michael, serio. «Allora vado a cercare qualcuno che possa sistemare questo blackout. Magari trovo qualcuno in grado di...». Pausa. «Di aiutarci...»

    Annuii anche se lui non poteva vedermi. «Ok».

    Quando si separò dal mio corpo mi parve di essere in grado di respirare di nuovo. Il rumore dei suoi passi mi dette modo di capire che si stava allontanando. Al debole cigolio della porta quasi sussultai.

    «Arrivo subito, non ti preoccupare», mormorò. «Vedi di non ammazzarti».

    Sorrisi con l’inquietudine negli occhi. «Farò del mio meglio».

    Immaginai che stesse facendo lo stesso anche lui.

    «A fra poco, principessa».

    La porta non si chiuse.

    A piccoli passi mi accostai al letto. Mi sedetti e inspirai a fondo, per non pensare all’emozione che poco prima mi aveva sopraffatto. Forse avevo solo paura di riconoscere l’effetto che Michael aveva su di me. Eppure c’era un perché se, poco prima, gli avevo detto “Non ho intenzione di fuggire”.

    Entrambi, in fondo, sapevamo.

    Sapevamo tutto.

    Dieci minuti più tardi tutte le luci ritornarono a funzionare normalmente.

    *

    Qualche settimana più tardi partii con Michael a Washington, assieme ai suoi bambini e ad un entourage di parecchie persone, quali cuochi, tate, ecc., sotto suo insistente invito. Doveva ricevere un Elefante d’Oro dall’AASA, simbolo di riconoscimento per il suo lavoro compiuto in Africa con lo scopo di sconfiggere l’AIDS.

    Per una settimana rimanemmo ad alloggiare in casa di una famiglia ben disposta ad ospitarci e a mantenere segreta la presenza di Michael, proteggendolo così da paparazzi e tabloid: Michael cercava insistentemente un posto dove rifugiarsi dalla cattiveria di chi voleva distruggerlo, un luogo sicuro dove potesse non pensare alla sua sofferenza.

    In realtà sapevo bene perché mi aveva chiesto di andare con lui, e il motivo non era solo l’affetto che provava per me o il mio ruolo di insegnante. Il motivo principale era, in effetti, la sua gelosia.

    Geloso per quale motivo?

    Pressoché in quel periodo la mia “amicizia” con David divenne un po’ più intensa; a lui interessava conoscermi di persona. Costantemente mi chiedeva quando fossi disponibile per uscire con lui. Si mostrava sempre più affabile nei miei confronti. E siccome la sottoscritta era fin troppo trasparente e sincera con Michael – finendo addirittura per dirgli che quel ragazzo mi aveva chiesto un appuntamento proprio la settimana del primo aprile – approfittò per portarmi a Washington assieme a lui.

    Non ci arrivai subito. L’ultima cosa a cui pensavo era che Michael potesse provare certi sentimenti per me; era bravo – fin troppo, probabilmente – a nascondermi queste cose. O forse io troppo stupida per riconoscerle.

    Al nostro ritorno il clima era pacifico, esattamente come lo avevamo lasciato. Le preoccupazioni di Michael riguardo la presenza di David nella mia vita vennero meno, forse perché il ragazzo non mi aveva più chiesto di uscire; io e Michael stringevamo un’amicizia sempre più intima e fra noi c’era serenità, ci divertivamo e delle volte – comprensibilmente – lo aiutavo ad uscire dalla sofferenza che talvolta lo possedeva. Non era tutto rose e fiori per lui e, sebbene il mio affetto lo allontanasse un po’ dal dolore, qualche volta crollava lo stesso. Ogni tanto cercava solo un abbraccio, altre volte desiderava le mie parole, affinché potessi aiutarlo ad uscire dal torpore delle accuse. Era un essere umano come tutti, aveva le sue paure e i suoi momenti di smarrimento. Nonostante tutto, era una roccia.

    Il 22 aprile detti a Michael la notizia che David mi aveva chiesto un altro appuntamento.

    Era un giovedì e quella settimana si era deciso di tornare a Neverland il mercoledì, invece che il sabato mattina. A volte ai bambini mancava la loro vecchia casa e – in particolare – tutti gli svaghi che questa possedeva. Michael non se la sentì di dir loro di no, a patto che non si saltassero le lezioni.

    Eravamo nella sua libreria privata ed era un pomeriggio inoltrato. Il giorno di scuola era terminato da un pezzo e tutti e tre i bambini erano usciti con Grace.

    «Un appuntamento, uh?»

    Alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo con fare serioso. Mi analizzò, attento e inflessibile, mentre i lineamenti del suo viso si indurivano. Le dita che tenevano strette la copertina del volume si contrassero leggermente.

    «Sì, ma non ho ancora dato conferma. Per questo volevo avvisarti che venerdì sera potrei non essere a casa», gli rivolsi un mezzo sorriso.

    Alzò impercettibilmente un sopracciglio. «David?»

    Annuii piano.

    «Oh, ok», e tornò tranquillamente alla lettura del suo libro.

    Aspettai qualche istante, perplessa. Mi strinsi nelle spalle e, nel momento in cui finii di studiare il suo volto e ripresi a leggere un altro paragrafo de Il Cavaliere d’Inverno, Michael sospirò. Lo fissai curiosamente. I suoi occhi ammiravano le grandi vetrate della libreria.

    «Io ti consiglierei di non andare», disse con una voce più cupa del previsto. Si bagnò le labbra con insistenza. «È troppo strano. Ti scrive spesso ed è decisamente smielato. Non mi convince».

    Michael mi squadrò in silenzio. Lo puntai sconvolta, sorridendo, evitando di mostrare un’espressione irritata.

    «Uh?».

    «Voglio dire che non mi piace quel tipo», disse alzando un po’ il tono, fissando la parete. Posò il libro sulle ginocchia. Era innervosito. «Non mi piace che tu decida di uscire con gente che non hai conosciuto di persona. Non sai nemmeno se sono raccomandabili o meno. E se ti sta usando?»

    Aggrottai la fronte. Ero veramente troppo sbigottita per formulare una risposta pronta, tant’è che incrociai le braccia al petto e rimasi a riflettere sulle sue parole per un paio di minuti. Cercai di comprendere il perché della sua inquietudine senza arrabbiarmi per la maniera in cui si stava comportando.

    «Michael, ascolta... io con questo ragazzo ci ho anche parlato, in webcam, e non una volta soltanto. Quindi–»

    «Cosa?».

    «Sì, ci ho parlato in webcam giorni fa» arrossii, annuendo e alzando le mani al cielo. Non avevo fatto nulla di male dopotutto. «Ne abbiamo fatte tre ormai!»

    Michael era sconcertato.

    Si umettò la bocca e scostò lo sguardo dalla mia figura, scuotendo la testa. Continuò a dissentire frattanto che i suoi occhi emettevano scintille di disapprovazione misto a timore. Credevo che neppure lui sapesse più cosa provare. Era dispiaciuto? Era arrabbiato perché non gli avevo detto delle videochiamate? Era geloso?

    Era quel tipo di gelosia che riservava a un amico qualunque?

    «Io... non ho parole, davvero», bisbigliò.

    Contrassi il viso in un’espressione dura. «Neanche io».

    «E se ti vuole conoscere perché desidera far sesso? Ci hai pensato?». Mi scrutò arrabbiato e deluso. «Penso che dovresti pensarci un po’ su, prima di fare errori del genere...»

    Boccheggiai, sorridendo dalla collera. Lasciai cadere la schiena sulla poltrona sbattendo le mani sui poggioli. Guardai in qualsiasi direzione che non fosse quella di Michael, solo per non incenerirlo con gli occhi.

    Mi alzai improvvisamente, senza finezza o garbo.

    Lo linciai.

    «Ti ricordo che io non ti ho mai fatto tutte ‘ste scenate, quando stavi con la tua ragazza, Joanna», esclamai con voce arrabbiata e tremante. Mi osservava con un misto di riguardo e irritazione. Così mi faceva arrabbiare ancora di più. «Sai una cosa? Non vedo perché tu debba comportarti in questo modo. Tu puoi farti tutte le ragazze che vuoi, ma io non posso uscire con un uomo?».

    «Joanna non era una qualunque».

    Era teso come una corda di violino, ma io non ero da meno. Quella frase riuscì a colpire un qualcosa che mi fece salire ancora più rabbia in corpo. Non era delusione… neanche permalosità… era gelosia?

    «E allora potevi anche restarci insieme!»

    Feci retrofronte e mi avviai verso la porta della libreria.

    Prima di lasciarlo definitivamente, mi arrestai sullo stipite. Gettai un’occhiata torva alle mie spalle.

    «Se hai qualcosa da dire, dilla e basta. Altrimenti lasciami vivere la mia vita. Non sono una bambina, e tu non sei mio padre!», proruppi velenosamente, mentre il mio respiro perdeva il suo ritmo regolare e gli occhi si bagnavano di lacrime.

    La faccia di Michael fu incomprensibile.

    «E ora vado a farmi un giro per conto mio, da qualche parte. A presto», e uscii dalla stanza senza dargli attenzioni, con la consapevolezza di essermi rovinata il resto della giornata.


    Edited by fallagain - 5/4/2020, 14:49
  8. .
    Capitolo Venticinque: Il Piacere Principale

    «Grazie per la compagnia, Maggie!», la abbracciai prima che s’incamminasse verso il gate di imbarco. Nel giro di qualche ora sarebbe tornata a Boston. «Mi sono divertita tantissimo, ne avevo proprio bisogno»

    «Grazie a te, Sarah», ricambiò sorridendo. «Mi auguro di avere più tempo di fare altre gite come queste... vienimi a trovare anche tu qualche volta, però! Il mio appartamento è grande abbastanza per te, me e il mio fidanzato», fece l’occhiolino.

    Annuii. «D’accordo, cercherò di trovare un po’ di tempo libero»

    L’immagine del viso di Michael offuscò la ragione del momento.

    «E mi raccomando», m’ammonì puntandomi l’indice. «Ricordati di scrivere a quel tizio! Quel David dell’altra sera, il barista. Secondo me ne vale la pena, sembrava veramente attratto da te!»,.

    La rassicurai controvoglia, ci salutammo e ognuna ritornò sulla propria strada.

    In macchina, diretta verso Neverland, cominciai a riflettere su come avrebbe reagito Michael quando mi avrebbe rivisto – soprattutto pensavo ai suoi possibili cambiamenti d'umore o ripensamenti. Mi aspettavo di tutto, anche che mi ignorasse come aveva fatto per una settimana intera, con l’arrivo di Joanna.

    Arrivai ai cancelli di Neverland verso tarda serata, affamata e piena di sonno. Non avevo ancora cenato ed erano le 22.47. E, per di più, in quei due giorni passati con Margaret avevo dormito sì e no quattro ore.

    Avevamo fatto shopping svaligiando più o meno tre quarti dei negozi presenti a Los Angeles: ogni tanto mi piaceva attuare un cambio completo del mio intero guardaroba, donando i vecchi vestiti ai più bisognosi. La sera del sabato e della domenica, invece, avevamo frequentato dei pub - quelli dove si poteva ballare – o dei bar all'aperto per parlare del più e del meno. Lì un ragazzo di 32 anni, David, aveva attaccato bottone con noi e si era mostrato molto interessato alla mia persona. Come un vero gentleman mi aveva chiesto se potevamo scambiarci i numeri di telefono, non dopo essersi offerto di pagarmi da bere (proposta che inizialmente rifiutai, per non dargli false speranze). Alla fine, anche se con una certa titubanza, avevo ceduto alle continue insistenze e gli avevo dato il mio numero.

    A volte, nei momenti di silenzio tra me e Margaret, desideravo che Michael fosse lì con me.

    Mi chiesi se Michael stesse provando le mie stesse sensazioni; soprattutto mi chiedevo se gli mancassi, se gli fossi mai passata per la testa in tutte quelle ore di palpabile distanza fisica fra noi, o se invece gli ero stata completamente indifferente; se si stava divertendo o se in fondo si sentisse solo.

    Varcata la soglia della casa fatata il mio stomaco brontolò.

    Il silenzio rendeva l'atmosfera quasi inquietante e il buio non aiutò affatto: accesi la luce del corridoio e mi diressi con la valigia fin su per la scalinata, reggendola con entrambe le mani, senza fare rumore; dopo averla messa in camera ed essermi tolta il giubbotto ingombrante, andai in cucina a prendere qualcosa da mangiare. Mi feci un panino con ciò che trovai. Dopo aver mangiato, mi avviai in camera.

    Per tutto il tragitto restai in allerta: mi aspettavo uno dei dannati scherzi di Michael, ma entrando in stanza sana e salva credetti che non mi avesse sentito arrivare. Dopotutto avevo cercato di essere silenziosa come un felino.

    Non volli disfare subito la valigia, nemmeno fare una doccia, pertanto mi struccai e mi lavai i denti soltanto. Quando mi buttai a letto non mi ero neanche messa il pigiama, poiché morta di sonno.

    Avrei tanto voluto vedere Michael, abbracciarlo, o incrociare i suoi occhi scuri. Mi aspettavo che fosse lì, pronto a tendermi uno scherzo nel cuore della notte, non appena arrivata al residence, ed invece così non fu... ed ero triste per questo. Ma la fase REM mi accolse veloce fra le sue braccia e mi addormentai per un tempo che a me parve durare solo cinque minuti.

    Di botto sobbalzai, sentendo battere alla porta.

    Quando mi alzai dal letto, frastornata e confusa, fissai l'orologio sul comodino: erano le due di notte.

    Con uno scatto mi diressi verso la porta. Mi stropicciai gli occhi e mi raccolsi i capelli su una spalla. Il cuore salì in gola nel momento in cui l'aprii, così come la gioia zampillò dai miei occhi non appena lo vidi.

    Il suo sguardo era come il mio. Gli occhi erano profondi, forse più malinconici di quando li avessi visti prima di partire per l'aeroporto. Il pigiama che indossava era blu. I capelli erano scompigliati.

    Michael mi squadrò sorridendo, impacciato ma sereno.

    «Sono felice che tu sia tornata...»

    Feci un enorme sorriso.

    Un secondo dopo gli fui addosso. Lo abbracciai forte, affondando il capo nell'incavo del suo collo; anche il profumo era quello di sempre, un misto di dopobarba, pulito, e l'odore che solo la candida pelle di un bambino possiede. Fu come tornare a casa dopo anni di lontananza.

    Le sue ampie mani scivolarono sulla mia nuca.

    «I missed you so much...», mormorai con un profondo respiro.

    Lo sentii ridacchiare piano.

    «Non mi crederesti mai se ti dicessi quanto ti sono stato accanto...» sussurrò dolcemente, dandomi un bacio tra i capelli, «non avresti più idea di cos'è la privacy».

    *

    «Non credevo fossi un’amante dello shopping»

    «Non lo sono, infatti» sussurrai. «Erano anni che non facevo un cambio di guardaroba come si deve. Oddio... se avessi un fisico più snello e non fossi così tanto risparmiatrice, sicuramente fare spese sarebbe un piacere maggiore»

    Michael fece una smorfia infastidita. «Perché aggredisci sempre il tuo fisico? Non capisci che non sei affatto male?»

    Ci guardammo senza dire una parola, distesi uno di fianco all’altro, sul letto di camera mia.

    «Già il fatto che uno mi dica “Non sei affatto male” mi fa intendere il contrario...» borbottai in tono di simpatico rimprovero. «Tuttavia non mi sto criticando, io mi piaccio tutto sommato. Ho un viso decente e un vitino stretto… sono le cosce e il fondoschiena che tendono a rendermi un po’ sproporzionata. Però lascia perdere il tuo affetto per me, per un secondo... metti che io sia una qualsiasi ragazza che si veste con magliette strette e pantaloni super attillati... cosa penseresti allora?»

    Si voltò di fianco e accostò il viso al mio. Mi puntò e sorrise, alzando un sopracciglio con fare leggermente provocatorio.

    «Ti crederei una persona che non ha paura di essere quello che è, e per questo ti ammirerei».

    Attese che dicessi qualcosa, ma ero troppo incantata dal movimento delle sue labbra e dall'intensità del suo sguardo per trovare qualcosa di serio da dire. Non enunciai nemmeno una sillaba, ma storsi le labbra visibilmente contrariata.

    «E non pensare che io non ti consideri una bella donna...», mormorò affabile, posando l’attenzione sulle mie labbra.

    «Perché, mi credi una bella donna sul serio?» quasi ridacchiai per l'incredulità.

    Michael si umettò il labbro inferiore e sorrise con misticità – un insieme di affetto, imbarazzo e inquietudine. Guardò altrove, ritirandosi in sé e distendendosi a pancia in su.

    «Sì, ti trovo molto bella...»

    Sorrisi maliziosamente, accigliandomi.

    «Ah. Non l’avrei mai detto, ci credi?»

    Scosse il capo e roteò gli occhi verso l’alto, emettendo un “Tsk” seccato. Ridacchiai. Mi puntò sorridendo con astuzia e mi dette una spintarella col braccio, allontanandomi dal suo corpo. Mi passai una mano fra i capelli, imbarazzata.

    Sbadigliai e mi stiracchiai.

    «Scusa, sei stanca... ti sto tenendo sveglia troppo a lungo, dovresti riposare...»

    «No, figurati, non sono stanca... sono tornata alle undici e qualcosa, sono riuscita a dormire due o tre ore...». Mi scrutò con rimprovero. Spalancai le palpebre e alzai le mani innocentemente. «È la verità, sul serio!»

    L’idea di andare a dormire mi dette l’energia per ritornare sveglia e lucida per almeno un’altra ventina di minuti, o forse anche più. Tuttavia mi sentivo in colpa… credevo che la sua fidanzata, Joanna, non sarebbe stata felice nel saperlo in camera con me. E ne sapevo qualcosa di tradimento e di paranoie al riguardo.

    «Tu, piuttosto... non devi andare a letto? Non hai bisogno di riposare?»

    Ridacchiò scuotendo la testa. Lasciò passare qualche secondo, fissandosi le mani, intrecciate fra loro e delicatamente posate sulla sua pancia. Si bagnò le labbra per l’ennesima volta, meditando in silenzio.

    «Io non ho problemi di questo tipo» mormorò, «io faccio sempre fatica a dormire... mi addormento anche alle quattro di notte, e alla fine riesco a dormire meno di due ore. Ma se mi appisolo ho il sonno decisamente pesante, faccio fatica a svegliarmi subito. La mia mente è in continua elaborazione, mi piace riflettere su molte cose, soprattutto sulla mia musica...»

    «Qualche volta ti farebbe bene distrarti un po’...», risposi piano. Mi girai in posizione supina, con i gomiti appoggiati al materasso, cercando il suo sguardo. «Dobbiamo trovare una soluzione. Adesso non mi viene in mente niente, ma qualcosa troverò, lo prometto», bisbigliai piano.

    Michael emise uno spasmo di risata. Chiuse le palpebre per un attimo e di colpo gli occhi furono su di me, tristi ma colmi di dolcezza e tenerezza. «Perché pensi che ami così tanto la tua compagnia? Perché credi che io ti cerchi anche la notte, non solo di giorno?»

    «Mmh... perché sono così noiosa e apatica che ti faccio addormentare facilmente?»

    Rise di gusto.

    «Sciocchina, certo che no...!», sogghignò. Si distese sul fianco, fronteggiandomi. Scosse la testa e mi prese la mano, stringendola tra i suoi grandi palmi. Inclinò la testa da un lato. «Stare con te mi sottrae dal pensare troppo e a lungo. E non mi sento solo. Sto così bene – quando sono con te – che quando vado a dormire sono rilassato, in pace con me stesso... io sono la notte che non riposa mai, mentre tu sei la Luna». Abbassò lo sguardo sul ciondolo che tenevo al collo e sorrise. «You’re the Moon of my Heart...»
    1

    Arrossii, facendolo ridere.

    Tu sei la Luna del mio cuore…

    Non smise di analizzare le mie iridi verdi chiaro.

    «La notte è il momento della giornata che preferisco. Sono egoista, purtroppo, perché non penso al fatto che tu abbia bisogno di riposarti... ma non riesco a starti lontano. Mi fai sentire così libero che non bado a cosa tu potresti desiderare – se vorresti che me ne andassi e ti lasciassi dormire tranquilla, o se invece vorresti che ti stessi vicino...» Feci una smorfia e sorrise. «Ma mi rendo conto che la risposta ce l’ho sempre davanti agli occhi, impressa nel tuo volto e nelle tue sfacciate espressioni...».

    Scossi il capo, emettendo una bassa risata.

    All'improvviso mi venne in mente Joanna – di nuovo – e l’importanza che lei doveva avere per Michael; la felicità si spense, così come il viso cambiò espressione. Michael lo notò subito, tanto che mi squadrò con espressione dubbiosa.

    «Credo che sia meglio che tu vada da Joanna», inspirai forte. «Insomma, magari le manchi... non ci pensi? Non mi sento a mio agio, sapendo che potrebbe farsi idee sbagliate su di noi»

    Non che fossi terribilmente affranta per il fatto che preferisse stare con me piuttosto che con Joanna... ma volevo che Michael fosse felice, anche se ciò avrebbe comportato rimanere da sola. Desideravo che mi fosse accanto, ma non volevo neanche vivere con i sensi di colpa, sapendo che avrei fatto soffrire qualcuno per colpa mia.

    Meditò a lungo con espressione ambigua. Schioccò la lingua al palato e fissò il soffitto, ritornando a pancia in su e portandosi le mani dietro la nuca. Osservai il suo petto alzarsi e abbassarsi due volte, prima che emettesse un suono.

    «Non capisci...»

    «Eh?»

    Michael sospirò.

    «Qualcosa non va tra voi?»

    Non rispose. Serrò le mascelle e continuò ad ammirare il soffitto.

    «Ne avere parlato a quattr'occhi?»

    Scosse il capo.

    Qualcosa non mi convinceva. Sembrava che Michael non volesse affrontare l’argomento, facendo finta che Joanna non esistesse e non fosse la sua ragazza… eppure mi aveva confermato che fosse lei la donna che amava. Ogni qualvolta gli facessi una domanda che riguardava la loro relazione, si incupiva tremendamente. Era interessato a lei o no?

    Non sembrava molto innamorato, da come si comportava.

    «Sono onesta, non capisco che tipo di legame ci sia tra voi. Se ci tieni a Joanna, dovresti pensare ai suoi sentimenti e a come si sentirebbe all’idea di saperti in camera con un’altra donna. E io non sono una sfascia-coppie».

    Lo dissi così brutalmente e seccatamente che Michael mi fissò allibito. Una lieve scintilla di sdegno si dipinse nell’espressione del suo viso, come se lo avessi offeso in qualche modo. Mi morsi la lingua, pensando di essere stata troppo aggressiva. Rilassai le spalle e riformulai la frase, cambiando il tono di voce.

    «Ho capito che non vuoi affrontare l’argomento. Ma se c’è qualcosa che non va con Joanna, dovresti parlarle. Una relazione si basa sulla comunicazione. Se manca questo, manca tutto, anche l’amore. Lo dico perché ci tengo a te e voglio che siate felici»

    Michael mi lanciò un’occhiata di soqquadro. Lo vidi impacciato, incapace di dare una risposta corretta o ben formulata; quel mio discorso doveva averlo messo in netta difficoltà, tanto che me ne sorpresi io stessa. Arrossì.

    «Al momento preferirei stare con te...» si morse un labbro. «A te la cosa disturba?»

    «Michael...» sorrisi intenerita. «La tua presenza non mi disturba mai... ma promettimi che ne parlerete a quattr’occhi. Lo dovete a entrambi. Non potete lasciare le cose in sospeso, non fa bene a nessuno dei due. Ok?»

    Emise un accenno di risata e mi prese la mano, evitando i miei occhi.

    «Te lo prometto».

    Feci finta di credergli.

    Mi accostai alla sua guancia sinistra, scoccandogli un bacio a fior di labbra, appoggiando la mano libera sul suo petto. Percepii Michael trattenere il respiro. Mi stesi a pancia in su ed egli emise una risatina per niente allegra, stringendo la presa sulle nostre dita ancora unite.

    «Siamo due incorreggibili egoisti», esclamò. Guardava le nostre mani con fare assente. «Tutti e due amiamo la compagnia dell'altro e finiamo per dimenticarci del resto del mondo...»

    Aggrottai la fronte.

    «Ma sai che ti dico?» mormorò piano, sorridendomi. «Se essere egoista equivale a condividere questi momenti con te e dimenticare la sofferenza del mondo per un attimo, allora ho intenzione di restare così per il resto della vita.»

    *

    La mattina successiva mi svegliai alle sei e mezza, ancora desiderosa di dormire ma molto più riposata di qualche ora prima.

    Comodamente a pancia in giù e con alcuni ciuffi di capelli davanti agli occhi, portai una mano sulla parte del letto in cui avevo sentito Michael l’ultima volta, interessata a capire se mi avesse lasciato o se ci fosse ancora.

    Nell’attimo in cui entrai in contatto con il suo torace sobbalzai, tirando di poco indietro la mano. Egli me la prese subito. La trattenne sul petto e accarezzò il dorso con il delicato movimento del pollice.

    Il cuore vibrò come se, al suo interno, un timido uccellino fosse pronto a spiccare il volo.

    Aprii gli occhi qualche minuto dopo, strofinandoli e stiracchiandomi al contempo stesso; non si era mosso di un millimetro, rispetto alla posizione della notte passata. Mi guardava, attento e silenzioso.

    «Giorno», sorrise.

    «Giorno...», sussurrai piano e con voce più o meno gracchiante. Gli angoli delle labbra si sollevarono in un sorriso sbilenco. «Sono tanto impresentabile?»

    Arcuò un sopracciglio. «Direi che senza trucco sei un orrore», scherzò.

    Nascosi il viso sul cuscino, esasperata. «Lo immaginavo».

    «Dormito bene?»

    Emisi un verso più o meno soddisfatto, poi mi allungai sul comodino per bere un sorso di acqua da una bottiglietta da un litro e mezzo, quella che mi portavo sempre appresso quando andavo a dormire. «Sì, alla fine sì... ma ho ancora sonno...»

    Mi sedetti sul materasso con la lentezza di una lumaca. Michael mi studiò dall’alto in basso, spostando gli occhi dal mio viso al mio corpo e, in ultimo, al letto disfatto. Tutt’e due rimanemmo in silenzio. Ci mettevo diversi minuti per svegliarmi e collegare la spina al cervello.

    «Tu sei riuscito a dormire un po’?»

    I suoi occhi grandi mi scrutarono profondamente. «Qualche ora».

    «Mmh…», bisbigliai portandomi tutti i capelli, mossi e scompigliati, su una spalla. «A quanto pare la mia compagnia non è un potente sonnifero come pensavo...». Ridacchiò. «Ma perché sei rimasto se non avevi sonno? Non ti sei annoiato?»

    «Nooo, anzi!», esclamò gioioso. Si alzò in posizione seduta. «Sentirti russare è stato divertente! E poi non sei regolare, vai a pause di due o tre minuti, li ho contati!»

    Avvampai calorosamente, spalancando le labbra. «Non è vero, non...!»

    Rise come un matto, lasciando cadere la testa all’indietro e coprendosi la bocca con una mano.

    Continuò per mezz'ora mentre io, balbettante come un'idiota, tentavo di capire se mi avesse preso per i fondelli o se dicesse sul serio; l'idea di aver russato con lui accanto mi fece venire la voglia di buttarmi giù dal terrazzo, correndo a perdifiato verso la morte.

    «Oh Dio...» esclamò asciugandosi gli occhi per le grasse risate che si era fatto grazie alle mie espressioni. «Non pensavo fosse così imbarazzante per te...»

    «Ma... ho veramente...? No, rispondi ora! Michael... non fare il cretino... Rispondi!» e gli lanciai un cuscino nell'istante in cui fu vittima degli spasmi una seconda volta.

    Scosse la testa, in preda agli spasmi, dandomi conferma che mi aveva preso in giro, sempre con quella maledetta mano a coprirgli il sorriso. Sbuffando m'avvicinai e gliela tolsi, volenterosa di vedere quel suo magnifico riso: Michael lo perse improvvisamente.

    Lo guardai con affetto. Gli ero così vicino che sarei potuta cadergli sopra in qualsiasi istante, scivolando senza sapere... e lui non faceva nulla per allontanarmi, lasciava che le mie mani abbassassero la sua mentre gli occhi gravitavano attorno a me soltanto. Era così disperatamente bello sentirli sulla pelle.

    I nostri sguardi si legarono, silenziosi ma emozionati. Le iridi gli brillavano di luce propria, analizzando ogni lineamento della mia faccia, carezzevoli come non mai.

    «Perché ti copri il sorriso?» domandai innocentemente. «È molto bello da vedere, è praticamente perfetto!»

    Scosse piano la testa. «Non mi piace...»

    Rimasi in silenzio.

    «E poi dici che sono io che non si piace...» borbottai. «Io non devo avere paura di amarmi e poi tu non dai retta ai consigli che mi dai, che dovrebbero valere anche per te stesso...»

    «Tu sei un altro discorso...» sussurrò dissentendo. Le iridi persero la loro luce. Mirò altrove. «Tu non hai ragione di essere considerata il ritratto di mostro, non hai il viso che rispecchia una maschera terrificante!», assunse un cipiglio schifato.

    Alzai un sopracciglio, allibita. «Tu non sei un mostro»

    «Lo sono...» esclamò convinto ma sofferente. «E non mi piaccio. Non amo vedermi in foto o davanti a una telecamera», mi guardò, «non mi piaccio e basta...»

    Meditai per qualche secondo.

    «Per me tu sei un uomo bellissimo» mormorai aizzando la sua attenzione. «E credo ci sia un perché molte donne svengono o tremano quando ti vedono… e ti assicuro che non è solo per la fama che hai. A me piaci molto – anche fisicamente – e mai ti ho visto orribile... ti adoro. Se posso darti un parere da donna, quando sei struccato – o hai solo una passata di fondotinta – sei ancora più bello».

    Arrossì. Si bagnò le labbra, stringendosi nelle braccia, e si toccò il labbro inferiore con due dita.

    «Sei gentile, grazie...»

    Corrugai la fronte. «Non mi credi?»

    Emise una risatina per niente felice.

    Sospirai.

    «Sentimi bene, Michael Jackson» esclamai sicura come non mai, puntandogli l'indice, lasciandolo sbigottito. «Per me sei un uomo stupendo, e non mi importa né di cosa pensi di te stesso né se ti fidi di me! Ora, non dico che sei Mister Universo - come io non sono una top model o la donna più bella del globo - però tu sei un gran pezzo d'uomo, e se fossi Joanna o un'altra ragazza che ti corresse dietro sarei totalmente persa per te!»

    Alla mia espressione impacciata mi attirò verso il suo petto, facendo scivolare la mano destra dietro la nuca. Mi prese fra le sue braccia calde, accarezzandomi il capo con le sue soffici mani. Mi parve di non riuscire a respirare.

    «Ti voglio un bene immenso, piccola...»

    «Tzè...» arrossii. «Io di più...»

    «No, Sarah...»

    Si separò. Mi sentii smarrita, non in grado di comprendere il perché del suo gesto, fino a quando i suoi palmi non mi cinsero le guance e mi avvicinarono a lui. L'intensità devastante di quello sguardo mi procurò una dolorosa fitta allo stomaco, così tremendamente dolorosa da gemere.

    «Io ti amo di più. Non puoi farci niente» disse alzando le spalle e sorridendo appena. Non comprendevo se fosse felice o meno. «Non puoi vincere questa battaglia».

    Mi venne l’improvvisa voglia di distendermi e chiudere gli occhi.

    Respirai a fatica.

    Mi baciò sulla fronte. «Andiamo, vai a cambiarti ora... tra poco è ora di colazione e ti devo far conoscere i Cascio, alcuni membri della mia “seconda famiglia”» Il mio stomaco brontolò... Michael rise. «E hai anche fame, giustamente».

    Mi colorai di rosso, bofonchiando. «Arrivo subito...»

    Afferrai le prime cose che trovai. Stetti per aprire la porta del bagno, quando la voce bassa di Michael richiamò la mia attenzione.

    «Moony...»

    Mi voltai. «Sì?»

    Si umettò la bocca, arrossendo a sua volta.

    «Dormendo vicino a te non ho incubi».

    Mi presi qualche secondo per concretizzare.

    «Ne sono felice» sorrisi.

    Feci per entrare nella stanza, ma qualcosa mi spinse ad attendere. Michael si guardò nervosamente le mani, per poi scoccarmi un'occhiata sopraffatta. Trattenne il fiato.

    «I missed you so much...»

    Arrossii, ridendo. «Non mi crederesti mai se ti dicessi quanto ti sono stato accanto...» ripetei le sue stesse parole, «non avresti più idea di cos'è la privacy.»

    Michael sbarrò le palpebre. Gli mostrai la lingua e così facendo mi ritirai in bagno.

    L'uccellino che avevo nel cuore desiderò volare lontano e cantare di gioia.

    *

    Questo giorno non appartiene ad un uomo solo, ma a tutti. Insieme ricostruiamo questo mondo da poter condividere nei giorni di pace...

    Un applauso e Aragorn cantò una canzone elfica. Petali di fiori bianchi caddero dal cielo e i protagonisti del film si inchinarono al passaggio del corteo degli elfi. Aragorn e Legolas, due membri della Compagnia dell’Anello, si misero uno di fronte all’altro, una mano sulla spalla dell’altro; poi, per lo stupore del Re, comparve lei, Arwen Undòmiel.

    Le lacrime mi punsero gli occhi e cercai inutilmente di nasconderle agli altri, mettendomi una mano davanti alla bocca e rannicchiandomi su me stessa. La scena dell’incontro dei due amanti – Aragorn e Arwen – mi fece scoppiare in un pianto silenzioso. I loro sguardi, carichi di emozione, così come il loro lungo bacio, mi donarono una gioia incredibile.

    «Sarah» mormorò Prince tirandomi per la camicia rosa antico. «Piangi?»

    Sia Paris sia Michael si voltarono verso di me.

    Mi asciugai velocemente le guance bagnate senza smettere di guardare il video. Alzai le sopracciglia e ridacchiai timidamente: credevo il loro amore fosse un sentimento troppo grande per non riuscire a non sentirlo.

    «Eh...», piagnucolai. «Piango per il loro incontro, Prince... perché si amano davvero».

    Gli occhi volarono su Michael. Mi fissava, sorridente, anch’egli commosso. Ricambiai con un lieve sorriso ma scostai lo sguardo immediatamente, imbarazzata come non mai.

    Era passata qualche settimana dal mio weekend con Margaret e nel frattempo il mio rapporto con Michael diventava ogni giorno più intimo. Eravamo amici che condividevano anche la più piccola sciocchezza assieme: lui ed io eravamo affiatati, quasi indivisibili, e la cosa mi rendeva felice oltre ogni limite.

    E Joanna?, vi chiederete.

    Be’, lei sparì...

    Una sera, circa tre giorni dopo il mio arrivo, comunicò a tutti la propria partenza; disse che sarebbe tornata in Francia per lavoro, e Michael non mostrò molto interesse nei suoi confronti... effettivamente non si mostrò attratto da lei come quando era arrivata la prima volta, e forse anche per questo Joanna decise di prendere le distanze dalla famiglia.

    Quando dette la notizia, i Cascio erano ancora a casa Jackson. Non dissero nulla per farle cambiare idea.

    Fu così che conobbi i due fratelli Eddie e Frank e la sorella Marie Nicole. Tutti e tre conoscevano Joanna molto bene, avevano uno stretto rapporto con lei - soprattutto uno dei due maschi – tant’è che all’inizio sospettai che ci fosse un qualche intrigo amoroso ben celato. Il ragazzo mostrava una viva curiosità per Joanna, flirt che a lei non dava per nulla fastidio: Michael non reagì in alcun modo.

    Io, però, decisamente più ingenua del previsto, pensavo che Michael non mostrasse il suo disappunto per orgoglio. Credevo che Joanna fosse gelosa, possessiva, e che non avesse proprio sbagliato ad esserlo: era più il tempo che Michael passava con la sottoscritta che con gli altri! Anche nel momento in cui venivo isolata dai tre fratelli e da Joanna, Michael mi si avvicinava e mi teneva compagnia: non mi lasciava sola, come io non lo facevo con lui.

    Altri piccoli gruppi di fan vennero a trovarci, portando tanti regali per Michael e i bambini.

    Michael non volle darmi ulteriori spiegazioni riguardo la partenza di Joanna. Io non domandai nulla e lui non tirò più fuori l’argomento.

    Solo una sera si irritò parecchio, quando gli confessai che la colpa del distacco tra lui e Joanna erano - secondo me - io e le attenzioni che Michael mi riservava; non accettava che mi dessi la responsabilità di tutto, ma non mi informò del perché l’avesse lasciata perdere.

    Ad un certo punto, nel bel mezzo dei titoli di coda, mentre la sottoscritta continuava a sventolarsi una mano davanti agli occhi per fermare le lacrime, qualcuno cacciò un’esclamazione di terrore alle spalle. Sobbalzammo tutti e quattro: una mano teneva le spalle dei bambini.

    La stanza rimase all’oscuro per qualche secondo.

    Appena le luci illuminarono il cinema, una conosciuta figura femminile apparve alle nostre spalle. Era una donna piena di brio: aveva un sorriso abbagliante, simile a quello di Michael, un bellissimo fisico curvilineo, capelli lunghi e castani fino alle spalle, la pelle scura...

    Janet Jackson.

    Smisi di respirare.

    «Zia Janet!», esclamò Paris.

    I bambini si alzarono sulla poltrona per abbracciarla. Le scoccarono un grande bacione sulle guance. Quest’ultima ricambiò con altrettanto affetto, sussurrando loro quanto le fossero mancati i suoi nipotini. Chiese anche dove fosse Blanket, ma Michael disse che era con la tata al residence.

    Gettai un’occhiata disperata ed emozionata a Michael. Egli ricambiò velocemente, sfuggendomi nel momento in cui gli chiesi delle risposte con gli occhi: era a conoscenza della sorpresa della sorella – questo lo potevo accertare dall’espressione furbesca che aveva – ma non mi aveva detto nulla al riguardo.

    Janet mi scoccò uno sguardo interessato.

    Arrossii.

    Desiderai essere invisibile.

    «Ciao Dunk» disse Michael con un sorriso affettuoso. «Alla fine hai trovato del tempo per venire a trovarci. Era ora».

    Janet guardò il fratello, storcendo le labbra in un sorriso sghembo. «Pensavi che non avrei mantenuto la parola?».

    Sperai che Michael morisse sotto le mie occhiate torve.

    Gli avevo espressamente chiesto di avvisarmi se e quando Janet sarebbe venuta al Ranch, proprio perché volevo decidere se farmi conoscere o meno, prepararmi psicologicamente per il suo arrivo per non sentirmi spaesata... ma nooo, lui aveva preso tutte le decisioni da solo.

    «Ti presento l’istruttrice dei miei figli» disse lanciandomi una rapida sbirciatina. Janet mi analizzò alleviando il sorriso, passando in rassegna di ogni dettaglio del mio volto. «Sarah Morris».

    «È un vero piacere conoscerti», disse amichevolmente.

    Mi porse la mano e io la strinsi. Cominciai a sudare freddo.

    Non ero in me dalla gioia e tutto mi pareva offuscato. Il cuore batteva forte. Non riuscivo a credere di averla proprio di fronte al mio naso. Ero stata più felice di vedere Janet, quel giorno, che lo stesso Michael Jackson il giorno del colloquio di lavoro, il quale era forse l’artista di maggior successo internazionale.

    Una parte di me volle scoppiare a ridere nervosamente.

    «Il piacere è mio...», sussurrai a voce fioca.

    «Zia» esclamò Prince. «Sai che film stavamo guardando?»

    «No» rispose posando gli occhi su di lui. Erano simili a quelli di Michael. «Che film avete visto?»

    «Il Ritorno del Re!» disse tutto eccitato. «Dovevi vedere che scene! C’erano battaglie... personaggi mostruosissimi!» Io e Michael ridacchiammo. «Ed è durato tantiiissimo! È uno dei più bei film che io abbia mai visto!», buttò le mani in aria.

    Mi resi conto che le mie iridi erano ancora lucide; cercando di non dare nell’occhio passai l’indice della mano destra sulle gote per asciugare i residui delle lacrime.

    «Dio, allora mi sa proprio che lo devo vedere!».

    Janet mi puntò di soppiatto. Fu solo questione di un secondo, perché Michael interruppe subito quello scambio di opinioni e sguardi; propose di fare un giro per il parco giochi (era il weekend ed eravamo ritornati a Neverland come di consuetudine). Tutti accettarono la proposta.

    Uscendo dal cinema Janet approfittò per mangiare, prendendosi qualche deliziosa caramella dalle bancarelle vicine. Anche Paris chiese se potesse prenderne qualcuna, ma Michael dissentì; aveva già mangiato parecchi dolcetti durante la visione del film. Paris assentì con visibile dispiacere.

    Mentre ci avviavamo verso le giostre – frattanto che Paris e Prince tenevano per mano la zia e le parlavano a raffica, non lasciandole il tempo di rispondere – Michael mi si avvicinò. Lo guardai in tralice. Gli dissi che era meglio che tornassi al residence.

    Mi fissò sbigottito. «E perché mai?»

    «Perché» sbuffai «penso sia meglio lasciarvi soli, tu, tua sorella e i bambini... io non c’entro niente con tutto questo, sono fuori posto!»

    Capii che ciò che stavo dicendo non aveva senso, ma ero così orgogliosa da non volerlo ammettere.

    S’avvicinò al mio corpo e sfiorò l’avambraccio con le dita; i suoi occhi scivolarono languidi su di me, assieme al tono quasi smielato di voce. Si era accorto che mi stavo scaldando, ma pensava di farmi cambiare idea e umore utilizzando il metodo “Tanto non sei convinta di quello che pensi e ora ti faccio sciogliere sotto il mio sguardo magnetico”: purtroppo quel suo “mezzo di tortura psicologica” mi fece irritare ancora di più.

    Ero nel dubbio, indecisa se godere della presenza di una persona che avevo sempre desiderato conoscere o se starmene per i cavoli miei, lasciandoli in pace… eppure una voce nella testa mi diceva “Proteggi Michael”.

    «Non ti senti a tuo agio con lei?» disse sempre più piano.

    «Anche...», borbottai.

    Michael si zittì, esattamente come la sottoscritta; cercò più e più volte di incrociare i miei occhi... io, invece, li indirizzavo in tutt’altra direzione. Michael lo notò. Mi sfiorò il polso con la mano e io, presa in contropiede, rabbrividii: lo scrutai allarmata, mentre la sua espressione si incupiva sempre più rapidamente.

    «Fammi compagnia, ti prego...», mormorò carezzevole e a voce bassa. «Lascia perdere Janet, guarda me... fai come se ci fossi solo io»

    «Oh be’» bofonchiai arrossendo. «La fai facile, tu... è tua sorella!», e in quel momento mi ammutolii per un’esclamazione di Paris, che si era voltata verso di noi così come Prince e Janet.

    Lo sguardo di Janet passò in rassegna del mio viso, per poi chinarsi sul lieve contatto fra me e suo fratello. Osservò entrambi con un’espressione indecifrabile, dando maggior attenzione al personaggio accanto a me.

    Feci per staccarmi da Michael, ma lui incastrò due dita fra le mie, tenendomi legata a lui per l’anulare e il mignolo. Sembrò tremare dall’emozione... io, al contrario, mi accorsi di essere quella che si trovava sul punto di un attacco d’ansia. Ciò nonostante, non fui in grado di non ammirare i suoi occhi, fiammeggianti di un qualcosa che non desideravo comprendere.

    «Potremmo andare sul grande ragno», propose Michael con tono sarcastico. «Zia Dunk potrebbe affrontare una delle sue paure più grandi, una di quelle che rimanda da secoli!».

    Janet mostrò un finto sorrisino di cortesia. «Molto spiritoso, ma anche per ‘sta volta rinuncio! Non ho alcuna intenzione di rimettere ciò che ho appena mangiato», fece una smorfia schifata e rabbrividì visibilmente.

    Michael ridacchiò. Io sorrisi a malapena.

    «Bene, allora vorrà dire che i più temerari della situazione ne usciranno vincitori di nuovo!», e non volendo mi trascinò con lui, inseguito dai suoi piccoli.

    Paris si attaccò al braccio del padre. Approfittai per staccarmi dalle sue dita, sospirando di sollievo nel momento in cui Prince fu così rapido da stringere l’altro arto libero di Michael. Indietreggiai, ma quest’ultimo si girò in mia direzione, prima di avviarsi verso il grande veicolo.

    «Non vieni, Sarah?», chiese con nonchalance.

    Scossi la testa.

    «No, grazie comunque!», esclamai stringendomi nelle spalle con fare tranquillo, infreddolita a causa di quel gelido pomeriggio di inizio marzo.

    Michael gettò uno sguardo alle mie spalle – evidentemente rivolto alla sorella. In seguito mi regalò un sorriso stirato e salì sulla giostra coi bambini. Lo vidi assicurarsi che fossero ben saldi e protetti. Indietreggiai di una decina di metri solo quando vidi la loro cabina salire verso il cielo azzurro e terso.

    Erano già alla fine del primo giro quando mi sentii richiamare dalla delicata voce di Janet.

    «Vieni a sederti con me su quella panchina laggiù? Mi sa che quei tre ne avranno un bel po’», sorrise.

    Si era portata silenziosamente al mio fianco e mi osservava.

    Le mie guance si accaldarono. «Sì, certo... grazie...»

    Facemmo marcia indietro. Ero tesa, rigida come un palo, e continuavo a ripetermi: “Sto camminando vicino a Janet... Janet Jackson... sto per morire”.

    «A me non piace proprio quella giostra» disse prima di sedersi. «Sono una fifona. Michael ama queste cose così pericolose, mentre io me la svigno sempre a gambe levate».

    Sghignazzai divertita, arrossendo appena. «Capisco perfettamente» esclamai con una certa adrenalina in corpo. «L’ho provata una volta e mi è bastata. Preferisco giostre più tranquille, come il carosello».

    «Oh, sì! Anche io» Janet sorrise.

    Ricambiai.

    Pochi secondi dopo mi offrì un po’ delle sue caramelle, ma io dissentii ringraziandola. Anche Janet, come Michael, aveva il vizio di umettarsi frequentemente le labbra. Lo fece e mi fissò. Erano proprio fratelli.

    «Michael mi ha parlato di te e di quanto sei brava coi bambini» continuò. «Poco fa ti hanno chiamato addirittura zia... devi averli proprio conquistati».

