Posts written by fallagain

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    Capitolo Quarantacinque: La Caduta dell'Eroe


    Non ricordo quasi niente dei mesi successivi al mio ritorno a Los Angeles.

    Questo senso di perdita di memoria improvvisa mi capitava in ogni momento brutto della mia vita, particolarmente traumatizzante a livello emotivo. La mente desiderava cancellare qualsiasi cosa che mi facesse male, che non riuscivo ad affrontare senza provare il desiderio di scomparire dalla faccia della terra. Era un tipo di maledizione e benedizione assieme, che offuscava ogni ricordo lasciandomi solo qualche sprazzo di luce o momento sbiadito: l’unica cosa che rimaneva era l’emozione, forse la parte più difficile di tutto. Mi sentivo in una bolla in cui ogni rumore esterno veniva attutito dal dolore che provavo dentro.

    Non mi ero mai sentita sola come allora.

    Abbandonata.

    Repressa.

    Falsa.

    All’inizio la mia unica compagna in quelle giornate vuote era stata la rabbia, un tipo di ira che mi faceva sentire come una bomba sul punto di scoppiare, ma che reprimevo per non peggiorare la condizione attuale. La rabbia si era zittita di fronte alla delusione e all’impotenza, anche queste ammutolite nel giro di qualche settimana da una sensazione che possedeva una brutalità disarmante: il vuoto. L’incapacità di formulare a parole i sentimenti.

    La cosa peggiore non è la rabbia. Non è neanche l’odio. Non è la tristezza, non è il rancore, non è la disillusione. Il peggio è il silenzio che nasce dentro quando non riesci più a trovare le parole per esprimere cosa provi. Un vuoto che invade tutto, che non emette un fischio o un suono, che non grida e non piange. Quando percepisci quel senso di desolazione, capisci di essere così sommerso dal dolore che l’unica cosa che ti riesce bene è lasciarlo agire e non protestare. Impari a conviverci. Lo lasci esistere. Tutto il mondo – con le sue voci, i suoi schiamazzi, le sue risate e i suoi pianti – diventa un ronzio a cui ci fai semplicemente l’abitudine, ma è incapace di scalfirti.

    In quel vuoto, respiravo perfettamente.

    Sapevo che sarebbe arrivato il momento in cui mi avrebbe soffocato del tutto. Mi avrebbe ucciso, me lo sentivo, anche se credevo già di essere più morta che viva.

    Semplicemente continuavo a fare quello che dovevo fare: insegnare. Dare il mio supporto incondizionatamente, nonostante le porte sbattute in faccia e i rifiuti. Fingere continuamente che tutto andasse bene, che fossi indistruttibile anch’io. Falsificare le mie mille emozioni diverse per un bene superiore, per non essere egoista e non trasformarmi in un mostro incapace di provare comprensione e pazienza. Per proteggere i figli di Michael – in primis – e per evitare a lui di stare peggio di quanto già non stesse.

    Anche Michael fingeva.

    Fingeva ogni qualvolta uscisse di casa, per andare in tribunale e sorridere ai fan che tifavano per lui al di fuori di mura costruite su tensione e agonia. Fingeva per fare un dispetto ai media, perché non voleva che lo vedessero crollare pubblicamente.

    Ma pian piano, con il passare dei mesi, anche il suo sorriso scemò, e non poté fingere che la cosa non lo stesse privando di ogni forza vitale. Soltanto a casa – lontano dallo sguardo curioso e attento dei suoi figli – poteva essere se stesso.

    Gennaio passò veloce e la situazione tra noi sembrava tesa, ma non poi così male. Riuscivo ancora a farlo sorridere, a fargli desiderare la mia vicinanza, a farlo parlare e a distrarlo come potevo. Da quando ero tornata dall’Italia sembrava che ci fossimo riavvicinati definitivamente, più forti di prima, e così volli convincermi che fosse.

    Febbraio scorse più lento – nonostante i giorni fossero meno – e pian piano ritornammo a prendere le distanze. L’aria diventava più pesante. Michael cominciava a parlare sempre meno, a evitare di mangiare, ma cercava di buttare tutto sul divertimento e sul comico anche nelle occasioni fuori luogo. Nei suoi occhi scintillava la tristezza.