    «Lo spero tanto», balbettai annuendo. Fissai la giostra in cui si trovavano Michael e i bambini. «Il fatto che usino quel appellativo mi regala una felicità immensa, perché non avrò mai la possibilità di diventare zia. Almeno me lo sono sentita dire, una volta nella vita».

    «Non hai fratelli?» chiese con discrezione.

    Annuii. «Esatto, sono figlia unica».

    La mia enigmaticità la rese curiosa, ma non maleducata.

    «Non si direbbe, sai?» abbassò lo sguardo. «Il tuo atteggiamento è molto maturo per la tua età, e non credo che tu non abbia più di 30 anni. Tuttavia pare che tu sappia bene come gestire un legame fraterno. Prince e Paris ti trattano come una sorella più grande».

    «Quei bimbi sono due angeli. Anche Blanket lo è», dissi sorridendo e guardandola negli occhi. La sua attenzione crebbe, ma non lo dette a vedere. «Sono stati cresciuti proprio bene. Sono uniti e si vogliono un bene dell’anima. Non hanno bisogno del mio aiuto in questo».

    Janet rimase seria. Il suo sguardo ti attraversava quasi come quello di Michael.

    Poi sorrise dolcemente. «Assomigli a me quando ero più giovane...»

    Avvampai maggiormente e chinai lo sguardo, con un cenno del capo a mo’ di ringraziamento. Lo presi come un complimento, nonostante il suo tono pensoso e la sua espressione concentrata.

    Entrambe osservammo Michael e i bambini scendere dalla giostra. Prince e Paris sembravano eccitati come non mai. Michael, invece, aveva un’espressione scossa.

    «Ehi, che succede?» chiese Janet scherzando. «Vuoi per caso un secchio dove vomitare, Mike? Perché il mio sacchetto di caramelle non è stato ancora svuotato del tutto!»

    Egli sorrise piano, alzando un sopracciglio nonostante la sua faccia sconvolta. «No, grazie Dunk, penso che ti dimostrerò per l’ennesima volta quanto sono resistente di fronte a queste sciocchezze».

    «Uhhh!» disse lei falsificando un’aria di meraviglia. «Sciocchezze?»

    Michael finse di non sentirla.

    «Papà guardava sempre in basso, anche quando c’erano i grandi salti!» esclamò Prince fissando il padre con preoccupazione indefinita. Io e Janet lo fissammo.

    Paris tirò Michael per la manica. «Va tutto bene, daddy

    Mi diede un’occhiata veloce prima di accarezzare Paris sulla nuca, inglobandole completamente il capo. Sentii lo sguardo attento di Janet su di me, ma non ci detti troppa attenzione.

    «Va tutto bene, principessina». Michael guardò la sorella. «Rimarrai a cenare con noi, vero Dunk?»

    L’altra scosse il capo mentre entrambe ci alzavamo in piedi. «No, non penso. Ho molto lavoro da fare e i tempi per la registrazione dell’album si restringono. Piuttosto… volevo parlarti di una cosa, in privato. Ho bisogno di un tuo consiglio».

    Temetti che volesse parlare di me e mi sentii morire.

    «Perché non rimani?» domandò Prince, tristemente.

    «Zia... resta...» piagnucolò Paris, avviandosi verso la gamba della donna. Lo sguardo le brillava di speranza. «Per favore...»

    «Piccoli...» sorrise rammaricata Janet. «Mi piacerebbe...», accarezzò loro il capo. «Per questa volta sono venuta a farvi un saluto veloce, ma la prossima volta giuro che rimarrò di più».

    «Papà, ti prego, convincila!»

    Ma Michael non disse nulla per farla restare. Tuttavia le fece promettere che sarebbe ritornata presto. I due fratelli Jackson si incamminarono lontano, mentre io e i bambini ci dirigevamo verso altre giostre. Feci di tutto per non guardare in loro direzione, ma qualche volta sbirciai: erano seri, uno di fronte all’altra, e lei parlava più di lui. Michael annuiva di tanto in tanto, fissandola intensamente, e poi le rispondeva con qualche breve frase. Quando lui parlava, Janet incrociava le braccia al petto e corrugava o sollevava le sopracciglia.

    Quando ebbero finito di conversare – dopo una trentina di minuti – ci vennero incontro. Decidemmo di accompagnare Janet alla macchina, posta nel parcheggio nei pressi delle giostre. I nipoti la salutarono calorosamente e anche Michael accolse Dunk tra le sue braccia. Io mi mostrai lo specchio della tranquillità, salutandola con un lieve cenno della mano e un piccolo sorriso. Michael mi fissava.

    Janet s’avvicinò a me, ma non mi strinse la mano: allargò le braccia e mi trattenne a sé, accarezzandomi una spalla, mormorandomi un gentile «Felice di averti conosciuta». Ricambiai arrossendo, troppo sbigottita per riuscire a parlare, mentre lei si allontanava esibendo un’ultima espressione scrutatrice.

    Aprì la macchina, salì e mise in moto. Un rombo di motore e scomparve dalla nostra vita, non dopo averci salutato con il basso suono del clacson del SUV nero. I bambini fecero svolazzare le braccia al cielo per far notare il loro saluto al punto nero sempre più piccolo.

    Michael ammirò l’espressione basita che ancora non mi abbandonava.

    Lentamente mi volsi in sua direzione.

    Non ci dicemmo nulla, nemmeno sorridemmo, perché entrambi sapevamo che io – nonostante non lo dessi a vedere – ero rimasta offesa dal suo comportamento, così come Michael ci era rimasto male per come mi fossi distaccata da lui e avessi rifiutato di salire sulle giostre.

    «È meglio che torniamo in casa» disse guardando i suoi figli. «Comincia a fare freddo. Andiamo...»

    *

    Michael rimase a scrutarmi impassibilmente per un tempo che sembrò infinito, appoggiato a braccia incrociate sullo stipite della porta. Aveva uno sguardo profondo e duro, mentre osservava il modo in cui, a testa in giù, mi asciugavo i capelli nel bagno della mia stanza, con indosso la larga maglia del pigiama che – fortunatamente – copriva tutto il fondoschiena... se in posizione eretta.

    «Dimmi» disse con tonalità di voce abbastanza alta da farsi sentire al di sopra il rumore del phon. «Perché sei arrabbiata con me?»

    «Non sono arrabbiata».

    Inclinai la testa verso sinistra e poi verso destra per asciugarmi meglio i capelli.

    «Prima lo eri... e il motivo?»

    Eravamo tornati nella villa a Beverly Hills e subito dopo cena ero andata a farmi una doccia calda. Michael mi aveva raggiunto una decina di minuti prima del nostro abituale orario d'incontro, quando i bambini si erano già tutti addormentati come sassi. Così facendo non ero riuscita né a indossare i pantaloni del pigiama né a lavarmi completamente i capelli.

    Sbuffai e alzai la testa gettandoli tutti all’indietro.

    Lo studiai: Michael attendeva con calma apparente la mia risposta. Anche se a gambe scoperte, non ero minimamente in imbarazzo. Covavo ancora un po’ di rancore nei suoi confronti, tanto da non sentire alcun tipo di vergogna.

    Spensi il phon.

    «Perché non mi hai avvisato che sarebbe arrivata?» domandai con smorfia rammaricata. «Speravo me lo avresti comunicato».

    Sospirò, staccandosi dallo stipite. «Perché avresti detto di no. Ma non sarebbe stato quello che volevi davvero»

    Alzai le sopracciglia. «Ah no?»

    «No» ribatté seccamente, ponendosi le mani sui fianchi. «Il tuo rifiuto sarebbe stato un gesto inutile! Il tuo orgoglio, talvolta, ti impedisce di considerare ciò che il tuo cuore desidera davvero».

    Socchiusi la bocca, sbigottita ed imbarazzata assieme.

    Aveva ragione, ma non lo volli ammettere.

    «Orgogliosa? Scusami, non è questo il punto» esclamai spalancando le braccia con esasperazione. Staccai la spina del phon, attorcigliai il filo e lo appoggiai sul mobile del bagno. «È il principio, Michael! Dovevi dirmelo!»

    Michael si umettò le labbra. Le braccia erano sempre incrociate al petto. Fissò in basso per poi passare in rassegna di tutta la stanza; infine, si riposò su di me. Passò la lingua sul labbro inferiore, ancora, e indurì i lineamenti del viso.

    «È per questo che eviti atteggiamenti amichevoli con me, davanti a mia sorella?», si accigliò. «Sono tuo amico ma non possiamo comportarci come tali?»

    Emisi uno spasmo di risata nervosa.

    La nostra prima vera litigata?

    «Non ci arrivi» dissi sbattendo nervosamente le palpebre. Stavo cominciando ad irritarmi. «Non pensi che io non voglia che la gente consideri te uno sprovveduto e me una stronza?»

    «Ma a te che importa degli altri?» proruppe Michael, alzando appena la voce e le mani. Tenne la bocca schiusa, in attesa delle parole giuste da dire. «Perché ti fai condizionare dalla opinione che la gente può avere di te? Ti importa così tanto?»

    Presi un respiro profondo. Mi passai una mano fra i capelli, tirandoli all’indietro con un irato gesto delle dita. Adocchiai di sottecchi la mia immagine allo specchio nel tentativo di non esplodere.

    «Ci sono tante persone che fingono di essere tue amiche, nella vita di ogni giorno», sibilai, «così tante che non ho intenzione di essere considerata tale. Non sono una persona che ti sta accanto solo per interesse. Non voglio che le loro opinioni possano cambiare anche il tuo modo di pensare!». Mi tremò la voce. «Non voglio che la tua famiglia mi consideri quella che non sono. Se pensi che io mi preoccupo degli altri, be’, in certo senso hai ragione! Non mi piace essere considerata bugiarda, approfittatrice e pure disonesta! E ti sbagli sul mio conto, perché purtroppo per me penso a te, all’idea che si possono fare... anzi, hai ragione, sai? Mi curo troppo degli altri, dovrei essere più egoista!»

    Michael si massaggiò il collo, abbassando lo sguardo. «Sarah...»

    Misi il phon in un cassetto, al suo posto.

    «E sai perché non voglio conoscere i tuoi famigliari? Perché potresti benissimo essere preso per uno sciocco, dopo tutto quello che stai passando! Magari pensano “Oh, guarda, Michael ha un altro di quegli avvoltoi che si approfittano di lui!”, e non mi piace essere considerata così... non lo sono e basta».

    «Sarah, aspetta... un momento...», mormorò ad un passo da me. Si pose una mano sul petto. I suoi occhi erano lucidi. «Sarah, tu pensi che io non sappia chi sei? Pensi che mi importi della loro opinione? Che mi influenzi in modo negativo? Hai paura davvero di questo? Fai male, molto male a pensarlo... non dovresti nemmeno dubitare! Io ti voglio un bene dell’anima, un affetto profondo» disse con voce carica d’emozione «e so che ci potrebbero essere molti fraintendimenti. Voglio mantenere la nostra amicizia all'oscuro, tranne a Janet e a Liz. E a mia madre. Per quello ho invitato mia sorella all’improvviso, affinché potesse cogliere la tua essenza al naturale, come la percepisco io tutti i giorni!». Inspirò calmandosi. «Era l’unico modo per farti vedere per come sei... senza prove allo specchio su come atteggiarti».

    Il mio spirito si placò. Al posto della rabbia lasciai spazio alla gratitudine, alla buona fede, e dimenticai il rancore provato poco prima. Chinai gli occhi, affranta. Volevo credergli.

    «Janet sa della nostra amicizia?» chiesi a voce bassa.

    Lo adocchiai timidamente.

    Annuì piano, bagnandosi il labbro inferiore. «Non ne sa molto, non quanto Liz, ma le ho accennato di te il giorno dopo il Superbowl. Era interessata a conoscerti, anche se comprensibilmente preoccupata. Teme che mi cacci nei guai...» sussurrò abbracciandomi con gli occhi.

    «Ecco, vedi? È comprensibile che io...»

    «Appunto: è comprensibile» sussurrò accarezzandomi una guancia con il dorso della mano. Il respiro incespicò in gola. «Devi solo lasciare che sia il tempo a cambiare le idee di chi pensa che la nostra amicizia non sia vera. Noi sappiamo la verità, no?». Prese un profondo respiro. «E la verità trionfa sempre».

    Sorrisi leggermente.

    «Scusami...».

    Sogghignò intenerito e scosse la testa. Le sue grandi braccia mi avvolsero. Il suo profumo inondò l’olfatto, cullandomi in un’altra dimensione. Abbandonai il capo fra i suoi capelli, mentre mi legava a sé con energia, per niente desideroso di lasciarmi andare. Mi aggrappai con le mani alla sua camicia nel momento in cui mormorò:

    «So che lo fai per proteggere me e anche te stessa, e non sai quanto ti adoro quando sei così decisa delle tue pazze idee per difendere chi ami...», mi fece avvampare, «ma fino a quando io crederò in te, non devi avere paura»

    «E se cambiassi idea?» chiesi come una bambina bisognosa di rassicurazioni.

    «Te l’ho detto, no? Sei la Luna del mio cuore. Come potrei?»

    Sospirai.

    Le sue dita mi pettinarono i capelli. Mi diede un bacio sulla nuca. Rabbrividii e mi strinsi a lui.

    Quando ero con Michael, ero in pace.

    «Michael...»

    «Mmh?»

    «Secondo te come le sono apparsa?» chiesi. «A Janet, intendo...». Feci una smorfia. «Sembro tanto fredda e introversa, vista da fuori?»

    «Mmh...», mormorò voltando la testa verso lo specchio. Feci lo stesso. Arrossii vedendo i nostri riflessi abbracciati. Strinse le palpebre e le labbra, nascondendo un ghigno divertito. «No, non sei fredda. Sei misteriosa. È come... come se non volessi farti scoprire facilmente. E questo può farti sembrare introversa...»

    Sorrisi nascondendo parte della faccia a contatto con la sua camicia. Attraverso lo specchio vidi i suoi occhi illuminarsi come non mai. Mi abbracciò più forte. Il suo respiro profondo mi dava serenità.

    «Lo ero anche per te?»

    «Mi chiedi se inizialmente ti pensassi enigmatica?».

    «Sì».

    Lo guardai sorridere dolcemente. «Sì, in un certo senso sì... con quel tuo alone di impenetrabile segretezza, di mistero, be’... mi hai sempre messo curiosità. Ma ti sei aperta facilmente, comunque, e questo mi ha dato modo di scoprirti. Ora sei un libro che conosco quasi a memoria. Hai solo bisogno che qualcuno ti faccia sentire importante, che si interessi a te sinceramente».

    «Ti mettevo curiosità, uh?», mostrai un sorriso.

    «A-ha...», sussurrò accarezzandomi i capelli.

    Mi allontanai dal torace di Michael per guardarlo negli occhi. Rise del mio sguardo esitante.

    «Non ci credi?»

    Scossi la testa. «No, non è questo... è... è strano...».

    Aggrottò la fronte. «Strano cosa?»

    «Strano che io ti abbia messo curiosità. Non pensavo fossi amante dei “misteri” a tal punto».

    «Invece lo sono, e molto», mi squadrò. «Amo i codici da risolvere. Amo tutto ciò che mi richiede sforzo e impegno per essere compreso. E amo scavare nell’animo di una persona, per conoscere la sua vera essenza».

    Espirò e rimase a fissare il ciondolo che tenevo al collo. Feci la stessa cosa, prendendolo in mano e rigirandolo fra i polpastrelli. Qualche secondo dopo mi scompigliò i capelli.

    «Non dovresti sottovalutarti, sai?»

    Sorrideva.

    «Nel tuo mistero c'è una così particolare bellezza che è impossibile non notare».




    1 “Moon of my Heart” non è un riferimento indiretto a Game of Thrones (in cui si utilizza l’espressione Moon of my Life). La frase è collegata alla favola di Sarah, dove quest’ultima rappresenta la principessa Selenite (= Selene è la dea della Luna) e anche al nomignolo “Moony”.



    Edited by fallagain - 5/4/2020, 14:35
  9. .
    Capitolo Ventiquattro: La Complicazione

    I bambini scesero dalle sedie avviandosi piuttosto rapidamente verso la ragazza. Lei si chinò, li abbracciò e si rialzò con fare composto, sistemandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio. Mi gettò un’occhiata eloquente, esaminandomi in profondità.

    Michael lo notò e si pose fra noi, lasciandoci lo spazio per stringerci la mano. Prima di farlo, però, presentò l’una all’altra; la giovane era silenziosa, e a primo impatto mi dette l’idea di una ragazza un po’ impacciata; non era comunque stupida, anzi...

    «Lei è l’insegnante di Prince e Paris, Sarah Morris» disse dolcemente, indicandomi. In seguito posò gli occhi su di me, intensi ma tuttavia sfuggenti. «Sarah, lei è Joanna Thomae, un’amica e una fan di vecchia data» mormorò l’ultima frase con un fil di voce.

    Seh, amica...

    Le presi le mano e le sorrisi. Scoccai a Michael un’occhiata maliziosamente e sottilmente divertita, uno sguardo che lui comprese fino in fondo; s’imbarazzò ma rimase a fissare me e Joanna frattanto che ci salutavamo con un lieve e cordiale “Piacere”.

    I bambini intervennero prima che il silenzio diventasse imbarazzante. La presero per mano e con affetto le chiesero dove fosse stata per tutto quel tempo, cosa avesse fatto e soprattutto se sarebbe restata per qualche giorno: Joanna rispose di aver passato del tempo con la sua famiglia e dopo aver scoccato un lungo, speranzoso sguardo a Michael continuò: «Mi auguro di poter rimanere qui per più tempo possibile...», con deciso accento francese.
    Era titubante, ma il suo tono era carico di aspettative per il futuro.

    Michael intervenne alzando le sopracciglia. «Joanna può rimanere quanto desidera. Inviteremo anche altri amici, come Danielle, Sebastian e tutto il gruppo. Che ne dite?».

    Joanna sorrise e si scambiarono uno sguardo complice.

    Sorrisi anche io, profondamente serena.

    Michael strinse le labbra in un’espressione soddisfatta e batté le mani. Mi puntò. «Ti disturba se finiamo la lezione così, per oggi? Recupereranno un sabato, magari», chiese mordendosi un labbro.

    «No, non c’è alcun problema!»

    Michael annuì piano.

    «Bene... che ne dite di fare merenda?». Poi adocchiò Joanna in maniera carezzevole. «O preferisci andare a dormire? Sei stanca?»

    Dormire, uh?

    «No, non ho sonno» esclamò. «Ho una certa fame, però...»

    Io avrei detto di sì immediatamente.

    Prince e Paris sorrisero; uscirono dalla stanza con Joanna, continuando a tenerle la mano, chiedendole di fare merenda con loro e di vedere i nuovi giocattoli che avevano ricevuto per Natale; lei esultò, attendendo che anche Michael la seguisse: quest’ultimo mantenne un’espressione neutrale dando l’impressione di non aver compreso il perché di quell’occhiata. I tre proseguirono senza aspettarci.

    Due secondi dopo esser rimasta a fissare la porta con fare assente, il mio viso si inclinò verso quello di Michael: mi stava osservando impassibile, ma con due pietre scure negli occhi che ardevano di curiosità.

    «Che ti sembra?».

    La sua voce era più bassa e maschile del solito.

    Feci una smorfia soddisfatta. «Credo sia una ragazza molto, molto dolce. Educata, soprattutto».

    Lui non disse nulla. Abbassò lo sguardo, toccandosi la fossetta del mento con l’indice, mordendosi un labbro. Il vuoto aleggiò in me mentre continuavo a domandarmi il perché di quel suo atteggiamento pensoso.

    «È lei la ragazza che ami?» esclamai eccitata, sorridendo.

    Alzò gli occhi.

    Passarono cinque secondi di totale silenzio.

    «Sì... lo è...» sorrise piano. «È appena arrivata dalla Francia, perché per molto tempo è stata occupata con vari set fotografici e non ha trovato il tempo per venire»

    Mi sorpresi. «Fa la modella?»

    Annuì. «Sì. È stata davvero una sorpresa che...»

    Prima che potesse finire di parlare, Prince si fece vivo da oltre la soglia. Con un’occhiata eloquente e un tono incitante ci indusse a terminare la conversazione e seguirlo in cucina, rimandando le domande in un altro momento. Lo seguimmo senza fiatare, trovando le altre due nel pieno della preparazione di “una merenda coi fiocchi”; ci sedemmo nell’ampio soggiorno, discutendo del più e del meno. Presto i bambini si stancarono e ci dedicammo ad alcuni giochi di società.

    Il modo in cui la ragazza si atteggiava, Joanna, mi pareva davvero carino, da ragazza educata ma spiritosa, il tipo perfetto per Michael. Era gentile coi bambini e anche con me, poiché ogni volta che le rivolgevo parola mi sorrideva cordialmente. Per di più, il legame che aveva con Michael sembrava davvero intimo: il feeling era ricambiato da entrambe le parti.1

    Non ero gelosa, non lo ero nemmeno un po’. Forse saremmo diventate amiche, io e la ragazza di Michael, e la sua apparente e forse reale dolcezza mi avrebbe fatto bene all’animo. Non vedevo in lei una ragazza malvagia, anzi, pensavo che assieme ai bambini e Michael saremo andati tutti d’accordo e avremo passato dei bei momenti assieme.

    Fino a quando non cambiai idea.

    *

    Scorse una settimana e mezza, la quale parve durare un’infinità di tempo.

    Nel frattempo molte cose erano cambiate: Joanna sembrava essere arrivata in casa Jackson da quasi un mese, e l’opinione che mi ero fatta di lei era esatta soltanto a metà. Le mie aspettative si erano sbriciolate nel giro di 72 ore o più, dal momento in cui l’avevo conosciuta.

    Innanzitutto ritornammo al Neverland Ranch per quasi due settimane. Joanna si sistemò in una camera del residence adiacente al villino principale, quello dedicato agli ospiti. Non passai più una notte a chiacchierare da sola con Michael, a guardare film o a leggere. Non glielo chiesi e lui non lo chiese a me. Ci tenevo a comportarmi da persona rispettosa, sapendo che io – da fidanzata – sarei stata molto diffidente a causa di quell’ipotetica “amica” che spendeva la notte con il mio uomo. Dedussi che era più propenso a passare un po’ di tempo con la sua ragazza, piuttosto che con me, perciò la cosa non mi turbava affatto. Aveva ragione e io non me la presi, nonostante sentivo che la sua assenza cominciava a farmi sentire un guscio vuoto; ad ogni modo giocavamo con i bambini tutti quanti assieme, io mi occupavo delle mie lezioni come se nulla fosse e parlavo e scherzavo con Michael serenamente.

    Anche i primi giorni con Joanna risultarono positivi: l’opinione che avevo di lei si trasformò ben presto in qualcosa di buono, credendo che la sua gentilezza fosse sincera; chiacchieravamo in base a ciò che le situazioni del giorno ci proponevano, ci salutavamo la mattina e ci auguravamo buonanotte la sera. E ridevamo pure.

    Tuttavia, piano piano, forse per gelosia o forse per ipocrisia, divenne sempre più distaccata, più seria nei miei confronti, più propensa ad evitarmi piuttosto che a dialogare. A stento mi sorrideva, giocava con Prince e Paris come se io non esistessi e li coinvolgeva in divertimenti tutti nuovi e interessanti. Mi dava l’impressione che quello che stesse facendo fosse un tentativo per allontanarmi da lei e dagli altri componenti della famiglia.

    Allo stesso tempo cambiò la situazione con Michael, il quale cominciò ad ignorarmi totalmente, poco a poco. I suoi sguardi ruotavano per la maggior parte delle volte attorno a Joanna e ai suoi figli. Raramente facevamo una conversazione seria e non aveva neppure provato a cercarmi. Mi sorrideva appena, mi lanciava occhiate penetranti, ma non era più quello di prima... che lo facesse per non far ingelosire Joanna o perché semplicemente non mi considerava più come un tempo, non ne avevo idea. Restava il fatto che comunque mi allontanai da tutti loro, per una sorta di meccanismo di difesa.

    Non avevo intenzione di essere usata – desiderata quando si aveva bisogno del mio appoggio e dimenticata l’attimo dopo, quando tutto sembrava passato; se dovevo essere sua amica, doveva trattarmi come tale ogni giorno, mi dissi, o doveva almeno darmi una scusa per quel suo strano comportamento. Mi sentivo praticamente messa in un angolo – soprattutto da Michael, ma anche un po’ dai bambini, i quali ahimè non avevano colpa – e l’idea di divenire un gruppo compatto e ben unito con i Jackson e Joanna si disintegrò completamente.

    Ero ritornata Sarah Morris, l’insegnante e non più l’amica.

    Il caldo affetto che provavo per Michael venne messo da parte, assieme alla mia presenza in quella casa, e sostituito con una sorta di sottile amarezza nei suoi confronti.

    Il fatto che non mi trattasse dolcemente mi faceva arrabbiare. Questa rabbia si trasformò ben presto in un senso di profonda delusione. Io, che credevo di aver riposto in Michael la mia più completa fiducia, dovetti ricredermi e prendere le distanze. Dovevo darci un taglio con le mie assurde aspettative per il futuro e prendere quel che veniva con serenità.

    Ero buona, ma non remissiva. Accettavo quello che ricevevo, lo analizzavo con cura e poi, in base a quanto mi facesse stare male o meno, mi dirigevo verso un cambiamento o verso nuovi metodi di approccio; Michael avrebbe sempre ricevuto il mio affetto, ma non desideravo che mi parlasse come i giorni precedenti all’arrivo di Joanna. Così facendo mi sarei risparmiata una tristezza inutile.

    Con il passare dei giorni tentai di dedicarmi sempre più a me stessa. Me ne stavo da sola e, nonostante le fitte allo stomaco per l’amarezza, sentivo che stavo guarendo. Pian pianino. Mi sentivo meglio e tuttavia avevo il profondo desiderio di porre fine a quel malessere interiore, sfogandomi una volta per tutte con il signor Jackson.

    Una sera, proprio in un momento di profondo scoraggiamento, una vecchia amica dell’università telefonò; era una delle poche con cui avessi mantenuto dei legami affettivi, non avendo mai smesso di contattarla via messaggio, posta elettronica o rare chiamate telefoniche. Mi chiese come stavo e dove lavorassi, soprattutto per chi... mantenni il segreto professionale e la privacy di Michael.

    «Mah, è un signore con dei figli d’educare», dissi camminando su e giù per la stanza, col telefono in mano e lo sguardo abbassato sui miei piedi.

    «È sposato?», chiese curiosamente Margaret, la mia amica.

    «No, divorziato». Mi bloccai sorridendo maliziosamente. «Non ti starai mica facendo strani pensieri, vero?»

    La sentii ridacchiare. «Nooo! Chi? Io?», esclamò. «Io non faccio mai strani pensieri!»

    «Sì, certo, come no...» risi, «ma non temere, non c’è niente fra me e il mio capo. Ci rispettiamo a vicenda e questo è l’importante» dissi cercando di essere convincente. «E poi è fidanzato, non ho intenzione di sedurlo, assolutamente!»

    «Mmh...», mormorò mostrandosi dubbiosa. «Magari è un bel tipo... gentile... romantico... uno di quelli a cui piace conquistare... arrapante...». Prese una pausa e si trattenne dallo scoppiare in una fragorosa risata. «Uh-huu!»

    Risi con tutte le forze che avevo. «Dai, su, non cominciare!»

    «Ma che ti prende? Di solito rispondi a queste provocazioni. Hai sempre la battuta pronta». Emise un urlo strozzato. «No, non dirmi che è vicino a te e che sta origliando questa conversazione...»

    «No, non c’è...», sogghignai. «Però è meglio non rischiare...»

    Sospirò. «Be’, hai ragione... comunque, potremo parlare di questo “tizio” di persona...». Corrugai la fronte. «Questo tuo misterioso “capo” ti lascerebbe libera il prossimo weekend? Perché, sai, avrei intenzione di fare una gita a LA con una mia cara amica, in un appartamento in centro città... all’insegna di shopping e divertimento...»

    In un primo istante non seppi nemmeno cosa rispondere. Rimasi a bocca aperta, sorpresa ma piacevolmente grata per quel suo pensiero; non solo mi avrebbe fatto bene incontrarla, ma uscire da quella residenza – e perciò fuggire dalle preoccupazioni per un paio di giorni – sarebbe stata la mia medicina. Non facevo shopping da parecchio, soprattutto non andavo a ballare da quasi un anno. Potevo permettermi il lusso di far baldoria e spendere quanto volevo.

    Michael mi avrebbe lasciato andare.

    «Mio Dio» sussurrai stupita, sorridendo fra me e me. «Be’, questa tua amica ha accettato la proposta. E costi quel che costi verrà con te alla ricerca di avventura».

    «Grande!» esultò Maggie.

    «Ah, una cosa però...» l’ammonii appena in tempo. «Non ho intenzione di entrare in contatto con uomini single e sessualmente affamati per essere portata a letto da loro, intesi?»

    «Ovvio! Sta tranquilla!» annunciò serenamente. «Pensi che mi sia già dimenticata dei tuoi principi morali? Se nel caso qualcuno ci infastidisse... ti avverto che quest’anno sono diventata cintura nera di karatè! Yattaaa!».

    Sghignazzai scuotendo il capo. «Ti telefono il più presto possibile e tentiamo di concordare gli orari assieme... l’hotel lo prenotiamo non appena arriviamo in centro a Los Angeles, no?»

    «Sì, tanto non penso che siano tutti occupati! Al massimo dormiremo sotto i ponti, come due poveracce».

    Sorrisi. «D’accordo, allora ci sentiamo... ti chiamo io... grazie di cuore per l’invito, sul serio!»

    «Quando vuoi, Sarah» rispose dolcemente.

    Ci salutammo e concludemmo la conversazione.

    Stetti a pensare per qualche lungo secondo, mordendomi il labbro inferiore: dovevo cercare Michael e parlargli, anche a costo di entrare nella camera da letto con Joanna presente (sempre che fossero assieme).

    Senza troppi ripensamenti uscii dalla stanza, decisa a incontrarlo.

    Andai a bussare alla sua porta, ma nessuno rispose.

    Bussai una seconda volta, ma mi convinsi che in camera non ci fosse nessuno. O che forse Michael e Joanna non volevano essere disturbati.

    Vagai indisturbata per il resto della casa, sostando in cucina per farmi una camomilla, fino a quando – risalendo le scale – non incontrai Joanna, che invece scendeva. Indossava un paio di jeans stretti e una camicia non eccessivamente scollata. I capelli erano lisci e tenuti sulle spalle senza lacci. Nell’attimo in cui i nostri occhi si incontrarono spostò una ciocca dietro l’orecchio; il suo sguardo non durò molto, e il suo saluto fu soltanto un debole un cenno del capo.

    La sorpassai ricambiando il gesto con un sorriso stirato.

    Li avevo interrotti in qualcosa di intimo? Probabilmente sì. Non che mi dispiacesse a dire il vero, ma preferivo non essere la causa di una spiacevole interruzione... l’occhiata dura e sottilmente fulminante che mi aveva lanciato non mi rassicurò per nulla.

    Nel momento in cui stetti per aprire la porta della mia camera, sentii due mani pizzicarmi i fianchi. Sobbalzai e mi voltai: Michael mi lanciò uno sguardo fra il sorridente e l’inquieto.

    «Oh» mormorai simulando allegria. «Ciao!»

    Michael alzò le sopracciglia, piegando di poco gli angoli delle labbra in un sorriso più divertito, mentre con lo sguardo tentava di farmi un check-up interiore. Il tono del mio saluto sembrò strafottente anche alle mie orecchie. Evitai di guardarlo negli occhi, sapendo che non sarei stata in grado di falsificare le mie emozioni.

    «Ciao» disse mantenendo una voce normale e posata.

    Sorrisi piano, ma non attesi che dicesse altro per voltarmi e abbassare la maniglia della porta. Un pizzico di irritazione e desiderio di vendetta mi portò a comportarmi da completa indifferente, come se la sua presenza non mi facesse né caldo né freddo.

    «Dovevi chiedermi qualcosa?» domandò.

    Mi girai, fingendo di cadere dalle nuvole. «Uh?»

    «Ho sentito qualcuno bussare alla porta della mia camera, ma stavo dormendo e non ho aperto...» mormorò accarezzandosi il collo col palmo di una mano. Poco dopo mi puntò attentamente. «Pensavo fossi tu...»

    A-ha, “dormendo”.

    «Oh, sì sì...» annuii senza ricambiare lo sguardo. «Volevo solo darti un’informazione...»

    «Del tipo?»

    Sospirai. «Questo weekend viene a trovarmi una mia amica da Boston. Credo che passerò tutto il weekend con lei» Le sue sopracciglia s’alzarono per la sorpresa. «È da molto che non la vedo e mi ha chiesto di uscire. Ho accettato».

    Il volto di Michael si contrasse leggermente, nonostante desse l’impressione di essere tranquillo e pacifico. Le sue iridi mi esaminarono a fondo, navigando lungo tutto il mio viso, passandosi più volte la lingua sulle labbra; tenne il sopracciglio inarcato per diversi secondi.

    «Oh.» sussurrò piano. «Ok, non c’è problema, vai pure».

    Non parlò più e io non attesi oltre per rimanere in sua presenza.

    Sorrisi cordialmente, ringraziando, e al suo lieve cenno del capo lo salutai con la mano. Voltai la schiena, entrando nella mia stanza, non preoccupandomi di chiudergli la porta in faccia. Una volta chiusa, trassi un profondo respiro di sollievo.

    Ero felice di essermi mostrata disinteressata. Il silenzio contava più delle parole, così dicevano. In ogni caso – se fosse stato confuso, arrabbiato o dispiaciuto – non lo capivo, perché era più bravo di me a mascherare le sue emozioni.

    Mi avviai verso l’armadio e lo aprii. Guardai i vestiti appesi. Dedussi che, molto probabilmente, non avrei dovuto riempire la valigia con troppe cose.

    Sospirai ancora.

    Presi il cellulare sul comodino e composi il numero di Margaret.

    La tristezza per dover lasciare quella casa per un paio di giorni mi stritolava il cuore, ma non avrei permesso a niente e nessuno di privarmi della voglia di divertirmi e vivere la mia vita. A nessuno, né a Joanna, né ai miei genitori, né ad amici, né a sconosciuti...

    Né a Michael.

    *

    «Daddy, perché questo sabato non andiamo al cinema?» chiese Paris speranzosa, ingoiando un piccolo boccone della cena. «Joanna non ha ancora visto Alla ricerca di Nemo...»

    Vidi Michael e Joanna osservarsi a lungo. Riposi lo sguardo sul mio cibo non appena egli mi scoccò un’occhiata di soppiatto; feci finta di essere sola, e di non essere una presenza estranea.

    Era un martedì sera ed erano passati otto giorni dall’arrivo di Joanna. Quel weekend passato erano venute anche altre 7 persone, tre ragazzi e quattro ragazze tra i 25 e i 35 anni, e scoprii che erano tutti fan fedelissimi di Michael. Qualche volta li invitava al Ranch e, siccome si fidava ciecamente di loro, li ospitava per diversi giorni nella sua tenuta. Tutti avevano un lavoro, perciò poterono restare solo il sabato e la domenica. Io mi ero totalmente eclissata dal resto del mondo, rinchiudendomi in camera mia.

    «Perché no?» disse Michael. Si rivolse alla sottoscritta. «La maestra Sarah uscirà nel weekend, quindi saremo solo noi quattro… a te dispiace?».

    Osservai tutti, uno dopo l’altro, soffermandomi sulla faccia spaesata di Blanket: quel piccolo era l’unico che non si era ancora stufato di me e che desiderava starmi in braccio tutto il giorno. Sorrisi guardandolo.

    «No problem» assentii alla proposta e riabbassai lo sguardo.

    Michael mi squadrò a fondo, mettendomi in soggezione. Guardò i suoi figli e poi Joanna.

    «Allora potremo anche invitare i Cascio, che ne dite?»

    Loro esultarono e lo fecero sorridere.

    Non sapevo se Michael stesse invitando altra gente apposta per farmi male o no. Tuttavia il suo modo di agire era incomprensibile; da quando gli avevo detto della mia uscita con Margaret, aveva tentato di non rivolgermi più la parola.

    Continuai a mangiare fingendo interesse, mentre il resto delle persone a tavola parlottava tra loro. Lo stomaco mi si chiuse per l’irritazione e così finii di cenare senza riuscire ad ultimare l’ultima portata. Non aspettai il dolce per alzarmi e andarmene.

    «Io non ho più fame, vado in camera. Grazie per la cena» sussurrai appena, alzandomi piano, nonostante credessi che a nessuno la cosa sarebbe importata.

    I bambini mi chiesero di rimanere a giocare con loro ma dissentii sorridendo, dando loro una piccola ma passeggera delusione. Joanna non mi rivolse parola. Michael mi studiò dando la falsa impressione d’esser sorpreso, mentre Blanket borbottava parole confuse per farsi imboccare.

    Detti la buonanotte e questa venne ricambiata... la voce di Michael risuonò sopra quella degli altri.

    Salii le scale senza neanche rendermi conto di cosa avevo appena fatto e mi chiusi nella mia stanza, con il viso di Michael ancora impresso nella mente: mi aveva scrutato con due occhi puramente inespressivi. Finii di preparare la valigia per il weekend, giusto per distrarmi.

    Odiavo la sua indifferenza. Odiavo le sue proposte create apposta per intaccare la mia fragile muraglia di menefreghismo. Odiavo sentirmi così sola e non avere la possibilità di abbracciarlo come avevo fatto prima d’allora, prima che mi rendessi veramente conto di quanto fosse importante il suo affetto per me. Odiavo il fatto che lui non mi avesse mai cercato. Odiavo essere ignorata.

    Rimasi a contemplare la valigia – fatta e finita – con le mani sui fianchi. Rimasi con lo sguardo perso nel vuoto per un po’. Solo cinque minuti dopo ebbi la forte tentazione di andarmi a fare una corsa. Era scuro ormai, perciò optai per una semplice camminata per il centro di Santa Barbara.

    Incurante di dover dare spiegazioni a Michael – visto che a quest’ultimo non sarebbe comunque importato – mi affrettai a cambiarmi, prendere le chiavi della macchina e scappare via da Neverland. Non riuscivo a starmene ferma sul posto. Ero stanca di pensar troppo. Dovevo scappare prima che scoppiassi come un fuoco d’artificio.

    Uscii dalla porta della camera a passo spedito.

    Stavo per intraprendere il primo gradino della rampa di scale, quando mi sentii chiamare da dietro.

    «Dove vai?».

    Mi girai, comprendendo che l’unico soggetto al quale sarebbe potuta appartenere quella voce fosse proprio Michael. Mi guardò con un sorrisetto divertito mentre io lo osservavo seriamente, senza la minima voglia di ricambiare l’apparente gentilezza del suo volto.

    Alzò le sopracciglia. «Fuggi da me?»

    Mi venne incontro con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni di velluto nero. Indossava una larga felpa arancione, calzini verdi e blu e, diversamente dal solito, un paio di ciabatte. Aveva i capelli un po’ scompigliati – come a cena, dopotutto – ed era quasi completamente struccato.

    Mi venne da sputargli in un occhio per quella sua ridicola frase, anche se il cuore perse un battito.

    «In realtà... non proprio», ammisi facendo una smorfia un po’ infastidita. «Vado a farmi un semplice giro a Santa Barbara».

    S’incupì. «A quest’ora?»

    «Be’, sì», mi accigliai e sorrisi di circostanza. «Ora vado, buonanoootte!», e mi voltai incrociando un piede sopra l’alto, facendo una specie di piroetta storta.

    «Perché…»

    Mi bloccai al secondo gradino, non molto sicura di aver capito bene. Lo fissai di rimando. La sua espressione era lo specchio dell’inquietudine.

    «Perché te ne vai?», mormorò.

    Di fronte al mio silenzio, sospirò guardando da un’altra parte. In seguito mi puntò di nuovo. Incrociò le braccia al petto. Non ebbe il coraggio di mantenere il contatto visivo.

    «Ti devo parlare...»

    Inarcai un sopracciglio. «Ah...»

    Lo feci apposta a rispondere in quel modo, ma effettivamente non sapevo nemmeno cosa dire.

    Si umettò le labbra e con l’indice mi invitò ad avvicinarmi. Non disse nulla per tentarmi, aspettò che facessi il primo passo ben sapendo che non avrei rinunciato alla proposta di andargli incontro. I suoi occhi parvero catturarmi e richiamarmi verso il suo corpo.

    Emettendo un sospiro stanco, feci come mi aveva chiesto.

    Nel momento in cui gli fui accanto incrociai anch’io le braccia al petto. Non volevo perdermi nel suo sguardo. Mi passai la lingua fra i denti, facendola scoccare al palato, e attesi, ma Michael non dette il minimo cenno di voler continuare la conversazione: continuò a squadrarmi in tralice per un po’, fino a quando, respirando a fondo, il suo sguardo s’addolcì notevolmente.

    Le sue grandi e morbide dita si avviarono verso i miei capelli. La sua mano entrò a contatto con la pelle scoperta del collo, sfiorò il cuoio capelluto in direzione della nuca portandomi a inclinare il capo – non di proposito – all’indietro, così da poterlo guardare dritto negli occhi. Man mano che si faceva spazio fra i miei capelli inclinò la testa verso sinistra. Mi lanciò un’occhiata amorevole.

    Rabbrividii.

    «Possiamo parlare in privato, per favore?», sussurrò in tono sottile ma rauco. «In camera mia...»

    Cosa?

    Aggrottai la fronte, ma alla fine annuii.

    Sorrise piano. Districò la mano dai miei capelli e mi parve di ritornare lucida, di essermi svegliata da un sogno ad occhi aperti... abbassò lo sguardo sulle mie braccia incrociate al petto. S’avvicinò di un passo al mio corpo e mi prese una mano.

    «Andiamo...»

    Lo seguii come un automa, muovendomi a scatti. Guardai in basso frattanto che Michael pensava a trascinarmi verso la sua stanza. Qualche volta scoccai rapide occhiate a destra e a manca, per vedere se Joanna sarebbe comparsa dal nulla... ma di lei non c’era neanche l’ombra.

    Nell’attimo in cui entrai in camera di Michael, mi parve di sentirmi di nuovo a casa. L’odore del suo profumo invase le narici non appena chiuse la porta alle nostre spalle.

    «Siediti».

    Mi guardai intorno e vidi che il letto era stato sistemato malamente. La luce che illuminava la stanza proveniva dai comodini soltanto. Mi sedetti su un angolino del materasso e lui fece lo stesso. Si massaggiò le mani e si bagnò le labbra come se fosse vittima di un tic nervoso.

    Lo studiai a lungo.

    Chiuse gli occhi e respirò a fondo. «Pensi di dover prendere una pausa da questo lavoro?»

    Fu come un fulmine a ciel sereno.

    Mi stava forse licenziando?

    Guardai altrove e non detti una risposta.

    «Sarah...» mormorò. «Mi guardi...?»

    Ebbi paura e perciò non lo feci. Rimasi con lo sguardo bloccato sul tappeto color crema. Il cuore batteva fortissimo, tanto che credevo stesse per mettersi a gridare e chiedere pietà. Le iridi furono sul punto di velarsi di lacrime salate, ma non lo fecero. Il naso mi pizzicava tremendamente, però.

    Le sue dita scivolarono sotto il mio mento. Esse mi condussero verso i suoi occhi profondi e carichi di emozioni incomprensibili. Era serio, ragion per cui mi sentii ancor peggio di prima.

    Una stretta allo stomaco mi fece venir voglia di distendermi. O rimettere.

    «Pensi che io non ti voglia più qui, Sarah?» domandò Michael con un sussurro. Avvicinò la fronte alla mia, senza toccarla. Percepii il suo respiro sulla mia pelle e i suoi occhi su di me. Abbassai lo sguardo, tremai. «Ti prego, rispondi... ho bisogno di sapere se ti manco...»

    Corrugai la fronte e storsi le labbra.

    Quella frase dolce e tenera mi stizzì, dandomi profondamente sui nervi.

    Non poteva domandarmi questo. La risposta non era difficile da comprendere, e non apprezzavo questi suoi giochetti affinché mi mostrassi completamente devota a lui.

    Mi allontanai, squadrandolo dall’alto in basso. In silenzio notai quanto Michael fosse rimasto sconvolto da quel mio comportamento. Il mio viso si contrasse in una smorfia di profonda irritazione e sdegno.

    «Perché me lo chiedi?».

    Ero sulla difensiva.

    Rimase ad osservarmi muto come una tomba.

    «Sei arrabbiata con me?»

    «No».

    Silenzio...

    «Tu menti...»

    Beccata sul punto dolente.

    «No. Voglio uscire, tutto qui. Non c’è nient’altro».

    Sbatté piano le palpebre. «Non ti credo»

    «E allora fai a meno!», risposi acidamente.

    M’alzai più velocemente possibile, al fine di raggiungere la porta e sparire da lì. Ogni passo sembrava rallentato dal peso che gravava sulla pancia, sul cuore e anche in gola. Lo sentii sollevarsi dal letto e in un batter d’occhio due mani mi presero da dietro la schiena; premettero sulle mie braccia nell’attimo in cui affondò il viso nell’incavo del mio collo, affondando nella mia folta chioma.

    Incapace di sciogliermi da quella stretta provai a chinarmi su me stessa, forse nel tentativo di raggomitolarmi a ciambella: fu tutto inutile, mi paralizzai e smisi di respirare. Il suo profumo mi inglobò e tremai di nuovo.

    Non fui in grado di dare un freno alla magia che aveva su di me, tanto meno al desiderio di sentirlo premere sulla mia pelle e infilarsi sinuosamente nel cuore.

    Sospirò sul mio collo.

    Rabbrividii ancora.

    «Scusa se non ti ho dato molte attenzioni...» mormorò a bassa voce, impacciato. «Delle volte mi comporto male con chi non se lo merita... non volevo farti star male... mi dispiace averti fatto sentire un pesce fuor d’acqua».

    Espirai pesantemente. «Non fa nulla».

    «Ne sei sicura?» il suo respiro vibrò, sfiorando l’orecchio sinistro con le labbra.

    Per il solletico che mi procurò quasi risi, e quasi mancò poco che il cuore smettesse di battere e io chiudessi le palpebre dall’emozione. Quel carezzevole e intrigante modo di fare era capace di farmi diventare gelatina nelle sue mani.

    Annuii piano, fissando il vuoto.

    Michael mi scoccò un bacio sulla guancia. Premette forte. Le labbra erano più morbide di quanto ricordassi, ma non mi ero mai scordata di quanto fosse meraviglioso essere con lui, al sicuro e protetta tra le sue braccia.

    Lo sentii sorridere. «Grazie...» respirò piano e a voce bassa. «Senza il tuo perdono sarei spacciato».

    «A-ha, come no!»

    Mi girai.

    Mi porse la guancia. Ricambiai il bacio sorridendo, emettendo un timido accenno di risata. Mi lasciò andare solo dopo un’ultima profonda occhiata. Sorrise della mia espressione rasserenata.

    Mi sfiorò la gota con il dorso della mano. «Sei decisamente più bella quando sei felice...»

    Abbassai il capo, accigliandomi. «Ora non esageriamo adesso...»

    Mi prese il viso fra le mani e mi baciò la fronte.

    In seguito fui io a cercarlo, spinta da un moto d’affettuosità improvvisa; gli avvinghiai le braccia al collo, stringendomi forte al suo corpo. Michael rimase impalato. Affondai il viso fra i suoi capelli e allora ricambiò la stretta.

    Rimanemmo in quella posizione per non so quanto tempo, tutt’e due con la mancata voglia di fare un passo che ci dividesse; con l’abbraccio comunicavamo tutto, non c’era bisogno di parole, e Michael diventava più docile di un agnello se lo si stringeva affettuosamente; non era abituato, esattamente come me, a quelle dimostrazioni d’affetto improvviso.

    «Ti voglio bene».

    Lo sentii sorridere di nuovo.

    «Te ne voglio anche io, Moony». Mi accarezzò la nuca. «Resti a farmi compagnia stanotte?»

    Aggrottai le sopracciglia.

    L’immagine di Joanna mi passò dinanzi agli occhi e mi irrigidii nuovamente. Percepì la mia freddezza e di riflesso mi strinse con maggior vigore, come a dirmi “No, ti prego, aspetta. Non andare”.

    «E Joanna?», emisi con un fil di voce.

    «Che cosa vuoi dire?»

    Silenzio.

    «Non credo che sia la cosa giusta da fare…», mormorai tristemente.

    «Perché no?»

    «Perché è la tua fidanzata. E io sono solo un’amica. Cosa penseresti se lei facesse lo stesso con te, rimanendo tutta la notte in camera con un uomo che non sei tu? Io non lo accetterei e non voglio mancare di rispetto in questo modo…», borbottai.

    Inspirò a fondo. «Tu non sei soltanto un’amica…»

    Feci per reclinare la testa all’indietro e guardarlo negli occhi, confusa, ma mi pose una mano dietro la testa per impedirmelo.

    «Michael, non voglio fare soffrire nessuno», ero seria e decisa.

    «Non lo fai… credimi…». Prese un altro profondo respiro. Stavolta fu lui a tremare. «Resta, ti prego».

    Mi strinsi alla sua felpa e affondai la testa nell’incavo del suo collo. Si irrigidì e tremò di nuovo quando, con il naso, gli sfiorai lentamente la giugulare, segnando una linea da sotto al mento fino al collo. Per un attimo sentii una fitta di dolore al basso ventre.

    «Resto un po’, ma non dormirò qui…»

    Annuì.

    Restammo in quella posizione un altro po’. Nessuno dei due voleva mollare la presa.

    «Vado a leggere una fiaba ai miei figli, mi aspetti qui?»

    «Ok...»

    Sciolsi amaramente l’abbraccio.

    Avevo un’espressione da ebete e Michael, non meno di me, appariva turbato. Mi sorpassò dandomi una lieve e scherzosa pressione sulla nuca, giusto per farmi inciampare in avanti. Mi fece l’occhiolino prima di uscire dalla porta, avvertendomi che avrebbe cercato di fare il prima possibile.

    Quando se ne andò, ritornai finalmente a respirare.

    Nei momenti in cui Michael ed io eravamo assieme, il suo sguardo era sempre puntato su di me; sapeva donarmi un’importanza devastante, un affetto che faceva vibrare ogni singola particella del corpo. Mi dava tutta la sua attenzione, l’amore che nessun altro essere umano era stato in grado di donarmi. Non gli importava cosa facessi, cosa dicessi... i suoi occhi non mi lasciavano. Ma quando voleva sapeva privarti di queste attenzioni, non appena lo ritenesse necessario.

    Se si arrabbiava o s’indispettiva per qualcosa non ti affrontava subito, ma si chiudeva e ti ignorava; era permaloso e anche un po’ orgoglioso. Fingeva che tu non esistessi e in automatico, se poco prima ti eri sentito sulla punta del mondo, un attimo dopo ti sentivi smarrito, esattamente come un viandante nel deserto del Sahara. Quando percepiva la tua sofferenza allora ti parlava... e tornava sui suoi passi come se nulla fosse accaduto, fingendo tranquillità.

    Ma con me non riusciva a rimanere silenzioso a lungo. Mi ignorava, ma tornava sempre sui suoi passi. Probabilmente perché ero un caratterino tosto e non mi piaceva pregarlo in ginocchio. Non era abituato a qualcuno che si comportasse come lui.

    Se io e Michael litigavamo o ci arrabbiavamo l’uno con l’altro, questo moto di rabbia mi rendeva uno straccio. Solo allora, rammaricato, si toglieva di dosso quella maschera che falsificava le sue vere emozioni, anche quelle più recondite che non avevo ancora compreso del tutto.

    *

    «Dove alloggerete?» disse Michael alla fine del film, Fievel Conquista Il West. Spense il registratore. «Tu e la tua amica, intendo... avete prenotato un hotel?»

    Lo osservai: non mi guardava.

    «No», dissi stirando un sorriso. «Abbiamo deciso di prenotarlo sul momento».

    Michael mi scagliò un’occhiata interdetta. Attesi che rispondesse e invece tacque; qualche minuto dopo, rizzò il sopracciglio destro.

    Risi, sollevando le spalle e i palmi delle mani. «Che c’è?»

    «Mmh...» scosse la testa. «Non ti avrei mai immaginato così… mi hai sempre dato l’impressione di una ragazza molto organizzata, per niente avventuriera».

    M’imbronciai, offesa.

    «Non è che – per una volta che non mi organizzo – sono una sconsiderata!»

    Mi rideva in faccia.

    «E poi non capisco tutta quest’aria scioccata. I soldi non mi mancano, e – »

    «Sarah, fermati».

    Michael mi fermò con due dita sulle labbra, sghignazzando furbescamente. Mi si avvicinò, pronto ad abbracciarmi e ad “addolcirmi la pillola”.

    «No... no!» tentai di non ridere dal nervoso. Incrociai le braccia al petto. «Non fare il lecchino, vai via!»

    «Non fare l’offesa, daaai...», sussurrò soavemente, usando un tono a dir poco smielato. «Vieni qui, su... Non essere permalosa, l’ho detto apposta!», protestò vedendomi sul punto di alzarmi in piedi e fuggire.

    «No, sei cattivo!», esclamai.

    Mi tirai su dal letto, ma mi prese per i polsi da dietro e mi ributtò a sedere. Provai a divincolarmi con tutte le forze, ma mi veniva da ridere man mano che le sue mani si dirigevano sul collo e sui fianchi, intenzionate a farmi il solletico. Mi scostai con un balzo: il suo sorriso diveniva sempre meno convincente.

    Alzò un sopracciglio. «Sono cattivo?»

    «Mooolto cattivo...», sghignazzai.

    «Non giudicare dalle apparenze, Moony...». Mi mollò e io mi trascinai lontano, studiandolo con divertita diffidenza. Tutt’e due ci guardammo negli occhi senza muovere un muscol. «Lo dovresti sapere che potrei essere molto peggio...»

    Spalancai le palpebre.

    Le sue dita furono su di me prima che potessi prepararmi al contrattacco. M’avvinghiò per la vita e cominciò a stuzzicarmi, mentre io mi ritrovavo a ridere come una cretina sull’orlo di un attacco d’asma; non soffrivo molto il solletico... ma Michael lo sapeva fare bene.

    Dovette mettermi la mano sulla bocca per ammutolirmi, e per protesta tirai fuori la lingua leccandogli il palmo. Lui la ritirò immediatamente, scioccato e divertito, pulendoselo sulla felpa. Mi lanciò un’occhiata sbalordita, ma non si arrese.

    «Ti avverto che mordo!», esclamai con il cuore in gola, senza fiato. «Basta

    Michael mostrò un ghigno sarcastico – poiché ovviamente non mi prendeva mai sul serio –, e tentò ad istigarmi di nuovo. In automatico aprii la mandibola e feci per addentarlo per davvero. Ritirò la mano che avevo puntato, ridendo da solo, con gli occhi fuori dalle orbite.

    «Ma sei una tigre!».

    «Esattamente!»

    «Ma non puoi sconfiggere un leone come me», disse in tono saccente, raggiante come non mai.

    «Hai ragione», confermai, sfoggiando altrettanta boriosità. «Non posso che arrendermi di fronte a te – un micio indifeso – visto come sei saltato all’indietro per paura che ti azzannassi!»

    Il sorriso di Michael si congelò all’istante.

    Mi spanciai davanti a lui senza contegno. Michael si posò le mani sui fianchi e trattenne un sorriso, malizioso e vendicativo. Si passò più volte la lingua sulle labbra, in silenzio: mi alzai dal letto e camminai all’indietro, lontano da lui, sapendo che per punizione non mi avrebbe risparmiato nessuna tortura.

    «Ah... micio indifeso, dici? Bene...», mormorò annuendo fra sé e sé.

    L’adrenalina attraversò il mio corpo come una scossa.

    Michael s’incamminò verso la sottoscritta con passo felino.

    «No, no, ti prego... vai via, mi fai paura...», risi.

    «Uhm...», si accigliò, «devi averne, ragazza...»

    Frignavo e ridevo per la tensione.

    «Oh, Dio, aiuto...».

    Si fermò.

    Feci lo stesso.

    Uno sguardo d’intesa e partì alla carica, rincorrendomi per tutta la stanza.

    Lanciai sottili urla di terrore, troppo lenta per scampare a quella gazzella che era; sarà stato anche un uomo di quasi mezza età, ma l’arzillo vecchietto non era da sottovalutare: Michael era più agile e scattante di un maratoneta!

    Mi prese. Cercai di divincolarmi ma non seppi come fare; la presa era solida. Anche se Michael sembrava 'mingherlino' o senza energie, non lo era per niente. Aveva una forza muscolare che mi lasciava completamente basita.

    Mi buttò sul letto tenendomi per i polsi con entrambe le mani e incastrando un ginocchio in mezzo alle mie gambe. I suoi capelli ricaddero lungo il volto – disordinati e macchiati dello stesso colore dell’inchiostro -, il quale se ne stava a più di venti centimetri dal mio. Ansimava e mi scrutava sorridente, sopra di me.

    «Questo è per avermi chiamato micio indifeso» sussurrò raucamente «e per quella vittoria di tanto tempo fa, quella sleale vittoria di inizio dicembre...»

    Feci una smorfia confusa.

    Capii che si riferiva alla battaglia con i cuscini avvenuta tra me, lui, Prince e Paris, il giorno in cui mi ero trasferita a Neverland.

    Sorrise. «Questo è per avermi sconfitto ingiustamente...».

    Guardò il palmo della mano destra e allacciò le dita in un delicato intreccio con le mie. Le osservai a lungo senza dire nulla. Fu un legame che mi fece esplodere il cuore. Poi Michael si chinò su di me e trattenni il respiro in gola. Le sue labbra mi sfiorarono una guancia. Mi strinsi nelle spalle percependo il suo profumo. Quando Michael si allontanò sorrideva incantato.

    «E questo è per avermi perdonato...»

    Scostai il capo a sinistra, visibilmente imbarazzata.

    «Sono troppo buona con te...», sorrisi, ironizzando sulla situazione. «Ma le tue carinerie non funzioneranno ogni volta... non sono così malleabile!»

    Si alzò ridendo, tenendomi la mano affinché m’issassi in piedi. Mi sistemai la maglia sui fianchi, nel frattempo che Michael se ne stava accanto senza dire una parola; quando m’accorsi che era in silenzio da un pezzo, lo fissai.

    Avvicinò le labbra al mio orecchio sinistro, sorridente, pettinandomi i capelli all'indietro.

    «Non essere così sicura di quel che dici, potresti pentirtene».



    1 Tutti i fan sanno - più o meno - chi sia Joanna Thomae. Alcuni dicono che aveva una relazione con Michael, altri no. Da quel che ho potuto capire attraverso le testimonianze, Joanna rimase in contatto con Michael fino al 2004. Dopodichè scomparve dalla sua vita. Anche qua le voci sono due: lei disse che fu a causa delle “persone” che circondavano Michael, che non la volevano tra i piedi, ma che erano entrambi innamorati; altri dicono che ebbe una storiella con Frank Cascio, che Michael fu semplicemente un tramite per quei due, e che Frank la invitò di nascosto a Neverland (assieme ad un altro gruppo di fan). Fecero sesso nella camera di Michael e fu Frank – se non erro – a far intervistare Joanna in TV, inventando la storia che lei e Michael si amavano. In assenza di testimonianze certe, ho pensato di fondere entrambe le versioni trovate nel web, creando una sorta di “verità nel mezzo”.


    Edited by fallagain - 5/4/2020, 14:07
  10. .
    Capitolo Ventitre: La Fragilità dei Fiori

    «Corri, più veloce!» gridò Michael, ridendo come un bambino. Salì lungo una collina in direzione di un albero lontano. «È proprio lì che ci aspettano i bimbi sperduti!»

    Lo seguii con il fiatone.

    «Non ce la faccio più!» urlai esasperata.

    Michael e io stavamo correndo, giocando e saltando da più di un’ora. Avevamo creato avventure fantastiche, fingendo di essere Peter Pan e la bimba sperduta Moony, e che con noi ci fossero anche Tinkerbell e gli altri: tutti contro Uncino e i pirati. Avevamo finto di navigare oceani, volare e divertirci come due bambini piccoli e infantili. Non sembravamo affatto due adulti di quarantasei e ventinove anni.

    Michael mi aveva fatto patire le pene dell'inferno facendomi correre avanti e indietro per il parco giochi e per i vasti prati di Neverland. Avevo abbandonato la giacchetta su una panchina poco distante dal carosello e, subito dopo, anche i tacchi. I piedi, liberi da scarpe scomode, accarezzavano l’erba pulita e umida.

    C’era un perché se, ad ogni fine giornata, a causa dei bambini e delle corse che mi facevano fare giocando, avevo una fame terribile.

    «Un ultimo sforzo, sfaticata!» rise Michael, il quale distava più di due metri da me. Guardò oltre la mia figura, assunse una smorfia di terrore e indicò un qualcosa alle mie spalle. «Guarda, ci stanno per raggiungere! Se entriamo nel rifugio non potranno farci male! Veloce, principessa!»

    Michael aveva deciso di ribattezzarmi principessa, quel giorno, perché nel bel mezzo del gioco mi aveva fatto indossare la “corona di cristallo del tesoro d’Uncino”. E in più gli ricordava la principessa Selenite della favola. Mi disse anche che il significato del nome “Sarah” era proprio principessa. Mi piaceva quel nomignolo.

    Raggiungemmo l’albero con un ultimo scatto e, toccandolo, il gioco finì: vincemmo contro Uncino, ancora una volta!

    Ci accasciammo a terra, ansimanti, e rimanemmo in silenzio per parecchio tempo. Io ero completamente spompata, avevo un caldo infernale e le calze – che odiavo con tutta me stessa – mi stavano facendo diventare nevrotica; avevo il desiderio di toglierle e camminare a gambe nude. L’altro compagno di avventure, invece, rideva da solo. Anch’egli si era tolto la giacca, già molto tempo prima, rimanendo soltanto con la camicia nera come la notte.

    Più di una volta, durante i giochi, Michael mi aveva fatto i dispetti cercando di alzarmi la gonna; non appena lo fissavo fintamente scioccata, lui sfoderava un sorriso a trentadue denti e una faccia di bronzo assurda.

    Sospirò.

    «Well...» mi guardò allegramente. «Io non sono ancora soddisfatto di questa serata. Vuoi dar ai pirati la rivincita?»

    Inclinai il collo verso di lui molto lentamente, fulminandolo. Michael rise di gusto, si alzò e temetti che volesse costringermi a correre ancora: mi vennero i capelli dritti al solo pensiero.

    Mi porse la mano. «Avanti, andiamo...» disse con il petto che ancora saliva e scendeva per la corsa, nonostante fosse più tranquillo di me. «Ti prendi freddo se non ti metti qualcosa, e ti ammali...»

    «Con questo caldo?» esclamai spalancando le palpebre.

    Sghignazzò e mi fece cenno di alzarmi. Gli diedi la mano, ma mi tirai su da sola con l’altra, giusto per non dargli troppo peso da sollevare. Ci dirigemmo verso la panchina dove avevamo lasciato le nostre cose, ci rivestimmo e finimmo la serata in bellezza con un giro sul carosello. Mentre ci avviavamo verso la giostra, mi chiese se mi fossi divertita e io annuii.

    Vedendomi intenta ad osservare la collana con cura, giusto per controllare che non si fosse rovinata, mi parlò nuovamente.

    «Deduco che ti sia piaciuta parecchio…».

    «Non ne hai idea», gli sorrisi. Michael si grattò la nuca ridacchiando imbarazzato, chinando il capo verso il basso. «Penso di aver capito come mai hai scelto la Luna, fra tutte le cose che potevo ricordarti… ed è un pensiero dolcissimo. Ti ringrazio di cuore».

    Michael fece per parlare, socchiudendo le labbra leggermente, ma poi cambiò idea e sorrise soltanto. Lo sguardo scivolò in basso, sul mio vestito, e lì vi rimase per un bel po’.

    «Hai scelto un abito stupendo»

    Mi guardai. «Grazie. Penso che sia il vestito più bello che abbia avuto fino ad ora. E poi adoro i fiori. Questi sono gigli bianchi e gialli. Penso che risaltino molto sul nero di sfondo. E tra l’altro hanno tutti e due un significato bellissimo, anche se molto differente».

    Mi fissò incuriosito. «E quali sarebbero?»

    «Il giglio giallo significa nobiltà d'animo, un tipo di regalità molto più legata ai propri principi morali che alla nobiltà in sé, qualità che invece viene rappresentata da suo fratello, il giglio bianco. Quest'ultimo può indicare anche purezza e candore. È il mio fiore preferito tra tutti».

    «Qualità che possiedi anche tu», mormorò affabilmente. Arrossii e Michael si umettò le labbra. «Hai un libro con tutti i significati dei fiori?»

    «Sì, anche se in realtà è un quaderno scritto a mano tanti anni fa».

    «Interessante... che significato ha… uhm, la rosa?»

    «Dipende dal colore» esclamai meditabonda. Mi aiutò a salire sulla piattaforma mobile della giostra, per poi sedersi con me su una carrozza. «Se non ricordo male, quella rossa rappresenta “amore passionale”. Quella rosa invece “grazia”. Quella gialla “gelosia”, ma anche “allegria”. Quella bianca, la mia preferita, “innocenza”… un amore puro».

    «Davvero?». Michael sembrava incantato. «E il girasole?»

    «“Ammirazione”, “rispetto” o “gioia”. Dipende dai contesti» dissi ridacchiando. «Tutti i significati li ho presi da un libro scritto da mia nonna – la stessa che scrisse la storia di Selenite e dell’angelo». Risi. «Pensa, da piccola volevo fare la fioraia»

    Rise anche Michael. «Oh God, davvero?»

    «Anzi, no, ho sbagliato! Prima di fare la fioraia volevo diventare stilista!»

    Mi chiese perché; gli dissi che amavo disegnare i vestiti e guardarli sui cataloghi della mia famigerata nonna, la quale per anni – fino alla sua morte – non aveva mai smesso di cucirmi abiti. Ciò nonostante, i miei sogni nel cassetto erano curarmi dell’educazione dei bambini e scrivere libri.

    «Ti piace scrivere?»

    «È la mia vita... oltre ad insegnare. E un giorno, presto o tardi, pubblicherò un libro. Fino ad ora non ho mai trovato l’ispirazione giusta. Tutti spezzoni a casaccio, in mancanza di una trama vera e propria. So che prima o poi avrò un’illuminazione che cambierà per sempre la mia vita».

    Michael si zittì per qualche minuto.

    «Mi auguro davvero che un giorno possa leggere i tuoi racconti...».

    M’irrigidii e arrossii. «Nessuno ha mai letto le mie storie, nemmeno i miei genitori. Sei il primo e forse l’ultimo che sa quanto io sia devota alla scrittura».

    «Mi stai dando il permesso di leggere?», arcuò un sopracciglio.

    Lo fissai intensamente: sorrise con fare dolce, aspettando con ansia la mia risposta. Solo allora capii che forse sarei dovuta restare zitta, sia per l’imbarazzo che avrei provato nel fargli leggere un mio racconto, sia perché avrebbe potuto fraintendere le mie intenzioni: temevo che credesse che lo avrei usato per il successo, prima o poi, cosa che non avevo intenzione di fare.

    «Un giorno, forse...» mormorai facendo la preziosa, alzando gli occhi al cielo. «Forse, e non prometto nulla!»

    Ridacchiò accigliato, poggiando una mano sulla parte alta del sedile della carrozza. Poco dopo si mise in una posizione tale con cui potesse vedermi senza inclinare il capo.

    «Ok, come vuoi» fece spallucce. «E, se me lo permetterai, mi piacerebbe dare un’occhiata anche a quel tuo libro sul linguaggio dei fiori. Anche io li amo, potrebbe essermi utile».

    «Te lo presto volentieri!»

    Sorridemmo entrambi e ci allacciamo nuovamente alle nostre riflessioni personali, esaminando l’ambiente attorno a noi nell’ennesimo giro su quella giostra instancabile. Guardai il vuoto finché non sentii il peso degli occhi di Michael su di me. Studiava il ciondolo che tenevo al collo.

    «Penso a te quando vedo la Luna e i fiori...», attirò la mia attenzione con un sussurro delicato. Si passò la lingua sulle labbra. «I fiori sono uno dei doni più belli della natura. Sono delicati, di svariati colori... alcuni possono nascondere spine e rovi, altri possono spezzarsi non appena li si tocca.

    Così è il sentimento. Il sentimento sboccia come un fiore, ma appassisce nei momenti più bui se non è in grado di superare il freddo inverno; ciò nonostante, rinasce e ritorna ad abbellire il mondo con la sua presenza. I fiori appassiscono, ma se trattati con cura in primavera riprendono vita, creando germogli ancora più belli e più profumati di quelli della stagione precedente. Un cuore può appassire, ma può anche rinascere... se trattati amorevolmente, quei boccioli sopravvivranno all’inverno che verrà, perché c’è qualcuno che li ama davvero».

    Lo fissai a lungo, silenziosamente, aspettando che mi guardasse. Osservava ciò che aveva di fronte con espressione distante, lontana anni luce da quel luogo: dovevo essere abituata a quelle emozioni, con tutte le chiacchierate che avevamo fatto; tuttavia, ogni volta mi catturava nel modo più strabiliante possibile. Tutto ruotava sempre attorno a lui.

    Mi puntò. «Tu sei come un fiore, lo sai? Hai bisogno di essere amata per davvero, affinché tu riesca a sbocciare in tutto il tuo splendore. E sei anche come la Luna. Sei una sorpresa continua. Sei cristallina come l’acqua e il momento dopo sei un mistero a cui non riesco darmi risposta. Sei come luce nell’oscurità».

    Abbassai gli occhi per timidezza. Guardai verso la ruota panoramica, umettandomi le labbra. Emisi uno spasmo di risata e riposi la mia attenzione su Michael. Aspettava che parlassi, forse.

    «Mi pensi più pura e più bella di ciò che sono realmente. Anche tu hai tutte queste qualità».

    Mi lanciò un’occhiata penetrante. «Hai ragione... sul mio conto intendo. Penso che tu sia una delle poche persone che mi conoscono a fondo, una alla quale non ho detto nulla della mia personalità eppure ha capito tutto. Ma non sono d’accordo su una cosa… non è vero che ho un’opinione di te troppo “pura” rispetto alla realtà. Io ti vedo per come sei veramente».

    Prima che potessi rispondere, scosse piano il capo e sospirò tristemente. Il suo volto si contrasse in una smorfia sofferente. Le iridi scure assunsero un’aria malinconica.

    «Penso che questo inverno e i prossimi a venire mi priveranno di ogni futuro germoglio. La primavera non sarà più una fonte di rinascita, solo di angoscia e paura. Non so come farò a resistere...».

    Mi guardò pregante. «Promettimi che almeno tu tenterai di salvarti, nel caso in cui dovessi mai essere coinvolta in storie come la mia. Cerca di scappare da questo mondo di bugie e ipocrisie, e se mai dovessi non...» chiuse le palpebre e poi le riaprì. «Non farti mettere i piedi in testa, fuggi prima che ti distruggano come intendono distruggere me».

    Mi commossi. Mi prese le mani e le strinse forte.

    «Giurami che se mai diventerai famosa coi tuoi libri, non ti lascerai governare da nessuno, neanche se ti obbligheranno a strisciare per terra e baciare i loro piedi. Difendi la tua dignità, mettiti in salvo l’anima... sei più forte di me in questo...».

    Scossi la testa, contrariata. «No, non è vero. Sono forte, ma non quanto te...». I miei occhi lucidi incrociarono i suoi. «Non avrei mai retto e non riuscirei a reggere questo male come te...», sorrisi amaramente, alzando le spalle.

    Posai una mano sulla sua guancia e per un istante mi sembrò di sentirlo tremare.

    «Non sei solo. So che hai paura e che sei preoccupato, sappiamo tutt’e due che non sarà per niente semplice... si capisce che cerchi di nascondere questo dolore a chi ti sta intorno...»

    «Tranne a te...» sospirò.

    Respirai a fondo, concedendomi un istante di silenzio.

    «Tranne a me...» annuii e tolsi la mano dalla sua guancia.

    Lisciai le pieghe della gonna, cercando di nascondere la parte di gambe che fuoriusciva irrispettosa. Nel silenzio che ci abbracciò, rimasi ad accarezzarmi una ciocca di capelli, fissando il suo colore in modo totalmente assente. Quando alzai lo sguardo, vidi che Michael mi squadrava da capo a piedi.

    «Sei stanca? Vuoi andare a dormire?»

    Scossi la testa. «No, riesco a resistere... ho sete però». Mi guardai intorno. «Posso prendere qualcosa da bere, per favore?»

    «No, non puoi».

    La mia espressione speranzosa si congelò. Michael scoppiò a ridere e successivamente mi accarezzò la nuca con sguardo intenerito.

    «Vai, avanti...» borbottò ironicamente, «ti aspetto davanti alla ruota panoramica... prendi anche qualche cosa da mangiare?»

    Non cedere, Sarah... non cedere.

    «Ma sì, dai».

    A fanculo la linea.

    «Ti va di condividere un po’ di caramelle con me?» chiesi.

    «Sì, grazie».

    Scendemmo dal carosello e ci dirigemmo ognuno per la propria strada. Ad una bancarella abbandonata presi un tè freddo – in pieno gennaio, poi... – e riempii un sacchetto di caramelle, tutta felice e contenta all’idea di mangiucchiare qualcosa.

    In seguito mi diressi verso la ruota, la quale distava solo qualche metro dalla bancarella, proseguendo lungo una stradina piana e illuminata da lampioni. Camminai veloce, desiderosa di arrivare da Michael il prima possibile e non farlo attendere molto. Canticchiando silenziosamente una canzone proveniente dal carosello sempre più lontano – precisamente Non ho che un canto di Biancaneve – bevvi un sorso della bevanda che tenevo nella mano sinistra.

    Il tentativo di non creare disastri andò presto in fumo, proprio nel momento in cui fui presa alla sprovvista. Da dietro la schiena due mani mi pizzicarono i fianchi. Lanciai un urlo per la paura, ma non rovesciai il sacchetto di caramelle... la bevanda, in compenso, mi allagò completamente. Il liquido precipitò in gran parte della gonna e delle gambe, con qualche macchiolina anche sul petto, e il bicchiere di plastica cadde a terra.

    Subito quelle braccia si separarono da me e una risata acuta e interminabile mi fece voltare con un’espressione letale stampata in faccia. Michael mi guardava con una mano sulla pancia e una sulle labbra, indeciso se dispiacersi o meravigliarsi riguardo quanto accaduto. Aveva un enorme sorriso che partiva da un orecchio all’altro, si piegava in due dalle risate e tentava di parlare in modo comprensibile.

    «Oh be’» sorrisi sarcastica, alzando un sopracciglio. «La doccia era proprio quello che mi ci voleva!»

    Lui tornò a spanciarsi senza più fiato in gola e dovette sedersi a terra per non crollare di colpo. Le spalle si alzavano e si abbassavano a ritmo degli spasmi. Nemmeno io presi la cosa seriamente, nemmeno m’offesi, e mi misi a ridere con lui – soprattutto a causa della sua risata contagiosa. Quando riebbe le forze per alzarsi – seppur lentamente – la sua faccia era contratta per lo sforzo immane di trattenersi. Evitò perfino di incrociare i miei occhi.

    «Ok, uhm...», strinse le labbra energicamente per non sorridere. «Penso che ci sia bisogno di un cambio abito...»

    Mi atteggiai da finta sconvolta. «Tu pensi?»

    Di nuovo si sganasciò. Poggiai le mani sui fianchi e rimasi a fissarlo fino al momento in cui sembrò riprendersi nuovamente. Gli occhi erano lucidi.

    «Scusa, davvero, scusa, non...» Ebbe altri spasmi di ridarella. La voce s’alzò d'un’ottava. «Sei... sei inzuppata!»

    «Colpa tua, eh!», borbottai. «Mi vieni alla spalle!»

    La mia mente ricondusse quella frase a pensieri perversi, ma finsi indifferenza. Michael si tranquillizzò, pian pianino, respirando a fondo. Continuammo a fissarci sorridendo.

    «Penso che anche non volendo dobbiamo ritornare a casa. Potresti ammalarti...» mi squadrò da cima a fondo con lentezza, adocchiandomi mentre cercavo qualcosa con cui asciugarmi le braccia e il vestito; ormai era tutto da lavare.

    «Hai qualcosa con cui potermi asciugare velocemente? Giusto per non entrare in casa gocciolante...»

    Mi osservò dubbioso, bagnandosi il labbro inferiore.

    «Aspettami qui seduta, torno subito...»

    Annuii.

    Mi sedetti su una panchina vicina nel momento in cui sparì all’orizzonte. Avevo freddo, ma dovetti aspettare qualche minuto prima che Michael tornasse con un paio di salviette in mano. Tolsi la giacchetta. Michael mi consegnò i fazzoletti, ansimando per la corsa fatta, e si sedette accanto a me.

    «Grazie mille».

    «Figurati...». Pausa. «Anzi, scusa...»

    Cominciai prima ad asciugarmi le braccia e i polsi. «E di cosa? Non ti preoccupare!», sorrisi divertita.

    Passai alle scapole, verso il seno, completamente indifferente alla sua presenza. Successivamente passai altri fazzoletti in direzione della pancia e tamponai a vuoto sul vestito; mi inclinai – tenendo una mano sulla scollatura per non lasciar intravedere il seno – verso i polpacci, giusto per controllare che non fossi bagnata anche lì. Non guardai Michael neanche per un secondo; era così silenzioso che non pareva che fosse lì con me, e grazie a Dio erano più bagnati i vestiti che il corpo.

    Espirai soddisfatta. «Fatto!»

    Lo scorsi osservarmi intensamente. Sorrise appena e per un bel tot di tempo non emise una sola parola. Lo guardai confusa, aggrottando le sopracciglia. Si riprese scostando gli occhi verso le sue ginocchia, dove le mani si erano aggrappate con forza. Le ammirai e desiderai prenderle fra le mie: ero innamorata di quelle dita e di quei grandi palmi.

    «Allora... torniamo in casa. Penso che sia un po’ tardi per te» mi studiò di sfuggita e sghignazzò piano non appena alzai gli occhi al cielo. «Hai bisogno di fare una doccia e cambiarti...»

    Mangiammo assieme tutte le caramelle del sacchetto, gettando la spazzatura nei cestini come persone educate e civili. Dopodiché ci alzammo dalla panchina, dirigendoci verso la stazione del treno che ci avrebbe riportato al residence. Non smisi d’osservarlo e Michael se ne accorse, leggendo attraverso la mia occhiata molto eloquente.

    «Non hai sonno, vero?», emise con un risolino.

    Scossi la testa, sorridendo furbetta.

    «Be’», s’umettò il labbro inferiore scrutando dinanzi. «Se fai la brava ti faccio compagnia per un altro po’. Ma prima devi lavarti e vestirti...»

    «Mmh» borbottai. «Io sono sempre brava».

    Michael mi gettò un’espressione indecifrabile. Successivamente percepii la sua mano scorrere lungo il mio fianco, sfiorandomi appena, spingendomi piano verso il suo petto. Rallentò il passo e avvicinò le sue morbide labbra sulla mia guancia; vi premette con dolcezza, mentre il suo profumo di pulito e dopobarba rendeva fragile la mia sanità mentale. La pelle d’oca spuntò sulle braccia e sulle cosce, mentre la nuca pulsava a ritmo dei battiti del cuore.

    «No...». Separò le labbra dalla mia guancia e mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, senza guardarmi negli occhi. «Non lo sei»

    Lo adocchiai di sottecchi, ma tutto ciò che vidi fu la sua lingua scivolare sulle labbra per l'ennesima volta: mi sciolse in una maniera tale da perdere la testa senza rendermene conto, per nulla immune al suo ghigno maliziosamente interessato.

    «Non sono brava?», arcuai un sopracciglio.

    Mi fissò a lungo.

    Poi scosse il capo.

    La sua grande mano percorse la mia schiena verso l’alto. Le dita sfiorarono il vestito e si diressero verso il braccio che tenevo disteso sul fianco. Michael accarezzò l’avambraccio e si allacciò timidamente al palmo della mia mano.

    Arrossii, ricambiando la presa con coraggio, indecisa se dire qualcosa o meno. Che cosa potevo rispondere? Protestare affinché lui mi spiegasse cosa intendesse con quell’occhiata oppure tenere le domande per me? Scelsi l’ultima opzione; era meglio lasciare le cose così e stringere la sua mano fino al ritorno.

    «Sarah?»

    «Uhm?»

    Mi puntò. «Tu sai che ti voglio tanto bene, non è vero?»

    Ebbi un attimo di spaesamento completo. M’accaldai e arrossii di botto.

    «Certo...»

    Quella frase ad effetto mi confuse le idee. Michael annuì gravemente e tornò a guardare di fronte a sé. La stazione era poco lontana, ancora un minuto e l’avremmo raggiunta.

    «Dovrai tenerlo a mente, Sarah...» sussurrò. Le sue iridi si velarono di una luce purissima. «Ricordalo ogni qualvolta starai male: il mio amore è per sempre».

    Sorrisi con dolcezza.

    «Anche il mio lo è». Michael mi guardò ed io cedetti alla commozione. «Sei il mio migliore amico»

    Inclinò la testa di lato. Mi accarezzò la nuca.

    «Noi siamo per sempre», disse seriamente.

    «Per sempre?».

    Sorrise. «Per sempre».

    *

    «Ti aspetto qui, ok?», disse Michael, indicando il materasso con una mano.

    Eravamo in camera mia e mi stava obbligando da mezz’ora a fare una doccia. Io avevo detto che l’avrei fatta dopo, prima di andare a dormire, ma lui insistette così tanto che a momenti volli soffocarlo col cuscino. Si era seduto sul mio letto e avevo incrociato le gambe a farfalla poggiando i gomiti sulle ginocchia.

    Mi chinai su un cassetto, presi la biancheria intima senza mostrarla ai quattro venti e soprattutto allo sguardo curioso di Michael. Dopodiché afferrai il pigiama ben sistemato e ripiegato sulla sedia accanto, dandogli le spalle.

    Non mi dava per niente fastidio il fatto che fosse lì con me, perciò non captai nemmeno se fosse imbarazzato. Io non avevo molto senso del pudore – da piccola giravo quasi sempre nuda per casa – e vedevo lo stare con lui quasi come lo stare vicino ad un amico intimo, un fratello; tuttavia comprendevo che, per rispetto di entrambi, dovevo sicuramente trattenermi dell’andare in giro sventolando in aria il reggiseno o camminando per la stanza in mutande.

    Michael attese una mia risposta a lungo. Mi scordai della domanda che mi aveva posto, poiché troppo impegnata a riflettere sul tempo che avrei speso sotto la doccia. Qualche secondo più tardi lo sentii schiarirsi la voce, proprio mentre ero sullo stipite della porta con lo sguardo perso nel vuoto. Alzò un sopracciglio e sorrise.

    «Stavi parlando con me?» corrugai la fronte. Luì annuì gravemente. «Oh, scusa... non ti ho sentito...», mormorai.

    La sua faccia divenne seria. «Non l’avrei mai detto».

    Lo fulminai con così tanto impeto che si mise una mano davanti la bocca per trattenersi dal ridere. Le mie espressioni erano il metodo migliore per fargli capire ciò che pensavo ancor prima di parlare, e Michael comprendeva ogni mia smorfia.

    «Ah, ah, ah. Molto spiritoso».

    Gli mostrai la lingua, indispettita.

    Michael si incupì; temetti di averlo offeso, ma nel giro di due secondi trasformò quel volto in un’espressione molto buffa e divertente, un’espressione che sembrava quella di un bizzarro animaletto che conoscevo ma di cui non ricordavo il nome. Risi a mia volta.

    «Se a te non disturba attendere, fai pure... qui non c’è niente con cui distrarsi, però».

    Alzò le spalle. «Non fa nulla, io sono paziente...» posò lo sguardo sul libro sopra il comodino, Il Cavaliere D’Inverno. «Posso dare un’occhiata?»

    «Certo! Leggi pure!» annuii e mi chiusi la porta del bagno alle spalle.

    Non chiusi a chiave poiché sapevo che Michael non sarebbe mai entrato di soppiatto. Rispettava la mia privacy, nonostante la sua curiosità rispecchiasse quella di un bimbo di cinque anni.

    Mi spogliai, entrai nella doccia e mi lavai capelli e tutto il resto, cercando di metterci il minor tempo possibile. Uscii, indossai la biancheria e mi asciugai i capelli con due passate di phon. Non appena mi misi su la maglia del pigiama, mi resi conto che mancavano i pantaloni.

    Porcaccia di quella miseriaccia.

    Sospirai. A piccoli passi mi avviai alla porta, l’aprii e mi nascosi dietro per non mostrare le mie gambe nude e un po’ imperfette. Sbucai fuori con il capo e Michael – il quale era preso ad ascoltare la musica del mio lettore CD – s’accorse subito della mia sbirciatina; puntò in mia direzione e rimase ad osservarmi nella mia disperata ricerca dei pantaloni perduti: erano appesi sulla sponda del letto, sulla parte opposta a quella di Michael...

    Lo fissai sbuffando. Ricambiò con uno sguardo confuso, togliendosi le cuffie.

    «Michael» sussurrai ridacchiando imbarazzata, «pensi che ti possa creare qualche shock vedermi a gambe nude? Perché i pantaloni sono...», li indicai con l’indice.

    Si voltò.

    «Pensavo di averli ripiegati assieme alla maglia, ma non ho controllato...», pigolai alla ricerca di scuse. «Ti avviso, non sono un granché come spettacolo. Puoi anche voltarti».

    Mi guardò e fece spallucce, sorridendo di scherno. «Penso che sopravvivrò per questa volta»

    Ridacchiai. Gli lanciai un’occhiata di rimprovero prima di sistemarmi bene la lunga maglia a maniche lunghe che – fortunatamente – mi copriva tutto il fondo schiena. Aprii la porta e mi incamminai velocemente verso i pantaloni: Michael m’osservò per tutto il tragitto, giusto per farmi irrigidire come un palo della luce. Li afferrai con foga, li raggomitolai sotto al braccio e mi diressi nuovamente verso il bagno, veloce come una lepre.

    Prima che potessi attraversare l’altra metà della stanza mi bloccai: Michael mi stava facendo un check-up completo, soffermandosi in maggior modo sulle gambe, e la cosa mi immobilizzava... credevo di aver preso l’uso dei piedi.

    Trattenne un sorriso. «Vederti a gambe nude è veramente scioccante ragazza, lo sai?»

    Roteai gli occhi al cielo. Era chiaro che mi stesse prendendo in giro. Arrossii e mi richiusi in bagno.

    Tornai da lui pochi istanti più tardi. Michael era ancora preso dal mio lettore CD, batteva il ritmo della musica che sentiva attraverso gli auricolari, sia col piede che col capo, senza fare una particolare espressione. Mi avvicinai per poter sentire meglio cosa stesse ascoltando, camminando a piedi scalzi, ma soprattutto per ricordare che CD avessi inserito l’ultima volta. Da quel che riuscii a capire era uno dei dischi di Phil Collins, uno dei miei tanti cantanti preferiti.

    «Ti piace Phil Collins?» chiese nel momento in cui mi sedetti accanto a lui, mentre mimavo le parole della canzone All of my life.

    «Lo conosci?»

    Davo sempre per scontato che, essendo un grande artista, probabilmente avevano conosciuto un bel paio di persone importanti.

    S’umettò le labbra e annuì veemente. «Oh sì. Una volta mi consegnò un premio, sai? E mi fece anche conoscere i suoi figli, Lily e Jill… uno dei pochi adulti che non mi ha mai giudicato malignamente». Mi puntò, gentile. «Il suo stile è molto bello, raffinato, e la sua voce è davvero dolce. Mi piace».

    «Già, anche a me piace per quello» sorrisi, «le sue canzoni hanno dei testi davvero belli. E la sua musica mi dà un senso di pace incredibile. Be’, in realtà amo tutto di quell’uomo»

    Mi studiò a lungo, sorridendo. «Lo ami come fan?»

    «Anche. Ma penso che se avessi avuto la possibilità di stargli accanto, me ne sarei perdutamente innamorata. Proprio per la sua aria pacifica e amorevole»

    Feci una pausa, sospirando felice.

    Michael inarcò le sopracciglia. Continuò a fissare le sue mani in silenzio, finché ad un certo punto sorrise. Sghignazzò fra sé e sé, dando modo alla curiosità di delinearsi sul mio volto.

    «Hai avuto altri amanti impossibili oltre a Phil?», mostrò un sorrisetto sghembo.

    «George Michael», risposi seriamente.

    Ci fu un attimo di silenzio e si accigliò.

    «George Michael?»

    Annuii. «George Michael, già...».

    Michael era indeciso se ridere o rimanere serio.

    Sorrise, spiazzato e addolcito. «Sei sensazionale... incredibile davvero...».

    Arrossii non appena me lo disse.

    «Lo sai che George Michael è omosessuale, vero?».

    «Sì, lo so», sospirai tristemente.

    Michael mi dette un buffetto sulla guancia.

    «Non mi interessa se è omosessuale, è stato il mio primo amore impossibile. Uno dei due uomini che mi ha fatto piangere quando ho scoperto che non avrei mai avuto nessuna possibilità con lui». Risi. «Ero persa – totalmente fusa – per quell’uomo, lo vedevo in TV e mi spuntava subito un sorriso grande come una casa, e il cuore non la smetteva di battere! Può essere anche pelato, disabile, cieco o con gravi problemi mentali, ma rimane sempre l’uomo dei miei sogni adolescenziali».

    Notai che Michael era rimasto silenzioso e con un’espressione talmente seria da far paura. Immediatamente mi chiesi se non avessi esagerato con le moine da fangirl, ma mi sbagliai: sorrise.

    «Si vede...», sussurrò. Le sue iridi scintillarono. «Si vede che lo ami moltissimo... ed è per questo che ti dico che sei incredibile... solo per questo. Perché lo scintillio che i tuoi occhi hanno quando parli di lui o di Phil sono di amore profondo. Ti ammiro perché ami incondizionatamente».

    «Davvero?», chiesi titubante.

    Annuì. «Non potrei dire cosa più vera di questa». Mi accarezzò la guancia inglobandola con tutto il palmo della mano. «Ti adoro per come riesci ad amare senza distinzioni e senza fare differenze»

    Arrossii e, accennando ad un riso, inclinai il capo verso destra, come se stessi cercando di nascondermi dalla sua vista. Lo sentii sogghignare di gusto e posare le sue dita dalla mia guancia alla mia mano; mi parve di sentirlo tremare dall’emozione.

    «Lo sai che anche io come te mi sono innamorato di persone famose?»

    Lo fissai. «Di chi?»

    «Di Brooke Shields», sghignazzò timidamente.

    Smise di ridere vedendo la mia faccia sconvolta. Feci gli occhi a palla.

    «Non dirmelo… quella di Laguna Blu

    «Mmh...», annuì pensoso. «Come me è stata una bambina prodigio, una ragazza che ha iniziato fin da piccola la sua carriera nel mondo dello spettacolo. Avevo la camera da letto piena dei suoi poster... l’adoravo e con questo scaturivo la gelosia delle mie sorelle...», rise. «L’ho anche conosciuta. Siamo usciti parecchie volte... la volevo sposare…»

    Spalancai la bocca dalla meraviglia. «Wow... non l’avrei mai detto! E ti piacevano altre ragazze oltre Brooke Shields? C’erano altre attrici o cantanti o ballerine che ti hanno fatto provare amore?»

    «Sì, certo...», annuì piano, «c’era... uhm... Diana Ross, che penso che tu conosca. Per me è stata unica. L’ho sempre ammirata e segretamente amata fin da bambino...»

    «Amata nel senso... da uomo a donna? Un amore vero?»

    Annuì. «A-ha...»

    Cominciò a raccontarmi di lei, di cosa avesse provato e della “storia” che li aveva coinvolti: da come me ne parlò sembrò veramente innamorato, o perlomeno lo era stato. Anche se aveva sofferto aveva mantenuto un affetto molto profondo per lei. Era una cosa da stimare.

    «Ci sono state delle ragazze famose che ti hanno cercato? Nel senso, donne che erano attratte da te e che non ricambiavi?»

    Rifletté. «Sì, c’è stata Madonna, per esempio».

    «Madonna? La Ciccone?» domandai sgomenta.

    «Sì, proprio lei...» annuì divertito per la mia mascella calata.

    «E che donna è?»

    «Sarò sincero, è attraente. Ha un bel corpo e molto carisma, non c’è alcun dubbio, ma...» fece una strana smorfia, «la cosa che non mi è mai piaciuta di lei è che è troppo...»

    «Maliziosa?»

    «Anche, ma soprattutto troppo esibizionista. E poi pensava solo ed esclusivamente al sesso».

    La risposta di Michael mi spense. La sua espressione era grave e tuttavia se ne stava con un sopracciglio arcuato, imbarazzato per le parole appena dette. Non avevamo mai trattato dell’argomento “sesso” insieme, e quella fu la prima occasione che avemmo per farlo.