    Marzo sembrò non passare più. La sua voce scomparve del tutto – perlomeno con me. Tornò ad evitarmi e a non volermi più accanto, negando silenziosamente le mie richieste di passare un po’ di tempo assieme, anche solo per guardare un film in silenzio e abbracciati. Pensavo che – anche non parlando – gli avrebbe fatto piacere, ma mi sbagliavo. Quando lo incrociavo per i corridoi a volte manco si accorgeva della mia presenza. Passava quasi tutto il suo tempo con Prince, Paris e Blanket, guardandoli giocare in silenzio – a volte con lo sguardo perso nel vuoto, a volte con le lacrime agli occhi – con la scusa che papà non stava molto bene e preferiva guardarli divertirsi. Non mi rivolgeva la parola se non quando era estremamente necessario, ossia quando riguardava l’istruzione dei suoi figli. Non mi voleva più toccare. Mi disse che preferiva rimanere un po’ di tempo distante da me perché non voleva farmi del male, perché “ora come ora non sarei di buona compagnia per nessuno”.

    Il punto è che niente sarebbe tornato come prima.

    Le cose erano destinate a cambiare.

    *

    C’era oscurità. Un buio che rendeva fredda e sinistra la mia camera da letto e il mondo al di fuori. La fioca luce delle due lampade a comodino sbatteva sulle finestre impedendomi di guardare quello che era un magnifico cielo senza stelle. Il profumo che quella sera avevo deciso di indossare pervadeva l’intera stanza con un elegante ma delicato alone di mughetto e limone.

    Paris era così fiera quel giorno, assolutamente splendente per quel suo settimo compleanno. Come per i suoi fratelli prima di lei aveva avuto una festa bellissima, anche se molto intima e privata. Due famiglie di conoscenza di Michael erano venute a trovarli a Beverly Hills con i loro figli e Paris appariva così felice all’idea di essere circondata da bimbi più o meno della sua età. Tutto era stato perfetto per la piccola principessa di famiglia.

    Ciò nonostante, avevo preferito nascondermi ed evitare il contatto umano per tutto il giorno. Non volevo che la gente mi facesse domande su chi fossi, non volevo giocare, non volevo sorridere come se tutto fosse pacifico e tranquillo; non volevo fingere e rovinare la festa a nessuno, tantomeno a Paris. Il mio regalo e i miei auguri glieli avevo già fatti la mattina presto, prima che arrivassero gli invitati, e mi aveva abbracciata così stretta da arrivare quasi a stritolarmi.

    Ma in quel momento perfino le luci di un’animata e lontana Los Angeles di inizio aprile parevano non regalarmi alcun tipo di calore.

    Pensare a come la vita degli altri continuasse anche se la mia stava andando a rotoli mi lasciava indifferente; immaginare che non ero l’unica al mondo che si sentisse così non mi donava alcun conforto. Momenti di puro egoismo, insomma.

    Ritornai a contemplare le mie mani adagiate delicatamente sulle cosce. Con la coda dell’occhio lo sguardo cadde sulla mezzaluna scintillante che tenevo al collo. Per un attimo desiderai togliermi quella collana di dosso e nasconderla in qualche posto che poi, a distanza di mesi, non mi sarei più ricordata.

    Cancellai l’immagine di Michael da dinanzi agli occhi con uno urlo inudibile.

    In compenso non avevo indossato il suo ultimo regalo di compleanno per me: un bracciale sottilissimo formato da tanti minuscoli diamanti. Non sentivo il desiderio di farlo.

    Mi lasciai cadere sul materasso e rimasi a pancia in su a fissare il soffitto.

    Era da tanto che non suonavo il pianoforte. Era da tanto che non scrivevo... era da tanto che semplicemente non ascoltavo musica e mi lasciavo trasportare dalle emozioni – una qualsiasi; la maggior parte delle volte mi sentivo svuotata.

    Per un attimo mi sforzai di analizzare i miei sentimenti e dar loro un nome.

    Niente.