    Lo guardai pensierosa. «Non ti piacciono le persone troppo interessate al sesso?»

    «Sarah...» sospirò chinandosi verso di me. «Io non ho mai avuto un bel rapporto con donne e sesso, soprattutto se i due concetti sono strettamente legati fra loro. Ma sono comunque un uomo. Ho i miei bisogni e desideri», arrossì vistosamente, «ma all’epoca non mi interessavano le persone come lei. Personalmente preferisco le donne amanti della propria privacy, non quelle provocatrici e incapaci di tenere a freno l’istinto. Sensuali, sì, ma riservate».

    Gli sorrisi.

    «Quindi...» aspettai che la sua attenzione fosse su di me, «alla fine Madonna non ha fruttato una relazione amorosa?»

    Scosse piano la testa. «No, non abbiamo avuto nessun rapporto, niente di niente... era anche parecchio gelosa – gelosa della fama – come tutti coloro che ti circondano quando sei così famoso come me».

    «Forse è stato meglio così. Hai avuto le idee chiare fin da subito e non hai commesso errori che potevi evitare».

    Annuì con serietà. «Lo credo anch’io».

    Lasciammo che la musica che si sentiva attraverso le cuffie inglobasse noi e tutto ciò che vi era intorno. Scese ancora verso la mia mano, la strinse in una solida presa e ne accarezzò a lungo il dorso. Mi venne voglia di abbracciarlo e posare la testa sulla sua spalla, ma mi trattenni.

    Di colpo spense la musica, posò il lettore CD sul comodino in parte a lui e assunse un’aria per nulla convincente. «Ti piace Janet Jackson, Sarah?»

    Annuii. «Sì, molto!» esclamai ingenuamente.

    Janet era una delle mie cantanti preferite, mi aveva accompagnato per tutta l’adolescenza e gli anni universitari. Sentivo un legame speciale nei suoi confronti, ma non l’avevo mai nominata di fronte a Michael perché, per quel poco che sapevo di lui, ero cosciente del fatto che fossero fratello e sorella; nominarla per me sarebbe stato come dire: “Ehi Michael, adoro tua sorella, non è che per caso me la fai conoscere di persona?”.

    «Le assomigli» disse sorridendo. «In alcuni aspetti caratteriali siete molto simili...» Guardò in basso e si bagnò il labbro. «Io e Dunk siamo sempre stati molto amici, sono protettivo nei suoi confronti e condividiamo le stesse passioni»

    «Dunk?» chiesi confusa.

    Mi fissò sorridente. «Sì. In famiglia tutti la chiamiamo Dunk. È la nostra asinella. È un nomignolo che le abbiamo dato quando era piccolissima»

    M’imbronciai. «Non è molto carino...» mormorai, contrariata nel vedere la sua espressione segretamente divertita. «Non è gentile...»

    «Ma lei non si offende».

    «Sicuro?»

    Annuì. «Sì, sa che scherziamo».

    Bofonchiai un “Mmh” per nulla convinto.

    «Ha avuto nomignoli peggiori... questo è un complimento in confronto». Alzai lo sguardo, ma cambiò discorso, sfuggendo dai miei occhi. «Lo sai che si esibirà al Superbowl di quest’anno? Fra qualche giorno?»

    Spalancai le palpebre, illuminandomi. «No, davvero?»

    «Sì, piccola». Morii non appena mi disse piccola con la sua voce rauca e bassa. «Ti va di guardarlo assieme? Non dovrei avere alcun impegno quella sera...».

    «Oddio, sì!» esclamai in tono euforico, facendolo ridere. «Davvero?»

    «Te lo sto chiedendo apposta». Schioccò le mani sulle mie cosce; si morse un labbro e sorrise. «Janet sarà felice di avere una fan a casa di suo fratello».

    Impallidii. «No, ti prego, non dirle nulla».

    Michael si meravigliò. Sollevò le sopracciglia e un attimo dopo le corrugò con indefinita dubbiosità. Arrossii sentendomi piccola piccola per l’imbarazzo; anche se sarei stata la donna più felice della Terra, facendo la sua conoscenza, non desideravo che lo venisse a sapere.

    Issò un sopracciglio. «Perché no?»

    «Perché non mi va che sappia... insomma, non...», mormorai impacciata, gesticolando. Sbuffai. «Non mi sentirei a mio agio, e non lo trovo giusto...»

    Pesò la mia risposta per un paio di secondi. «Quale delle due risposte è la verità?», sorrise piano.

    Arrossii. «In che senso?»

    «Non vuoi perché sei imbarazzata all’idea di vederla di persona», mi puntò, «oppure perché non vuoi che lo sappia per il timore della sua opinione nei tuoi confronti?»

    Abbassai gli occhi. «Per l’ultima...», sussurrai, «e un po’ anche per la prima...»

    Lo studiai scoccandogli un’occhiata penetrante ma sfuggente, solo per capire l’espressione del suo volto: non sembrava ironicamente divertito, anzi, era piuttosto pensieroso.

    «Dunk non ti giudicherà, se è questo che temi» disse individuando il punto della questione. «Non ne ha motivo. Tu sei l’insegnante dei miei figli, lavori per me, e sì...» sospirò, «sei anche mia amica. Perciò non ti guarderà dall’alto in basso, né si farà dei pregiudizi... non in mia presenza».

    Respirai a fondo, osservando le sue mani e il modo in cui le sue dita erano strette alle mie, avvolgenti e piacevoli al tatto.

    Certo, era una grande consolazione sapere che Michael non pensasse alla reazione della sorella, ma quella era una situazione complicata da risolvere; non mi ero presentata alla famiglia Jackson il primo giorno d’udienza e non l’avrei mai fatto volentieri: ammiravo Janet e sognavo conoscerla da una vita, ma non volevo si creasse una brutta idea di me. E poi, anche se con la consapevolezza che Michael mi avrebbe difeso, non volevo creargli dei problemi con la famiglia.

    «Non so, Michael...», bisbigliai. «Preferisco pensarci su... ci devo riflettere con calma...»

    «Sei o no la mia bambina cocciuta?» scherzò Michael, facendo una buffa smorfia fra lo scandalizzato e il divertito. Ridacchiò, poi mi sorrise dolcemente. «Prendi tutto il tempo che vuoi, non ti voglio costringere». Si umettò il labbro inferiore. «Ma saresti una sciocca se non approfittassi dell’occasione...»

    Sogghignai senza divertimento, sistemando una ciocca di capelli dietro l’orecchio; annuii piano, in segno di aver compreso alla perfezione ciò che mi aveva detto, e le nostre mani si slegarono con un sospiro.

    Presi la collana fra le dita, girando e rigirando la mezza Luna fra i polpastrelli, studiandola nei minimi dettagli. Ne osservai i contorni e lo scintillio dei piccoli diamanti come stregata, fino al momento in cui una cuscinata mi colpì in pieno viso, senza però farmi male.

    A bocca aperta fissai colui che me l’aveva lanciata: il sorriso malizioso e birichino che tracciava i lineamenti del suo volto marcarono due lievi fossette sulle guance. Michael era apparentemente calmo, ma possedeva un’anima vivace e giocosa. Nelle sue iridi scure risplendeva la voglia di ricevere una mia reazione arrabbiata.

    Presi il cuscino che mi aveva lanciato e glielo rigettai, squittendo dallo sbigottimento. «Maledetto! È stato un colpo basso!»

    Lo prese al volo e si lasciò cadere sul materasso, ridendo a pieni polmoni. Presi un altro cuscino e mi avventai su di lui, mentre Michael continuava a ridersela e a difendersi con quello che aveva fra le mani.

    «Asp... aspetta! Ouch!... Time out!» urlò sghignazzando.

    Mi fermai e lo osservai diffidente. Si alzò a sedere.

    «Volevo ringraziarti...» Mi gettò un’occhiata maliziosamente divertita. «Non avrei mai pensato che prima o poi avresti comprato qualche mio CD. E non uno, bensì tre!»

    Avvampai. Aveva sbirciato nei miei cassetti.

    «Brutto... spione!»

    Partii all’attacco sferrandogli quanti più colpi potessi, senza la minima pietà. Michael rise ma non se ne stette a guardare: partirono altre cuscinate e poco dopo le abbandonò per passare ad un solletico devastante. Mi solleticò il collo e i fianchi, e per difesa mi raggomitolai su me stessa, tentando di colpirlo con le sue stesse armi.

    Quello era senza dubbio il compleanno più bello della mia vita, e Michael era il dono più bello che potessi ricevere.

    *

    <div style="text-align: justify;">Giorni dopo, come Michael mi promise la sera del 25, ci trovammo a guardare il Superbowl come due vecchi e cari amici (ovviamente registrato, visto che era andato in onda in prima serata). Preparammo pop-corn e bibite fingendo di essere al cinema e ci rintanammo in camera sua, seduti a terra su tanti enormi e soffici cuscini. I bambini andarono a letto relativamente presto, poiché quel giorno Michael aveva bellamente progettato di stremarli con attività che - di sicuro - li avrebbero privati di energie in breve tempo.

    Non aveva considerato il fatto che anche io fossi praticamente cotta.

    Ogni notte andavo a dormire a mezzanotte e mezza – mezzanotte se ero fortunata – e l’indomani mi svegliavo alle sette in punto, sentendomi ogni giorno sempre più stanca; avevo bisogno di dormire, eppure per Michael sarei stata disposta a fare tutte le 24 ore ad occhi aperti se me lo avesse chiesto.

    Il Superbowl iniziò con l'esibizione di Janet. Ebbi i brividi per tutto il tempo, in attesa che la mia adorata cantante comparisse sul palco e si manifestasse in tutta la sua bravura; non ero mai stata ad un suo concerto, ma se un giorno fosse accaduto non sapevo come ne sarei uscita. Ballò “Rhythm Nation”, una delle mie preferite, un pezzo di “The Knowledge” e in seguito comparve Justin Timberlake; assieme cantarono “Rock Your Body”, un pezzo di quest’ultimo artista.

    Di colpo, senza che nessuno lo prevedesse, una parte di seno di Janet fuoriuscì dal costume. Justin aveva strappato – come da copione – un pezzo del suo top e qualcosa era andato storto, svelando un po’ troppo, ma Janet si era ricoperta in un millesimo di secondo.

    La mia bocca e le mie palpebre si spalancarono, ma non perché fossi scandalizzata: la faccia di Janet, di colpo incupita e piena di imbarazzo per non essersi accorta dell’errore, mi fece portare una mano davanti alle labbra. Michael non notò nulla, poiché nell’attimo in cui il seno di Janet veniva svelato al pubblico egli si chinò per prendere un bicchiere di spremuta, sia per me che per lui. Alla mia faccia pensò che fosse successo qualcosa di brutto a sua sorella, ma spiegandogli cosa fosse successo si rilassò... quasi.

    «I media non aspetteranno altro che pubblicizzare l’evento, domani mattina...» sussurrò contrariato, scuotendo la testa con velato disgusto. «Sono fatti così. Trovano il minimo segno di stranezza e lo tramutano in qualcosa di scandaloso. Anche se può essere la cosa più normale del mondo o, in questo caso, una svista. No, per loro l’importante è vendere, dar fiato alle loro cazzate affinché gli stolti possano crederci... così loro guadagnano e intanto l’ignoranza affolla le menti delle persone».

    Il suo sguardo era duro e severo, una maschera di repulsione per la sconsiderata mancanza d’intelligenza delle persone, in questo caso dei giornalisti. Era chiaro che il discorso lo facesse innervosire più di quanto desse a vedere.

    Puntualizzai. «Anche le persone che danno loro considerazione non sono meno ottusi dei giornalisti stessi, a mio parere. E poi, nella vita di ogni giorno, purtroppo, ci sono persone che si divertono a sparare cazzate sul tuo conto, rovinandoti la reputazione».

    Michael meditò. Guardo l’inizio del Superbowl con aria assente e poco dopo si mise in bocca un paio di pop-corn. Una volta masticati e ingoiati mi fissò.

    «Purtroppo hai ragione, ma i tabloid hanno un grande potere, quello di riuscire a manovrare il popolo attraverso i giornali e quant’altro, a differenza delle persone comuni...»

    Michael mi disse che entro qualche giorno avrebbe chiamato la sorella, per darle il suo supporto. Mi domandò se avessi voluto assistere alla conversazione, ma nonostante la segreta voglia di sentire la voce di Janet al telefono, rifiutai; le loro discussioni non erano affar mio e non lo sarebbero mai state. Sarei stata soltanto che maleducata.

    M’addormentai per errore in camera sua, poche ore più tardi, e Michael non mi svegliò. Mi lasciò dormire per tutta la mattinata, senza nemmeno avvisarmi, tant’è che non appena mi svegliai rischiai un colpo al cuore.

    Con il timore d’esser in ritardo per le lezioni mi ribaltai dal letto con uno scatto così agile da sembrare Spiderman in gonnella, non accorgendomi che Michael fosse disteso al mio fianco e che perciò lo avessi svegliato di soprassalto. Alzandomi quasi lo buttai a terra: ridendo, mi avvisò che aveva deciso di lasciarmi libera la mattinata apposta per riposare e riacquistare le ore di sonno perdute. Apprezzai il gesto, perché conoscevo l’individuo, e sapevo che era molto fiscale per quanto riguardava l’educazione dei figli. Difficilmente faceva saltare loro un giorno di scuola, a meno che non ci fosse una motivazione giusta e sensata.

    Michael decise di telefonare a sua sorella il pomeriggio stesso, durante le mie lezioni con Prince e Paris. Mi raccontò di quanto fosse depressa per la sua figuraccia: i giornali cominciarono a far circolare la notizia dell’incidente la mattina stessa. Michael mi comunicò anche che, prima o poi, Janet sarebbe venuta a trovare suo fratello e i suoi nipoti: non seppi se esserne felice o rammaricata.

    «Oh…»

    Mi lanciò un’occhiata penetrante. «Sei felice?»

    Sospirai «Non lo so, onestamente...»

    Mi sistemò la collana sul collo. «Non devi presentarti per forza...» mormorò umettandosi le labbra, fissando la mezza Luna, «e hai molto tempo per decidere. Mia sorella verrà a farci visita a fine mese, o agli inizi di marzo, perché deve concludere l’ultimo album in progetto...»

    La gioia mi scintillò negl’occhi. «Un nuovo album?»

    «Sì...» sorrise, «lo pubblicherà fra qualche settimana, se non ho capito male».

    «Non vedo l’ora». Ero estasiata.

    Fu così che attesi una settimana sperando in una sua apparizione inaspettata. Ahimè ciò non accadde, e io cominciai a perdere la speranza di poterla conoscere al più presto.

    Una mattina – quella del 9 febbraio –, nel pieno di una lezione coi bambini fummo sorpresi da una visita.

    Inizialmente pensai che fosse Michael, probabilmente di ritorno da un impegno importante di lavoro, e invece mi sbagliai. La ghiaia scricchiolò sotto i passi della persona che si apprestava ad entrare in casa, senza destare troppa curiosità a me e ai piccoli Jackson. Mezz’ora dopo bussarono alla porta dello studio. Michael apparve da oltre lo stipite con un sorriso tranquillo.

    Nel momento in cui i bambini s’alzarono per corrergli incontro, egli dette loro ordine di rimanere seduti. Mi chiese se potessi interrompere la lezione e io dissi immediatamente sì, con il cuore che batteva fortissimo.

    «Indovinate chi è venuta trovarci...?», domandò teatralmente, spalancando la porta.

    Il respiro si mozzò, ma la speranza di vedere Janet si spense più veloce di un alito di vento su un fiammifero.

    Una ragazza giovane, forse poco più che ventenne, si mostrò a noi con fare posato e sorridente. Aveva capelli biondi fino alle spalle, occhi azzurri e un viso da bambolina. Era magra, ma aveva le curve nei punti giusti. Studiò Prince e Paris lanciando loro un saluto con la mano, e mi adocchiò rapidamente, con sguardo sfuggevole.

    Era lei la ragazza che Michael amava?



    Edited by fallagain - 5/4/2020, 13:31
  11. .
  12. .
    Capitolo Ventidue: La Mia Luna

    I bambini andarono a letto poco dopo l’una di notte, stanchi morti. Blanket già dormiva da un pezzo. Quand’anche gli altri due lo raggiunsero, non esitarono a lasciarsi scivolare immediatamente in un sonno profondo. Non erano abituati a quegli orari.

    Le guardie del corpo si ritirarono nella loro stanza, quella accanto ai bambini, e io uscii sul davanzale, approfittando del fatto che Michael era in camera dei figli; presi un bicchiere di Coca Cola e mi sedetti su una sedia lì vicino.

    Chiusi gli occhi e inspirai l’aria di magia che c’era intorno.

    Passai altri cinque minuti così, forse anche meno, prima che Michael comparisse alle mie spalle e mi facesse morire di paura, ponendomi una mano sulla spalla senza che me lo aspettassi.

    «Non riesci a dormire?» sussurrò sorridente.

    Ricambiai il sorriso. «Penso che mi godrò il momento...» e guardai dinanzi. «Tutto è pieno di incanto, merita che io lo possa guardare anche solo per una notte...»

    Prese una sedia alzandola piano e sistemandola accanto a me. Prese un bicchiere di spremuta e una pizzetta che addentò e mangiò in un batter d’occhio. Si sedette. Il suo sguardo era perso nell’orizzonte quando i suoi occhi divennero improvvisamente tristi.

    «Mi dispiace, Sarah... se avessi saputo quanto fosse stato importante per te questo posto, ti avrei portato o lasciato fare un giro. Purtroppo non è il mio momento migliore… e non voglio che si sappia che sono qui».

    Sorrisi del suo sguardo rattristato. «Non lo potevi sapere, non ne abbiamo mai parlato! E poi sono felice di aver assistito ai fuochi, è il dono di Natale – o di compleanno, visto che è fra poco – migliore che avresti potuto farmi! Non immagini quanto tu mi abbia reso felice oggi»

    «Sei felice comunque?» chiese titubante.

    Rotei gli occhi al cielo. «Se ti dicessi che sei l’unica persona su questa Terra ad aver realizzato uno dei miei più grandi sogni, che mi diresti?»

    «Direi che sono un uomo fortunato...», rise piano, guardandosi le ginocchia.

    Serrai le palpebre quando un colpo di vento mi scosse i capelli.

    «E tu?» chiesi qualche minuto dopo. «Tu sei felice? Come ti senti?»

    Michael lasciò cadere la testa all’indietro, respirando profondamente. Assunse una smorfia pensosa, sussurrando un “Uhm” a fior di labbra, e poco dopo mi osservò intensamente.

    «Tu come pensi che io stia?»

    Storsi le labbra. «Te l'ho fatta prima io la domanda».

    «Dai, avanti...!» Rise e mi dette una spintarella al braccio. «Voglio vedere quanto riesci a capirmi... cerca di comprendere cosa sto pensando o provando adesso»

    Sospirai e mi concentrai sul suo sguardo. Era intenso, forse anche troppo, e mi studiava dentro l’anima senza che io gli avessi dato il permesso di farlo. Le sue iridi possedevano una luce incredibile, ma non sapevo definire che tipo di sentimento fosse. Avevo sempre immaginato i suoi occhi come ossidiane nere, due pietre preziose e lucenti. Talvolta erano lo specchio della gioia, altre volte erano colmi di una tristezza indicibile.

    Come facevo a rimanere concentrata se Michael mi studiava in quel modo?

    «Sembri...» inclinai il capo da una parte, corrugando le sopracciglia e la bocca. «Al momento sembri tranquillo, felice... non mi sembri angustiato... sei… pensieroso...»

    Accennò un sorriso. «E perché pensi sia pensieroso? O felice?»

    «Non lo so, onestamente. Ma se ho indovinato, ti auguro di essere felice per davvero. E che i tuoi pensieri siano gioiosi».

    Michael s’accigliò, ammirato dal mio comportamento, segno che avevo detto la cosa giusta. Sorrisi e poi mi chiesi se fosse davvero contento o se sotto quell’occhiata ci fosse dell’altro che mi nascondeva.

    «Non sei triste, vero?» mormorai.

    Esaminò ogni dettaglio del mio viso. Guardò dinanzi e sorrise mestamente. C’era qualcosa che mi nascondeva, lo sentivo.

    «In verità...» sussurrò, intrecciando le dita delle mani e poggiandole sulla pancia. «Non lo sono... non ora... mi sto godendo un po’ di aria pulita, molto più di quella che c’è a Neverland, ma...» Schioccò la lingua al palato. «C'è qualcosa che mi tormenta...»

    «Te la senti di parlarne?»

    Mi studiò impenetrabilmente. Vidi quella scintilla di luce guizzare ancora una volta nei suoi occhi. Gli angoli della bocca si alzarono in un sorriso malinconico, non appena inclinò il capo verso il basso e si umettò le labbra con fare nervoso. Sembrava agitato. Più il suo silenzio aumentava, più si muoveva sul posto, cambiando sempre posizione delle gambe o delle braccia.

    Ingoiò rumorosamente la saliva. «Credo... credo di non voler più tornare a Neverland... quel posto... ho bisogno d’altro, ho bisogno di un luogo più...»

    «Più sereno?»

    Gli mancò il respiro. «Sì, diciamo di sì... più puro...»

    Mi gettò un’occhiata eloquente, tentando di comunicarmi qualcosa che non fui in grado di comprendere. Non riusciva a dirlo a parole... magari sperava che fossi io a tirargliele fuori con la forza.

    «Per quello che ha fatto la polizia? Cerchi un luogo dove sentirti più protetto, che non è stato ancora deturpato dalla sua... uhm... innocenza?»

    Tirò un sospiro profondo. «Sì, anche...»

    Si umettò le labbra e ammirò il vuoto per un po’.

    «Neverland è importante, ho molti ricordi... io... io non so se cerco precisamente un posto!» Aggrottai le sopracciglia e lui guardò in alto, cercando le parole adatte. Gesticolò a vuoto. «Io ho bisogno di amore, di un qualcosa che mi tenga al sicuro! Ho bisogno di rinascere, ma soprattutto di trovare forza, coraggio... il mio cuore deve volare di nuovo!»

    Se ci fosse stata la luce del giorno e non avessi pensato di aver visto male, avrei potuto dire che stava arrossendo. Era così impacciato che mi faceva tenerezza. Di colpo tutto si fece più chiaro. Almeno così credetti.

    «Aspetta, Michael...» mormorai poggiando i gomiti sulle ginocchia. I suoi occhi mi osservavano in attesa, quasi allarmati. «Tu non stai parlando di un posto dove vivere, non è così? Correggimi se sbaglio, perché mi sa che non ci arrivo da sola…» ridacchiai imbarazzata.

    Lui non rideva. «No, non è un posto...»

    Drizzai la schiena e lo guardai sorpresa. Michael svoltò la sua attenzione altrove, solo per sfuggire al diretto contatto coi miei occhi. Quella conversazione lo stava più mettendo a disagio che a suo agio, ma ero sicura che volesse tirar fuori ciò che lo angustiava.

    «Tu stai cercando l’amore di una donna?», domandai perplessa.

    Il suo tentativo di evadere il discorso crollò come un castello di carte. I muscoli del corpo e della faccia s’irrigidirono, bloccandolo in una morsa d’acciaio, e le palpebre si spalancarono sempre di più. Michael buttò fuori l’aria con un sussulto. Si morse le labbra e annuì piano.

    «Scusa... non vorrei farti altre domande di questo genere, però... la ragazza di cui sei innamorato? Non siete fidanzati?»

    Sembrò quasi sul punto di scuotere la testa, ma le sue iridi s’incatenarono alle mie prima che potessi dare giudizi troppo affrettati. Mi sentivo confusa.

    «Siamo fidanzati, sì, più o meno...»

    Corrugai la fronte. «Mmh».

    Il suo sguardo non la smetteva di puntarmi seriamente.

    «Be’, se lei ti ama davvero, non ti devi preoccupare di nulla. Insomma, quel più o meno non mi convince molto, te lo devo dire sinceramente, ma la cosa migliore da fare è parlarle. Essere onesti l’uno con l’altro. Parlale dei tuoi sentimenti. Se ti ama, sono sicura che ascolterà i tuoi bisogni e ti renderà veramente felice. Forse ti senti così perché ti manca e basta, in questo periodo...»

    Sorrisi e mi interruppi. Michael era sul rischio di un attacco d’ansia immediato e non volevo renderlo nervoso, non quando si stava godendo un momento di relax. Mi alzai per prendere qualcosa da mangiucchiare e gli passai di fronte senza più dire nulla; era completamente perso nel buio della notte, assieme alle sue silenziose riflessioni.

    Tornai a sedermi con due pizzette, soddisfatta di mettere qualcosa sotto i denti che fosse salato.

    «Sarah...» sussurrò. «Posso farti una domanda un po’ personale?»

    Mostrai un’espressione di finto terrore. «Mi spaventi quando usi questi toni, lo sai?»

    Ridemmo entrambi. Se solo avessi posto più attenzione alla verità di quei suoi occhi scuri, sarei stata in grado di capire ogni cosa.

    «No dai, dimmi. Non ho problemi a rispondere ad alcun tipo di domanda», sorrisi.

    Si umettò il labbro inferiore e accavallò le gambe, scoccandomi uno sguardo perplesso. «Sei innamorata?»

    Attimo di silenzio pesante.

    Io guardavo lui e lui guardava me, ma sicuramente sembrava più in agitazione Michael che io. Anzi, la sottoscritta cominciò a ridere.

    «No» scossi la testa con divertimento. «Non lo sono. Non lo sono più da anni, ormai» mormorai cupamente. «Questo sia perché ho paura di innamorarmi, sia perché sono diventata molto più selettiva con gli anni. Mi affeziono facilmente – anche se non sembra – e ora che ho quasi ventinove anni ci tengo a fare le cose per bene. Non voglio scegliere la prima persona che capita a casaccio. Voglio scegliere quella giusta, possibilmente». Tirai un profondo respiro. «Ma a volte penso che l’uomo dei miei sogni non esista».

    Mi ammutolii per qualche istante.

    «E come sarebbe l’uomo dei tuoi sogni?»

    «Forse chiedo troppo» dissi piano, mentre Michael non sapeva in che posizione mettersi per ascoltarmi. «Anzi, sicuramente chiedo troppo. Ma penso che la persona giusta sia semplicemente qualcuno che mi sappia amare. Ma amare veramente. Mi piacerebbe un uomo maturo, che sappia quel che vuole e non abbia paura di lottare per mantenere vivo un rapporto... e che sappia prendere l’iniziativa». Ridacchiai imbarazzata. «Qualcuno che sappia farmi ridere… che sappia come prendermi nei miei momenti brutti e in quelli belli – e io lo stesso con lui. In una relazione si cresce assieme. Non importa quali o quanti difetti uno abbia, neanche io sono perfetta, perciò mi basta che sia un rapporto di onestà e lealtà reciproca. Mi piacerebbe qualcuno che sappia vedere oltre... sì, insomma, che mi veda per quello che sono davvero e che mi aiuti a tirare fuori il meglio di me.

    Non sto cercando di essere salvata da qualcuno. So salvarmi da sola. Vorrei solo una persona che resti, che non mi faccia sentire in dubbio o insicura di me stessa. L’amore deve arricchire, non impoverire».

    Sospirai e lasciai cadere la schiena sulla sedia.

    «E tu?» chiesi fissando Michael sorridendo. Lui alzò le sopracciglia, confuso, e il suo silenzio mi fece intuire che stava meditando molto. «So che hai già una ragazza, ma… com’è la donna dei tuoi sogni?»

    Alzò lo sguardo. «Well...» sogghignò, «diciamo che è molto simile al tuo principe azzurro, solo in versione femminile. Mi piacciono le donne che sanno essere bambine, che vogliono giocare e divertirsi, che sono allegre quanto posate e dolci. Ma con la testa sulle spalle. Ammiro l’eleganza e la classe, la lealtà e la bontà d’animo, ma anche l’intelligenza e l’empatia.

    Con gli anni la possibilità di incontrare una donna del genere è praticamente scomparsa. Sono decisamente molto più selettivo di un tempo, esattamente come te. Tutte le donne hanno un loro fascino, chi per una cosa e chi per un’altra. Alcune sono speciali, uniche nel loro genere, belle come un gioiello prezioso, altre invece hanno bisogno di crescere, non importa quanti anni abbiano».

    Avrei potuto spendere una notte intera, lì, a sentir Michael parlare delle donne e di tutto ciò che amava in loro, come anche di ciò che invece non apprezzava. Quando gli dissi quanto lo rispettassi e lo ammirassi per ciò che aveva detto, sghignazzò tutto imbarazzato; tutt’e due capimmo che eravamo più simili di quanto credevamo.

    Sorrisi.

    Passammo gran parte della notte tra momenti di assoluto silenzio e fitte chiacchierate o risate spensierate. Parlammo di un po’ di tutto, ma soprattutto di infanzia, cartoni, giocattoli, ogni cosa che riguardasse il tema bambini; parlammo di sogni infantili, di desideri, di fantasia.

    Dopotutto, eravamo a Disneyland.

    Andammo a dormire verso le tre di notte e partimmo solo qualche ora più tardi, verso casa. Il cuore soffrì per la partenza. Quel giorno i raggi solari battevano sulla terra attraversando un cielo senza nuvole. Gli occhiali da sole riuscirono a nascondere la mia tristezza.

    Solo le dita di Michael, strette tra le mie, furono in grado di infondermi gioia e serenità.

    *

    Passò qualche settimana dal primo gennaio e successero parecchie cose; molte cambiarono, a cominciare dalla residenza.

    Come Michael aveva detto giorni prima del 31 dicembre 2003, non aveva più intenzione di abitare a Neverland; comprò una casa a Beverly Hills, su una collina alberata che dava su un parco per bambini, con tanto di campo da tennis, piscina e palestra. Era enorme, più grande del residence di Neverland. La casa era colorata di bianco all’esterno, mentre l’interno era tutto in legno – non magica come la tenuta precedente, ma tuttavia incantevole. Aveva dieci camere da letto, enormi stanze e finestre, e una grande meravigliosa terrazza al primo piano.

    I bambini ebbero ognuno la propria stanza; anche Blanket ne ottenne una, accessibile direttamente a quella di Michael, nel caso in cui il bambino avesse bisogno immediato del padre. Io dormivo vicino a Prince, di fronte alla camera da letto di Michael: la sola cosa che ci divideva era un ampio corridoio. Entrambi disponevamo di finestre enormi e perciò – se volevamo – potevamo salutarci da una camera all’altra senza neanche aprire le porte delle nostre camere.

    L’Isola che non c’è avrebbe continuato a vivere – andavamo a visitarla ogni settimana, quasi esclusivamente per portare i bambini a giocare, pernottando solo nel weekend. Per Michael erano dolori rivedere quella dimora, visto che cominciava ad abituarsi a quella nuova, anche se non del tutto; la pena che provava nel dover lasciare Neverland era un peso enorme da sopportare, poiché era in quella abitazione che aveva modellato il suo Io bambino e la sua infanzia mancata, nonostante tutto fosse stato tutto deturpato dalla polizia.

    Per i bambini non fu difficile reggere il trasferimento, anzi, la presero come una nuova entusiasmante avventura. La cosa più complicata per tutti fu fare i bagagli: tutti quanti – Michael soprattutto – avevamo un sacco di cose da portare via. Decidemmo perciò di fare le cose con calma e di utilizzare quei weekend in cui andavamo a far visita a Neverland per prelevare tutto ciò che ci serviva e che rimaneva dei nostri bagagli, anche se una parte l’avremo lasciata lì, in caso di un pernottamento più durevole.

    Il 16 gennaio ci fu la prima udienza preliminare in tribunale, a porte chiuse, a Santa Barbara.

    Il giudice negò alle telecamere di entrare in aula, quando più di 100 organizzazioni e media di tutto il mondo avevano richiesto l’accesso. Decine di autobus carichi di fan arrivarono di fronte al tribunale prima dell’alba di quel giorno, con tanto di cartelloni, striscioni e carri che supportavano Michael.

    Quest’ultimo fu in preda al panico e intrappolato in una sorta di silenziosa rabbia per i tre giorni precedenti all’evento. Fu terribile vederlo in quello stato, nervoso e angosciato, e tentai in tutte le maniere di consolarlo e assicurargli che non ci sarebbe stato nulla da temere. Ogni notte andavo a trovarlo nella sua stanza per dargli una mano a reggere quel peso terribile, standogli vicino o tenendogli la mano per ore, mentre lui si sfogava camminando avanti e indietro per la camera e si risiedeva sul letto per raccontarmi come si sentisse inquieto e arrabbiato. In quegli ultimi giorni decidemmo di comune accordo che avrei dormito con lui.

    Anche i membri della famiglia – quelli che lui descrisse come sua madre e i suoi due fratelli Jermaine e Randy – la mattina del sedici si presentarono ai cancelli della residenza di Beverly Hills, lei vestita con uno stupendo color lavanda e i due fratelli in un elegante abito nero e blu scuro, per fargli compagnia in quella giornata difficile.

    Ma quello era solo l’inizio.

    Michael si vestì con giacca e pantaloni neri, sotto una camicia bianca e – sul braccio destro – una fascia dello stesso colore. La sua famiglia non entrò in casa, lo aspettò fuori, e quel giorno anche Grace andò con lui, oltre a gran parte del suo staff più intimo; fu Michael che mi chiese di stare con i suoi bambini e sapevo era la cosa più giusta da fare... io avrei dovuto portare avanti le lezioni e lui mi disse – la sera prima – che sarebbe stato meglio per la mia sicurezza personale, per il mio umore e per i suoi figli.

    Fu Michael a raggiungermi in camera mia, poco prima di partire, bussando leggermente alla porta mentre io mi mordevo le mani; non ero ansiosa per cosa sarebbe successo, ma per lo stato d’animo di Michael. Inoltre l’idea di non essergli vicino, pronta a fargli percepire il mio affetto, mi faceva rodere lo stomaco; mi conosceva e aveva cercato in tutte le maniere di tranquillizzarmi, mentre io tentavo di tranquillizzare lui.

    Mi ricomposi dallo stato di inquietudine che provavo e lo feci entrare in camera. Rimase sulla soglia per parecchi istanti e fui io a raggiungerlo.

    Mi disse che presto se ne sarebbe andato in tribunale, che avrebbe tentato di farsi forza, e che gli sarebbe dispiaciuto non avermi là. Non appena mi disse che avrebbe dato prova della sua forza di carattere, lo abbracciai calorosamente. Ricambiò la stretta con un’energia tale che sembrava cercasse di aggrapparsi a me per non crollare a terra.

    «Sarai fortissimo», gli sussurrai, baciandolo su una guancia. I suoi occhi si chiusero e respirò a fondo. «Sono sicura che ti farai valere. Non avere paura di loro, io credo in te. I fan credono in te! La tua famiglia pure. Non sei solo, ci siamo noi. Sei indistruttibile. Ricordalo sempre».

    Lui mi accarezzò la guancia con il dorso della mano.

    «Non so proprio cosa farei senza il tuo appoggio...» I suoi occhi erano sul punto di lacrimare. La voce bassa non riusciva a tradire la nascosta tristezza del suo sguardo.

    Sorrisi dolcemente. «Io credo in te e ti appoggio perché sei mio amico, e ti voglio bene. Ora vai! Altrimenti farai tardi!», dissi gesticolando in modo buffo, tentando di mettergli allegria.

    Lui annuì e mostrò un debole sorriso addolcito, dandomi un ultimo affettuoso abbraccio e un energico bacio sulla fronte. Quando fu in procinto di scendere le scale lo richiamai; lui si voltò e mi guardò dubbioso, con in mano un paio di occhiali da sole per nascondere i suoi occhi tristi al pubblico.

    Strinsi un pugno e lo alzai, portandolo a poca distanza dal viso. «Non sono cose belle da dire, essendo una donna, ma mi raccomando...», il suo sguardo si fece interrogativo al mio tono fiero ed vivace. Sorrisi sorniona. «Fai loro il culo, Michael!»

    Lui rise piano, scuotendo la testa. Qualcuno lo richiamò dalle scale al piano terra e lui annuì, urlando un “Arrivo!” pieno d’emozioni; mi fissò un’ultima volta e, posando le dita della mano destra sulle labbra, mi mandò un bacio a distanza. Io sorrisi. Mi sussurrò uno dei suoi tipici “I love you more” e scese le scale, uscendo di casa e lasciandomi in una fitta coltre di pensieri.

    *

    Fui tesa per tutta la mattinata. Perfino i bambini erano nervosi... e con molta probabilità delle cose lo erano perché percepivano quelle emozioni da parte mia. Ma finsi abbastanza bene con loro. Concentrandomi solo sui figli di Michael, le ore passarono più o meno veloci.

    Michael arrivò con Grace e alcune guardie del corpo a casa nel primo pomeriggio. Michael scomparve in camera sua e ci rimase fino a sera. Io dovetti finire le lezioni pomeridiane con Prince e Paris, con un terribile magone sullo stomaco che non prometteva nulla di buono.

    Alle quattro e mezza spaccate, non appena Prince e Paris terminarono le lezioni e Grace decise di portarli a fare un giro con Blanket, accorsi in camera di Michael. Mi lasciò entrare senza che io gli chiedessi il permesso, frattanto che lui passeggiava per la stanza nervosamente; mi sedetti sul suo letto e lui mi raccontò ciò che era successo, come i suoi fan lo avessero appoggiato, come il giudice si fosse arrabbiato per il suo ritardo di venti minuti in tribunale, delle mosse di danza sopra la macchina... e della cosa che più lo aveva fatto adirare, ossia un poliziotto che aveva spinto a terra un suo fan.

    In tono molto irato, ripetendo sempre più o meno le stesse cose, esprimeva tutta la sua rabbia verso quell’uomo, usando un linguaggio colorito che mai mi sarei aspettata da parte sua. Alzando l’indice verso l’alto, imitò che cosa aveva detto: «Tu non tocchi i miei fan, fanculo!».

    Finito lo sfogo si sedette sul letto in parte a me, lo abbracciai.

    Il silenzio prese il posto delle parole. Ad un certo punto, distesi entrambi a pancia in su a guardare il soffitto con aria vacua, mi guardò, con occhi seri e intensi. La rabbia di prima scemò pian piano, dando spazio a riflessioni oscure e amareggiate.

    «Pensa se fossi stata tu quel fan...»

    Schioccai la lingua al palato, guardando il soffitto. «Ah be’! Di sicuro non appena mi rialzavo da terra gli tiravo un calcio nei cosiddetti!», risi. «Poi finivo in galera, ma almeno ci andavo contenta e soddisfatta!»

    Lui non rise, nonostante gli angoli della bocca si alzarono percettibilmente. Il mio riso scemò e si trasformò in un cenno di mogia allegria.

    «Probabilmente, se fossi stata al posto di quel fan... la cosa che mi sarebbe venuta più semplice sarebbe stato fulminarlo con lo sguardo. Credimi, sono capace di uccidere con solo un’occhiata, se mi metto».

    «Sì, lo so che sei una donna feroce» sorrise e io sghignazzai, lasciando andare tutta la tensione. Lui mi ascoltò ridere e poi ritornò cupo. Il viso si contrasse. «Credo che se tu fossi stata lì e se quel poliziotto ti avesse trattato così male, sarei sceso dalla macchina e...»

    La rabbia gli fece perdere le parole.

    Gli sventolai una mano davanti al viso. «Sì, lo so, lo so! Gli avresti dato un pugno che non si sarebbe mai più scordato per il resto della sua vita!» ridacchiai.

    «Sono serio, Sarah», impedì ogni mio tentativo di sdrammatizzare. Si mise d’un fianco per potermi guardare meglio. Il suo sguardo era duro. «Non so che cosa sarei stato capace di fare, ma sarei stato pericoloso. Sarei veramente sceso dalla macchina, per te...»

    Gli sorrisi e guardai il soffitto.

    Dovevo ammettere che vedere un Michael arrabbiato mi eccitava parecchio. Non lo pensavo in un contesto sessuale con me – non ero ancora arrivata a quel punto –, però non potevo negare che non stimolasse i miei ormoni, donandomi una leggera euforia.

    «Grazie...»

    Silenzio.

    «Non mi credi?»

    I miei occhi guizzarono verso di lui. Non seppe se respirare, parlare o starsene zitto; puntò un gomito sul materasso e inclinò il capo.

    «Pensi che non ti difenderei in una situazione del genere?»

    «Penso che lo faresti, ma non a livelli così esagerati...» mormorai intimidita dal suo sguardo acceso di rabbia. «Sì, insomma, credo mi difenderesti... forse non come quel fan, ma...»

    Corrugò le sopracciglia, dopodiché s’accostò al mio viso. «Tu meriti protezione esattamente come la meritano i miei fan! Tu e loro mi avete dato e continuate a donarmi un amore incondizionato, cosi come lo fanno i miei figli».

    Invaghita da quelle parole lasciai che il silenzio scendesse fra noi un'ulteriore volta. Lo sguardo d’uno era allacciato a quello dell’altro.

    Nel tempo che spendemmo in quella fitta assenza di rumori, le sue mani scivolarono verso i miei capelli, sistemando dei ciuffi ribelli al loro posto.

    Mi privava della capacità di parlare.

    *

    Passarono i giorni e la tensione per l’udienza preliminare scomparve dal corpo e dall’anima di Michael. Lo stress si fece meno e in meno di una decina di giorni tornò a giocare con i suoi figli e sì, anche con me.

    Ad ogni modo, anche se la rabbia si placò, non smise di domandarmi se la notte volessi fargli compagnia, anche solo leggendo un libro, guardando un film o parlando di tutto quello che ci passasse per la testa; scoprii quanto spiccata e intelligente fosse la sua persona, ma soprattutto che uomo profondo e di cultura egli fosse. Riusciva a parlare per ore se gli si dava la spinta per farlo. Formavamo tesi e discorsi su materie importanti, come anche per quelle più futili e superficiali.

    Dialogare con lui era come parlare con un’infinita fonte di informazioni; le sue parole entravano in me e mi rischiaravano l’animo, facendo scintillare i miei occhi dall’interesse. La maggior parte dei casi la pensavamo entrambi allo stesso modo, ma se c’era qualcosa in cui avevamo opinioni differenti discutevamo apertamente, senza litigare e soprattutto accettando l’opinione dell’altro. Entrambi sapevamo darci rispetto reciproco.

    Era stupendo aver qualcuno con cui cercare il senso profondo delle cose. A fine serata andavo a dormire con la mente stanca e un sorriso sulle labbra: il cuore si alleggeriva ogni qualvolta fosse presente. Tutto il giorno aspettavo che si facesse sera per andare a trovarlo.

    Durante i giorni del 24 e 25 gennaio, l’ultimo weekend del mese, tornammo come di consueto a Neverland.

    Il venticinque avrei compiuto gli anni – ventinove, ormai – ma non accennai la cosa a nessuno. Non volevo apparire egocentrica. Inoltre, non volevo che mi si facessero regali, soprattutto da parte di Michael; mi chiedevo anche se qualcuno se ne sarebbe ricordato, perciò me ne stetti buona e zitta per tutta la giornata del 24.

    L’indomani, il 25, mi svegliai tardi, destata da un forte battito alla porta della mia vecchia camera da letto. Con gli occhi ancora socchiusi e la voce gracchiante mi alzai in posizione seduta; stiracchiandomi, emisi un sottile “Avanti” e la porta si spalancò: Prince e Paris sbucarono da oltre lo stipite della porta con sguardo gioioso e impaziente.

    «Buongiorno...», mormorai sorridendo, strofinandomi gli occhi.

    Non feci tempo a chiedere che ore fossero o come stessero quel giorno, che subito le loro labbra si ampliarono in un gran sorriso, e urlando eccitati mi gridarono «Tanti auguri zia Sarah!».

    Io li fissai a bocca aperta, meravigliata, e loro corsero sopra al mio letto felici, saltandovi sopra e avvinghiandosi al mio petto; mi dettero entrambi un bacino sulle guance. Nei loro occhi scintillava contentezza allo stato puro, cosiccome nei miei.

    «Oddio, grazie!», esclamai ridacchiando imbarazzata. «Non pensavo ve lo sareste ricordato...»

    «Perché no?», domandò Prince.

    «Be’...». Pensai a Michael. «È passato taaanto tempo dall'ultima volta in cui ve lo feci presente...»

    «Sì che ce lo ricordiamo!», disse Paris prendendomi per un braccio, inducendomi a scendere dal letto. «Però ora devi seguirci, abbiamo una sorpresa per te!»

    Risi. «Andiamo allora!»

    Mi diressi con Paris e Prince nella stanza dedicata all’apprendimento scolastico. C’era anche Grace e teneva in braccio un Blanket tranquillo e pacifico. Si chinarono su un baule in fondo alla camera – dove c’erano giocattoli, strumenti per disegnare e colorare, ecc. – ed estrassero una sottospecie di poster gigante arrotolato. Con il mio aiuto lo poggiammo sul tavolo e non appena si sedettero sulle sedie lo aprirono.

    Il grande disegno, fatto con matite colorate e ridefinito in alcuni dettagli con i pennarelli, ritraeva un grande prato verde scuro e, in lontananza, le giostre di Neverland (una ruota panoramica e il carosello). Nel cielo azzurro splendeva un sole giallo e arancione, e tanti palloncini rossi e blu volavano liberi verso l’alto. Sul prato, in primo piano, c’erano sei personaggi, e tutti si tenevano per mano... in alto c’era scritto: “Buon compleanno! Ti vogliamo tanto bene!”, e in seguito le firme.

    «Quelli siamo noi?», domandai con la voce rotta dalla emozione.

    «Sì» disse Paris. Li indicò uno per uno. «Questi siamo io e Prince che ti teniamo la mano... e qui, in mezzo, ci sei tu, vedi? Poi in parte a me c’è papà, con Blanket e Grace...»

    Guardai il dipinto in ogni dettaglio, andando oltre al fatto che fosse un semplice disegno di bambini di sei e cinque anni, e mi sentii felice. Lo vidi assolutamente perfetto, non importava se non fosse colorato bene o se le parti del corpo non fossero ben proporzionate. Sentirmi parte di un disegno così era un onore, poiché era come sentirsi parte di una nuova famiglia... una famiglia dove l’amore era l’essenziale.

    «Vi voglio tanto bene...», mormorai abbracciandoli, stringendoli forte. Loro risero di gioia mentre io tentavo di trattenere la commozione. «Vi giuro, questo lo appendo in camera, vicino al mio letto, cosicché possa sempre vederlo! È uno dei più bei regali che abbia mai ricevuto finora!»

    Prince sussultò estasiato. «Davvero?»

    «Ve lo giuro!», annuii, dando ad entrambi un buffetto sulla guancia.

    Improvvisamente mi ricordai che mancava qualcuno all’appello, qualcuno di molto speciale. Un amico carissimo. Aspettai che Michael sbucasse dalla porta di punto in bianco, sorridente, e che mi facesse gli auguri; dopotutto prima o poi sarebbe venuto fuori, sarebbe apparso, anche solo per salutare.

    Ma lui non si fece vedere per tutto il giorno.

    «Papà ha detto che torna stasera per cena», disse Paris amaramente.

    Le illusioni che mi ero costruita in pochi minuti crollarono nel giro di un secondo. Egoisticamente, desideravo sentirgli dire “Tanti auguri” con la sua voce bassa e dolce e abbracciarmi. Nessuna stretta era affettuosa come la sua. Non mi serviva un regalo, ma il sospetto che stesse architettando qualcosa mi passò per la testa; non volli farmi troppe illusioni, perciò decisi di attenderlo per cena e aspettare.

    Passai un pomeriggio tranquillo, a volte passandolo con i bambini e a volte ritirandomi nella mia stanza per leggere o telefonare a quelle poche amiche che mi facevano gli auguri, compresi i miei genitori. Mi pareva una giornata come tutte le altre dopotutto, fra le risate e i giochi dei bambini e i miei momenti di riflessione totale, dove mi immergevo nel mio mondo di scrittura e lettura; fu difficoltoso rimanere serena quando in realtà non vedevo l’ora di incontrare Michael.

    Alle sei e mezza Michael arrivò. Entrò dalla porta di casa e salutò tutti noi con un lieve sorriso, il telefono cellulare in un orecchio. Ci disse, salendo le scale, di aspettarlo in sala da pranzo. Così facemmo.

    Qualche minuto più tardi arrivò, si sedette a tavola chiedendoci come fosse andata la giornata ma non emise alcuna frase d’auguri. Io lo guardai a lungo, indecisa se ridere o far finta di niente. Grace tratteneva un sorriso. Perfino i piccoli sembravano stupiti, e dopo vari minuti passati a guardarsi fra loro dubbiosi – mentre io fingevo indifferenza e tranquillità e pregavo affinché non dicessero nulla – lui si accorse del silenzio imbarazzante. I suoi occhi vagarono su tutti i presenti. Desiderai scomparire dalla faccia della Terra o sotterrarmi sotto il tavolo.

    «Che c’è?» domandò piano, sinceramente perplesso.

    «Non fai gli auguri a zia Sarah?» chiese Prince aggrottando la fronte.

    Lo sguardo di Michael s’adagiò su di me. Io lo fissai di sottecchi e sorrisi divertita, mentre le sue labbra si spalancavano dallo stupore. Con le palpebre sbarrate sorrise imbarazzato. Ricambiai con una risatina leggera di divertimento, annuendo piano e arcuando le sopracciglia.

    «Oh mio Dio...» Si alzò da tavola e mi venne accanto. «Scusa, davvero Sarah, me lo sono dimenticato... buon compleanno!» mormorò abbracciandomi. Non me l’ero presa, ma di sicuro mi aveva colto di sorpresa. «Tanti auguri!»

    «Grazie» sussurrai.

    Michael mi baciò prima una guancia e poi l’altra, accarezzandomi la nuca e i capelli dolcemente. Mi fissò dispiaciuto.

    «Mi dispiace davvero tanto», disse emettendo uno spasmo di risata poco divertita. «Scusa…»

    «Ma non serve che ti scusi!» ridacchiai ancora, scuotendo il capo veemente. Gli sorrisi con sincerità, nonostante fossi un po’ delusa per le illusioni che mi ero fatta per tutto il giorno. «Non è successo nulla! Sul serio!»

    Si tornò a sedere titubante. I bambini raccontarono di come il loro regalo mi fosse piaciuto. Ripetei anche che lo avrei appeso in camera, in uno spazio fra le pareti bianche che potesse contenerlo tutto. Michael mi guardò dispiaciuto e quando mi disse che si era dimenticato di farmi un regalo lo tranquillizzai; il regalo migliore che avesse potuto farmi era stato, come gli avevo già detto, portarmi a Disneyland.

    La sera leggemmo una fiaba in salotto accanto al camino, nel salotto di Neverland. Prince poggiò il capo sulle gambe di Grace, distendendosi per lungo, mentre la piccola Paris si teneva stretta al suo papà. Anche Blanket stava accanto al padre e giocava tranquillo con uno dei suoi pupazzi preferiti. Io mi ero seduta su una poltrona con gambe accavallate e una tazza di tè fumante tra le mani.

    Con i suoi occhiali da vista che lo rendevano più interessante e maturo di quanto già non fosse, Michael lesse una fiaba scelta da me: visto che era il mio compleanno – secondo loro – era mio diritto decidere quale fosse la favola del giorno. La sua dolcezza cullò come sempre le nostre menti all’interno del racconto e una volta finito decidemmo tutti di andare a dormire.

    Baciai i bambini sulle guance, augurando loro la buonanotte, ricambiata da un tenero abbraccio da parte di entrambi. Quel giorno abbracciai anche Grace. Infine salutai Michael, il quale mi sorrideva gentile, stringendomi a lui; mi fece dondolare a destra e sinistra per qualche secondo e poi mi dette un bacino sulla tempia.

    D’improvviso ridacchiò e mi si avvicinò ad un orecchio. «Faresti meglio a correre in camera tua...»

    Mi separai da lui con uno scatto.

    Capii tutto.

    I miei occhi si spalancarono, accendendosi per la meraviglia e la contentezza. Michael mi fece un occhiolino strano dei suoi e raggiunse i bambini, i quali erano già fuggiti nelle loro vecchie camere. Grace se ne andò a dormire nella stanza adiacente.

    Rimasi immobile per qualche istante, per riprendermi psicologicamente.

    Più rapida di un fulmine accorsi verso la mia stanza, attorcigliandomi i capelli dalla felicità e sfoderando un sorriso a trecentosessantacinque denti. Entrai con le mani e le gambe che tremavano dall’emozione. Sul letto vidi subito una piccola scatolina rettangolare, avvolta in carta rossa e fiocco bianco, e quella che sembrava una busta. Mi avvicinai correndo e ridendo lessi il messaggio che Michael mi aveva lasciato.

    "Apri il regalo. È importante che tu lo faccia... e in fretta!"

    Non lo rilessi due volte. Spezzai la carta colorata del pacchetto. La scatolina color panna, in plastica, era straordinariamente leggera. Mi morsi le labbra. Quando aprì la scatolina, però, rimasi sbigottita: non vi era niente al suo interno. Solo un altro messaggio su carta.

    Indossa l’abito più bello che hai.
    Ti aspetto vicino al carosello, poco distante dal venditore di gelati.
    Lì ti attende il tuo vero e proprio regalo di compleanno.
    I love you, Michael

    Praticamente mi aveva fregato.

    Rilessi una seconda volta, giusto per essere sicura di aver capito bene.

    La mia mente sembrò svuotarsi. I battiti del cuore alimentavano un agitato scoppiettio di emozioni che raramente mi era capitato di provare. Mi stava tenendo sulle spine e non c’era cosa più eccitante di quella.

    Accorsi all’armadio e rovistai attentamente al suo interno. Più o meno avevo una mezza idea di cosa indossare. Quando trovai il vestito che cercavo, lo presi in mano e lo ammirai, tenendolo per le spalline. In alto, sotto la luce del lampadario della stanza.

    Era un vestito lungo fino alle ginocchia, nero e cosparso di macchie fiorite color bianche e gialle con un visibile ma non sfacciato collo a V. L’abito aveva le maniche a tre quarti e il corpetto attillato si fermava poco più in alto della vita, per poi allargarsi in una gonna a cerchio decisamente ampia. Così risaltavano molto le mie curve, ma senza evidenziare i miei difetti. Mi L’abito mi ricordava molto uno stile anni ’50.

    Decisi di indossare anche dei tacchi bassi e neri e una giacchetta dello stesso colore, giusto per non prendere freddo. Risi tra me e me. Mi misi delle calze color carne e coprenti. Mi truccai con un filo di eyeliner e mascara, dandomi solo una lieve spolverata di fondotinta. Il mio viso non presentava chissà quali difetti – anzi – però lo mettevo per uniformare il colorito. Mi spruzzai anche una piccola goccia di profumo.

    E con la testa che ronzava tra mille pensieri ed emozioni, mi diressi nel luogo dove Michael mi aspettava.

    *

    I passi risuonavano a terra come se il suolo rimbombasse al mio passaggio. Attorno a me c’era un silenzio tombale, se non per una lieve musica proveniente dal carosello lontano. Quando arrivai di fronte al parco giochi, scoprii che tutte le strutture erano accese, illuminando la notte di mille colori diversi, come se stessero aspettato frementi il mio arrivo.

    Presi un respiro.

    Mi guardai intorno, accarezzando nervosamente i lunghi capelli che tenevo in una coda alta. Gli occhi ammirarono tutto ciò che avevo intorno, godendo della dolce musica da carillon che proveniva dalle casse del carosello. Mi fermai accanto ad esso e mi sistemai la gonna del vestito, poi successivamente le maniche e la scollatura del collo a V; non volevo che il seno si vedesse troppo, nonostante fosse una parte di me che amavo molto.

    Mi guardai intorno, cercando Michael nel buio.

    Chinai lo sguardo sui miei piedi.

    Mi sembrò di essere al primo appuntamento con un ragazzo e tuttavia sfumai subito quel ridicolo pensiero dalla mente sorridendo: Michael era solo un amico.

    Ero troppo elegante?

    Eppure mi aveva detto di indossare l’abito più bello che avessi.

    E se fossi stata esagerata?

    Tutta presa dai miei pensieri non mi accorsi nemmeno che il soggetto delle mie più intime riflessioni si era avvicinato di soppiatto. I suoi passi echeggiarono lontani alle mie orecchie, così lontani che lui non esitò a venirmi vicino con le movenze di un astuto felino.

    All’improvviso notai una cosa bianca e scintillante scendere dall’alto, da sopra la mia testa, e posarsi fredda e rigida sul mio collo. Rabbrividii al contatto, sobbalzando appena, sentendo quel piccolo e strano oggetto allacciarsi dietro la nuca grazie a una sottile catenina argentata; Michael non fece difficoltà ad infilarsi di soppiatto sotto la mia chioma e allacciarla al collo.

    La toccai e non potei far altro che abbassare lo sguardo: era il ciondolo di una mezza Luna. Era in oro bianco e al suo interno vi erano quelli che sicuramente erano diamanti di diverse dimensioni. Questi diamanti riempivano il ciondolo completamente. Poco più grande di una nocciolina, la mezza Luna era tenuta al collo da una sottile catena, anch’essa in oro bianco.

    Emisi uno spasmo di imbarazzata risata. «Ma...»

    Cercai di voltarmi verso di lui, ma le sue mani scivolarono sulle mie braccia coperte dalla giacchetta prima che potessi muovermi. Premette i polpastrelli sul tessuto nero, e il suo volto scivolò vicino alla mia gota destra. Mi scoccò un tenue, affettuoso bacio. La spina dorsale fu scossa dal basso verso l’alto da un’ondata di brividi inimmaginabile. Inclinai la testa verso la spalla destra, ridacchiando imbarazzata.

    «Mi dispiace averti mentito poco fa, ma non volevo rovinarti tutto questo...», mormorò soavemente.

    La sua voce, bassa e calda, mi fece venire la pelle d’oca.

    Prima che potessi rispondergli parlò di nuovo.

    «Sarah...» La mano destra cadde lungo il basso, cercando la mia, ed io ebbi un innocente soffio al cuore; non appena la strinse sentii il respiro fermarsi. «Per stasera... anche solo per una notte...». Il suo profumo di pulito mi dette alla testa. «Ritorna bambina con me, all’Isola che non C’è».

    Sbattei le palpebre velocemente, mentre tutto il mondo attorno a me acquisiva colori che non avevo mai notato prima di allora. I brividi mi cinsero la testa in una morsa possente, sconnettendomi dalla realtà, ma quel improvviso senso di euforia non mi permise di perdere il senno completamente.

    Mi girai, arrossendo, senza mollare la presa. Indossava un completo nero con sotto una camicia bianca. Lasciai scorrere lo sguardo dal suo torace al viso, esaminando ogni dettaglio che appariva perfetto così com’era – le guance ben delineate, le labbra marcate, il naso sottile –, scivolando infine sui suoi occhi profondi e luminosi. Mi persi di nuovo in quel tunnel di emozioni, in quei buchi neri di dolore e amore assieme. I sentimenti che quelle oscurità trasmettevano erano di un’incommensurabile bellezza: sorrisi a quelle e alla sua posata ma amorevole espressione.

    «Sarò la prima bambina sperduta?»

    «Sì», disse illuminando il volto con un sorriso ricambiato. «Sarai tutto ciò che vorrai essere e nessuno potrà farci del male. Ti sarò accanto per tutto il tempo».

    Le dita di entrambe le mani s’incatenarono perfettamente alle sue.

    Abbassai lo sguardo, celando la commozione. «Vorrei che fosse lo stesso per te. Dovrei essere io a consolarti e distrarti, invece me ne sto qui – »

    «Moony...», mormorò lasciandomi una mano e alzandomi il mento verso il suo viso. Non appena lo guardai negli occhi, una strana fitta allo stomaco mi fece mancare il fiato. Era bellissimo. Mi sorrise. «Sei più speciale di quanto credi... ma ora devi dimenticare ogni cosa. Ti fidi di me?»

    Più di quanto immagini.

    «Sì, mi fido di te».

    Non avevo colto subito perché avesse scelto la Luna come regalo di compleanno, ma quando mi chiamò “Moony” tutto si fece chiaro e cristallino come l’acqua. Tutti i pezzi del puzzle vennero rimessi al loro posto in un batter d’occhio.

    «Sai, all’università mi chiamavano Moony. Non solo perché ero sempre con la testa fra le nuvole, ma perché ricordavo loro la Luna. La Luna è misteriosa, la sua presenza è delicata e silenziosa. Mi chiamavano così perché, per quanto potessi essere spontanea e amichevole, ero una persona molto segreta e riflessiva. Si dice che la Luna aiuti le persone a guardare dentro loro stesse con onestà. E io aiutavo gli altri con i loro problemi. Quale nome più perfetto di quello?».
    Mi fissò con una serietà disarmante. «Meraviglioso».

    Le sue dita scesero lungo il mio collo, sfiorandolo inavvertitamente, per adagiarsi sulla mezza Luna. Abbassai gli occhi e notai, ancora una volta, quanto le sue mani fossero grandi e protettive rispetto alle mie, e soprattutto quanto desiderassi il costante contatto con esse. Accarezzò il ciondolo con il polpastrello dell’indice.

    «Allora, se ti fidi, lasciati andare» sussurrò fissando la collana. «Lascia uscire la vera te stessa. Chiudi gli occhi».

    Dopo un secondo di titubanza seguii il suo suggerimento, inspirando a fondo.

    Non riuscii immediatamente a tranquillizzarmi, come non riuscii a placare i battiti del mio cuore. Percepivo calore nel petto, una sensazione senza precedenti. Immagini sfuocate invasero la mia mente.

    «Ora non sei più a Neverland, non in quella che conosci» sussurrò Michael riscuotendomi dalle mie riflessioni. «Io sono Peter Pan, e tu la prima bimba sperduta...» Pausa. «La mia prima bimba sperduta».

    Ridacchiai.

    «Qui non sei adulta. Gli adulti sono i nostri nemici, sono i pirati. Dobbiamo lottare, dobbiamo esultare, dobbiamo giocare... dobbiamo fare ciò che vogliamo. Non ci sarà nessuna regola».

    Aprii le palpebre e ampliai il mio sorriso. «Nessuna slealtà...»

    Michael ricambiò con entusiasmo bambinesco. «Nessuno che ci possa dire cosa dobbiamo fare o come la dobbiamo fare».

    «Nessuno che ci giudichi», gli strinsi la mano.

    I nostri occhi si fecero più scintillanti delle stelle in cielo.

    Ridacchiò. Abbassò lo sguardo sulle nostre dita allacciate e s’avvicinò d’un passo. Non udivo più la musica del carosello, ma sapevo che c’era; quegli occhi profondi slittarono furtivi verso i miei, schiudendo piano la bocca nel vano tentativo di parlare.

    «Nessuno che ci dica che non siamo abbastanza per questo mondo» S’umettò la bocca pronto a esplodere in un’altra dolce risatina. Si placò in breve tempo. «... e che non siamo abbastanza in grado di amare».

    Lo sguardo si bagnò di lacrime e lo guidai in direzione del suo collo, sorridendo per sciogliere l’imbarazzo.

    Alcuni istanti di assoluto silenzio mi dettero il tempo di incassare quella frase devastante quanto incoraggiante. Quand’ebbi il coraggio di sollevare lo sguardo per una seconda volta, il suo sorriso era l’essenza dell’amore. Amore vero.

    «Sei pronta a cercare il tesoro del Capitano?», esclamò allegramente, mostrando i denti. «Pronta a volare?»

    «Sempre».

    Due secondi dopo m’incupii.

    «Credo che tu mi debba dare lezioni di volo, perché non credo di ricordarmi più come si fa».

    Scherzai, ma lui prese la cosa seriamente. Mi prese il volto fra le grandi mani. Sarebbe potuto entrare con una sola occhiata dentro la mia testa, il mio corpo o la mia anima e di sicuro io non sarei stata in grado di rifiutarlo.

    I lineamenti marcati delle sue guance si irrigidirono appena.

    «Mesi fa, l’11 novembre 2003, sei arrivata in questo Ranch volando. Le tue ali erano ferite, e lo sono ancora, ma non ti sei mai abbattuta».

    Avvicinò le labbra sulla mia fronte e premette forte. Socchiusi gli occhi. Quando si separo rimase a scrutarmi con fare assente.

    «Ho bisogno del tuo aiuto quanto tu del mio. Devi aiutarmi, e insegnarmi come posso vivere se non ho...», chiuse le palpebre, «se non ho speranza, amore e purezza dentro di me...»

    Percepii ancora la sua sofferenza, quella che non si decideva a lasciarlo in pace e che lo torturava ancora nei meandri più profondi dell’animo. M’avvicinai alla sua guancia, baciandolo, incespicando sui miei stessi piedi per alzarmi sulle punte e arrivare al suo viso.

    Nell’istante in cui sentì le mie labbra, Michael spalancò gli occhi, confuso.

    «Ti voglio bene...», sussurrai.

    Rimase immobile, quasi perplesso. Io sorrisi furbina, gli voltai le spalle e corsi lontano da lui. Arrivata sopra alla pedana del carosello in movimento, mi appesi ad un bastone in legno, stando attenta a non inciampare; solo quando mi afferrai ad esso con entrambe le mani mi girai verso Michael, lasciando cadere la testa da un lato: sorrideva sorpreso.

    «Abbiamo o no un tesoro da trovare? Su!»

    Notai quanto meravigliato fosse il suo sguardo, quanto il suo viso fosse contratto da un emozione incapace da descrivere. Poi lo vidi ridere e scuotere la testa. Con una mano si massaggiò il collo. Mi lanciò un’occhiata maliziosa e s’incammino veloce verso me, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi.



    Edited by fallagain - 5/4/2020, 13:18
  13. .
    Capitolo Ventuno: L'Incontro con l'Infanzia

    La mattina dopo, pimpante e allegra, mi svegliai di buon ora per fare le valigie, così come mi aveva detto di fare Michael la sera precedente; mi cambiai, mi lavai il viso e scesi per la colazione, prima di mettermi al lavoro.

    I bambini erano ancora a letto e la casa era avvolta in un silenzio straordinario. Fuori il tempo era sereno, con qualche nuvola bianca sparsa qua e là nel manto azzurrino del cielo, e i raggi solari battevano fiochi sulle finestre, illuminando il parquet della cucina. L’atmosfera che la mattina dava a quella casa era magica, forse anche più della notte.

    Andai verso la finestra e l’aprii piano, cercando di non fare troppo rumore. Presi una boccata d’aria fresca e chiusi gli occhi, sentendo il vento invernale colpirmi il viso, risvegliandomi completamente. I cinguettii degli uccellini mi portarono un sorriso sulle labbra.

    Richiusi la finestra e mi diressi al bancone. Tirai fuori una tazza, il latte dal frigorifero e lo scaldai un minuto nel forno microonde. Presi alcuni biscotti dalla credenza e mi sedetti su uno sgabello al bancone di legno liscio e levigato, assaporando la mia colazione immersa nei pensieri, osservando distrattamente come il latte bagnasse la sostanza di cui erano fatti i biscotti e come, al palato, risultassero deliziosi. Guardai fuori dalla finestra e sospirai.

    Non sapevo nemmeno fino a quando sarei stata via da Neverland con Michael e i bambini, figuriamoci cosa mettere in valigia. Di sicuro abbondare non faceva male, e nel caso sarebbero stati più di tre giorni – cosa che non credevo – mi sarei fatta bastare quelli che avevo ad ogni modo.

    Sperai che Michael sbucasse da oltre la porta, ma così non fu. Non solo gli avrei chiesto per quanti giorni saremmo stati via, ma lo avrei anche rivisto e lo avrei salutato con un caloroso “Buongiorno”... sempre che non fosse ritornato nel suo guscio.

    Misi tutto apposto e mi avviai al piano di sopra, salendo due scalini alla volta e riuscendo quasi ad inciampare nella salita degli ultimi tre. Mi chiusi la porta della camera alle spalle e tirai fuori dall’armadio un piccolo trolley. Passai tutta la mattinata così, scegliendo i vestiti da portare via, con qualche immancabile trucco o crema che utilizzavo ogni giorno.

    Poco dopo scesi al piano terra e vidi i bambini giocare nei panni dei personaggi di Star Wars.

    Sorrisi loro. «Buongiooorno!»

    «Ciao zia Sarah, buongiooorno!», esclamarono entrambi venendo ad abbracciarmi. Li strinsi forte fra le braccia e scoccai loro un bacino ciascuno. «Hai già fatto le valigie, zia?», mi chiesero.

    Mi sorpresi che Paris non avesse detto nulla al fratello per farlo star zitto.

    «Sì, ho preparato tutto, e voi?»

    «Papà ci ha aiutato fino a poco fa! Si sta occupando delle ultime cose per Blankie!», disse Paris.

    Sorrisi. «Oh, bene, e quando si parte di preciso?»

    Si guardarono, poi osservarono me. «Non lo sappiamo...»

    «Oh». Assunsi un’aria perplessa e mi raccolsi i capelli sulla spalla con la mano destra. Dovevo farmi dire dove saremo andati, altrimenti sarei impazzita. «Vostro padre è nella vostra camera?»

    «Penso di sì», mormorò Prince, guardando la sorella in dubbio.

    Lei ricambiò l’occhiata alzando le spalle.

    «Ok, grazie mille», sorrisi e li salutai con la mano, dirigendomi ancora una volta sopra le scale. Loro ricambiarono il saluto e tornarono a giocare tranquillamente.

    Camminai verso la stanza dei bambini e bussai.

    «Sì?»

    La sua voce oltrepassò la porta in legno con un tono incuriosito. Gli acuti versi e le parole confuse di Blanket risuonavano allegramente per tutto l’ambiente.

    «Sono Sarah...»

    Un secondo di silenzio. «Entra pure!»

    Entrai cautamente. Per terra c’erano due valigie aperte, contenenti vestiti, giocattoli e quant’altro; abiti ben piegati se ne stavano incolonnati sopra il letto di Prince. Le finestre erano socchiuse, le saracinesche erano alte e davano al Sole il permesso di infilarsi nella stanza con la sua candida luce. Michael stava chinò su uno dei due trolley, in ginocchio e con fare pensoso, mentre il piccino se ne stava sulla sua culla, in piedi e aggrappato alle sbarre di legno.

    Non appena Blanket mi vide sorrise e pregò affinché potesse venirmi in braccio. Sorrisi di rimando. Mi avviai verso di lui, salutandolo amorevolmente, e ormai abbastanza abituata a prenderlo in braccio senza chiedere il permesso lo issai e lo tenni stretto al petto. Guardai Michael e lo vidi osservarmi con un’espressione persa.

    «Ha sempre avuto un debole per te», mormorò piano, «fin da quando sei arrivata...»

    Sghignazzai allegramente e baciai il bimbo sulle guance, il quale fiondò subito le manine sulle mie gote. «Ha uno sguardo dolce... ha i tuoi occhi...»

    «Davvero?», chiese inarcando un sopracciglio. Fissò il bimbo con occhi luccicanti d’orgoglio paterno. «In effetti non sei l’unica che me lo dice».

    «Ti assomiglia», e dicendo ciò pettinai i capelli di Blanket all’indietro, mentre quest'ultimo esplodeva in una cristallina risata.

    Mi voltai verso Michael. «Come stai?».

    «Bene, molto bene davvero!» esclamò sorridendo e fissò le valigie. «Provo sempre una grande gioia quando devo partire per nuovi posti, soprattutto mi piace fare le valigie con i miei bambini. È un ottimo modo per passare del tempo assieme, divertirsi e contemporaneamente insegnar loro ad essere autonomi».

    S’incupì di botto, poi mi fissò intensamente. «Più i tempi corrono, più genitori e figli si lasciano sfuggire momenti come questi, e in un batter d’occhio i figli diventano grandi e si allontanano da casa, ottenendo la loro indipendenza. L’amore di una famiglia è importantissimo, e se non godiamo di questi attimi di gioia lasciamo sfuggire il tempo dalle nostre mani... è veramente triste...».

    Lo fissai meravigliata, pendendo dalle sue labbra.

    «Hai ragione», mi sedetti e poggiai Blanket sul pavimento, il quale batteva i piedi a terra tenendosi in piedi sulle mie manine. «Sono cose apparentemente prive di senso, ma in realtà saranno i nostri ricordi per sempre...»

    Il silenzio prese posto tra di noi, interrotto solo dagli strilli eccitati di Blanket che ondeggiava a destra e sinistra e compiva qualche passo alla cieca. Improvvisamente lo sguardo mio e di Michael s’intrecciarono. I suoi occhi, persi nei miei, mi avvolsero e mi fecero perdere la cognizione del tempo. Sorrise piano e guardò le mie mani, allacciate a quelle del suo bambino.

    «Sei adatta a fare la madre».

    Il cuore si fermò in gola non appena i suoi occhi mi sorrisero di tenerezza.

    «Hai scelto bene la tua professione, il diventare maestra intendo. Penso che ogni bambino con cui hai avuto a che fare ti abbia preso in simpatia, compresi i miei figli...»

    Sorrisi imbarazzata e scostai lo sguardo. «Grazie...». Pausa. «Sì, penso anche io di aver scelto la professione giusta, anche se inizialmente ero indecisa su due strade ben diverse».

    «Che cosa avresti voluto fare?»

    «La psicologa».

    Lo guardai e si accigliò.

    Scoppiai a ridere. «Sì, lo so, alla fine sarei diventata più matta dei miei pazienti, conoscendomi, ma mi interessava la materia... la psicologia umana, la mente. Come anche mi ha sempre affascinato criminologia. Sono sempre stata considerata la psicologa perfetta, da tutti coloro che mi circondavano... i miei, in parte, l’avrebbero preferito. Secondo loro avrei fatto più carriera così».

    «E una maestra non può fare carriera?»

    «Non negli Stati Uniti, secondo loro. In realtà era solo una scusa per non farmi allontanare dall’Italia. L’idea che io potessi studiare all’estero, in un college parecchio importante, probabilmente li spaventava. Anche se fossi diventata avvocato e avessi avuto più successo, la cosa li avrebbe fatti star male, proprio perché comunque sarei stata lontana». Sorrisi amaramente. «Come tu ben sai io non ero molto estroversa. Non ero una tipica persona di mondo, ecco. Perciò premevano su questo tasto per dire che andare negli Stati Uniti mi avrebbe – come dire – creato un certo “shock”.

    Ma io non li ascoltai, inviai la mia proposta alla Harvard e mi accettarono, visti i miei voti alti in tutte le materie e le buone parole che ci misero i miei zii. Non che la cosa mi facesse piacere, ma non sarei mai potuta arrivare là grazie a loro. Anche i miei zii studiarono alla Harvard e mi appoggiarono in segreto. Quando arrivò la risposta positiva saltai dalla gioia, e non appena lo dissi ai miei questi s’arrabbiarono. Mia madre litigò con me, inventando la scusa che non glielo avevo nemmeno accennato – cosa vera – e che non se lo sarebbe mai aspettato da parte mia. Poi da lì uscirono questioni mai risolte del passato che mi avevano fatto un po’ male nel corso degli anni. La provocai ben sapendo che avrei peggiorato le cose e non ci parlammo per mesi. Fu un periodo tremendo... vivere nella stessa casa con lei che faceva finta che io non fossi sua figlia», alzai le sopracciglia ed emisi un risolino sarcastico.

    «È terribile...», mormorò Michael, fissandomi dispiaciuto ma interessato. «E cosa vi siete dette?»

    «Be’, io dissi che volevo la mia libertà e la mia indipendenza. Mia madre mi chiese perché non potevo cercare la mia indipendenza anche in Italia e io dissi che volevo starmene per i fatti miei, allontanarmi da quel Paese per un periodo indefinito. Inoltre volevo andarmene di casa perché il clima si faceva sempre più pesante: i miei non vanno d’accordo da anni. Sono sull’orlo della separazione da tempo, in effetti. Comunque mia madre disse che non avrei fatto carriera, che sicuramente sarei tornata a casa nel giro di un anno, e me lo disse con un tono così amareggiato e tuttavia arrabbiato che istigò la mia irascibilità. Divenni velenosa come non mai. Le dissi con tutto il fiato che avevo che ce l’avrei fatta anche senza il suo aiuto, che lei – nonostante mi avesse protetto numerose volte – mi aveva sempre tenuta chiusa in una gabbia. Per una volta volevo fare le cose come andavano a me: volevo fare i miei errori, i miei sbagli, e crescere da sola, senza che qualcuno mi dicesse cosa fare... anche a costo di stare male... ma lei la prese sul personale, facemmo una sfuriata tremenda e non ci parlammo più per un po’».

    «E ora ci parli senza rancore?».

    Blanket si sedette a terra e gattonò verso le valigie, pronto a disfare tutto. Michael lo afferrò e se lo pose sulle ginocchia.

    Annuii tranquillamente. «Sì, adesso sì. Diciamo che risolvemmo la questione qualche giorno prima che partissi. Fu la prima volta che mi disse che le sarei mancata. Era fermamente convinta che avessi sbagliato a prendere quella decisione e a dirle quelle cose, ma alla fine mi lasciò andare. Io invece non sentivo il minimo senso di colpa. Sono fiera della strada che sono riuscita a percorrere fino ad oggi, ma sono conscia che non sarei qui se non fosse per mio padre – che bene o male convinse mia madre a lasciarmi andare -, per i miei zii e sì… anche per la mamma».

    Michael m’afferrò una mano e io lo guardai. I suoi occhi erano attenti, vigili, ma la loro dolcezza mi avvolse come se mi stesse abbracciando. Non provavo più dolore per ciò che era accaduto fra me e mia madre, e anche se fosse la vicinanza di Michael mi fece dimenticare ogni brutto ricordo.

    Mi strinse le dita della mano. «Sei stata coraggiosa... in molte cose a quanto pare, ma in questa ti sei superata. Non è facile tenere la testa alta e non mollare, quando tutto il mondo sembra essere contro di te».

    Arrossii di poco e sorrisi. «Grazie».

    Scoccai un’occhiata curiosa a Michael e lui drizzò un sopracciglio, inclinando di poco la testa.

    «E tu che avresti voluto fare? Hai sempre desiderato fare il cantante o...?»

    Ridacchiò. «Domanda difficile. Credo che se tornassi indietro non cambierei nulla della mia carriera. Non vedo altro mestiere adatto a me se non questo... faccio quello che amo – cantare, ballare, comporre musica e canzoni – e aiuto il mondo. Dono molti dei miei ricavati ai bambini, a chi è solo e senza amore, con la speranza che abbiano un futuro più bello. In più rendo i miei fans felici, perciò tutto ciò mi fa sentire completo. Amato. Ma a volte vorrei essere stato un uomo normale, fare le cose che fanno tutti…».

    Annuii piano e sorrisi.

    Mi puntò. «Sai, credo che se non fossi quello che sono – se Dio non mi avesse permesso di esserlo – avrei comunque dedicato tutto me stesso ad aiutare gli altri. È una cosa che sento dentro, aiutare e amare. Tutti quanti, nessuno escluso... tutti meritano un po’ d’affetto e una mano.

    Da piccolo desideravo soltanto ballare e cantare, perché nel cuore sentivo che era la cosa che mi rendeva più felice al mondo. Non lo facevo per soldi, non lo facevo per essere parte dello show business, ero solo un bambino che voleva godere della sua infanzia e rendere me e chi mi circondava felice. Volevo divertirmi, fare ciò che Dio – attraverso me – voleva che facessi. Poi mio padre ha formato i Jackson 5, il gruppo musicale composto da me e dai miei fratelli maschi, e abbiamo fatto successo. In poco tempo abbiamo girato il mondo»

    «Hai iniziato così presto...».

    «Sì, sono più di trent’anni di carriera ormai. Ho perso molto, ma sono comunque riuscito a dare tanto... più di quanto mi sarei mai aspettato».

    Il silenzio calò. L’ammirazione che provavo per Michael non faceva che crescere, ora per ora, minuto per minuto.

    «Il tuo sogno di cambiare il mondo è stupendo. Sono sicura che hai portato amore ovunque andassi e che continuerai a farlo. Penso che molti ti siano o ti saranno sempre riconoscenti».

    Ridacchiò piano, abbassando gli occhi. «Ora sei tu che mi imbarazzi...»

    «È la verità!», dissi ridendo.

    Pensai a lui in un ospedale, ad abbracciare le persone impossibilitate a muoversi o con gravi malattie, o in un orfanotrofio, a dare affetto a quei piccoli che non avevano genitori: quella visione di Michael era quella che più rispecchiava il suo animo, ne ero sicura.

    «Sei pronta per l’arrivo del nuovo anno?», chiese di punto in bianco.

    Lo guardai e lo vidi sorridere sotto i baffi in maniera per nulla convincente.

    «A proposito!», dissi illuminandomi. «A che ora si parte?»

    «Partiremo questo pomeriggio, verso le 15.30. Sai, il viaggio è parecchio lungo...», e mi studiò con un ghigno divertito, soddisfatto per la mia voglia di sapere. «Hai già preparato le valigie?»

    «Sì, ma quanto tempo stiamo?». Guardai le borse dei piccoli. «Sembra che ci staremo un secolo...»

    «No, purtroppo solo una notte...», mormorò afferrando Blanket e sistemandogli bene la canottiera sotto i pantaloni. «Solo per la notte del primo...»

    M’inclinai in avanti e lo osservai attentamente.

    Quando ricambiò lo sguardo sussurrai: «Ma si può sapere dove andiamo?».

    Michael scoppiò a ridere di gusto, coprendosi la bocca con una mano.

    «Dai, non è giusto che l’unica a non sapere nulla sia proprio io! Non è corretto!»

    «In realtà» disse sghignazzando «nemmeno i bambini sanno dove andremo precisamente. Ho detto loro che andremo a vedere i fuochi in un luogo che amano parecchio… ma non ho specificato quale. Solo io e chi ci porterà lo sappiamo», e mi fece una linguaccia.

    Spalancai la bocca, offesa. «Ma non è giusto!» Michael continuò a ridere senza rispondermi, scuotendo la nuca. Poco dopo ripresi il mio interrogatorio. «Ma non posso avere un indizio? Uno piccolo piccolo? Dai... per favore...»

    «No, non puoi!» disse negando con il capo più enfaticamente di prima. M’imbronciai e lui mi pizzicò il naso rendendomi ancora più indispettita: socchiusi gli occhi e lo fulminai. «Ti prometto che ti piacerà! Non potrà non piacerti...»

    M’illuminai e lui si morse un labbro, con fare colpevole.

    «“Non potrà non piacermi”... “non potrà”... “non piacermi”...», borbottai pensosa, alzandomi da terra. Michael mi lanciava sguardi astutamente ridenti. «Prima di questa sera ne verrò fuori, scoprirò che cosa hai in mente!»

    Mulinai i capelli prima da una parte e poi dall’altra, fingendo un comportamento altezzoso quanto buffo, e alzai il viso verso l’alto, incamminandomi veloce verso la porta. Michael se ne stette a ridere a crepapelle per quella mia recitazione da smorfiosa perfetta, tenendo una mano sul volto e dondolandosi con la schiena avanti e indietro. Blanket lo guardò stupito.

    Prima di uscire dalla porta mi voltai e gli feci la linguaccia. Lui sorrise sornione.

    «A dopo, bambina impicciona».

    «A dopo...» Feci una smorfia. «Antipatico!»

    Michael sogghignò un’ultima volta e io me ne uscii a passo di marcia. Una volta oltrepassata la porta sorrisi anche io, mi passai una mano fra i capelli e mi diressi saltellando verso la mia stanza. Avrei dovuto liberare un po’ di vestiti e oggetti inutili dalla mia valigia.

    *

    Alle tre del pomeriggio ci furono ospiti. Si presentarono tre guardie del corpo (vestiti con abiti normali) e due truccatori, un uomo e una donna. Quest’ultima si chiamava Karen Faye; era bionda, un po’ in carne e con due occhi osservatori e azzurri. Dal viso sembrava una donna pacata ed elegante, ma qualcosa – di primo acchito – non mi convinceva per niente.

    Ci avviammo tutti in salotto, dove i due truccatori tirarono fuori da due grandi valigie un enorme quantità di trucchi e parrucche varie. I due parlarono e scherzarono tranquillamente coi bambini e le guardie del corpo; mi autoesclusi dalla conversazione e assistetti in silenzio. In attesa che Michael scendesse e ci raggiungesse, la donna continuò a lanciarmi occhiate profonde e indagatrici, pur senza chiedermi nulla direttamente. Io rimasi quieta, fissandola di rimando, accennando un sorriso che ella non ricambiò.

    Quando era entrata in casa mi ero presentata dicendo nome e cognome, stringendo la mano a lei e al suo collega, ma non le avevo detto il mio ruolo nella vita di Michael. Sembrava curiosa di conoscermi, ma anche molto fredda.

    Era decisamente un’antipatia a pelle, ricambiata da entrambe le parti.

    «Eccomi!»

    Una voce alle nostre spalle interruppe l’allegro chiacchiericcio dei bambini. Mi volsi verso la porta che dava sul corridoio e vidi Michael, vestito con jeans e felpa larga e rossa, avviarsi velocemente verso di noi. In braccio teneva Blanket.

    Gli occhi di Michael passarono in rassegna di tutti i presenti. Salutò la donna e l’uomo che lavorarono per lui e fece un cenno di saluto col capo ai suoi bodyguards. Prima di porre la sua attenzione per una seconda volta sui suoi amici truccatori, mi scoccò un’occhiata impenetrabile.

    «Ciao Mike!», disse una sorridente e carezzevole Karen.

    La prima cosa che fece quest’ultima, una volta alzatasi, fu andargli incontro e baciarlo e abbracciarlo concitatamente. Lo guardava con due occhi sognanti e trattenni un risolino divertito, immaginando che quello fosse l’effetto che Michael faceva ad ogni donna. Tuttavia Karen sembrava emotivamente rapita dal suo datore di lavoro e “amico”, tanto da sospettare che ci fosse del tenero… se non da parte di Michael, per lo meno da parte della truccatrice.

    Nel momento in cui Karen si chinò per baciare Blanket, Michael mi lanciò un debole cenno d’intesa (una sottospecie di occhiolino che in realtà non gli riuscì molto bene), che ricambiai con un mezzo sorriso. Nessuno lo vide, nemmeno i bambini, troppo meravigliati a fissare trucchi e parrucche.

    Scostai lo sguardo, mordendomi un labbro per non sorridere apertamente.

    «Ehi Mike, dov’è che scappi stavolta?», chiese l’altro truccatore di cui già mi ero dimenticata il nome. Aveva i capelli biondo scuro e un’aria gioviale; dedussi che fosse sulla trentina e passa.

    L’altro sorrise piano. «È una sorpresa...», e ammiccò ai suoi figli. «Rovinerei loro il regalo».

    «Papà ha detto che ci porta a vedere i fuochi...», mormorò Prince, fissando il padre eloquentemente. Paris chiese al truccatore se poteva prendere una parrucca fra le mani.

    Karen sorrise, guardando Prince. «Allora meglio non mandare a monte i suoi piani».

    Prince sbuffò e tornò a sedersi sul divano, non appena anche suo padre vi si poggiò sopra con Blanket. Poco dopo arrivò anche Paris con una bella parrucca nera fra le mani e si mise accanto a me, facendomela ammirare; mi chiese se un giorno mi sarei fatta i capelli di quel colore e io ridacchiai dissentendo: era un colore troppo scuro per me.

    «Allora», disse Michael battendo le mani sulle ginocchia. «Procediamo?»

    «Certo», disse il truccatore. «Anche Prince e Paris hanno bisogno di un po’ di trucco?», ironizzò.

    I bambini puntarono il padre ed egli sorrise. «No, loro no», disse abbattendo le loro speranze «Solo io, giusto affinché la gente non mi salti addosso di punto in bianco».

    Michael si alzò e mi venne incontro. Subito feci lo stesso e presi Blanket in braccio.

    Un altro sguardo carico di intesa, durato meno di un secondo.

    Sentii Karen punzecchiarmi con gli occhi. La puntai serenamente e lei si aspettò che parlassi; aveva capito che sarei andata anch’io con loro ed era strano che Michael non le avesse parlato di me. Ad ogni modo se ne stette zitta, anche quando assieme a Michael e all’altro uomo salì le scale, in direzione del primo piano, non prima di aver chiuso le loro valigette.

    «Mr. Jackson, le portiamo giù le valigie nel frattempo?», disse una guardia del corpo alzandosi in piedi, prima che questo uscisse dal salotto. Egli rimase in silenzio a pensare.

    «Sì, aiutate i miei figli a portare le loro, per il momento» mi ammiccò velocemente «per le mie ci penserò più tardi, una volta finito tutto...»

    «Sì, signore».

    Michael uscì dalla porta e io rimasi in salotto con i bambini, mentre le guardie del corpo si avviavano al piano di sopra.

    Scese una ventina di minuti più tardi, accompagnato dai suoi truccatori. Lo udii ridere. I truccatori salutarono i piccoli e le guardie – che nel frattempo erano già scese con tutti i bagagli – e se ne andarono. Sia io che i bambini rimanemmo a fissare il corridoio, volenterosi di vedere loro padre vestito e truccato.

    Quando entrò feci una serie di smorfie una dietro l’altra, dallo sconvolta al divertita.

    Michael indossava gli stessi abiti normali di prima, mentre la faccia, invece, era totalmente cambiata: era sicuramente una maschera. Una maschera straordinariamente vera. Aveva i capelli corti e brizzolati e il viso più pieno, con la barba e i baffi più reali che avessi mai potuto vedere. Gli occhi erano nascosti da un paio d’occhiali finti.

    Mi guardò e io fui indecisa se ridere o fissarlo con serietà.

    «Daddy?», esclamò Prince alzando la voce di un’ottava più alta, inclinando la testa da un lato.

    Scoppiai in una fragorosa risata e anche Michael, imbarazzato, sorrise. Spalancò le braccia e alzò le spalle. Non riuscivo a credere che quell’uomo fosse davvero lui.

    «Come sto?»

    «Sei buffo...»

    Paris ridacchiò. «Sei strano!»

    Michael mi scoccò l’ennesima occhiata curiosa ed io sorrisi.

    «Sei eccezionale».

    Abbassò gli occhi ponendosi una mano sotto il mento, sorridendo appena. Nonostante avesse quella maschera sapevo che era lui... non solo perché lo riconoscevo dagli sguardi o dai gesti, ma anche a causa delle vibrazioni che emanava ogni qualvolta entrasse in una stanza. Chi non dava molto conto alle sensazioni ed era preso da altri pensieri non avrebbe potuto percepirlo.

    «Be’, grazie a tutti. Sarah, dammi pure Blanket… intanto voi mettetevi la giaccia e salite in macchina, fra qualche minuto si parte».

    I bambini esultarono e corsero via immediatamente, verso lo sgabuzzino, alla ricerca dei loro giubbotti. E indossavano due parrucche così belle da sembrare capelli veri – concesse gentilmente dai due truccatori di prima. Michael mi scrutò con allegria ed entrambi sorridemmo; poi si voltò di schiena, guardando la porta di ingresso. Sentii le guardie del corpo chiedergli qualcosa riguardo le valigie.

    «No, non ti preoccupare, ci penso io. Portate giù le valigie di Miss Morris e basta...»

    Assunsi un’espressione stranita. Miss Morris?

    Non so perché, ma mi fece ridere.

    «No, davvero, non serve. Ci penso io», proruppi gentilmente.

    Michael mi gettò occhiate incomprensibili. Quella maschera gli impediva di fare le sue tipiche smorfie.

    «Ci penso da me, non ti preoccupare».

    «Ne sei sicura?»

    «Sì, ce la faccio!», e così m’avviai verso Michael. Gli consegnai Blanket in braccio.

    Una guardia del corpo, quella più alta e con gli occhi azzurri, parlò dicendo che ci avrebbero aspettati in macchina. Michael annuì, i bambini uscirono dalla porta del villino seguiti dai bodyguard. . Io e il padrone di casa rimanemmo soli. Feci per passargli a fianco ma drizzò il braccio, poggiando la mano sullo stipite della porta per impedirmi di uscire.

    Lo guardai e mi sembrò che sorridesse.

    Feci un passo avanti, scrutandolo indecisa; entrai in contatto col suo braccio e mi aggrappai ad esso con una mano. Michael non si mosse, anzi, stette a sorridermi con fare finto tonto.

    «Posso...?», ridacchiai titubante.

    S’avvicinò piano al mio viso, inclinando il capo verso sinistra e avvicinandosi alla mia guancia. Le sue labbra mi sfiorarono la pelle e la resero bollente. Il tocco fu devastante e mi ci vollero istanti per far funzionare il cervello di nuovo. Il suo profumo m’invase le narici e i suoi occhi, intensi e scuri, mi analizzarono fin dentro l’anima. Quel baciò durò solo un secondo, ma a me sembrò tutto il contrario.

    «Ora sì».

    Spostò il braccio abbassandolo sul fianco. Mi fece cenno di superarlo col capo, ridendo, e io lo oltrepassai scuotendo il capo con fare divertito. Feci le scale veloce, mi diressi in camera e presi il trolley. Controllai di non aver lasciato nulla in giro, ma tutto sembrava perfetto.