    Vedere le persone che ami soffrire come dannati è forse anche peggio di patire l’inferno da solo. Io stavo bruciando all’inferno e contemporaneamente pregavo per colui che amavo. La sua sofferenza viaggiava in me come tante onde radioattive attraversandomi tutto il corpo. Mi si avvinghiava addosso e io non volevo, in parte, separarmi dalla sola cosa che pareva tenerci vicini: la lealtà.

    Nella mia impotenza, nel mio sentirmi assolutamente inetta per lui, sapevo che non potevo far altro che sperare; a volte il dolore era così insopportabile che lo trasformavo in una rabbia sconsiderata, in odio e in rancore. Stargli vicino era la sola cosa che dovevo e potevo fare, anche quando Michael non mi voleva tra i piedi e preferiva tenermi alla larga. Aveva bisogno di una donna forte, che lo tenesse saldamente per mano, non una che assorbisse la sua sofferenza e crollasse con lui; io facevo di tutto per esserlo e non tentennare mai.

    Era stato facile pensare che l’amore potesse salvarci, ma difficile renderlo possibile se entrambi ci rifugiavamo ognuno dietro le proprie barricate e le proprie afflizioni. L’amore univa, non separava.

    Sbagliavo quando pretendevo che si fidasse e si aprisse con me, per quello cercavo di fare il minimo necessario: avevo capito che non voleva essere pressato, perciò non tiravo più fuori l’argomento “processo” o “accuse”. L’unica cosa che potessi fare era esserci sempre e comunque, nonostante mi trattasse con indifferenza. Nonostante fosse chiaro come l’acqua che non desiderasse il mio amore.

    Michael sbagliava nel trattarmi così, pensando che fossi una fonte di amore infinito che non aveva mai bisogno di ricevere nulla in cambio; sbagliava nel pensare che io non sentissi o comprendessi il suo dolore e il suo atteggiamento al dolore perché – alla fine dei conti – per l’amore che sentivo per lui avrei sacrificato me stessa in ogni caso. Una persona normale avrebbe avuto bisogno di un time-out, mentre io non me lo concedevo mai. Pensavo fosse la cosa migliore da fare affinché potesse capire che non era solo e abbandonato a se stesso.

    Bussarono alla porta e il mio viso si diresse in automatico verso di essa. I muscoli facciali si contrassero.

    Non proferii alcun “Avanti” o “Entra pure”, perché sapevo che sarebbe entrato anche se non glielo avessi detto esplicitamente... e così fece.

    La maniglia si abbassò con un rumore metallico e le palpebre si serrarono per un istante, nel momento stesso in cui un bruciore incredibilmente doloroso mi arse il petto.

    Apparve da oltre la soglia vestito con pantaloni di velluto nero e una camicia blu, segno che probabilmente non si era cambiato dalla fine della festa fino al momento in cui aveva messo a dormire i suoi figli. Era da quel pomeriggio che non uscivo dalla mia stanza, non potevo saperlo. Il viso fu l’ultimo dettaglio che volli guardargli, perciò evitai. Mi alzai a sedere con un sospiro affaticato.

    Mi bagnai le labbra udendo i suoi passi avanzare nella semioscurità di quella camera da letto.

    Nessuno dei due osò enunciare parola per un bel po’ di tempo. Si arrestò a venti centimetri di distanza dalla mia persona e tuttavia fu come se entrambi non ci fossimo.

    Poco dopo emise un sospiro pesante.

    «Perdonami...».

    Per cosa?

    Lo osservai nell’attimo in cui fui capace di elaborare la sua risposta e la mia conseguente reazione. Fui imperscrutabile e Michael pure, nonostante il suo sussurro a fil di voce doveva essere più sincero di quanto i suoi occhi lasciassero trasparire. Volli rispondere, ma non ci riuscii...

    Silenzio.

    Si massaggiò nervosamente le mani.

    «Hai fame?», domandò piano. «Non è troppo tardi...»

    Sono le 22.00 passate. Non ho più fame da ore, in realtà.

    «No, grazie», scossi il capo con un accenno di sorriso forzato. Tenni gli occhi bassi sulle sue scarpe. «Com’è andata la festa? Dalle voci che ho udito fino a qui sembra che Paris si sia divertita un sacco», sorrisi maggiormente e con una nota di affetto nella voce.