    Mi detti un’ultima controllata allo specchio prima di uscire, sistemando meglio il maglioncino con maniche a tre quarti color lavanda e alzando al massimo la zip dei jeans, per evitare che scivolasse. Le figuracce erano sempre in agguato quando si parlava della sottoscritta.

    Mi misi la giacca e scesi le scale.

    Uscii di casa con tutto il peso della valigia su un braccio.

    Michael era lì, ad attendermi, facendomi cenno di seguirlo. «Andiamo»

    Presi il trolley per una maniglia e lo trascinai. Quando gli fui vicino mi sorrise e cominciò ad incamminarsi verso la discesa, con Blanket che faceva versi entusiasti, in direzione del SUV nero che ci attendeva. Non aveva una valigia con sé. Evidentemente l’aveva già fatta sistemare in macchina e non me ne ero manco accorta.

    «Quanto ci metteremo per arrivare?», chiesi guardandolo.

    Mi lanciò un’occhiata fugace e sorrise della mia impazienza. «Tre ore, più o meno». Spalancai gli occhi, facendolo ridere. «Vedrai, ne varrà la pena, anche se penso che tu ci sia già stata...»

    «Se mi dicessi che posto è, te lo direi anche, sai?», borbottai.

    Si volse. Si bloccò di colpo e mi dette un buffetto sulla guancia. «Penso che per stavolta la tua curiosità dovrà essere placata, ragazza».

    Sorrisi indispettita.

    Salimmo in auto.

    I bambini avevano già preso posto e si erano spogliati delle loro giacche pesanti; Michael e io ci sedemmo di fronte a loro, poiché i sedili dell’auto erano stati sistemati appositamente affinché più persone potessero guardarsi faccia a faccia. Una tenda di velluto nero ci divideva da due dei tre bodyguard presenti, mentre il terzo se ne stava accanto a Michael, il quale aveva chiesto se potesse stare in mezzo.

    Non immaginavo dove mi avrebbe portato, non mi sarebbe neanche minimamente passato per la testa. Perciò posai il capo sul poggiatesta e guardai fuori, osservando pian piano il ranch sparire da sotto gli occhi.

    Sarebbe stato un viaggio lungo, ma come mi disse Michael ne sarebbe valsa la pena.

    *

    «Ok, ora indovinate che cos’è questo!»

    Prince fece una strana smorfia e portò le braccia dietro la schiena, alzando un po’ le spalle, facendo ridere tutti quanti. Michael si sforzò a lungo per capire quale animale stesse imitando, Paris pure, mentre io mi ero gentilmente astenuta, dicendo che avrei preferito rimanere a guardarli per vedere come giocavano.

    Erano già passate più di due ore e mezza e non lo sembrava affatto. Quella famiglia aveva sempre giochi nuovi da provare, nuove idee per passare il tempo, e facevano rumore, tanto rumore. Alla fine non mi ero riuscita a concentrare sul panorama perché ero troppo interessata a far parte di quel caos, intervenendo in qualche gioco o assumendo il ruolo di spettatrice in altri.

    Ci eravamo fermati per una pausa in autogrill per poter andare in bagno e, veloci come fulmini, eravamo tornati in macchina senza che nessuno si accorgesse di noi; salendo, la guardia che per un po’ era stata con noi decise di seguire i suoi compari davanti, visto che lì c’era parecchio spazio. I bodyguard si erano vestiti con abiti normali e non davano nell’occhio, quindi tutti sembravamo una gran compagnia d’amici in festa.

    «Uhm... è un uccello?», chiese Michael.

    «Nope!»

    Paris corrugò la fronte. «È... è un’aquila?»

    «Nooo!»

    Strinsi le labbra in un’espressione perplessa. Inclinai un po’ il capo e di colpo mi vennero in mente gli uccelli de Il Libro della Giungla, quelli a cui avevano dato le sembianze dei Beatles... come si chiama...

    «Avvoltoio?»

    «Sììì!», esclamò Prince saltando sul sedile.

    Paris e Michael, che odiavano perdere, sbuffarono contrariati. Michael mi guardò ridere di gusto per trenta secondi abbondanti, felice di essere intervenuta senza essere interpellata.

    «Non è valido! Non eri nel gioco!», esclamò Michael dandomi una piccola spinta sulla spalla, sogghignando a sua volta. «Ci stavo quasi per arrivare, Dio!»

    «Ehhh...» sospirai e gli mostrai la lingua.

    Lui assunse un’espressione divertita e infastidita assieme, spalancò un po’ le labbra per dire qualcosa ma si trattenne.

    Sollevai le sopracciglia, sfidandolo con gli occhi. Egli si passò la lingua sul labbro inferiore e si accostò al mio volto: con pollice e indice di una mano mi prese entrambe le guance e le attirò a sé, stringendo piano e facendomi fare una smorfia buffa con le labbra. Lo fissai a lungo – o almeno mi parve che il nostro sguardo durò per molto – e lui ricambiò con un’intensità tale capace di uccidermi. I suoi occhi sembravano sorridere comunque, anche al di sotto del travestimento.

    Ma prima che potessi dire qualcosa, sentimmo i bambini urlare dall’entusiasmo.

    «Papà! Disneyland!»

    Paris, che se ne stava di fronte a me, si appiccicò al vetro oscurato con entrambe le mani, seguito da Prince che si sporse oltre suo fratello Blanket, senza schiacciarlo, il quale se ne stava a giocherellare con il pupazzo di Monsters & Co. su un seggiolino per auto; anche il piccolo sembrò sentire l’entusiasmo e l’ansia di tutti quanti.

    Michael mi mollò e io scostai il capo nel giro di un millesimo di secondo. Le palpebre si spalancarono e in lontananza vidi tutte le giostre del parco.

    Il cuore mi batté furiosamente in petto e tutti i muscoli del corpo s’irrigidirono. Il respiro si fece corto, ridotto ad un flebile soffio, mentre le mie iridi si velavano di lacrime. Mille emozioni diverse invasero il corpo.

    Era quello il sogno di una vita, uno dei tanti che avevo... andare a Disneyland, ritornare all’infanzia, al divertimento e alla spensieratezza. Ritornare ad essere bambina, giocare con i personaggi dei cartoni, andare su ogni giostra che avessi avuto sotto gli occhi e ridere... ridere fino allo sfinimento.

    E vedere i fuochi di artificio il giorno di Capodanno.

    Quante volte avevo sognato di trovarmi di fronte a quella meraviglia senza pari?

    Perché era lì, in quei parchi di divertimenti, che io potevo ritrovare una parte della vera me stessa. Potevo essere la bambina felice che un tempo ero stata, che aveva perduto la sua socievolezza così come la capacità di lasciarsi andare alla vita, vivendo senza pensare ai “se” e ai “ma”.

    Tutto ciò che in me sembrava essersi sbiadito con gli anni, non si era fatto ridurre in cenere dalle delusioni della vita. Era sempre lì, come il tizzone ardente di un fuoco che aveva perso la sua fiamma ma non il suo calore. Non potevo abbandonare chi ero stata, perché io avevo lottato per rimanere un po’ bambina; avevo graffiato, combattuto e mi ero rialzata dalle delusioni della vita con la consapevolezza che i miei sogni e le mie fantasie le avrei riposte in quel luogo, la terra Disney, e un giorno sarei tornata a riprenderli. Avrei trovato un modo per tornare nel posto dove, facendo un giuramento a me stessa, credevo di potermi sentire veramente a casa.

    Ci fermammo di fronte ai cancelli, in coda, ma prima Michael tirò la tenda e disse a Prince e Paris di sistemarsi per bene; prese Blanket in braccio e lo tenne stretto a sé. Le guardie del corpo, assumendo un tono felice e per nulla preoccupato, mostrarono dei documenti. Nel giro di qualche minuto e telefonata – che parve durare un’infinità di tempo – ci fecero entrare.

    Il mio sguardo, esattamente come una macchina fotografica, cercò di captare ogni cosa e imprimersela bene in testa, così da non potersela dimenticare in futuro. Non fu facile, perché non appena superammo i cancelli luci e colori di festa attraversarono i vetri oscurati. Una lacrima mi scese dagli occhi; la tolsi in fretta dalla guancia, affinché i bambini non se ne accorgessero.

    Tutti tranne Michael.

    Lo sentivo. Mi guardava profondamente, stupito della mia reazione. Mi levai una seconda lacrima e Paris mi scoprì piangere.

    «Sei triste, zia Sarah?»

    Tutta l’attenzione dei presenti fu su me.

    «No, no, non sono triste» esclamai scuotendo la testa e sorridendo. «Sono commossa e felice, tutto qui».

    La voce s’incrinò e tornai a guardare fuori per qualche secondo, come incantata.

    Con le guance arrossate, dovute all’attenzione assoluta di Michael nei miei confronti, gli gettai un’espressione di indescrivibile gioia. Mi aveva richiamato silenziosamente. Quel suo sguardo sbigottito non riusciva a credere che fosse la mia prima volta a Disneyland.

    Annuii piano. «Grazie».

    Se Michael avesse saputo subito cosa significasse per me essere là, probabilmente mi avrebbe subito stretto la mano.

    *

    Cenammo verso le sette di sera, non appena riuscimmo ad entrare in stanza e sistemare i bagagli nelle nostre camere. Passammo per una piccola entrata sul retro del resort, attraversando le enormi cucine, prendendo un ascensore verso il piano più alto dello stabile.

    Michael aveva prenotato una Villa, così si chiamava il tipo di suite che avevamo a disposizione, e offriva tutti i servizi possibili e immaginabili per il comfort d’un cliente importante. C’era una cucina, completamente attrezzata e utile ad una rapida colazione o a uno spuntino notturno, una lavatrice e asciugatrice, tre camere da letto e quattro bagni con spazio per un massimo di dodici ospiti.

    Una Villa poteva offrire quattro, cinque o nove posti letto. Michael scelse la più grande, quella da nove. I bodyguards si presero la parte di suite che offriva tre posti letto nella stessa camera. I bambini e Michael presero quella da quattro – la più grande – e Michael lasciò a me quella da due. Volendo avrei potuto dormire sul divano letto di fronte alla terrazza, ma Michael mi disse di no, categoricamente, affermando che sarebbe stato giusto che dormissi in una stanza tutta per me come una vera ospite. Da una parte non aveva torto, ma non sarei riuscita a dormire quella notte: volevo dedicarmi al panorama circostante come se fosse il mio ultimo giorno sulla Terra.

    Gli ambienti erano sorprendentemente illuminati – c’erano lampade e luci ovunque – e la varietà di legni e marmi pregiati utilizzati per la costruzione delle varie stanze era mozzafiato. A disposizione dei clienti c’erano anche frigorifero, ferro e asse da stiro, asciugacapelli e, infine, nel grande salotto, un balcone privato che dava dritto sulla ruota panoramica e sulle montagne russe.

    Più mi guardavo in giro, più mi sembrava di sognare.

    «Guarda papà!», esclamò Prince indicando il balcone. Si appoggiò ai vetri e guardò in direzione del castello. «C’è la ruota! Vuol dire che vedremo i fuochi da qui?»

    Michael annuì e si avvicinò al figlio, scostando una tenda bianca per vedere fuori. Le due guardie del corpo avevano già preso posto nelle loro stanze; Michael e i bambini guardavano tutto ciò che li circondava con aria curiosa mentre io, troppo scioccata per l’improvvisa sorpresa, me ne stavo ferma in mezzo alla stanza. Mi sentivo in un vortice di sentimenti quali gioia e sorpresa e, al contempo stesso, mi sentivo un po’ sola.

    «Sì, li vedremo da qui. È un po’ distante, ma mi è stato assicurato che questa è la suite più bella».

    Mi lanciò un’occhiata entusiasta e io non mossi neanche un muscolo del volto. Cercai di sorridere, ma tutto ciò che me ne uscì fu una smorfia tristemente sorpresa; mi sentivo presa in una morsa di malinconia e lui lo capì, pur non dicendo nulla al riguardo.

    Ci esaminammo a lungo, senza distogliere lo sguardo l’uno dall’altro.

    Fu come se avesse compreso senza neanche parlare.

    Paris – che teneva in braccio suo fratello Blanket, cercando di non farlo cadere a terra – si sedette sul divano e guardò il padre. «Quand’è che mangiamo, daddy? Ho fame...»

    Michael guardò la figlia come se si fosse risvegliato da un sogno ad occhi aperti.

    «Ordiniamo la cena in camera immediatamente». Mi lanciò un’ultima occhiata prima di dirigersi al telefono fisso, posto su un elegante mobile in legno bianco; prese la cornetta e guardò i suoi figli. «Intanto andate in camera e cominciate a sistemare le vostre cose... Prince, lascia pure la mia valigia, non ti preoccupare, arrivo fra poco...»

    Mi gettò un ultimo sguardo e io feci per aiutare i bambini con le loro valigie.

    «No», esclamò Michael «lascia che le portino loro, ognuno la sua. Non sono pesanti».

    «Giusto...», mormorai imbarazzata e mi diressi con il trolley in camera.

    Non appena vi entrai, presi un profondo respiro.

    Guardai il secondo letto, quello accanto alla finestra che dava sul parco. Mi ci sedetti sopra non appena posi la valigia sopra l’altro posto letto.

    Silenzio.

    Mi passai una mano sui capelli. Lo stomaco brontolò dalla fame. Mi misi una mano sulla pancia e chiusi gli occhi. Poco dopo mi alzai e mi diressi alla finestra... lentamente poggiai il palmo della mano sul vetro e il freddo contatto con quella solida materia mi fece rabbrividire.

    Anche se ci fossi stata una notte soltanto – e perciò non avessi potuto godere dei divertimenti del parco – sapevo che i sentimenti che stavo provando erano troppo grandi per essere espressi a parole. Michael mi aveva fatto un dono immenso – il regalo di una vita – e non dovevo essere triste. Non dovevo sentirmi malinconica. Ero lì. Questo era l’importante.

    Ad un certo momento udii un bussare alla porta. Mi girai, incredula del fatto che la cena fosse già arrivata, e vidi Michael con un piede sulla soglia, il quale senza aspettare una mia risposta aveva già aperto la porta. Mi guardava con un’intensità travolgente, e sotto la luce della stanza le sue iridi sembravano scintillare ancor più del normale.

    «Già chiamato?».

    «Sì, ora basta soltanto attendere...». Esitò. «Posso entrare?»

    Annuì e lo lasciai fare. Chiuse la porta dietro di sé e rimase in piedi a squadrarmi. Io non feci una mossa ma lo invitai ad avanzare e non starsene lì impalato, accennando ad una risatina. Michael non indugiò: nel giro di quattro secondi mi fu accanto, seduto sul letto, sempre con quegl’occhi scuri su di me.

    «Non sei mai venuta qui? Nemmeno una volta?», chiese piano.

    Sorrisi e scossi il capo. «No, mai, ma è sempre stato un sogno...». Osservai il panorama e la notte che era calata da un pezzo. «Fin da quando riesco a ricordare...»

    Un attimo di pausa.

    «Non mi sei sembrata molto felice, poco fa...»

    Emisi uno spasmo di risata per nulla allegra. «Non ero triste... ero solo molto – »

    «Sola...»

    Incrociai il suo sguardo e la vista s’appannò. Strinsi le labbra per trattenermi dal commuovermi. Michael mi scrutava con due occhi profondi, tristi e osservatori. Non gli risposi, ma tutt’e due sapevamo che aveva dato la risposta giusta.

    Abbassai gli occhi sul mio maglioncino e giocherellai con un ciuffo di capelli. Sorrisi malinconica.

    «Quando ero piccola desideravo visitare Disneyland più di ogni altra cosa al mondo». La mia espressione si addolcì. Guardai fuori dalla finestra. «A Disneyland ho riposto la mia innocenza. Quando dovevo obbligarmi a essere forte e tenere duro – per i sacrifici che facevo per pagarmi parte del college, o per le delusioni affettive che stavo vivendo all’epoca, o per la solitudine che provavo in generale – pensai che questo sarebbe stato il luogo dove mi sarei ritrovata. Qui non mi sarei dovuta sentire sola. Della serie: “Tu, innocenza, rimani qui al sicuro. Un giorno ti verrò a riprendere”. Lo so che è una cosa stupida da dire…».

    Fui immediatamente avvolta da dietro dalle braccia di Michael e quel suo gesto mi offuscò la vista per una seconda volta.

    «Io ti conosco» mormorò scoccandomi un bacio sulla tempia. Rabbrividii. «Ma se questo ti può far star bene – se raccontare il tuo passato può farti sentire amata – io sono qui... raccontami di te più di quanto io già non sappia... e non pensare che ciò che dici è stupido, perché non lo è», sussurrò stringendomi ancora di più. «Non dirlo neanche per scherzo»

    Mi voltai e abbandonai la testa contro il suo torace. Stetti in silenzio per qualche istante, mentre Michael non mollava la presa attorno a me.

    «La mia vita era vuota. Sebbene avessi una famiglia che mi appoggiava e non mi faceva mancare nulla, io mi sono sentita sola per molto tempo. E non era sempre colpa degli altri. Ero sola quando sono venuta qui, in America, ed ero sola anche quando ero in Italia. È un sentimento a cui non ho potuto sfuggire, non voltandogli semplicemente le spalle. Disneyland era un sogno, un sogno stupendo, che mi permetteva di rimanere salda a qualcosa... ma non è mai stato facile...». Presi un respiro tremante. «Io ero solo una bambina che cercava qualcosa a cui tenersi su per non crollare…»

    Strinsi la sua camicia e il mio seno s’alzò e s’abbassò velocemente a ritmo del mio respiro. Mi sembrava che il sangue pulsasse nelle tempie. Alcune gocce salate spuntarono dai miei occhi come spilli perforanti.

    Le labbra di Michael si adagiarono sulle mie guance, mentre le sue braccia mi cullavano e una mano scivolava tra i miei capelli, appoggiandosi amorevolmente sulla nuca.

    Prese una mia mano con dita tremanti e se l’adagiò sulle labbra.

    «Guardami un secondo...»

    Lo fissai tremante. I suoi occhi erano la grazia perfetta, un misto di amarezza e amore che non faceva che alimentare le vertigini che sentivo. Michael mi capiva, mi lasciava parlare e, anche se soffriva forse più di me in quel periodo, non smetteva d’amare. Era disposto a donare se stesso, nonostante lo stessero privando della serenità.

    Sorrise come un angelo. «I love you with all of my soul...»

    Le lacrime s’impossessarono dei suoi occhi. Le sue labbra, morbide e gentili, si poggiarono sulle mie gote di nuovo, a poca distanza dalla bocca, e premettero a lungo sulla pelle, inspirando a pieni polmoni.

    Per poco non mi sembrò che il respiro mi morisse in gola. Chiusi gli occhi per assaporare quella sensazione. Si separò di poco e affondò il viso fra i miei capelli, a contatto con l’orecchio. Lo stomaco si contorse, ma non a causa della tristezza o dei ricordi passati.

    «Non sarai mai più sola. Io sono tuo amico, lo sarò sempre».

    «Io…».

    «Hereafter...», sussurrò piano con il volto ancora immerso nei miei capelli. Lo sentii respirare a fondo e mi parve di sentirlo sorridere. «Forever».

    Sorrisi anch’io. «Anche io ci sarò sempre, qual...»

    Bussarono alla porta ed entrambi ci separammo l’uno dall’altro in un millesimo di secondo. Il cuore tumultuò. Michael mi guardò e mi asciugai gli occhi in fretta e furia.

    «Avanti?», dissi alzando la voce.

    Entrò una guardia del corpo, Wayne. Ci scrutò a lungo.

    «La cena è arrivata, signore».

    «Oh, bene», esclamò Michael, battendo le mani. Ci scambiammo un’occhiata d’intesa carica di dolcezza. «Andiamo...?»

    Annuii.

    Non detti retta alla guardia del corpo che, quando gli passai accanto, sorrideva.

    *

    «Dai, papà, stanno per iniziare!», esclamò Prince saltando sul posto.

    Paris era più agitata di lui, ma mai quanto me. Tenevo in braccio Blanket e andavo avanti e indietro per la stanza come una bambina in preda al panico, osservando insistentemente il paesaggio fuori dal balcone e la folla in lontananza. Le mani tremavano, mentre Blanket piagnucolava.

    «Voi andate fuori, io devo fare una cosa!»

    «Avanti Michael!», esclamai mordendomi le labbra. Egli mi puntò e ridacchiò per la mia reazione agitata. «Se ce li perdiamo è colpa tua! Avanti!»

    Ma Michael era già sulla soglia della sua stanza. La terrazza a porte scorrevoli aveva le finestre spalancate – una debole brezza ci risvegliava dal torpore della notte, portando con sé un clima di impazienza che si percepiva a chilometri di distanza; su due tavolini in legno, sul balcone, c’erano bibite, dolcetti e patatine per festeggiare alla grande.

    «Non ve li farò perdere se andate fuori e mi aspettate!», urlò dalla sua stanza. Una guardia del corpo era con lui e io non avevo la più pallida idea di cosa stessero architettando.

    La guardia in parte a me, scuro di pelle e con gli occhi nocciola, guardò l’orologio. «Mancano giusto due minuti!»

    «Oh, cazzo...», dissi in italiano. Presi un profondo respiro e uscii in terrazza seguita a ruota dai bambini. Il cuore stava per esplodermi in petto dalla trepidazione.

    Sto per morire, pensai.

    Poco dopo il bodyguard ci avvisò di nuovo: mancava un minuto. Sentii il cuore sobbalzare.

    Gli urletti eccitati di Prince e Paris mi misero ancora più ansia; mi presero per le braccia e le gambe, dicendomi quanto fossero felici e agitati. La mia espressione allucinata era tutto un programma.

    Le voci che partivano dal castello ci arrivarono come un eco.

    «Trenta secondi...»

    «Michael?!», chiamai rientrando, ridendo per il nervosismo. «Avanti, veloce!»

    Urlò di nuovo. «Abbiamo quasi finito!»

    Pochi secondi più tardi Wayne, che era entrato con lui, portò in salotto decine e decine di palloncini, facendoli cadere sui divani e sul pavimento. Michael era ancora dentro.

    Non detti molta retta ai palloncini, perché il conto alla rovescia finale incominciò.

    «Dieci...»

    Uscii fuori e Prince e Paris rimasero appesi al davanzale, stringendo le mani dei due bodyguard.

    «Nove...»

    I piccoli mi guardarono urlando i numeri assieme alle tante persone radunate davanti alla ruota panoramica.

    «Otto...»

    Tornarono con gli occhi sulla folla, muovendo i piedi e le braccia come impazziti. Io mi misi una mano sul cuore e tentai di contenere l’agitazione: era tutto troppo incredibile da credere possibile.

    «Sette...»

    Feci alcuni passi in avanti.

    «Sei...»

    Mi commossi e i piedi si bloccarono a pochi centimetri dalla balaustra in legno. Ero troppo pesante per potermi muovere, perciò rimasi lì, con Blanket che un po’ spaventato e un po’ incantato osservava la ruota panoramica.

    «Cinque!»

    Il respiro si mozzò in gola.

    «Quattro!»

    Una mano prese la mia e io la strinsi. Il profumo di Michael mi avvolse.

    «TRE!»

    Saperlo vicino era abbastanza, non mi serviva guardarlo negli occhi. Perciò feci scivolare le mie dita fra le sue, costruendo un intreccio perfetto che lui ricambiò con forza.

    «DUE!»

    Sorrisi e lo sentii prendermi con la mano libera un braccio.

    «UNO!»

    Un’ondata di brividi partì dai piedi alla testa, inaspettata come un fulmine a ciel sereno, e le lacrime scivolarono liberamente lungo le guance. Luci colorate si sparsero nel cielo e canti di gioia s’infransero su di me come un’esplosione in pieno petto.

    Botti e scoppi infransero l’atmosfera, colori e polvere di stelle s’incontrarono e scesero a terra, formando cascate di felicità e nuove speranze. Uno dietro l’altro i fuochi d’artificio scoppiarono nel buio dando vita a spettacoli meravigliosi.

    Avevo la pelle d’oca.

    Non sapevo come riuscissi a stare in piedi, né come la spina dorsale riuscisse a mantenersi rigida nonostante la sentissi sciolta e malleabile come cera liquida, e forse era proprio la salda mano di Michael a tenermi in piedi, a donarmi la forza di non cadere.

    Tutto si perse in un unico inestimabile momento.

    Ne era valsa la pena aspettare quasi ventinove anni per godere di quel momento? Era servito vivere anni di sacrifici e solitudine, per poi riuscire a incontrare Michael e ritrovarmi nel luogo dove avevo sempre sognato di appartenere? La risposta era sì. Assolutamente sì.

    Gli ultimi botti, uno dietro l’altro, dopo quasi dieci minuti di esplosioni e magiche emozioni, dettero il segnale che tutto stava finendo. Dipingevano la notte con tutte le sfumature dell’arcobaleno. Poi, una volta terminato lo spettacolo, sospirammo di gioia.

    Non mi ero nemmeno accorta che i bambini si erano accalcati a Michael e lo avevano abbracciato. Ma lui non aveva lasciato la mia mano.

    «Siete stati felici? Vi sono piaciuti?», sussurrò baciandoli.

    Il buio riavvolse il cielo. Musica e grida di auguri risuonavano nell’ambiente circostante. Sciolsi la stretta da Michael e lui mi fissò, sorridendo per il mio invano tentativo di passare inosservata mentre mi asciugavo le lacrime.

    «Zia Sarah, perché hai pianto?», mormorò Paris avvicinandosi a me, incuriosita.

    Ridacchiai, ma Michael mi anticipò. «Vostra zia non è mai stata a Disneyland, per questo era emozionata». Mi sorrise. «Ora il suo cuore è felice...»

    Sorrisi anch'io e mi presi un biscotto dal tavolino. Anche Blanket ne volle uno.

    «Bene, e ora possiamo continuare con i festeggiamenti», esclamò Michael in lontananza.

    Con un sorriso grande quasi come tutto il resort si diresse in salotto fra palloncini, stelle filanti, coriandoli, maschere e giocattoli. Risi, stupita; si mise un cappello da pirata in testa e brandì una spada, poi fece l’inchino levandosi lo strano berretto dal capo.

    «Siete pronti a combattere?»

    I bambini corsero verso di lui, afferrando i palloncini e lanciandoli in aria. Le loro risate s’infransero nell’aria tintinnando come il rumore di campanelle di cristallo. Michael rise e i suoi occhi scuri mi invitarono a far parte della loro felicità. Ricambiai e mi incamminai verso di loro.

    Ero felice.



    Edited by fallagain - 5/4/2020, 12:36
  14. .
    Capitolo Venti: La Mia Persona

    Il trenta dicembre fu un giorno speciale. E non solo perché mancavano meno di 48 ore all’inizio del nuovo anno.

    Paris mi passò il vestito per la bambola che teneva fra le mani.

    «Pensi che questo le stia bene?», studiò l’abitino celeste, lungo e con il pizzo bianco.

    «Sì, divinamente», annuii. Katie, così si chiamava la bambola, aveva una folta chioma dai riflessi dorati, tenuti alla perfezione dietro la nuca con fiocchi e nastri bianchi. «Ha anche gli occhi azzurri, meglio di così!»

    Paris annuì con serietà e mi consegnò il vestitino principesco. Lo feci indossare a Katie, stando attenta a non rovinarle l’acconciatura, frattanto che la piccola s’occupava di prendere il castello delle bambole. Quella mattina mi aveva chiesto se avessi voglia di giocare con lei e io avevo accettato veloce come un missile. Non avrei potuto dire di no.

    «Sarah» mi chiamò mentre l’aiutavo a cercare tutti i suoi amici animali, «ti piace stare qui con noi? Con me, papà, Prince e Blankie?».

    Mi fissava intensamente. Stesso sguardo intelligente del padre.

    «Certo che mi piace» sorrisi. «Siete una seconda famiglia per me».

    Arrossii e mi resi conto che, dopo tanto tempo, avevo detto una cosa così profonda senza la minima difficoltà. In passato enunciare una frase del genere mi sarebbe stato impossibile. Probabilmente mi venne naturale dirla perché avevo di fronte Paris, e non suo padre.

    Ogni istante, in quei tre giorni, la figura di Michael m’appariva chiara e nitida in testa, nonostante tentassi di tenerlo alla larga dai miei pensieri il più possibile. Ma non riuscivo a porre resistenza al ricordo dei suoi occhi. Erano passate circa 48 ore da quando avevo visto l’intervista a Michael – 48 ore di inferno - eppure, per qualche ragione, ancora sentivo male al cuore.

    Paris sorrise di rimando e mi si avvicinò. Mi abbracciò. «Ti voglio bene Sarah...», sussurrò con il capo affondato fra i miei capelli. «Posso chiamarti zia?»

    Il cuore si fermò e la osservai stupita.

    Si allontanò dal mio collo e attese, fremente per una mia reazione. Dio solo sapeva quanto quella domanda fu in grado di emozionarmi e di farmi vibrare l’anima in milioni di scosse d’affetto.

    «Certo che puoi chiamarmi zia», sussurrai emozionata. In quel momento fu la gioia ad offuscarmi la vista. «Mi farebbe un grande – ma che dico? – enorme piacere! Ti ringrazio, sei una bambina preziosa, Paris».

    Lei ridacchiò furbescamente e batté le mani eccitata.

    «Ok, allora da adesso in poi sei zia Sarah! Non vedo l’ora di dirlo a papà, ne sarà felice!»

    La felicità scemò nonostante non glielo diedi a vedere.

    Paris mi prese la mano. «Andiamo a mangiare qualcosa?»

    «Sì, andiamo!».

    Mi alzai e la seguii fuori dalla stanza dei giochi. Per l’ennesima volta la mente fu rapita dal pensiero di Michael e dalla stretta che mi stritolava lo stomaco ogni qualvolta lo pensassi.

    Paris si fermò in mezzo al corridoio.

    «Zia Sarah...» Mi guardò con una maliziosa luce negli occhi e rimasi interdetta. «Ti piacciono i fuochi d’artificio?»

    Immediatamente pensai ai fuochi del 31 dicembre. «Sì, molto!».

    «Quanto molto?», domandò stringendomi la mano con forza.

    M’avvicinai al suo visetto e le scoccai un bacio sul nasino, facendola ridere. «Da morire!».

    Lei rise e proseguì la camminata fin giù per le scale, trascinandomi senza più dire una parola. Quando le chiesi perché me lo avesse domandato, pur sapendo che non mi avrebbe risposto, chiuse definitivamente il discorso dicendo che era solo una curiosità innocente.

    L’immagine di Michael mi tormentava.

    Da due giorni ci eravamo allontanati e io non riuscivo a darmi pace.

    Anzi, lui si era allontanato... e non mi aveva spiegato il motivo.

    Due giorni prima io e Michael eravamo distesi sul suo letto, a pancia in su, fissando il soffitto in legno. Era appena tornato dal dottore, mi aveva abbracciato e il silenzio si era impossessato di noi e della stanza, avanzando a piccoli ma veloci passi, incorporandoci nel suo manto impenetrabile. Gli avevo tenuto la mano, gli ero stata vicino, e lui mi aveva osservato a lungo.

    «Mi sei di grande aiuto, Sarah», aveva detto. «La tua vicinanza mi è essenziale, ora più che mai...». Io avevo fatto una smorfia incerta, mostrando quanto poco mi sentissi importante in un momento come quello, e Michael mi aveva stretto le dita fra le sue. Il cuore aveva perso un battito mentre lui aveva accennato un sorriso triste e mi aveva detto: «Va tutto bene».

    Ma nulla andava bene.

    Forse aveva capito che io non avrei potuto aiutarlo abbastanza. Forse aveva capito che le mie erano solo parole e un’inetta come me non sarebbe mai stata capace di farlo risalire in superficie, donandogli un briciolo di speranza... perché di colpo si era alzato, mi aveva detto che sarebbe andato a giocare con i suoi figli e mi dette modo di congedarmi nella mia stanza per circa due giorni.

    «Vorrei giocare coi miei bambini, loro mi tireranno su il morale di certo... ne ho il bisogno, Sarah», aveva cercato di scusare il suo comportamento.

    Ma io ero felice per lui. Avevo annuito sorridendo dolcemente e me ne ero andata. Perché non c’era da offendersi per quella constatazione; era comprensibile che i suoi figli, con la loro splendida innocenza e il loro sincero amore, sarebbero stati in grado di aiutarlo. Era giusto e a me bastava soltanto che fosse sereno. Ed infatti sapevo che, al posto di Michael, probabilmente avrei agito nella stessa maniera.

    E per due giorni non ci cercammo più.

    Mi evitò, completamente, fingendo che non esistessi. Non solo durante i pasti principali, ma in generale.

    La verità era che ero io il problema, perché stavo sognando ad occhi aperti in modo sconsiderato.

    Dopotutto avevo sempre sognato di trovare il migliore amico. Una persona con cui condividere tutto – gioia e dolore. Era normale ricadere nelle mie illusioni, nelle mie insensate fantasie, soprattutto se davanti avevo Michael Jackson, la cui aura era così magnetica e incantevole da trarmi in inganno e farmi rifare gli stessi errori del passato, forse anche peggio. Ma nonostante tutto, vedevo Michael come quella persona, “la mia persona”1. Lo credevo perché Michael era speciale. E io desideravo essere importante per lui quanto lui lo era per me... così importante da non abbandonarsi nel bene o nel male. Essere l’unica – questo chiedevo –, almeno per una persona. Essere capace di rendere un’anima davvero completa con il mio amore che, ancora, stavo cominciando a pensare che fosse imperfetto e “mai abbastanza”.

    Il problema era che mi affezionavo troppo velocemente e poi, in tutta risposta, mi trasformavo in un automa incapace di provare emozioni se venivo delusa. Michael non mi avrebbe impedito di inciampare nei miei stessi piedi per l’ennesima volta. Standogli vicino, nei giorni passati, quel bene che sentivo per lui era diventato qualcosa di più intenso, me ne rendevo conto: una conoscenza che credevo potesse diventare un legame grandioso, una amicizia speciale. Ecco cosa chiedevo... amicizia. Vera amicizia. Era tanto? Perché, a quanto pareva, stavo coltivando un qualcosa di nettamente più profondo, rispetto a quello che provava Michael.

    E poi, perché Michael avrebbe dovuto fare affidamento su me? Perché avrebbe dovuto ricambiare la forte emozione che sentivo per lui? Quello non era amore. L’amore non era pretendere. E, in parte, non avevo intenzione di provare sentimenti che non fossero di puro affetto. Di certo non sarei stata io, con la mia scadente capacità d’amare, a dargli ancor più problemi.

    Perciò, come sempre, mi sarei allontanata sia per non illudermi sia per non ricadere negli stessi errori di sempre.

    Eppure Michael scomparve prima ancora che potessi farlo io. Come se avesse capito subito cosa fosse giusto fare, quasi avesse letto le intenzioni del mio cuore prima che potessi studiarle al microscopio della mia coscienza. E questo mi fece male.

    Non avemmo più la scusa di incontrarci l’uno nella camera dell’altro. Durante i pasti me ne stavo in silenzio, ascoltando e osservando Michael e i suoi bambini come se fossi rinchiusa in una bacheca di vetro invisibile, al lato opposto della stanza. Quelle poche volte che lo incontravo in corridoio o in qualche altra parte della casa, per sbaglio, o lui cercava di non guardarmi o io lo facevo di rimando. Non avemmo più neanche l’opportunità di parlarci a quattr’occhi, visto che passava la maggior parte del tempo coi suoi figli e io, per non essere una fastidiosa presenza, mi ero allontanata da tutti loro, chiudendomi in me stessa. Nel giro di due giorni, mi ero trasformata in una estranea.

    Probabilmente Paris mi aveva chiesto se mi piacesse stare con lei e il resto della famiglia proprio perché aveva notato la mia freddezza. I bambini sono capaci di leggerti dentro senza che tu parli.

    Ero immobile in una fitta coltre di nebbia, una nebbia così spessa, formata da ombre di diffidenza e disillusioni sempre in agguato. Non mi piaceva fare la vittima della situazione, soprattutto non mi piaceva fare scenate, perciò preferivo isolarmi e non avere a che fare con nessuno di loro – perlomeno con Michael, che era la persona che mi faceva star male di più.

    All’improvviso, mentre io e Paris mangiavamo alcuni cracker durante la merenda, dalla porta della cucina entrò proprio lui, Michael. Lo osservai e lo stomaco divenne di nuovo pesante. Mi passò la fame in un batter d’occhio.

    Il suo corpo si bloccò sullo stipite della porta e mi osservò. I suoi occhi erano impenetrabili, mentre i miei sapevo che non erano in grado di fingere indifferenza.

    Non ero mai stata capace di fingere.

    «Papà!»

    Paris scese dallo sgabello, lasciandomi il suo cracker in mano, e si diresse verso le braccia del suo papà. Questo si scosse e la issò sorridendole dolcemente. Accennai un debole sorriso – non rivolto lui, ma a Paris.

    «Lo sai che Sarah mi ha dato il permesso di chiamarla zia? Zia Sarah!», esclamò tutta eccitata, indicandomi.

    Lo sguardo di Michael mi raggiunse e io mi concentrai solo sul mio cracker, quello che stavo per addentare poco prima che lui arrivasse. Feci finta di non aver sentito, ma soprattutto di non aver notato i suoi occhi su di me. Paris era presente e non dovevo mostrarmi offesa, arrabbiata, triste e neanche troppo assente o menefreghista.

    «Oh» disse Michael in tono carezzevole. «Davvero?»

    Lo guardai con la coda dell’occhio e vidi che sorrideva leggermente. Ricambiai fingendo che la sua presenza non mi appesantisse.

    «Sì, è vero, da oggi sono zia Sarah» e mi alzai dalla sedia, per mettere il mio bicchiere vuoto sul lavello della cucina.

    «Be’...», disse poco dopo, raggiungendo le mie orecchie come un sussurro lontano. «Volevo informarvi che oggi ci occuperemo noi delle pulizie di casa. Ho mandato alcuni domestici a casa, penso che sia giusto che anche loro si godano l’ultimo dell’anno come si deve...»

    Mi voltai di scatto, sorpresa. Michael che faceva le pulizie di casa? Cioè, dovevo immaginarlo con il grembiule da casalinga e uno straccio per la polvere? O con un aspirapolvere? Per poco non scoppiai a ridere, rischiando di cadere a terra senza forze.

    Quell’immagine di lui in versione uomo delle pulizie mi stava facendo mancare il respiro, tant’è che dovetti inspirare a fondo e voltargli le spalle, mordendomi le labbra per non impazzire.

    «Sììì! Puliamo!», esclamò Paris, alzando le braccia al cielo.

    Quando mi volsi in loro direzione, Michael mi osservava allegro ed esitante assieme.

    «Ti piacerebbe darci una mano...?». Mi ci vollero alcuni secondi per capire che stava parlando con la sottoscritta. Le sensazioni scaturite dalla sua voce mi fecero venire i brividi. Lui alzò le sopracciglia e accennò ad un sorriso divertito. «O la cosa ti disturba...?»

    Scossi la testa. «No, no, mi piace fare le pulizie. Vi aiuto volentieri».

    Lui annuii piano e strinse le labbra in un’espressione debolmente soddisfatta, guardando in basso. Per un attimo non volli sapere a cosa la sua dannata testa stesse pensando.

    «Ok, allora a questo pomeriggio», disse adagiando Paris per terra. Notando il suo visetto crucciato sorrise, scoccandole un bacio a stampo. «Ho un impegno per pranzo, ma tornerò presto, verso le quattro del pomeriggio massimo. Te lo prometto. Fra poco arriverà Grace e vi darà una mano, in attesa del mio ritorno. Voi inizierete comunque senza di me...»

    Drizzò la schiena in posizione eretta e mi scoccò un’ultima occhiata. Questa durò pochi secondi: un debole rossore sul viso lo indusse a non guardarmi più. «Vi voglio bene, ad entrambe».

    Lo fissai senza lasciarmi andare esplicitamente ad alcuna emozione. Ciò nonostante il mio cuore si esibì in una doppia capriola all’indietro.

    «A dopo, buon appetito».

    «Buon appetito papà!», disse Paris salutandolo con la mano.

    Lui indietreggiò, ma non varcò la soglia.

    Sospirai piano, adocchiando la sedia che stavo rimettendo al suo posto. «Buon appetito...»

    Mi fissò e mi stupii che fosse riuscito a udire qualcosa del mio mormorio. Annuì sofficemente e se ne andò, lasciandoci sole. La porta di casa si chiuse dieci secondi più tardi.

    *

    Subito dopo aver pranzato io e i bambini – con Grace e Blanket a monitorare allegramente la situazione – ci mettemmo d’impegno nelle pulizie di casa. Ci vestimmo adeguatamente – con abiti comodi –, prendemmo tutto il necessario da uno sgabuzzino al piano sotterraneo e cominciammo a pulire l’enorme villino da cima a fondo. Ci sarebbero volute ore per sistemare ogni cosa.

    Decidemmo di dividerci i compiti. Io iniziai ripulendo il piano terra – il salotto, la sala da pranzo, ecc. – togliendo la polvere dai mobili. I bambini, invece, con l’aiuto di Grace e del piccolo Blanket, si occuparono del piano di sopra: aprirono tutte le finestre della casa, per cambiare l’aria; in particolar modo sistemarono le loro camere da letto, la stanza dei giochi e quella dedicata all’apprendimento scolastico – sempre riordinando giocattoli, vestiti e oggetti vari. Spendemmo due ore abbondanti solo per fare quelle cose.

    Quando ci scambiammo di piano, scoprii che molte stanze della casa erano vietate all’accesso, fra cui la vecchia camera di Michael. I bambini rimisero a posto tutti gli oggetti in disordine del piano terra, passando la scopa devotamente. Io invece mi occupai di passare l’aspirapolvere nelle camere di Prince, Paris e Blanket e – ovviamente – nella mia stanza (e di fare anche la polvere in quest’ultima).

    Finii la camera dei bambini e arrivata nel mio piccolo angolo di paradiso presi il mio lettore CD per ascoltare un po’ di musica. Era la prima volta che lo utilizzavo da quando mi ero trasferita.

    I bambini non mi avrebbero chiesto aiuto, c’era la tata con loro.

    Michael non era ancora tornato.

    Erano più o meno le tre del pomeriggio. Mancava ancora un’ora al suo arrivo.

    Fui attratta da uno dei CD recentemente acquistati, Justified di Justin Timberlake. Quel ragazzo aveva talento e la sua musica era molto piacevole da ascoltare. Presi lettore e cuffiette, inserii il disco e feci partire la prima canzone: si chiamava Señorita.

    Passai l’aspirapolvere incantata da quella melodia che ricordava la musica sudamericana, tanto da ascoltarla per tre volte consecutive. Arrivata a Like I Love You stavo già spolverando e sistemando gli oggetti della mia stanza. Interruppi le pulizie per danzare.

    «Just something about you, the way I'm lookin' at you whatever.
    You keep lookin' at me. You gettin' scared now, right?
    Don't fear me baby, it's just destiny.

    It feel good right?
    Listen

    La porta era aperta.

    Mi tolsi una cuffietta. Non sentivo nessuno gridare “Papà è tornato”.

    Non erano le quattro, potevo stare tranquilla.

    Appoggiai la porta sullo stipite – senza chiuderla del tutto – così, nel caso in cui fosse arrivato qualcuno, avrei potuto scorgerne almeno l’ombra. Alzai il volume al massimo. Like I Love You era una delle canzoni più belle dell’album, a mio parere.

    Ben presto la mia attenzione venne completamente rapita dalla musica, piuttosto che dalla porta socchiusa, a discapito delle mie iniziali preoccupazioni. Mi feci trasportare da quei ritmi cadenzati ma pieni di sensualità chiudendo gli occhi, abbassando le palpebre con nonchalance e facendo schioccare le dita a ritmo. Improvvisai anche qualche passo di danza moderna che avevo imparato durante la mia gavetta universitaria, quando lavoravo nel locale sempre pieno di persone devote al ballo. Ad alcune avevo chiesto di insegnarmi qualcosa e rimasi piacevolmente soddisfatta nel vedere che mi ricordavo ancora dei passi.

    Il suono della batteria e della chitarra cullavano il mio corpo trasportandomi in uno stato di estasi totale; la mia anima diventò un tutt’uno con la musica. Mimando le parole della canzone, sempre ad occhi chiusi, un sorriso mi si dipinse in volto.

    Andai avanti così fino al secondo ritornello, dove la musica rallentava e potevo ondeggiare i fianchi con più lentezza: slittamenti del bacino verticale orizzontali, piccoli e grandi “otto” con le anche, a seconda di come mi guidava l’istinto. Prima lenta, poi veloce. Di tanto in tanto battevo le mani per enfatizzare il ritmo, sussurrando le parole della canzone con enfasi.

    «If you give me that chance to be your man
    I won't let you down baby
    »

    Non si sarebbe mai detto di una come me, ma amavo i balli dove potevo tirare fuori la sensualità di donna. E non trovavo necessario fare movimenti eccessivamente sessuali o esagerati: credevo che si potesse essere attraente anche facendo il minimo indispensabile. Sapevo di avere potenziale. Sapevo di avere e mostrare sex appeal, se volevo.

    Iniziò la parte rap della canzone e smisi di ballare, ma non di canticchiare. Quando aprii gli occhi il mio sguardo puntava verso il basso. Presi un elastico che avevo allacciato attorno al polso sinistro e mi feci una coda alta. Ero così presa dalle parole della canzone che, quando mi voltai, urlai dallo spavento.

    Michael era sulla porta.

    Con una mano al petto lo fissai, tentando di fermare il batticuore. Arrossii immediatamente.

    E ora?

    *

    Se ne stava sullo stipite in legno, appoggiato con la schiena, e mi osservava divertito. Aveva le sopracciglia inarcate. Le labbra formavano un sorriso stirato che, in realtà, era uno dei suoi tentativi per non scoppiare a ridermi in faccia. Le braccia erano incrociate al petto e con le dita teneva il ritmo della canzone, palesemente udibile attraverso le cuffiette, da tanto era alto il volume. I suoi occhi erano più abbaglianti del solito.

    Volli morire.

    Subito l'istinto mi consigliò di dire qualcosa – qualsiasi cosa – che potesse aiutarmi a sciogliere la tensione.

    Mi tirai via una cuffietta e lasciai che la musica continuasse a riempire il silenzio imbarazzante.

    «Ciao», dissi, piuttosto cupa.

    Michael ridacchiò e alzò un sopracciglio rispetto all'altro. «Ciao».

    Espirai a fondo. «Da quant’è che sei qui?»

    Dissi quella frase incrinando la voce più del normale. Cercai di essere indifferente. Sapevo benissimo che non riuscivo a mascherare la vergogna. Le guance si scaldavano sempre di più.

    Michael mi adocchiò per qualche secondo e successivamente proruppe in una grande risata. Lo osservai a lungo – con la bocca spalancata dallo stupore e dalla timidezza – mentre lui si dondolava su e giù, con una mano davanti alle labbra e l’altra sulla pancia.

    Mi uscì il fumo dalle orecchie e non capii se fossi più imbarazzata per il fatto che mi avesse visto ballare o se fossi offesa per la sua risata a crepapelle. Gli facevo così schifo?

    «Oh, girl... be’, da un po’ in realtà» sussurrò non appena si fu ripreso. Il mio sguardo gli chiese da quanto precisamente e lui lo intuì. Fu sul punto di scoppiare nuovamente. Si umettò il labbro inferiore e fece finta di nulla. «Da un minuto o più...»

    «Wow...», borbottai. «Potevi anche interrompermi prima…», cominciai a farfugliare a vanvera, senza guardarlo.

    Lui sogghignò e fece un passo in avanti. Appoggiò una mano sulla porta e la chiuse. «Perché mai? Sei una ragazza così piena di sorprese… sembra che la musica scorra attraverso il tuo corpo e la tua anima».

    Ripensai ai movimenti sensuali che avevo fatto poco prima e mi misi le mani davanti alla faccia, emettendo un sospiro esasperato.

    Qualcuno mi fulmini, ora.

    «Sul serio, dico davvero», affermò con voce gioiosa. «Sei molto, molto brava...»

    Un attimo di silenzio.

    «Justified di Justin Timberlake?»

    Annuii togliendomi le mani dal viso, cercando di ricompormi. «Lo conosci?»

    «Sì», disse annuendo serenamente. «Mi piace ascoltare musica di nuovi artisti. Lo trovo illuminante». Pian pianino si avvicinò alla sottoscritta. «A te piace da morire, non è così?», sorrise maggiormente.

    «Si è notato, per caso?».

    Sghignazzò delicatamente. «Sì, molto».

    Si fermò a venti centimetri dal mio corpo.

    Guardai il lettore CD con insistenza. La sua aura pulsò intensamente a contatto con la mia, conducendomi verso uno stato di quasi totale incoscienza. C’era qualcosa di così straordinario in lui che non sarei mai riuscita a spiegarmi.

    La frustrazione che avevo provato per quel distacco tra me e Michael scomparve in meno di un secondo.

    «Perché non continui a danzare?»

    «Indovina...», dissi alzando una mano in aria, ridacchiando nervosamente.

    Michael la fermò, inglobandola fra le sue dita. I miei occhi scattarono su di lui. Michael si umettò le labbra. Sembrava più affascinante del solito; quasi totalmente acqua e sapone, con le labbra e le guance naturalmente marcate, e un profumo borotalcato e legnoso che si sentiva lontano un miglio. Indossava pantaloni neri e una camicia azzurro cielo che gli risaltava le spalle.

    «Ti va se riascoltiamo la canzone appena finita? Mi piace molto»

    Feci spallucce, evitandolo.

    Pochi centimetri e mi sarei scontrata con il suo torace.

    Mi prese il lettore CD e la rimise da capo. Gli offrii la cuffia che mi ero tolta ed egli la incastrò goffamente nel suo orecchio.

    Poco dopo Michael mosse i piedi a terra, sbattendoli con insistenza e seguendo il ritmo della chitarra e della batteria. Il capo cominciò a muoversi su e giù, sempre più rapidamente, accompagnato dalla musica. Pian piano la melodia scorse attraverso le sue gambe e, infine, attraverso il bacino.

    Si bagnò il labbro inferiore, ancora, mentre io gli sorridevo con un sopracciglio alzato, allacciando le braccia al petto.

    Accostò le labbra al mio orecchio.

    «Non balli se ci sono io con te?».

    Non riuscivo a muovermi.

    Le sue labbra erano così vicine che mi sembrò di aver udito quella voce direttamente dal mio cervello, piuttosto che dall’esterno. Delicati ma intensi fremiti mi avvolsero la nuca. Sentivo nitidamente il suo profumo dentro i polmoni.

    Ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Era più vicino di quanto non lo fosse mai stato, o forse la lontananza di quei due giorni sembrava aver cancellato il ricordo della sua presenza nella mia memoria.

    Ridacchiai. «No, purtroppo… dovresti aver capito che io sono molto timida e tu sei molto bravo».

    «Allora fai finta di essere sola», sfoderò un sorriso disarmante.

    Mi mancò il respiro quando sentii la sua mano libera scivolare sulla mia vita. Distesi le braccia lungo i fianchi. Il mio seno si accostò al torace di Michael. Mi strinsi alla sua camicia con una mano, d’istinto. Mi stava inducendo a ballare con lui e mi toccava con una dolcezza innata. I suoi occhi erano seri, in confronto al resto del viso.

    «Lasciati andare, come hai fatto prima».

    «Eh, mica facile!», borbottai arrossendo e ridendo al contempo.

    Michael ampliò il sorriso, alleviando la presa delle dita e scendendo più in basso: quello che percepivo era solo una lieve carezza, un delicato e tenue calore che faceva mancare la sensibilità a quella parte del corpo che stava sfiorando. L’altra mano, quella sospesa in aria, era ancora stretta al lettore CD.

    Il bacino cominciò a muoversi da sé, prima che potessi dare loro l’input di fermarsi. Michael mi diceva quando velocizzare il movimento e quando rallentarlo.

    Di botto mi lasciai sopraffare da una risata divertita. I nervi si rilassarono e improvvisamente la tensione scomparve. Chiusi gli occhi, tentando di credere di essere veramente sola. Michael danzava con me. Mi parve di diventare una sola cosa con lui, con la musica e tutto il resto, tanto da perdere la cognizione del tempo. Era una cosa stupida, pensai di primo impatto, ma non vidi più nulla di imbarazzante in quel ballo. Niente di niente.

    Udii Michael ridacchiare – o almeno così sembrò di primo impatto – e in seguito trattenere il respiro. Spalancai le palpebre. Mi fissava intensamente. I suoi occhi erano splendenti, ma i lineamenti delle labbra e delle guance erano irrigidite rispetto a prima.

    Storsi le labbra in un sorrisetto malizioso.

    Nessuno dei due smise di danzare.

    Abbassai lo sguardo in direzione del suo torace. Aveva le spalle ampie. Fissai il colore della maglia che indossava.

    Non chiusi più gli occhi, ma seguii la musica e ogni sua nota, perdendomi in e con essa. Mi lasciai andare ad un canto in playback con un sorriso stampato in faccia, lasciandomi cullare dalla musica.

    Improvvisamente Michael chinò il capo verso il mio orecchio sinistro.

    «You’re a good girl and that’s what makes me trust ya».

    Rabbrividii e ridacchiai una seconda volta.

    La canzone era praticamente finita, poiché la melodia cambiò subito dopo la frase di Michael. Quest’ultimo si allontanò dal mio viso e mi lasciò il fianco, indietreggiando di un passo.

    Un sorriso soddisfatto apparve sulle mie labbra.

    Osservai Michael e notai come stesse intimamente esplorando ogni dettaglio del mio viso, indugiando sulle mie iridi verdi. Mi sentivo più leggera, soprattutto perché avevo trovato il coraggio di lasciarmi andare di fronte a lui, ma il cuore batteva ancora forte.

    Mi diede il lettore CD e la cuffietta.

    «Be’», esclamai felice e sorpresa. «È… è stato divertente».

    Michael mi gettò un’occhiata di soppiatto, sorridendo appena. «Vedi? Lo sapevo che non avresti fatto fatica...». Il riso si restrinse e, smettendo di parlare, mi sistemò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio. Rimase a fissarlo a lungo. Il sangue mi pulsò nelle tempie. «Hai solo bisogno di essere tentata».

    «Uh?»

    Mi squadrò seriamente. «Hai bisogno che qualcuno ti induca a lasciarti andare. Succede anche a me».

    Sorrisi e alzai le spalle. «Sì, è vero».

    Un ultimo scambio di sguardi e si allontanò da me, avanzando all’indietro e alla cieca.

    «È meglio che vada a mettermi qualcosa di comodo. Non posso lasciarvi fare tutte le pulizie senza di me», mormorò facendo un cenno alla porta, in riferimento ai suoi figli.

    Annuii. Michael si voltò, aprì la porta salutandomi con un rapido movimento della mano e sparì.

    Per un attimo mi parve di vederlo arrossire.

    *

    Durante il resto del pomeriggio sembrò come se io e Michael non avessimo passato dei giorni ad ignorarci.

    Probabilmente furono le sue continue birichinate durante le pulizie ad impedirmi di allontanarmi da lui, come ad esempio il mettersi in mezzo coi piedi fra la scopa e il pavimento per impedirmi di pulire, oppure il far finta di lanciarmi delle cose in porcellana da prendere al volo.

    Cercava in tutti i modi di farmi impazzire e di farmi perdere la pazienza, riuscendoci sempre.

    Faceva di tutto per rompermi le scatole, ma soprattutto tentava di farmi ridere.

    La reazione tipica alle mie facce sconvolte o fintamente offese era esplodere in una fragorosa risata, scagliandomi continue occhiate da bambino giocherellone che ricambiavo con spazientite linguacce. Non capivo cosa ci fosse di così divertente nel vedermi esasperata, ma lo lasciai fare.

    Alla sera, quando eravamo tutti affamati e affaticati, Michael propose di andare a prendere la cena ad un fast-food, accompagnati dalle inseparabili guardie del corpo e da Grace. Ci lavammo, ci cambiammo, prendemmo un SUV e uscimmo in incognito. Ci avviamo verso un take-away che a loro doveva essere parecchio conosciuto. Mangiammo in macchina, in direzione di Neverland Valley, parlando del più e del meno coi bambini.

    Fu una cena tranquilla, del tutto diversa dalle altre.

    Eppure mi sentivo appesantita. Sentivo che c’era qualcosa di non chiarito tra e me Michael e quel pensiero non mi dava pace: lo guardavo, lo studiavo, e mentalmente mi chiedevo quale fosse il momento più adatto per parlargli... se ne avessi avuto il coraggio, però.

    Per quanto fossi angosciata e frustrata e avessi una gran voglia di chiedergli perché ci eravamo raffreddati, avevo paura; paura che lui mi dicesse che voleva prendere le adeguate distanze da me. Temevo che mi avrebbe dato la conferma che, sotto quella sua tenera amichevolezza, in realtà non desiderasse illudermi più del necessario.

    Ma allora perché quel ballo di prima?

    Non riuscivo a capire il perché di molti dei suoi comportamenti... se voleva allontanarmi per difendersi da me o da se stesso, se voleva proteggermi da chissà quale cosa, o se voleva dare un freno all’amicizia che stavamo instaurando… perché non si atteggiava di conseguenza? Magari mi sbagliavo io, e il suo era un atteggiamento che aveva con tutti.

    Eppure volevo sincerità da parte sua.

    Arrivammo al Ranch che avevamo già terminato la cena da un pezzo.

    «Daddy» disse Prince, scendendo stancamente dalla macchina. «Dopo ci leggi una fiaba?».

    Blanket si era addormentato fra le mie braccia e così lo consegnai a Grace.

    «Mmh... penso che per stasera sia meglio che andiate a dormire presto» mormorò il padre. Scesero anche Paris, Grace con Blanket e le due guardie del corpo; aspettai che Michael scendesse ma mi fece cenno col capo di andare per prima. Ringraziai con un timido sorriso. «Abbiamo fatto abbastanza, per oggi...».

    Scesi a terra e Michael fece lo stesso poco dopo.

    «Ma domani sera non dobbiamo andare a dormire presto, vero?», continuò il piccolo.

    Il padre del bambino si immobilizzò. Paris fu espressiva, dette una piccola spinta al fratello e lo fulminò con gli occhi. Quest’ultimo mi lanciò un’occhiata spaventata e arrossì.

    Mi ritrovai a scrutare ognuno dei soggetti – anche le guardie del corpo che se la ridevano sotto i baffi – e in particolar modo Michael, immaginando che avesse dei piani tutti suoi per Capodanno e si fosse dimenticato di dirmeli. L’unica in grado di fingere indifferenza fu Grace, ma ero a conoscenza che del fatto che sapeva ogni cosa. Mi evitò completamente.

    Michael mi lanciò uno sguardo penetrante, poi ridacchiò.

    «Torniamo in casa, è meglio».

    Prince e Paris avanzarono in prima fila e si parlarono all’orecchio, lei che lo sgridava e lui che si difendeva dicendo che non l’aveva fatto apposta. Grace li rimproverò come una vera e propria mamma, sempre attenta a non svegliare Blanket. Le guardie del corpo furono subito dietro loro, sghignazzando. Mentre io avanzavo veloce dietro questi, mi sentii prendere per un lembo della giacca.

    Mi girai di scatto e vidi che Michael mi puntava con fare severo. «Posso parlarti in privato, non appena rientriamo?»

    «Sì, certamente…», annuii.

    Accennò ad una lieve risata e mi guardò la bocca. Si morse un labbro e socchiuse gli occhi, aggrottando la fronte. «Sei leggermente sporca di ketchup...».

    Spalancai le palpebre, presa in contropiede, e mi misi una mano sulle labbra non appena me lo disse. Le gote s’infiammarono per l’imbarazzo. Perciò strofinai le dita a lungo le guance e Michael scosse la testa, sorridendo.

    «No, non sulle guance...».

    Prese un fazzoletto di seta dall’interno della sua giacca e, senza porgermelo in mano, ne prese un lembo e s’avvicinò al mio volto.

    Chinò il capo da una parte, corrugando la fronte per concentrarsi. Con una mano mi alzò il mento e con l’altra pose il fazzoletto sull’angolo destra della bocca: strofinò per qualche secondo e poi smise. La sua espressione sembrava esitante.

    Si era messo poco fondotinta quella sera, tant’è che potei scorgere qualche piccola macchiolina di vitiligine sulla fronte. Mi sembrò bellissimo comunque, anzi, forse più bello del solito.

    «Mmh...». Mise il fazzoletto in tasca. Mi spostò dolcemente il mento verso destra, dove la luce di un lampione mi colpiva in piena faccia. I suoi occhi mi catturarono e rimasi a guardarlo senza dire nulla, lasciandolo fare. Sollevò le sopracciglia. «Non se ne vuole andare».

    Sollevò la mano libera, quella che non mi teneva il mento, e con l’indice mi sfiorò l’estremità delle labbra. Lo sentii muoversi sofficemente, strofinarmi la pelle con cura e con lentezza destabilizzante. Cominciai a sciogliermi sotto il carezzevole gesto delle sue dita.

    Si allontanò con un’ultima carezza, rimanendo a fissarmi con sopracciglia aggrottate. Schioccò la lingua al palato; per tutto quel tempo lo rimasi a fissare come ipnotizzata.

    «Ora non c’è più», disse con voce bassa.

    Non mi convinceva per nulla.

    «Grazie».

    «E di cosa?», chiese accigliandosi.

    Arrossii. Sorrise e con un lieve movimento della nuca mi indicò di entrare in casa. Lasciò che lo sorpassassi.

    Fra una chiacchiera e l’altra, il gruppo entrò in casa e si diresse in salotto. Mi ci volle poco per accorgermi che Michael era rimasto indietro. Mi volsi indietro: guardava il basso camminando a piccoli passi, assorto nei suoi più intimi pensieri. Non appena sentì i miei occhi su di lui, come a chiedergli il perché se ne stesse da solo, accennò un sorriso poco divertito.

    Mi fermai in mezzo al corridoio, senza seguire gli altri, e attesi che mi raggiungesse.

    Si avvicinò piano, sollevando le sopracciglia con fare stupito, e io alzai gli occhi al cielo. Sbuffai e Michael mi studiò senza capire il perché della mia esasperazione. Gli guardai la mano distesa sul fianco e, molto coraggiosamente da parte mia, gliela presi. Le sue palpebre si spalancarono maggiormente.

    «Avanti, andiamo», mormorai arrossendo, guardando dinanzi con espressione imbronciata. «Non penserai che ti lasci solo soletto con te stesso, no?»

    Aumentai il passo ed egli fu costretto a seguirmi di corsa, fino a quando non raggiungemmo gli altri in salotto. Una guardia del corpo ci scorse prima degli altri e, prima che potesse guardarci, gli lasciai la mano. Lo feci velocemente, ma non così tanto da non essere ripresa un secondo più tardi: fissai Michael con notevole stupore mentre mi riprendeva le dita vigorosamente, senza avanzare verso il palmo della mano.

    Il cuore fece un salto fino alla gola. Il suo sguardo era puntato dritto davanti a sé e faceva finta di nulla, sebbene si stesse mordendo nervosamente le labbra e i suoi occhi fossero accesi da una luce ardente.

    I suoi bambini accorsero verso di noi.

    Un pizzico di paura - e il ricordo di ciò che era avvenuto nei giorni precedenti - mi strappò da Michael una seconda ed ultima volta; non volevo avvinarmi troppo, se si sarebbe presto allontanato… e non volevo peggiorare le cose, né per me, né per lui.

    Indietreggiai e mi lasciai isolare un po’; allontanarmi da Michael non era ciò che volevo, ma neanche tenere la sua mano mi avrebbe fatto sentire protetta da ipotetiche delusioni. Non avevo altra scelta, perché lui avrebbe fatto l’allegro bambino per poi, come un fulmine a ciel sereno, ritornare sulle sue, così come aveva fatto nei giorni scorsi.

    Se dovevo stare attenta e non sbagliare ancora, dovevo prendere la distanza. Almeno – se Michael avesse capito che le mie intenzioni non erano quelle di ferirlo o addirittura andare oltre una normale relazione di lavoro – forse avrei potuto godere comunque del suo sorriso e della sua presenza tutti i giorni.

    Bastava solo quello per rendermi serena.

    Michael mi lanciò uno sguardo titubante e io ricambiai con un debole sorriso. Egli voltò il capo verso i suoi figli e io fissai le deboli luci del salotto, angosciata all’idea di doverci parlare faccia a faccia più tardi, senza avere il mezzo per scampargli.

    *

    Michael dette la buonanotte a Prince, Paris e Blanket. Grace andò a dormire nella stanza accanto. Le guardie del corpo si congedarono. E io, al contrario, fuggii e rimasi in camera mia, a leggere.

    Prima che salissi, però, Michael mi sussurrò ad un orecchio: «Parliamo più tardi, ok? Addormento i bambini e poi vengo da te». Avevo annuito piano e mi ero volatilizzata nella mia stanza, non prima di aver salutato i piccoli.

    Ma alle dieci spaccate lui non si fece vedere.

    E neanche una mezz’ora dopo.

    Mi alzai dal letto sospirando, chiudendo il libro che stavo leggendo e poggiandolo sul comodino. Ebbi il timore che avesse cambiato idea e la rabbia che provai, sapendo che non mi aveva nemmeno avvisato, non rese le cose più facili.

    Forse i bambini facevano fatica a dormire, o forse non aveva avuto il coraggio di deludermi ancora e se ne era andato in camera sua, pensando che avrebbe fatto bene a lasciarmi come un’idiota ad aspettarlo. O si era dimenticato dell’appuntamento. O magari era passato e io non lo avevo sentito.

    Senza sapere cosa stavo per fare mi avvicinai alla porta. Mi lasciai prendere dalla paranoia, la aprii e guardai fuori, aspettandomi che sbucasse davanti ai miei occhi da un momento all’altro. L’unica cosa che notai fu solo un biglietto ai miei piedi: lo presi in mano e lo aprii, sollevata.

    Sono in sala di registrazione, voglio farti sentire una cosa.
    Mettiti pure in pigiama e poi raggiungimi, è al piano inferiore.
    Scusami se non ti ho avvisato a voce.
    Segui la cartina che ti ho disegnato e non ti perderai.
    A dopo. God bless you.

    Chissà quando me lo aveva scritto.

    Lo rilessi più e più volte, cercando di decifrare bene ogni sua parola.

    Non si era dimenticato di me. Idiota io che mi facevo troppe fisime per nulla.

    Mi sistemai un po’ d'aspetto, fiera del mio bellissimo pigiama color panna, indossai le ciabatte e accorsi al piano terra. Seguii una scala che portava al piano inferiore, proseguii per un corridoio tempestato da quadri, statue e manichini e bussai alla porta nera che, secondo le indicazioni, era quella dello studio di registrazione. Nessuno rispose, ma abbassai la maniglia della porta e questa si aprì senza difficoltà.

    Michael se ne stava chino su una specie di mobile nero e liscio, dinanzi a tantissimi tasti e bottoni luccicanti e levette di tutti i tipi, tipici degli studi delle case discografiche. L'arredamento era quasi tutto in legno, tranne per una vetrata oscurata e una porta che sembrava in acciaio: dalla vetrata si poteva scorgere una camera insonorizzata con vari microfoni. Michael batteva il piede a terra lentamente, scuoteva la testa avanti e indietro e canticchiava una melodia soave e dolcissima. Stranamente non indossava gli occhiali da vista.

    «Michael?»

    Lo chiamai leggermente e lui scattò drizzando la schiena. Si voltò con le labbra socchiuse. Ma prima che mi avvicinassi, Michael prese i fogli sul tavolo e li raggruppò velocemente, mollando la penna sul tavolo e nascondendoli all'interno di un quaderno nero e dorato. La sua rapidità di gesti mi fece intendere che non era disposto a condividere quello che stava scrivendo.

    «Ciao» mormorai impacciata.

    Michael respirò a fondo e mi fissò smarrito. «Ciao».

    Mi guardai intorno curiosamente.

    «Siediti...», richiamò la mia attenzione in modo pacato.

    Avanzai titubante, dopo aver chiuso la porta. Mi sedetti su una sedia girevole accanto a lui e studiai i pulsanti del regolatore di suono. Avevo sempre sognato di visitare una sala di registrazione. Continuai a guardarmi intorno silenziosamente.

    Michael mi stava addosso con gli occhi.

    «Hai letto il mio biglietto solo adesso, vero?» domandò ondeggiando avanti e indietro col busto.

    «Mmh-mmh...».

    Si umettò il labbro inferiore e sospirò, fissandosi le ginocchia. «Capisco...»

    Silenzio.

    «Sto sistemando alcune canzoni da inserire nella nuova collezione che pubblicherò il prossimo anno» disse con la solita voce calma e pacata. «Ne vuoi... ne vuoi ascoltare qualcuna?».

    Pareva chiedermi scusa.

    M'illuminai. «Sì, certamente!».

    Morivo dalla voglia di sentirle.

    Michael mi esaminò. Si diede da fare con lo strano marchingegno che aveva sotto mano, troppo complicato da capire per un’inesperta in materia come la sottoscritta. Prima che cominciasse ad attaccare la musica si bloccò: gli occhi erano persi nel vuoto, ma non erano assenti.

    «Quella canzone che stavo scrivendo...».

    Lo osservai umettarsi le labbra nervosamente.

    «Scusa se non te l’ho fatta sentire... io sono un perfezionista, e quella è solo una bozza... e inoltre... è dedicata ad una persona molto speciale. Penso che sia giusto renderla accettabile, prima di farla ascoltare».

    Le sue gote si arrossarono di botto. Mi inclinai verso di lui, sorridendo sinceramente: la mia curiosità si accese e la fantasia mi portò subito a pensare che sotto sotto ci fosse una qualche trama amorosa. Non c’era niente di più bello.

    «Davvero? È fantastico!» esclamai.

    Michael mi sganciò un’occhiata di sottecchi.

    «Riguarda... una lei, vero?»

    Esitò. Qualche istante più tardi annuì.

    Mi morsi le labbra e tentai di formulare la successiva domanda nel modo più educato possibile. «Tu – scusa, non voglio essere impicciona, se vuoi puoi non rispondere – ma... ma tu sei innamorato

    Michael mi puntò sbigottito, come se avessi detto la cosa più sconvolgente al mondo. Vidi il suo pomo d’Adamo sobbalzare per la saliva appena ingoiata e fece vagare le iridi verso il basso. Intrecciò le dita delle mani e si umettò il labbro inferiore. Era dolce quando si imbarazzava.

    «Sì...».

    Il suo sussurro mi investì da cima a fondo.

    La prima emozione che mi colpì fu allegria, un’adrenalina allo stato puro.

    Unii i palmi delle mani, esaltata per quel meraviglioso sentimento che stava provando: sapere che lui fosse innamorato mi dava una gioia immensa. Grazie a Dio, forse, l’amore di una donna lo avrebbe aiutato e incoraggiato a non arrendersi nei momenti più bui della sua vita.

    «Dio...» esclamai estasiata, sorridendo come una cretina. «Ma è stupendo, Michael!»

    Il sguardo catturò la mia esultanza e ne controllò l’autenticità. Il modo che aveva di analizzarmi era serio, ma anche molto interessato. Evidentemente aveva visto poche persone che scoppiavano di contentezza nel saperlo innamorato, almeno così credetti.

    Continuai a sorridere e lui ricambiò piano. Scostò gl’occhi dalla mia figura e attese qualche altro istante prima di cambiare definitivamente argomento. Non sapere chi fosse la ragazza e non conoscere i dettagli della loro storia d’amore mi lasciava l’amaro in bocca, ma sapevo che non potevo sforzarlo a parlarne.

    Ero proprio scema a non arrivarci da sola.

    Un giorno avrei ritirato fuori il discorso, se la nostra amicizia sarebbe divenuta più intima. A quel pensiero, tuttavia, sentii un nodo in gola. Dovevo allontanarmi da quell’idea.

    «C’è una canzone che inserirò in questo album, registrata tanti anni fa, che mi ricorda te...»

    Lo fissai, sbigottita. Fece lo stesso. Ero confusa ed eccitata assieme.

    «La vuoi sentire?».

    Emisi uno spasmo di risata imbarazzata. «E secondo te direi di no? È un onore per me! Sì, per favore!».

    Sentii le mie gote avvampare e Michael rise sotto i baffi. «Allora stai pronta...».

    Un click e dolci note invasero l’intera stanza. Tutto l’ambiente circostante venne inglobato da un ritmo lento, calmo, soave; era una melodia paradisiaca, che portava verso un luogo sconosciuto ma perfettamente sereno, pacifico, con un pizzico di malinconia di sottofondo.

    Michael batteva i piedi a terra e muoveva la testa nascondendo una leggera tensione.

    «I’m so undemanding ‘cause they say love is blind
    I’ve lived this life pretending I can bear this hurt deep inside
    The truth is that I'm longing for love that’s so divine
    I’ve searched this whole world wishing she'll be there time after time
    »

    Alzai un sopracciglio e guardai il vuoto. Poggiai un gomito sul tavolo nero e con una mano mi tenni il viso. Ascoltavo la limpida voce di Michael mentre mi accarezzava l’udito e lo spirito. Tirava fuori le parole che io non gli avevo mai detto, ma che lui era comunque riuscito a comprendere nel mio silenzio.
    «I’ve lived my life the lonely, a soul that cries of shame with handicapped emotions
    Save me now from what still remains.

    I'll be your story hero, I'll serenade in rhyme,
    I'm just needing that someone, save me now from the path I'm on
    »

    Passato il ritornello, strinsi le labbra per trattenere una risata imbarazzata; le parole di quella canzone mi leggevano dentro, svuotandomi da ogni pensiero perfettamente concreto e ragionevole. Ero sicura che anche lui si sentisse così, come me. Tutto ciò mi portò a meditare sul mio profondo desiderio di essergli amica che, in quei giorni, avevo provato a seppellire con forza.

    «When you say we will dance 'til the light of day,
    It's just like the children in earth's joy
    When we pray will you promise me you'll always stay?

    It's because I'm needing that someone»

    Feci un mezzo sorriso e la vista si ovattò di lacrime. Lo sguardo di Michael non mi aveva mollato nemmeno per un secondo.

    Quando la canzone terminò, i miei occhi lucidi lo ringraziarono più delle parole che emisi.

    «È meravigliosa, davvero».

    Sorrise. «Grazie...».

    M’umettai la bocca, trattenendo la commozione e Michael inclinò la testa, accostandosi al mio volto e issandomi il mento con un dito.

    «Stai piangendo?»

    «In realtà sto cercando di non farlo!», emisi una risatina imbarazzata e tesa. Guardai in ogni direzione che non fosse la sua. «Non so veramente come fai...»

    «Come faccio a fare cosa?», sussurrò. La sua mano scivolò dal mento ai miei capelli. Lo fissai e la sua espressione era la quintessenza dell’amore. «Spiegamelo...»

    «Be’, mi leggi dentro. Cioè, con questa canzone mi hai letto dentro... e non so come fai...». Una buona dose di silenzio interruppe lo scorrere delle mie parole; dagli occhi spuntò una piccola lacrima e sorrisi ironica, cercando di sdrammatizzare la questione. «Be’, non c’è molto da dire, effettivamente... solo grazie, ecco...»

    Michael si bagnò il labbro inferiore accuratamente, allontanandosi. Portò entrambe le mani sulle mie, le quali si agitavano frenetiche sul tavolo liscio e nero; le strinse avvolgendole con le sue e le portò sulle mie ginocchia. Chinò il busto verso di esse e rimase a pensare, osservandole: il senso di completa protezione sotto la sua solida stretta mi faceva mancare il respiro.

    «Ti ho fatto sentire questa canzone non solo perché ho pensato a te, ascoltandola...», mormorò. «Speravo che, attraverso queste parole, potessi farti capire quanto è stato strano, per me, trovare una persona come te».

    Corrugai le sopracciglia, confusa.

    Sospirò e i suoi occhi tornarono sulle nostre mani. «In questi giorni mi sono allontanato parecchio... e ti sei allontanata anche tu. Penso che sia stato a causa mia. Ti sei sentita un po’ un’estranea in questa casa in questi giorni, vero?»

    Alzò il viso. «Tu sei probabilmente l’unica che, in questo periodo, mi sta accanto in maniera così consistente», sorrise mesto, «sei sempre disposta ad aiutarmi, anche solo facendomi compagnia e anche se questo non ti sembra importante... ti sbagli.

    Nella mia vita pochi mi sono rimasti vicino. Pochi sono stati disposti ad abbracciarmi e tenermi la mano quando cadevo. Certo, alcuni ancora mi sostengono, ma... molti sono capace di dire buone parole, ma non capiscono quanto sia importante per me un abbraccio, una stretta di mano, o una carezza...

    Tu non puoi capire ciò che sto vivendo completamente, perché non hai passato una situazione così nella tua vita, e io mi auguro che non ti succeda mai. Ti demolisce dentro. Ma non è perché non lo hai vissuto che non piangi con me. Cerchi di capirmi disperatamente. Pensi che il tuo silenzio sia un peso, che la tua vicinanza non sia abbastanza, ma per me è più carico di sentimenti questo – il tuo silenzio – che qualsiasi altra parola. Tutto ciò che dai è più che abbastanza».

    Una lacrima scivolò lungo la mia guancia e Michael mi accarezzò i dorsi delle mani. I suoi occhi, insistenti come non mai, intrappolarono i miei e mi annebbiarono i pensieri; fece scivolare due dita sulla mia gota per raccogliere la lacrima appena scesa. La sua attenzione indugiò a lungo su di essa. Le labbra schiuse si lasciarono fuggire un lungo respiro.

    «Mi sono allontanato da te perché credevo fosse la cosa giusta per entrambi. So che lo hai capito. Temo che prima o poi te ne andrai anche tu, proprio come tutti gli altri, e ho paura di vivere con questa angoscia. Non sono abituato a un affetto come il tuo, non in un momento come questo, ed è strano averci a che fare. Pensavo che non ti avrebbe dato fastidio il mio modo di agire, e invece mi sono accorto che di giorno in giorno, di ora in ora, sei divenuta sempre più fredda. Ti sei allontanata da me, dai bambini, dicendo che avevi altro da fare...». Mi fissò e io ritrassi la schiena per la profondità di quell’occhiata decisa. «Ho notato ogni tuo sguardo, anche quando non te ne accorgevi, e notavo quando la luce nelle tue iridi si affievoliva. Sei un libro aperto, perfettamente limpida, riesco a capirti facilmente, e in qualche modo penso che la cosa sia reciproca...»

    Era la prima volta che lo sentivo così diretto e sincero. Le mie sopracciglia si corrugarono, arrossii e la visuale riperse di nuovo il suo fuoco.

    Sorrise. «Quando poco fa mi hai stretto la mano, dicendomi che non mi avresti lasciato da solo, sono rimasto sconvolto. Hai un’anima sensibile. Sei tornata indietro a riprendermi... in molte altre occasioni ti sei mostrata attenta a come reagivo alle varie situazioni. E io sono rimasto ad osservarti agire – soprattutto nei piccoli gesti – per godermi questa tua bontà d’animo. Non mi fido più di nessuno, non come una volta. Sto soppesando tutti i miei rapporti personali. E tu sei una certezza.

    Ho dovuto tastare il terreno a lungo prima di avvicinarmi a te, comprendimi, ma non mi hai mai dato modo, finora, di credere che tu non sia sincera e buona. Inoltre, ballando con te questo pomeriggio, mi sono reso conto che mi avevi perdonato; forse non del tutto, ma non ho visto diffidenza quando ho fatto il primo passo per venirti incontro. Soprattutto hai creduto in me, hai avuto fiducia, e ti sei lasciata andare. Penso di essere abbastanza intelligente e consapevole, se dico che la tua anima è davvero bella»

    Silenzio.

    Lo guardai senza dire una parola e lui fece lo stesso con me, attendendo la mia reazione.

    Chinai gli occhi. Il naso pizzicò brutalmente e le lacrime iniziarono a scendere da sole.

    «S-scusa...»

    Mi abbracciò. Mi strinse prima che me ne potessi accorgere. Alzandosi in piedi, dirigendosi rapido in mia direzione, aveva appoggiato la testa sopra la mia nuca.

    Mi sentivo amata. E quella sensazione sa essere devastante, quasi quanto il dolore per una perdita.

    Le lacrime continuarono ad uscire copiosamente.

    «Mi spiace, davvero… non vorrei essere così... sei la prima persona dopo anni che mi dice queste cose... non sono ab-abituata... scusa... mi sa che sto diventando troppo vulnerabile», emisi una risatina mista ad un singhiozzo.

    «Tu non sei vulnerabile» mi rimproverò, ridendo appena per la mia voce balbettante e il mio modo di gesticolare. «Sei soltanto troppo candida per un ambiente come questo...».

    «Come te, mi sembra...» bisbigliai, tirando su con il naso.

    Appoggiai la fronte sul suo petto e sentii questo alzarsi e abbassarsi lentamente, seguendo dei respiri profondi. Non mi ero mai sentita al sicuro in vita mia come in quel momento. E il suo amore sapeva proteggere più gli altri che se stesso.

    «No, Sarah» mormorò tristemente. «Il mio cuore sanguina da tanto tempo... se sono stato puro, quel momento non è mai durato a lungo»

    Mi allontanai da Michael e lo guardai imbronciata. Le lacrime smisero di scendere, nonostante il viso fosse completamente bagnato. «Penso proprio che ti sbagli. Essere puri non significa non aver mai sofferto».

    Michael mi fissò in silenzio, serio e attento. I suoi occhi sorrisero. Successivamente si sedette e mi rivolse un’espressione soddisfatta e quasi orgogliosa.

    «Dici sempre cose profonde» sorrise. «È anche per questo che credo in te».

    Arrossii e boccheggiai dall’emozione. Michael esplose a ridere, adagiandosi sullo schienale della sedia girevole. Storsi la bocca.

    «Lo fai apposta. Sai che mi emoziono con poco…»

    «Sì, hai ragione...» disse smettendo pian piano di sghignazzare. La sua espressione divenne maliziosamente divertita. «Potresti montarti troppo la testa, se ti faccio troppi complimenti tutti in un colpo. Non vorrei mai che le tue funzioni celebrali ne risentissero».

    Spalancai le labbra, scioccata. Michael ebbe il coraggio di ridermi in faccia una seconda volta, atteggiandosi come un vero e proprio bambino. Mi finsi indispettita e sollevai un sopracciglio.

    «Ma quanto sei simpatico, vecchietto».

    Compresi che il suo divertimento primario consisteva nel farmi arrabbiare, con l’obiettivo principale di farmi fare smorfie strane. Un burlone come lui non lo si trovava facilmente in giro. Era come quei bambini che, per attirare l’attenzione, facevano i dispetti.

    «Ora è meglio andare a dormire, penso che tu sia parecchio stanca, con tutti i balli e le pulizie che hai fatto» Mi puntò furbescamente. «A meno che tu non voglia cantare...».

    «No no, oggi no, graaazie!» e velocemente mi alzai, correndo verso la porta d’uscita salutandolo con un cenno della mano. Lui ridacchiò e mi seguì.

    Non mi accompagnò di sopra, perché voleva continuare a lavorare su altri pezzi.

    Mi abbracciò un’ultima volta, respirando il mio profumo. Io feci lo stesso e impercettibilmente. Quando si separò da me mi sorrise e mi disse “Ti voglio bene, Dio ti benedica”.

    Ricambiai e mi incamminai lungo il corridoio.

    Mi lanciò un fischio sottile, per attirare la mia attenzione. Mi girai.

    «Ah, domani abbiamo un impegno importante. Un piccolo viaggetto. Partiremo nel pomeriggio, perciò ti consiglio di svegliarti presto e preparare le valigie… ma porta poca roba». Esitò, ma sorrise enigmaticamente. «Sono sicuro che ti piacerà».




    1 Ho utilizzato l’espressione “la mia persona” ispirandomi alla serie televisiva Grey’s Anatomy. Penso che sia il concetto che più esprime quelli che sono i sentimenti di Sarah: trovare qualcuno solo per lei, che possa ricambiare questo sentimento. “La mia persona” si riferisce a quel qualcuno che non potrà essere sostituito da nessuno, non importa cosa accadrà.




    Edited by fallagain - 3/4/2020, 00:42
  15. .
    Capitolo Diciotto: La Spalla

    Ci mise parecchio a rispondermi.

    Il viso era affondato nella federa del cuscino. Nonostante apparisse immobile come pietra, il petto si alzava e si abbassava profondamente. Era sveglio, le sue dita stringevano e mollavano la presa sulle coperte come se avesse un tic. I capelli neri come l'inchiostro lo coprivano fino al collo, dando l'impressione che una grande quantità di petrolio si fosse rovesciata sul cuscino.

    Puntando le mani sul materasso si tirò su, emettendo un gemito di fatica. Fissava il basso. Non voleva farsi vedere in faccia, non riuscivo a capire il perché.

    Ebbi la voglia di scostargli qualche ciuffo disordinato dagli occhi, giusto per capire cosa trasmettessero, come stesse, che cosa non riuscisse a raccontarmi. Ma mi trattenni.

    «Ho fatto un'intervista...»

    Il suo sussurro biascicato mi arrivò pianissimo, come un disperato mormorio. Trascinava le parole, ma era cosciente.

    Sospirò e continuò con la voce spezzata. «Mi hanno chiesto delle accuse, Sarah... le solite stupide domande... se ho mai violentato un bambino, se mi diverto a tenerli nella mia camera da letto per piacere, se do loro alcool e droga... e io ho dovuto rispondere per difendermi, difendere quello che sono, come sempre, come se già tutto questo non fosse abbastanza... i lividi continuano a farmi male, notte e giorno».

    Michael si lasciò cadere puntando i gomiti sul materasso. I palmi delle mani gli coprivano la faccia; la schiena leggermente ricurva doveva fargli male sul serio, poiché – dopo neanche un minuto passato in quella posizione – fece cadere il peso sul letto e la testa sul cuscino, ignorando il mio sguardo preoccupato.

    Cercai più e più volte di dire qualcosa di sensato, eppure rischiavo di ripetermi soltanto. Sapevo che non potevo starmene a guardare e che dovevo rendermi utile in qualche modo, ma non avevo proprio idea di come agire. Mi feriva vedere quanto le accuse lo stessero devastando.

    Gli eventi che ci causano una ferita profonda non se ne vanno facilmente. Lo scorrere del tempo aiuta fino ad un certo punto: quel dolore rimane sempre con noi, nella nostra testa, come un ronzio disturbante e costante di sottofondo.

    Mi sedetti sul bordo del letto.

    Diressi una mano verso la sua nuca. Mi fermai prima che potessi entrare in contatto con i suoi capelli.

    E se gli avesse dato fastidio? Se fosse stato sconveniente?

    Nell'attimo in cui lo toccai lo sentii fremere. Serrò i polpastrelli avvinghiando la fodera ed espirò profondamente, portando la gamba sinistra più vicina al petto. Ero così intimorita dal fatto che lo potesse seccare quel semplice atto di dolcezza da parte mia, che ebbi l'immediato istinto di allontanarmi; così separai il palmo dal suo capo e una sensazione di acuto ma silenzioso sconforto mi si avventò contro.

    «No», proruppe usando un tono pregante. Mi raggelai con la mano a mezz'aria. Sospirò. «Rimani qui».

    Sebbene non avessi fatto il minimo movimento per issarmi dal materasso, non obbiettai.

    Le dita scivolarono un'ulteriore volta sui suoi capelli e colsi l'occasione per sistemargli un ciuffo nero lontano dagli occhi e dalla fronte, in modo che non gli desse fastidio. Michael non fece nulla per impedirmi ciò, rimanendo glaciale come il silenzio di quella stanza.

    «Chi c'è in casa?» bisbigliò.

    I suoi occhi fissavano il vuoto, ma le sopracciglia erano lievemente contratte. Se non era felice di essersene andato senza aver avvertito i figli, figurarsi essersi rinchiuso in camera senza averli degnati di minima attenzione. Conoscendolo, doveva proprio stare male per non volerli accanto.

    «Nessuno... i bambini sono usciti con Grace. Torneranno entro cena, credo».

    Chiuse gli occhi. Corrugò la fronte mordendosi le labbra.

    «Mi... dispiace...»

    «Per cosa?».

    Inspirò e trattenne il fiato per un paio di secondi, prima di riaprire le palpebre. Dall'opaca illuminazione della lampada a comodino potei scorgere le iridi coperte da lacrime.

    «Non sono un bravo padre...»

    Era impressionante quanto Michael si preoccupasse dei suoi figli e dell'opinione che avevano di lui. Se stesso non contava, contavano soltanto loro; il suo male era minore rispetto a quello che Prince, Paris e Blanket potevano provare. Era un suo pregio speciale, che purtroppo si trasformava facilmente in senso di colpa e paranoia.

    Sorrisi dolcemente. «Se tu non sei un buon padre, io sono Titti di Gatto Silvestro. Non è vero, non stai agendo così per ferirli. Sei un papà fantastico. In qualche modo troveremo qualcosa da dir loro per tranquillizzarli, non temere. Ti amano... fra tutte le cose che si possono mettere in dubbio, le tue qualità di padre non si devono proprio toccare».

    Attesi una sua risposta e questa non arrivò. Posai la mano sulla sua spalla e la massaggiai con cura, compiendo piccoli centri concentrici, ordinando a me stessa di trovare una soluzione per aiutarlo a uscire da quell'incubo ad occhi aperti.

    «Ti fa tanto male la schiena?», mormorai.

    «Non solo quella...» sussurrò di rimando. Respirando faticosamente decise di cambiare posizione e si voltò a pancia insù. Aveva il viso incavato, come se non avesse mangiato da giorni. Fissò il soffitto fino al momento in cui, poco dopo, si osservò le braccia sovrappensiero. «Mi fa male anche qua...»

    Indicò l'avambraccio destro e immediatamente mi sporsi per accarezzare l'arto. Mi scrutò come un cucciolo sperduto e per un istante fui presa da un grande senso di colpa: il movimento della sera prima, quello fatto per abbrancarmi alla porta, doveva avergli causato molto dolore.

    «Non dovevi fare quelle mosse per tenermi ferma, ieri... ora ti fa ancora più male...»

    Mi studiò valutando e soppesando le mie parole. Per la prima volta lo udii abbozzare uno spasmo di risata. Triste, ma sempre una risata.

    «Non sei tu la causa dei miei mali». Pausa, e successivamente la scomparsa del sorriso. «È la brutalità della polizia che mi ha ridotto in questo stato...»

    Corrugai la fronte. «Cosa intendi dire?»

    Michael mi guardò a lungo, ma non pronunciò una sillaba. I miei occhi continuarono a chiedergli più e più volte di rispondere alle mie domande, eppure per quanto mi sforzassi e cercassi di capire cosa nascondesse dentro, era impenetrabile. Era sciupato, straziato, triste... troppo triste. Un guscio vuoto. I suoi occhi non erano più gli stessi.

    Sospirai rattristata e posai il mio sguardo sulle sue mani, che teneva dolcemente appoggiate sulla pancia. All’improvviso ne alzò una verso il ciondolo di Arwen che tenevo al collo; con delicatezza lo prese fra le dita, lo girò e rigirò ammirandolo accuratamente. Un secondo dopo e il suo sguardo si legò al mio, vagando su ogni angolo delle mie iridi.

    I polpastrelli abbandonarono il ciondolo scintillante passeggiando verso il collo nudo. Mi fece rabbrividire in maniera impercettibile. Dopodiché si spostarono sulla guancia destra, dove contemplò la morbidezza della mia pelle. Strofinò le dita su di essa e mi sistemò un ciuffo castano rossiccio dietro l’orecchio. Sorrisi fra me e me, percependo la sua mano talmente grande da coprire tutta la parte destra del volto. Il cuore fece un doppio salto mortale nel petto.

    Si mosse piano verso il centro del materasso e pose una mano sullo spazio vuoto che aveva lasciato. Batté qualche colpetto sul letto – giusto per farmi capire cosa dovevo fare – e attese la mia mossa. Mi distesi al suo fianco con uno sprazzo di timidezza, a pancia in giù, tenendo il busto e la testa rialzata con la pressione degli avambracci.

    Mi immobilizzò con una rapida carezza sul mento.

    Lo puntai e compresi che voleva che rimanessi così.

    La sua bocca, così ben delineata, si schiuse. Respirò a fondo e mi osservò molto più a fondo di quanto non facesse solitamente. Aggrottò la fronte e gli estremi delle sue labbra si sollevarono.

    «Hai due occhi estremamente grandi».

    Arrossii e soffocai un risolino imbarazzato. Inclinai il capo verso la spalla destra – accennando un inudibile «Grazie» – e lo guardai poco dopo, non appena sentii che il rossore era più o meno sparito. Me lo dicevano in tanti, dovevo esserci abituata, ma detto da lui era tutt’altra cosa.

    Strinse le palpebre in una fessura. «E non sono solo verdi. Hanno anche un’altra sfumatura, sbaglio?»

    «No, non sbagli», esclamai sorpresa. «Sei il primo che lo nota. Ma quando – »

    «Davvero?», sorrise.

    Era vero. Era l’unico che aveva captato quel dettaglio. Tutti pensavano che il colore fosse verde chiaro e basta. Doveva averli analizzati da tempo, per essere arrivato a quella conclusione.