    Non rispose. Strinse la bocca con espressione arresa. Piegò impercettibilmente la testa verso destra. Le sue iridi furono lo specchio di uno sconforto disilluso e arrabbiato, due pozze di liquido scuro e indefinito.

    Feci per seguire il punto che stava ammirando, ma mi fu davanti nel giro di mezzo secondo.

    Il cuore smise di battere vedendo la scatolina che teneva in mano, immaginando cosa potesse essere. Mi paralizzai e percepii una sensazione di pentimento e vergogna divampare nell’animo, nelle viscere e negli occhi.

    Ero ancora seduta sul bordo del letto quando si mise in ginocchio di fronte a me, fissandomi inquieto e nervoso come un bambino a cui sta andando incontro a una punizione, piuttosto che a un lieto evento. Ricambiai l’occhiata con una scintilla di paura nelle iridi.

    Inspirai a fondo. «Non dovevi farmi un regalo… non è il mio compleanno…»

    Cercai di sdrammatizzare inutilmente, poiché la voce che mi uscì dalla gola fu tutt’altro che lo specchio del divertimento e dell’ironia. Cercò le dita della mia mano sinistra, quella che tenevo sul materasso, e i brividi mi solleticarono insistentemente le gambe.

    «Dobbiamo parlare...»

    Strinsi i denti. Feci un altro respiro profondo.

    Posizionò la mia mano con il palmo verso l’alto e vi poggiò sopra la minuscola scatolina in velluto nero. Rinchiuse le mie dita su di essa e me la strinsi con entrambi i suoi arti. Ebbi un leggero soffio al cuore, un attimo di commozione che mi lucidò le iridi verde chiaro, e quando lo guardai negli occhi anche i suoi sembravano improvvisamente carichi di affetto.

    Così, inaspettatamente, dopo mesi passati a non amarci più.

    «Se tutta questa storia finisse bene», mormorò a voce roca, «vorrei che tu seguissi me e i miei bambini ovunque». Michael prese una pausa e un respiro tremante. Il mio petto si alzava e si abbassava velocemente, rumorosamente, così tanto che pensavo si potesse percepire anche dall’esterno. «Vorrei che continuassi a essere l’insegnante dei miei bambini, ma soprattutto che diventassi la donna della mia vita. Non mi sono mai proposto a qualcuna a meno che non fossi veramente sicuro che fosse la persona che desiderassi amare per il resto della mia esistenza. Tu sei…».

    Boccheggiò un attimo, incapace di trovare le parole giuste. Abbassai gli occhi sulle sue mani che tremavano attorno alle mie. Sentii una fitta al cuore e non riuscii a comprendere se fosse per un’emozione piacevole o tutto il contrario. Qualcosa non andava, sentivo che non riuscivo a essere davvero felice.

    «Sei una delle persone più squisite e dolci che abbia mai incontrato», si bagnò le labbra senza smettere di cercare i miei occhi. «Sei intelligente, sei profonda, sei matura, sei comprensiva…»

    Eppure non mi vuoi…

    Chiusi le palpebre non appena lo sentii strizzarmi la mano. Lasciò andare la presa e io con lui, dopodiché prese la scatolina e la aprì con un leggere “clock”. Quando riaprii gli occhi, la sorpresa e l’inquietudine mi attraversarono in pieno petto: era un anello magnifico, in oro bianco e con un diamante di non so quanti carati in risalto.

    Una volta mi aveva detto che regalava gioielli e diamanti soltanto alle donne di cui era veramente innamorato… figurarsi un anello di fidanzamento.

    «Ti prego, se tutto questo finisse bene, diventa mia moglie».

    Mirai ai suoi occhi scurissimi e vi colsi una silenziosa preghiera.

    In quel momento, a istinto, la mia risposta fu “No”.