    «Sì...», mormorai incredula. «Il colore predominante è il verde, ma sotto il Sole si possono vedere delle sfumature bluastre attorno all'iride, quasi azzurro mare a dire il vero. Pensa che non lo avevo mai notato, almeno fino a qualche anno fa», sogghignai.

    «Non ti sei guardata abbastanza a fondo, allora», rispose teneramente. Fu il primo vero sorriso che gli vidi fare in tutta la giornata. «Gli occhi sono lo specchio dell’anima, sai? I tuoi sono speciali». Lo fissai meravigliata. Michael scrutò le mie mani distese sul cuscino. «E comunque, anche se tu non te ne saresti mai accorta, ci sarei stato io a farlo».

    Sorrisi.

    Ne ero convinta. Michael avrebbe tirato fuori il meglio di me in ogni occasione. Mi avrebbe analizzato come un codice antico, una pergamena dal linguaggio sconosciuto e criptico, e poi mi avrebbe stupito con numerose e incredibili constatazioni. Perché lui era fatto così, ti guardava dentro e con una dolcezza disarmante sottolineava le belle cose di te.

    Gli volevo bene davvero.

    Il suo sguardo e il mio navigarono ancora l’uno nell’altro per una quantità di tempo indeterminato. Pian piano cominciavo a non provare più timore per quelle iridi profonde. Il silenzio che mi riempiva echeggiava prepotentemente nelle viscere del corpo.

    Eppure sentivo... sentivo dentro di me uno sconfinato vortice di emozioni che lottava nel tentativo di placarsi.

    Interruppe il contatto visivo, colto da un improvviso moto di tristezza. Le iridi divennero lucide, le labbra si assottigliavano nel vano tentativo di non piangere. Mi colpì come un pugno nello stomaco.

    «Prima o poi tutto questo finirà, ne sono certa» mormorai accarezzandogli una guancia con il dorso di una mano. Chiuse gli occhi con aria sofferta. «Sai che non sono la persona più giusta per aiutarti, ma... io ci sono. Qualunque cosa succeda. Non ti chiederò di parlarne – non voglio sforzarti – ma se vuoi piangere, fallo. Se vuoi che ti faccia compagnia in silenzio, hai trovato quella giusta».

    Non appena dissi quelle parole portò le mani al viso e un singhiozzo mi dette la conferma che stava crollando. Mi trascinai più vicina al suo viso, gli accarezzai amorevolmente i capelli e cercai di allontanare i suoi palmi dalla faccia.

    «Michael» sussurrai, «non ignorarmi...»

    Usai le stesse parole che mi aveva rivolto quella notte alla scogliera.

    Quando le tolse, anche se restio a farlo, mi diresse un’espressione indescrivibile: gli occhi erano spenti, il volto plumbeo, la pelle bagnata.

    Mi abbracciò. Rabbrividendo dall’emozione, ricambiai tentando di non buttare tutto il peso su di lui: affondò la faccia nell’incavo del collo e singhiozzò, masticando frasi su come gli avessero fatto male e su come tutto quello che aveva passato fosse stato terribile. Pianse tutto il dolore che le accuse gli stavano infliggendo, ancora una volta.

    Non seppi come riuscii a non piangere di conseguenza, ma non barcollai.

    Ci sono persone che sentono il dolore a fondo, molto più intensamente di altri. Sono fragili, delicate come ceramica pregiata, possono rompersi con un nonnulla. Non sono soggetti facili da capire, decifrare, perché nel profondo del loro cuore si nasconde una personalità molto più complessa ed elaborata di quanto si possa immaginare: come minuscole cellule del corpo, nascondono sentimenti invisibili a occhio umano, emozioni che pochi riescono a percepire almeno una volta nella vita: sensazioni come amore e dolore si ingigantiscono. Eppure dentro il loro corpo giace una forza enorme, messa a dura prova dalla vita e dalle numerose e intricate vie che seguiamo, strade costruite su rocce appuntite, sabbie mobili e arido deserto.

    Michael era così, vulnerabile e una forza della natura contemporaneamente; era coraggioso, resiliente, ma capace di rompersi al minimo alito di vento. La tempesta era alle porte e forse per quello si sfogava prima dell’ora: sapeva che dopo avrebbe dovuto mantenersi in piedi e non avrebbe potuto piangere; perché, se fosse scivolato, la caduta sarebbe potuta costargli la vita.

    Entrambi eravamo certi che volesse continuare a vivere; più per i suoi figli che per se stesso, ma era comunque una giusta causa.

    Ci sono qui io, volevo dirgli, non ti preoccupare.

    Ma le mie labbra si serrarono e non fui più in grado di parlare.

    *

    Parecchie ore più tardi Grace e i bimbi tornarono al residence. Le loro voci che salivano su per le scale del primo piano sembravano il rumore di campanelle al vento. Ci stavano cercando, sicuramente speravano di rivedere il loro papà.

    Michael si allontanò da me con gli occhi arrossati, guance rigate da scie di lacrime quasi del tutto asciutte. La bocca si schiuse leggermente, come se si fosse appena risvegliato da un sogno ad occhi aperti.

    Fissò la porta sospirando demoralizzato.

    «Vuoi che vada a dir loro qualcosa?».

    Non rispose nell'immediato.

    «Potresti dir loro che sto poco bene, per favore?». La voce era più flebile e trascinata di prima. «Di' loro che sono andato dal medico, questa mattina… di’ loro che mi sono preso la febbre, per favore... e che voglio loro molto bene...»

    Annuii e mi alzai. Prima di andarmene mi abbassai verso la fronte di Michael per dargli un leggero bacio sulla tempia: le sue palpebre si chiusero e inspirò a fondo nell’istante in cui poggiai le labbra sulla sua pelle che, effettivamente, era bollente.

    Quando fui sulla porta dissi: «Ti porto anche qualcosa da mangiare». Lui scosse la testa mettendosi a sedere a fatica. Posi le nocche sui fianchi a mo’ di rimprovero. «Devi mangiare qualcosa».

    «Non ho fame, grazie...»

    Ci guardammo a lungo, uno più serio dell’altro: sembrava deciso a non voler mangiare, ma io non lo avrei lasciato a stecca fino l’indomani. Alzai le spalle, palesando una faccia indifferente.

    «Ti porto da mangiare lo stesso, non si sa mai».

    Mi volsi e uscii dalla stanza.

    A passi veloci accorsi al piano terra, dove vidi Prince e Paris giocare assieme e molto più felici di quella mattina. Nel momento in cui mi videro mi corsero incontro sorridendo, ma quel dolce sorriso divenne lieve quando s’accorsero che loro padre non era dietro di me.

    «Il vostro papà mi ha informato che ha la febbre. Sta davvero male. Questa mattina è andato dal dottore, non voleva farvi preoccupare…». Le mie labbra formarono una linea diritta. «Ci teneva a dirvi che vi vuole molto bene, e – »

    «Non possiamo andare a salutarlo?», domandò Paris sottilmente.

    Scossi la testa, mi chinai sulle ginocchia. «No, non ancora. Non vuole che vi prendiate l'influenza. Però potete aiutarmi a cucinargli qualcosa di buono, per farlo star meglio... sono sicura che comincerà a sentirsi in forze grazie al vostro sostegno, che ne dite?»

    Acconsentirono solennemente e, prima di cenare, preparammo un delizioso brodo e qualche verdura cotta con l’aiuto della cuoca fidata. Mangiammo insieme e subito dopo salutai i bambini, dicendo loro che sarei rimasta con Michael fino a quando non sarebbe stato un po’ meglio e la (finta) febbre non gli sarebbe passata. Promisi che sarei tornata per leggere loro qualcosa e dar loro il bacino della buonanotte assieme a Grace.

    «Perché tu vai a vederlo?», domandò Prince aggrottando la fronte.

    Sorrisi. «Io non sono sua figlia. E, se vi devo confidare un piccolo segreto, be’, sappiate che siete la sua vita, il suo pensiero fisso. Non dimenticatelo mai», poggiai le mani sulle loro spalline minute.

    Sorrisero debolmente e scoccai loro due baci. Detti anche un bacione a Blanket e ringraziai Grace al posto di Michael, la quale si era ben offerta di badare ai bambini per tutta la notte. Era una persona a modo, sinceramente devota al suo lavoro; tuttavia, in quel momento mi lanciò uno sguardo quasi severo.

    Salii le scale con un vassoio in mano, con una lentezza da far paura alle lumache mentre cercavo di non rovesciare alcuna pietanza. Bussai alla porta di Michael e un lieve «Sarah?» mi dette la conferma che era ancora sveglio. La aprii e mi sporsi con la testa. Guardai il letto e poi la luce che si intravedeva dal bagno privato di Michael: mi stava osservando con fare stanco, ma sorpreso dal mio arrivo improvviso.

    «Vado un secondo in bagno, tu entra pure...» e neanche mi dette il tempo di rispondere che chiuse la porta.

    Arrossii e tentai di non scoppiare a ridere per l’imbarazzante dubbio di averlo interrotto in un momento cruciale. Spalancai la porta con un piede e vi entrai a piccoli passi, la richiusi e sistemai il vassoio sulla scrivania. Mi sedetti sul bordo del letto in attesa che finisse ciò che doveva fare e guardai la TV distrattamente: c’era il telegiornale.

    Michael uscì pochi minuti più tardi e mi esaminò dall’alto in basso con espressione ambigua. Sfoderai la mia mitica faccia da poker e il suo sguardo si posò sul vassoio. Mi rivolse un’occhiata penetrante e apparentemente scocciata, ma vedevo che rideva sotto i baffi. Solo allora mi accorsi che aveva acceso entrambe le lampade dei comodini, evidentemente per dare più illuminazione all'ambiente.

    «Ti avevo detto che non volevo niente da mangiare...», borbottò spossato, venendomi incontro.

    Assunsi un cipiglio indefinito. «E io non ti lascio qui denutrito. Puoi anche mangiare più tardi».

    Sbuffò alzando gli occhi al cielo con quella poca allegria che aveva. Mi si sedette accanto. La schiena era piegata per il dolore.

    «Davvero, Sarah, sei gentile, ma non ho fame»

    «Michael». Lui mi studiò senza fiatare. «Non voglio che tu ti indebolisca. Fare lo sciopero della fame non ti aiuterà».

    Sorrise e la cosa mi lasciò di stucco. Negò con la testa.

    «Ti preoccupi troppo, dico sul serio. Non diventerò uno scheletro se per una sera non mangio. Semplicemente non ho appetito, capita qualche volta». Una pausa. Uno scambio di sguardi e un forte respiro. «Ti accontento... ma solo un po’ di brodo, non ho voglia d’altro».

    Michael tentò di issarsi.

    «No, fermo qua! Te lo porto io se fai fatica», mi alzai a seguire.

    Ridacchiò osservando il pavimento con aria vacua. «Sarah, ho male alla schiena e alla braccia, non sono spazzatura, riesco a sollevarmi. Mi farà bene fare qualche passo».

    «Io non ne sono molto sicura».

    Michael mi gettò un’occhiata guardinga e sghignazzò per la mia smorfia contrariata. Nonostante lo facessi ridere, era palese che la sua voglia di divertirsi fosse inesistente.

    Dondolò fino ad arrivare sulla sedia accanto alla scrivania, dove si fece cadere con smorfia di visibile dolore.

    Non sapevo se uscire dalla stanza o restare a guardarlo cenare, ma temendo che potesse buttare tutto nella spazzatura optai per la scusa di dover andare in bagno. Si voltò verso la mia parte, girando con cautela la schiena, e mi disse che potevo usare il suo. Sentii l'improvvisa voglia di abbracciarlo e mi ripromisi che l'avrei fatto.

    Quando uscii dal suo enorme bagno privato lo vidi giocherellare con il cucchiaio della minestra come un bambino piccolo; i suoi occhi erano assenti.

    Mi avvicinai. «Non mangi?»

    Michael sibilò un respiro stanco. Non osava guardarmi, ma in compenso squadrava il brodo con aria schifata, come se fosse nauseato da qualsiasi pietanza avesse sotto gli occhi. Schioccai la lingua sul palato.

    «L'hanno preparata Prince e Paris...»

    A quella frase mi esaminò stupito. Se io non ero in grado di aiutarlo, allora era meglio provocarlo con i giusti mezzi di cui disponevo.

    Le sue palpebre erano spalancate dallo sbalordimento.

    «Hanno insistito tanto per farti una cenetta con i fiocchi... in realtà sono stata io a proporre loro di aiutarmi, ma non immagini quanto amore ci hanno messo per preparare il tutto».

    Michael rimase in attesa di ulteriori dettagli. Le mie iridi luccicarono dalla commozione e egli lo scorse; chinò l’attenzione sulla sua cena e ingoiò la saliva.

    «Ti amano davvero, Michael».

    Dette un’altra mescolata alla minestra.

    «Lo so...» mormorò. «Mi dispiace deludere le loro aspettative... però... posso mangiare un pezzettino di pace... giusto un pezzo...», disse cadenzato e spossato.

    Sorrisi e lo scrutai separare una minuscola quantità di pane con due dita, questo adagiato su un bellissimo piatto di porcellana. Prese la mollica e la portò alla bocca. La masticò lentamente e con leggera fatica ingoiò il boccone.

    I suoi bimbi erano in grado di fargli cambiare idea su tutto. Di sicuro erano molto più capaci di me, e questo mi rendeva le cose più difficili del previsto: se a malapena riuscivo a farlo mangiare, come sarei riuscita a distrarlo? Io non ero brava in quel genere di cose, o così pensavo.

    «Non serve che mangi tutto adesso, Michael» dissi vedendo la sua espressione pensosa. «Quando sentirai di avere un po’ d'appetito, staccherai un altro pezzo di pane, o mangerai qualcos'altro».

    Coprì il piatto della minestra con il coperchio, affinché non uscisse il calore. Senza darmi retta si sollevò dalla sedia e si diresse verso il letto. Si distese e prese il telecomando della tv cambiando canale, il tutto in silenzio tombale; il telegiornale stava finendo con le previsioni del meteo e l'imminente arrivo della pubblicità, perciò cambio canale. Poco dopo, vedendomi impalata a fissarlo, mi disse di sedermi accanto a lui. Obbedii e ci accomodammo vicini con gambe distese sul materasso e schiena appoggiata contro la parete.

    «Aspetta, fermo!».

    Tornò indietro di un canale e vidi Celine Dion, una mia diva della musica. Stavano facendo vedere una sua esibizione. Era in concerto – anche se non riuscii a capire quale – e cantava All By Myself.

    «Una canzone giusta per suicidarsi...», mormorai assumendo una smorfia rassegnata.

    Michael mi scoccò un’occhiata veloce e ridacchiò, ma non cambiò. Rimase ad ascoltare quella voce d'usignolo.

    «Michael... se posso essere onesta, anche a me piace da morire Celine Dion, ma non vedo il caso di ascoltare una canzone del genere in un momento come questo» borbottai incrociando le braccia al petto.

    Fece spallucce. «A me piace».

    Emisi uno sbuffo a fior di labbra. La canzone era ancora all'inizio, perciò avremmo dovuto sopportare una lenta e delirante tortura; delirante più per me che per lui, poiché in molte altre occasioni avevo rischiato di rompere qualcosa imitando Bridget Jones mentre cantava sul suo divano di casa1.

    Una piccola lampadina mi si accese intesta: se l'unico modo per distrarlo era farlo ridere, perché non afferrare la palla al balzo?

    Arrivò il secondo ritornello. Oscillai sul posto, a destra e a sinistra, muovendo le labbra in sincrono perfetto con quelle di Celine. Nella parte strumentale mi sciolsi e mi lasciai andare alla pazzia fingendo di suonare il pianoforte - come stava succedendo veramente nel live - sotto l’espressione confusa di Michael; non lo calcolai minimamente e mi preparai per l'esplosione canora in playback, che avrei dovuto affrontare di lì a pochi secondi.

    When I was young I never needed anyone.
    Making love was just for fun.

    Those days are gone.

    Michael cominciò a preoccuparsi seriamente.

    Ero concentrata. Fissavo il volto di Celine Dion tentando di calarmi nella parte della ragazza sofferente. In mente, però, avevo Bridget.

    Michael mi studiò incerto se ridere o spaventarsi. Mi stavo rovinando l’immagine per lui e solo per vederlo sorridere!

    Ancora il ritornello. Si stava avvicinando uno dei più potenti acuti della canzone e perciò mi posi in ginocchio sul materasso, tenendo una mano sulla gamba di Michael per evitare di catapultarmi giù dal letto di punto in bianco. Gli rubai anche il telecomando dalla mano. Per lo shock non fece nemmeno una piega.

    All by myself... don’t wanna be!
    All by myself... anymore!

    Quando la nota arrivò dovetti fingere di cantare con tutto il fiato che avevo in gola; inarcai la schiena all'indietro, portando il telecomando distante dalla bocca come anche la cantante alla TV stava facendo.

    Michael scoppiò in una fragorosa risata - parecchio sadica a dire il vero - e quasi non cadde dall'altro lato del materasso per la potenza degli spasmi. Il primo acuto terminò e mi rimisi in posizione diritta, presentando un'espressione di serietà inimmaginabile: neanche se fossi stata posseduta da Celine Dion in persona avrei doppiato così bene!

    Michael era così senza fiato che dovetti mordermi le labbra per non scoppiare a ridere anche io.

    Finsi di tranquillizzarmi un po’ scuotendo i capelli con una mano, ma alla seconda nota alta fui riconquistata dall'entusiasmo, e così continuai per i successivi (finti) gorgheggi vocali, usando il telecomando non solo come microfono ma come bacchetta per suonare la batteria. Lanciai una gamba verso l'alto e mi strinsi forte a quella del mio compagno: egli si raggomitolò su se stesso a causa delle grasse risate.

    L'ultimo e decisivo acuto lo raggiunsi a fatica, visto che era praticamente diverso da come Celine lo aveva intonato nella canzone originale, ma conclusi con un energico «Woo» di soddisfazione.

    Michael restò con la testa affondata nel cuscino. Le spalle erano scosse dai tremori; la risata si alzava e si abbassava a momenti, ma ad un certo puntò toccò dei picchi così alti che mi venne il dubbio fosse sul punto di morire. Gli ci volle una leggera pacca sulla spalla e un paio di minuti per riprendersi.

    «Tu... tu!», mormorò col fiato corto, ritornando a sedere composto e guardandomi con occhi lucidi. Mi puntò con espressione ridente e allibita. «Tu non sei normale!».

    Alzai gli occhi al cielo. «Te l’avevo detto che dovevi cambiare canzone! Ora sai quanto sono brava in playback», gli feci una boccaccia e scossi il capo ruotando i capelli a destra e a sinistra, atteggiandomi da finta smorfiosa.

    Mi guardava e sorrideva. Le mie guance stavano bollendo dall'imbarazzo, tuttavia non mi sentivo ridicola per ciò che avevo fatto: l’idea di avergli regalato anche solo un pizzico di felicità mi trasmetteva adrenalina allo stato puro.

    «Oh Dio... Dio ti benedica, Sarah», si asciugò gli occhi, «mi hai quasi ucciso».

    «Ne sono contenta». Mi incupii e ignorai la sua espressione meditabonda. «Ringrazia il mio mito, è lei è che mi ha ispirato».

    «Celine?»

    «Bridget Jones», sentenziai. Le sopracciglia di Michael si aggrottarono per il dubbio e io spalancai le palpebre. «Non conosci Bridget Jones? Il film Il Diario di Bridget Jones

    Alzò un sopracciglio. «Sono un uomo, ragazza, non seguo molto le commedie femminili. Ne ho sentito parlare, ma no, non l’ho mai visto», negò con la testa.

    «Commedie femminili?», lo ripresi offesa. «Bridget Jones è l'idolo di ogni donna un po’ fuori forma, potenzialmente schizofrenica e specialmente single. Una donna che parla senza pensare, impacciata e goffa, completamente sfigata nelle relazioni con il sesso opposto», gesticolai.

    I suoi occhi furbi e penetranti invasero la mia privacy. Un altro sorriso comparve sulle sue labbra.

    «E tu ti ritrovi nel suo personaggio?»

    «Ovvio!», assentii. Inclinai la testa e mi corressi. «Be’, sì e no. Nessuna delle mie relazioni è durata a lungo o ha funzionato veramente. Schizofrenica a momenti, fuori forma non parliamone», ridacchiai, «Ma la protagonista è molto più estroversa di me!»

    Michael mi osservò misticamente. Si umettò il labbro. «Tu non sei fuori forma».

    Sghignazzai intimidita. Nella mia risata c’era un sottile sarcasmo e lui lo percepì. Presi un respiro e sorrisi in maniera più carezzevole.

    «Be’, non sono magra. Lo avrai sicuramente constatato anche tu. Ho la mia pancetta, le mie gambe un po’ robuste, spalle larghe (anche se quella è genetica)». Mi strinsi nelle spalle increspando le labbra. «Modestamente la cosa che mi salva è avere una vita stretta. Insomma, guardami!», ridacchiai mostrandogli i palmi.

    Mi pentii di ciò che avevo detto nello stesso istante in cui lo dissi.

    Michael lanciò lunghe e silenziose occhiate a tutto il corpo, da capo a piedi. Iniziò dalle caviglie e proseguì verso l’alto, fino alle cosce; rimase a guardarle con attenzione, socchiudendo appena le palpebre, e risalì fino alla pancia. Fece tutto molto lentamente, per poi arrivare al seno, alle braccia e, infine, al mio viso. Mi sentii spogliata, privata dei miei vestiti, nuda di fronte a lui e più impotente di quanto avrei voluto essere.

    «Non vedo dove tu sia grassa».

    «Non lo sono infatti, sono solo un po’ formosa», ribattei.

    Fece una smorfia scocciata. Non gli era minimamente piaciuto il commento che avevo fatto a me stessa.

    Fuggii da lui e dalle sue iridi severe fino a quando non lo sentii richiamare la mia attenzione con un sussurro esageratamente debole.

    «Hai avuto brutte esperienze in amore?».

    Quando lo puntai era straordinariamente curioso, anche se insicuro della domanda proferita.

    «Sì» annuii. «Non ho mai avuto molte relazioni, sono onesta. Molti erano flirt temporanei (con persone con cui non ho mai avuto niente di fisico, tra l’altro). Non sono quel tipo di persona che lo fa e poi si dimentica degli altri, purtroppo per me. Di relazioni "serie" ne ho avute solo due».

    Guardò in basso e corrugò la fronte. Arrossii.

    «Eri innamorata?».

    «Sì», mormorai. «Mi hanno fatto perdere la testa».

    Mi si pose di fronte incrociando le gambe a farfalla, proprio come un bambino, stringendo appena la mandibola dal dolore alla spalla.

    «Parlamene», domandò in tono affettuoso.

    Sfuggii ai suoi occhi. Gli spiegai del primo, Luke, un compagno di università, e di Shane, conosciuto qualche anno più tardi quando facevo la gavetta in un locale accanto alla mia sede universitaria, per potermi pagare le rette senza usare soltanto i soldi dei miei.

    Luke seguiva i miei stessi corsi di letteratura e l’avevo conosciuto tramite un’amica. Ero appena arrivata in America e lui fu come un fulmine a ciel sereno - e, ripensandoci adesso, non ero proprio il suo tipo. Era più superficiale di quanto credessi. Fingeva di essere una persona a modo e sensibile, ma era tutta una facciata. Voleva soltanto farsi delle esperienze, come un normale ragazzo di 20 anni. Mi corteggiò subito: era rispettoso e audace come piaceva a me. Un mese dopo il nostro primo incontro cominciammo a uscire regolarmente e la relazione nacque improvvisamente, senza un perché o un quando. Durammo 9 mesi – che non è molto, lo ammetto – ma per me fu una relazione intensa, la prima dopotutto. Mi lasciò quando scoprii che mi tradiva con un’altra.

    Quando arrivai a spiegargli questo passaggio, Michael non disse nulla: spalancò di poco le labbra e non proferì parola. Gli raccontai di tutte le fisime che mi ero fatta, di tutte le volte in cui avevo pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato in me, solo a causa di uno stupido coglione. Come era normale pensare, mi convinsi di essere io la colpa di tutto: io non sapevo amare e non ne valevo la pena. Non mi davo pace. Mi sentivo sola, terribilmente sola, e mi odiavo profondamente. Quel tradimento mi segnò, pur facendomi lavorare su me stessa in maniera indelebile.

    Successivamente gli raccontai di Shane, un ragazzo molto più buono e maturo rispetto al precedente. Quando lo conobbi stava per iniziare il terz'ultimo anno di università e aveva le idee chiare riguardo al suo futuro. Mi innamorai di lui lentamente, ma non per questo fu una cotta superficiale. Tutt’altro. Shane era un abile corteggiatore, ma lo faceva lontano dagli occhi di tutti. Stetti con lui tre anni e mezzo, fino a quando non terminò l’università e si trasferì lontano. Sapevo che quella relazione non avrebbe avuto futuro, ma ci provai comunque. Gli volevo bene, davvero tanto, e il dolore che ho provai per lui fu decisamente maggiore: Shane mi amava, ma non abbastanza da rinunciare ad un lavoro in Canada. Dopotutto io non avevo mai desiderato che rimanesse con me e non glielo chiesi mai, non volevo una relazione costruita sui rimpianti: lo lasciai andare perché lo amavo. Ma quando ci mollammo, entrambi soffrimmo.

    Sorrisi divertita, sospirando di sollievo per quello sfogo. Michael mi osservava come se lo avessi stregato. Le pietre scure che aveva al posto degli occhi brillavano. Mi stiracchiai e allungai le braccia verso l'alto.

    «Per quello delle volte sono scettica riguardo a quello che posso donare agli altri. Ma quei momenti capitano, no? Un giorno ti svegli e ti domandi cosa ci sia di bello in te da far rimanere così tanto una persona al tuo fianco. Poi comprendi che solo tu puoi darti una risposta. E ti senti solo, proprio perché in quei momenti non riesci a vedere nulla di meritevole in te. Niente che valga la pena e che faccia restare qualcuno abbastanza a lungo da sentirti sicuro, per una volta, della tua felicità».

    Improvvisamente lo guardai e sfoderai uno dei miei migliori sorrisi.

    «Alla fine la cosa che ci tiene in vita è l’amore. L’amore per noi stessi, per gli altri, ma soprattutto l’amore per la vita. Non credi anche tu? Tutto ruota intorno all’amore».

    Con una mano tremante accarezzai il viso di Michael: era come se mi stesse richiamando. La poggiai delicatamente sulla sua gota liscia e lo sentii irrigidirsi sotto il mio contatto.

    «Tu sei amato», sussurrai, «e sarai sostenuto da chi ami per sempre, fino alla fine dei tuoi giorni e anche oltre».

    Michael chiuse gli occhi e mi venne incontro a braccia aperte. Mi strinse a sé. Non fu necessario guardarlo in viso per leggere ciò che aveva nel cuore: posò una mano sulla mia guancia destra e la spostò di lato, affinché potesse darmi un bacio. Il cuore fece un giro della morte sulle montagne russe che avevo in petto.

    «Ti voglio bene», sussurrò al mio orecchio. «Ti voglio tanto bene».

    Si separò trattenendomi un ciuffo di capelli fra le dita. Lo accarezzò a lungo con i polpastrelli e mi indirizzò uno sguardo profondo.

    Era talmente vicino. Potevo vedere la sua pelle appena truccata, le iridi grandi come non mai, le mascelle scolpite come il marmo, le labbra carnose. Per un attimo mi parve di essere di fronte all'uomo più bello che avessi mai conosciuto.

    Piegai i lembi della bocca all'insù. «Anch'io ti voglio bene, Michael».

    *


    Dopo il mio momento “rivelazioni” avevamo deciso di seguire il resto concerto di Celine Dion. Terminò una mezz'ora dopo. Talvolta Michael chiudeva gli occhi e muoveva i piedi su e giù, mentre io ripetevo le parole di ogni canzone a memoria.

    Quando questo finii, proposi di guardare un film o un cartone divertente, ma lui mi chiese se potessimo guardare Fantasia. Amava la musica classica e questa, nei peggiori momenti della sua vita, riusciva a zittire il caos che aveva in testa.

    Mi alzai dal letto al posto suo per evitargli sforzi fisici. Mi disse di guardare dentro lo scaffale dove teneva le cassette, in alto a destra. Inserii Fantasia nel registratore e feci partire la riproduzione. L'inizio non mi elettrizzava molto e per poco non rischiai di addormentarmi; ero stanca morta ed era mezzanotte inoltrata.

    «Ho sempre amato queste scene, dove compaiono tutte le fate» sussurrò Michael con aria infantile, gesticolando faticosamente.

    Lo guardai alzando il mento all'insù. Mi aveva costretta ad appoggiare il capo sul suo torace.

    Quella posizione non mi dispiaceva affatto, ma sapevo che era lui quello che avrebbe dovuto abbracciarmi, non il contrario.

    «Le fate sono creature meravigliose. Piccole e magiche con poteri strabilianti. La loro dimensione non conta, vista la capacità delle loro azioni. Le donne sono le creature migliori per incarnare questi esseri...». S'interruppe. «E le streghe».

    Scoppiai a ridere. «Soprattutto le streghe, credi a me! Di fate ce ne sono poche».

    Abbassò il capo verso la sottoscritta. «E tu? Ti consideri una fata o una strega?»

    Non si lasciava mai sfuggire la possibilità di mettermi alla prova.

    «Mmh...» mugugnai. «Nessuna delle due».

    Le sue dita mi sfiorarono i capelli e io rabbrividii. Trattenni il respiro per un millesimo di secondo; la sua voce s’infiltrò dolcemente nel mio orecchio.

    «Bene, perché per me non sei nessuna delle due. Secondo me sei una vera e propria regale».

    Non osai guardarlo ed arrossii vistosamente, ma la belva egocentrica che risiedeva in me schiamazzò di gioia: sebbene mi mostrassi imbarazzata, qualche volta all’interno del mio corpo quella bestia oscura se la godeva a dir poco.

    «Sarah, stai dormendo?» sussurrò Michael durante la famosa scena dei cavalli alati. Non riuscivo più a tenere gli occhi aperti.

    «Eh, ci manca poco...» borbottai scontenta.

    Lo udii ridacchiare. La mano che pochi minuti prima mi aveva sfiorato la nuca si addentrò tra la massa di capelli rossicci: mi accarezzò il cuoio capelluto con dolcezza.

    Se c'era una cosa che mi mandava in estasi, be’, era proprio quella: qualcuno che mi massaggiava i capelli. Cominciavo a non capirci più nulla.

    «Dormi, allora».

    «No... resto sveglia anche io».

    Il mio corpo era tutto un fremito. Avevo la pelle d'oca.

    «Zucchettona, non fare la ribelle», sogghignò a voce bassa e io corrugai la fronte per quello strano nomignolo. «Dormi...»

    «E tu intanto guardi il soffitto contando le pecore, maledicendo la sottoscritta per averti lasciato solo» mormorai senza dare un freno alle parole.

    La sua mano raggiunse la mia schiena e le punte dei capelli.

    «Tu mi stai facendo più compagnia di quanto pensi. Non so come ringraziarti. Ora dormi. Mi basta sentirti qua, va tutto bene...»

    Chiusi gli occhi ed emisi un grugnito di fastidio. Michael inspirò ed espirò a fondo ed immaginai che si stesse umettando il labbro inferiore proprio come faceva sempre. Mi dette la buonanotte e io ricambiai con un mormorio.

    «God bless you...». Prese fiato. «I love you».

    Ma la sottoscritta era troppo impegnata a sprofondare in un sonno profondo per dargli retta, anche quando mi parve di sentirlo canticchiare.

    *

    Un istante dopo era già mattina.

    Mi alzai scoprendo la parte vuota del letto al mio fianco.

    Silenziosamente sgattaiolai in camera – giusto per darmi una ripulita e poter indossare qualcosa di più comodo rispetto a jeans neri e un maglione pesante. Scesi per far colazione e scorsi Michael seduto al bancone in legno, in pigiama e con Blanket in braccio, assieme a Prince e Paris che lo tormentavano di parole e risate.

    Ci scambiammo uno sguardo di sfuggita, sorridendo appena.

    Lasciai loro il resto della giornata senza disturbare. Anche Grace, a cui Michael aveva chiesto di restare comunque, si eclissò dalla situazione.

    Michael e i bambini stettero tutto il tempo in camera del padre. Guardarono cartoni e giocarono sotto gli occhi stanchi ma attenti di Michael. Se ne andavano soltanto per pranzare o cenare, per poi ritornare spediti come razzi. Solo la sera, verso le 21, ritornarono nella propria stanzetta accompagnati da Grace e me. Lessi loro una storia come la sera prima e – una volta data la buonanotte – andai da Michael. Passammo la nottata a leggere e vedere un altro film.

    Desiderò che dormissi con lui anche quella notte, perciò non protestai.

    Anche il giorno dopo mi svegliai sola.

    Mi alzai barcollando, occhi semichiusi e vista appannata. Era buio, ma mi abituai presto all’oscurità. Mi permisi di alzare la serranda della finestra, esattamente come avevo fatto la mattina precedente poco prima di andarmene. Il mio sguardo si adagiò sul comodino, sopra il quale notai un foglio di carta bianca strappata. Lo presi con titubanza.

    Sono andato dal dottore (questa volta per davvero).
    Canale CBS, programma “60 Minutes”, 10:45 a.m. Capirai tutto.
    God bless you, Michael

    Guardai l’ora: 11.02.

    Presi il telecomando e accesi la tv con una certa fretta.

    Vagai fra tutti i canali alla ricerca della CBS. Appena la trovai, la figura di un uomo baffuto e pelato mi comparve dinanzi agli occhi. Stava leggendo un documento che riguardava quelle che subito capii fossero le accuse di pedofilia verso Michael: stava dicendo che, secondo fonti vicine alla famiglia, la madre della “presunta vittima” aveva il sospetto che Michael servisse alcolici a suo figlio tredicenne.

    Il ragazzo in questione si chiamava Gavin Arvizo. Come molti bambini che visitavano il Neverland Ranch, anche Gavin era un malato terminale. Michael dette a lui e alla sua famiglia tutti gli agi del mondo, oltre che un angolo di svago e ristoro nella speranza di dare al ragazzino una via di fuga dalla morte.

    All’inizio sembrava che Gavin si fosse realmente affezionato a Michael – così come tutti gli altri membri della famiglia, i fratelli e la madre del ragazzo – e nella famosa intervista Living with Michael Jackson Gavin confermò il suo amore e la sua ammirazione per l’artista. Fu quella sottospecie di documentario – costruito dal giornalista Martin Bashir, apposta per screditare la personalità di Jackson e raffigurarlo come un uomo dagli atteggiamenti più che discutibili – che scatenò la scintilla del disastro.

    Tutta la famiglia Arvizo si scagliò contro Michael pochi mesi dopo l’uscita del documentario, accusando il performer di servire alcolici ai bimbi e di aver abusato di Gavin. Quest’ultimo sostenne di essere stato violentato, “fatto prigioniero” e ricattato per tutto il tempo in cui si era trovato nelle vicinanze di Jackson. Dimenticarono tutti gli elogi e gli aiuti che Jackson aveva dato loro e cambiarono la loro versione della storia di punto in bianco.

    Non era così difficile credere che Michael Jackson potesse essere colpevole: già nel 1993 un bambino di nome Jordan Chandler accusò Michael di pedofilia. La questione venne zittita con il denaro e Michael venne torchiato dalla polizia fino ad allora, alla ricerca di una minima traccia di prova che potesse condannarlo e sbatterlo in cella. Le testimonianze date da Jordan – la descrizione dei genitali di Jackson in particolar modo – si dimostrarono false, scoprendo poi che era stato il padre del bambino, Evan Chandler, ad aver obbligato il figlio ad accusare Michael.

    Niente, assolutamente niente, venne trovato in dieci anni di indagini. Niente che testimoniasse che Jackson fosse veramente un pedofilo. L’uomo continuò a circondarsi di bambini – forse ingenuamente, forse per un stupido istinto di ribellione infantile – e a fare quello che amava fare: aiutare.

    La verità era che la famiglia Arvizo – esattamente come i Chandler – era un disastro. Loro e il loro sporco, miserevole tentativo di spillare soldi inventando molestie e abusi. Michael non fu l’unica “money-machine” da cui cercarono notorietà o benessere, per di più approfittando di una malattia grave come il cancro. Vivevano un’esistenza povera, ma ricca di menzogne e ipocrisia.

    Michael e il suo amore per i bambini erano l’unico modo per ottenere qualcosa da lui, anche se questo richiedeva sporcarsi le mani di sangue e bugie. Troppo strano che un adulto – maschio e nero – si circondasse di bambini e si divertisse con loro; troppo anormale che un uomo che aveva vissuto la sua vita senza infanzia si circondasse di innocenza e giocattoli, quando l’unica cosa che gli adulti volevano da lui erano soldi e soltanto soldi. Troppe le bugie che i media urlavano ai quattro venti, troppi i fatti che non venivano riportati e dimostravano dove si nascondesse la verità.

    Era chiaro che Michael non fosse un essere perfetto; non era un angelo caduto dal cielo, non era un essere incapace di sbagliare: era testardo e incurante dei rischi, non ascoltava nessuno, ma non era mai stato un molestatore.

    Mi sedetti sul letto come un automa, affondandovi con tutto il peso, e seguii l’intervista senza staccare gli occhi dal televisore.

    Le scene cambiarono. Lo sceriffo e successivamente il procuratore distrettuale parlarono. Quest’ultimo fece una battuta poco spiritosa. Un Michael piuttosto giovane apparve in Tv, il quale passeggiava tranquillo sotto il mirino delle telecamere, mentre in sottofondo la voce del giornalista parlava di come la fama e la carriera dell’artista fossero messe a dura prova. E poi eccolo di nuovo, Michael, così come appariva recentemente: aveva le manette e veniva accompagnato all'interno di un edificio bianco scolorito. Una sua foto recente (che mi parve decisamente modificata rispetto al suo vero aspetto) apparve sullo schermo e in seguito anche lui, vestito con una maglia azzurra dai ricami blu e un viso triste.

    Era più truccato di quanto lo avessi mai visto. Troppo, direi.

    Gli occhi erano spenti e tormentati.

    Alle domande dell’intervistatore su come lo avessero trattato i poliziotti, il mio respirò si annodò nei polmoni.

    Parlò del braccio che gli faceva male.

    «La mia spalla è lussata, letteralmente. E mi fa molto male. Sto soffrendo ancora, da tutto questo tempo. È questo, vedi questo braccio? Questo è quanto posso raggiungere. Stessa cosa con questo lato qua...»

    Vennero anche mostrate alcune foto delle lussazioni: un grande e visibile segno rosso e bluastro sull’avambraccio. Strinsi le mani nello stesso punto che faceva male anche lui, come se sentissi il suo stesso dolore.

    «Poi una volta ho chiesto di usare il bagno. E loro risposero: “Certo, è proprio dietro l’angolo”. Una volta in bagno mi hanno chiuso dentro per quasi 45 minuti. C’era cacca, feci gettate su tutte le pareti, il pavimento, il soffitto. E puzzava tanto. Poi uno dei poliziotti è venuto vicino alla finestra e ha fatto un commento sarcastico. Ha detto, “Odore – c’è abbastanza buon odore per te là? Ti piace come odore? È buono?” E io ho semplicemente detto: “Va tutto bene. Va tutto bene”. Allora mi sono seduto lì, ad aspettare...»
    «Per 45 minuti?»
    «Sì, per 45 minuti. Circa 45 minuti. E dopo – un poliziotto – è venuto e ha detto: “Oh, sarai fuori in un secondo. Sarai fuori in un secondo”. Dopo si sono aggiunti altri dieci minuti, poi altri quindici. Lo hanno fatto apposta»

    Trattenni le lacrime e con esse un peso lancinante tra stomaco e petto.

    Non seppi come riuscii a seguire il programma fino alla fine, ma lo feci.


    Il nulla mi riempì la testa e la contrasse in una stretta tanto forte quanto opprimente. Quello che provavo non aveva parole e non creava rumore. Mi sentivo svuotata da ogni cosa.

    Ma quello non era niente per me. Era nulla, in confronto all'inferno a cui Michael stava cercando di scampare da diversi anni a quella parte.

    *

    Pranzai con i bambini tentando di mostrare serenità. Sembravano tranquilli e non volevo turbarli con il mio palpabile malumore, eppure notarono in un batter d'occhio il mio stato.

    «Che succede, maestra Sarah?» chiese Prince prendendomi per mano mentre guardavamo un cartone alla Tv. «Ti stai ammalando anche tu?»

    Sorrisi. «No, sono solo tanto stanca...»

    «Anche papà è stanco?».

    Forse la tenerezza dello sguardo di Paris – o forse il sapere la reale condizione del padre – mi offuscò la vista.

    «Sì, ma oggi è andato a fare un'altra visita». Notai che Grace mi fissava con la coda dell'occhio. La ignorai. «Sono sicura che presto o tardi si farà vivo».

    Ma, per un altro paio di ore, di Michael neppure l'ombra.

    Mi stavo tormentando al punto tale da diventare paranoica. Alla fine smisi di fissare la porta del corridoio e mi congedai, dicendo ai bambini che sarei andata a riposare. Non riuscii a leggere, a scrivere, a suonare, a fare nulla. Pensavo a cosa dire a Michael quando sarebbe tornato, ma niente mi sembrava adatto.

    Andai anche a fare una doccia, giusto per togliermi la tensione di dosso. Rimasi a lungo sotto il getto d’acqua bollente, mentre il suo caldo tepore mi massaggiava le spalle. Ricordai le sensazioni che avevo provato vedendo l’intervista di quella mattina. Mi si torsero le viscere dal dolore.

    Mi mancava il fiato.

    Ricordai il suo volto, i suoi occhi, e crollai senza un perché. Le lacrime mi bagnarono le guance assieme all’acqua della doccia, infiammandomi il viso nonostante tentassi di allontanarle con rapidi gesti della mano.

    Non era un bugiardo, in quel momento ne fui assolutamente certa. Gli credevo. Lo conoscevo abbastanza da essere sicura che non fosse un pedofilo. Lo avevo visto con i suoi figli. Lo avevo visto in tormentati pianti e gioiose risate. Lo avevo sentito parlare in modo saggio, intelligente, ma soprattutto era stato l’unico che aveva avuto l’intenzione di donarmi un po’ d’amore quando io stessa mi consideravo, ormai da tempo, un’anima incapace di provare affetto. Mi stava insegnando come gestire i sentimenti e sì, mi stava anche aiutando a liberarmi da tutta la solitudine che avevo vissuto in passato. Era triste, era abbattuto, ma era un’anima grande. Generosa e altruista.

    Non capivo perché Michael dovesse essere vittima di tante cattiverie e non l’avrei mai capito.

    Uscii e mi asciugai i capelli, senza dare retta a ciò che stavo facendo veramente. Mi vestii con pantaloni caldi e felpa magenta, mi legai i capelli in una coda bassa e uscii dalla stanza per andare a mangiare qualcosa.

    Quando scesi i bambini mi corsero incontro felici come non mai. «Papà è tornato! È venuto a salutarci!»

    Mi piombò il mondo addosso. «Cosa?»

    «È tornato!» squittì Prince. «Ora è in camera che riposa!».

    Lasciai perdere il cibo, ma bevvi un bicchiere di acqua fredda per non andarmene così di fuga e non dare inutili ansie ai bambini.

    Corsi su per le scale salendo due scalini alla volta. Il cuore batteva all’impazzata.

    Con il fiatone bussai alla porta della camera di Michael: non mi accorsi nemmeno della strada che avevo seguito, né quanto tempo ci avevo messo per percorrerla. Curvai lo sguardo sulla maniglia della porta e scoprii che era già aperta, appoggiata sullo stipite.

    Entrai e tutto si immobilizzò nel tempo.

    Michael era seduto sul bordo del materasso, viso affondato fra le mani.

    Alzò il capo a rallentatore. Le gote erano solcate dai segni del pianto.

    Si sollevò traballando ed io lo osservai immobile come una statua. I nostri sguardi urlarono in silenzio, ci abbracciarono, mentre le nostre mani si legavano in un contatto invisibile.

    Le nostre fronti si contrassero in sincrono ed io strinsi le labbra per non commuovermi.

    Chiusi la porta alle mie spalle e gli andai incontro.

    Tutto ciò che avevo sentito nell’intervista alla Tv non aveva più importanza.

    Lo strinsi a me cercando di non fargli male e Michael ricambiò con più forza. Era fragile come la foglia in mezzo all'uragano; percepivo il suo dolore attraverso la sua pelle, l'angoscia attraverso il suo respiro tremulo.

    Gli avvolsi le gole con le dita e mi legai a quegl’occhi, preganti e stanchi, che mi chiedevano di regalargli un po’ di affetto. Con tutta la mia anima – e con tutta la capacità d’amare che possedevo – tentai di fargli capire che gli volevo bene veramente.

    Non riuscivo a capire quale sentimento stessi provando. Era come se mi fossi scontrata contro un muro ma ero felice di averlo fatto, pur sapendo che non lo avrei distrutto.

    Perché molte volte basta un gesto, un sorriso, una carezza, e le parole scompaiono. Basta un bacio sulla guancia per scottare la pelle, uno sfiorarsi di polpastrelli per pervadere il corpo dai brividi, un semplice abbraccio per capire che il Sole non è poi così distante da dove risiedi tu; un naufragare nello sguardo dell'altro e improvvisamente esistete solo voi due; un sospiro e ogni paura scompare.

    Le parole rimangono soltanto parole. Se c’è qualcosa che va oltre, questo è proprio l'amore. Può distruggerti, può farti volare, può rigenerare un’anima ferita: è un flusso che ti cattura senza chiedere il permesso eppure, per un istante, per un semplice fulgido istante, l'amore ti dimostra che il tempo si può fermare, che un cuore può ritornare a battere dopo anni e anni di deturpante inverno, ma soprattutto che è in grado di amare anche se ha sempre pensato di non esserne mai perfettamente in grado.

    «Voglio andare via di qui...», sussurrò piangendo.

    «Allora andiamo via». Lo abbracciai più forte. «Ci sono io, stai tranquillo».

    E finalmente ritorna la primavera e i ghiacciai che avevi al posto degli occhi si sciolgono, percorrendo le tue pallide e infreddolite guance sotto forma di copiosi ruscelli d’acqua salata. Tutto ritorna in vita, anche quella luce nell’anima che da troppo tempo si era spenta.





    1 Per chi fosse interessato, la scena è questa.



    Edited by fallagain - 21/3/2021, 21:39
1570 replies since 6/1/2008
.