    Quando dico che lo amavo non mentivo. Avrei voluto passare il resto di quella e molte altre vite con Michael, di questo ne ero certa. Non cercavo di stargli accanto e amarlo solamente per pietà, perché stava male o per misericordia, ma perché era la persona più speciale che avessi mai conosciuto – non solo la più complessa e difficile da gestire; nel bene e nel male riconoscevo in lui la meraviglia, il divino, l’uomo più perfetto nelle sue imperfezioni tipicamente umane. Michael era l’uomo che volevo davvero, quello con cui – per la prima volta nella vita – riuscivo a visualizzarmi in un futuro lontano. Michael era tutto quello che volevo; mi aveva fatto provare cose mai provate, come la libertà di essere chi fossi senza paura e l’esperienza di vivere una relazione in cui mi sentissi veramente in pace. Stare con lui annullava ogni cosa brutta nel mondo e mi riempiva di amore e serenità.

    Ma sapevo che quella non era una scelta che gli veniva dal cuore. Guardandolo negli occhi avevo capito cos’era quel qualcosa che non funzionava affatto: la paura.

    Michael aveva paura per il futuro.

    Come dargli torto.

    Michael aveva paura di finire in prigione, di perdere ogni speranza che lo mantenesse in vita e, per questo, aveva anche paura di non avere più persone amate al suo fianco. Sapeva bene cosa provassi e quanto stessi male dentro, quanto il suo isolamento nei miei confronti e i suoi continui rifiuti mi allontanassero dall’amore che mi spingeva a non voltargli mai le spalle.

    Perciò non volevo dirgli di sì, perché quello avrebbe significato che fossi una sciocca. Se avessi accettato di sposarlo sarei stata una certezza assoluta più che il vero amore; con me al suo fianco per sempre si sarebbe sentito consolato e appoggiato, ma non felice per davvero. Non in quel momento, non con quel processo che gli offuscava i sensi e la ragione. Se volevo essere chiesta in moglie, volevo che lo sentisse per affetto, non per paura di un mio probabile addio o allontanamento definitivo. Volevo che le sue parole andassero d’accordo con i suoi gesti, che da lì a diversi mesi precedenti erano tutto l’opposto. Credevo che la sua non fosse una proposta dettata dal cuore, ma dall’egoismo.

    Mordendomi l’interno della bocca inghiottii le lacrime.

    Sfiorai il tessuto che rivestiva la scatola con polpastrelli tremanti. Sorrisi con un misto di amarezza e dolcezza, senza rivolgergli lo sguardo, per poi prendere un gran respiro che – invece che ossigeno – sembrava acqua nei polmoni.

    «Io non so che dire…», mentii.

    «Indossalo...» m’intimò mormorando.

    Lo fissai ed egli ricambiò con un sorriso speranzoso. Non aveva neanche aspettato la mia risposta, pensando che gli avrei detto “Sì” senza alcun dubbio. Anche se quel gesto mi fece rimanere male, non ebbi la forza di aprir bocca e dargli un’ulteriore delusione.

    Sii forte, ignora cosa dice la tua mente, sicuramente stai fraintendendo il suo comportamento. Se ti ha proposto una cosa del genere vuol dire che ti ama davvero, no? Sii fiduciosa ancora una volta, non ritirarti nel tuo guscio. Dagli un’altra occasione per dimostrarti che ciò che stai donando e facendo è importante anche per lui.

    Presi l’anello fra le dita. Lo girai e lo rigirai in angolazioni sempre diverse, fino a quando Michael non me lo sfilò delicatamente di mano per mettermelo al dito. Mi stava perfettamente.

    Sentii una fitta allo stomaco.

    «Che ti sembra?»

    Rimasi con la bocca aperta e il sorriso semi-spento, esaminando la mano con l’anello.

    Se solo potessi descrivervi cosa fosse il suo sguardo, lo farei... ma era qualcosa di straordinario... seppur fossero tristi e malinconici, così speranzosi e così attenti assieme, io per quegli occhi potevo morire davvero. Potevano scaraventarmi al suolo senza produrre un suono, permettere alle mie ginocchia di cedere senza sfiorarmi con un dito ed io non avrei mosso un muscolo per rialzarmi. Non ne avrei avuta la forza. Mi attraversavano da parte a parte. Erano ciò che mandava in tilt anche la mia più inutile funzione vitale. Due occhi che non credevo possibile potessero esistere sul serio.

    Con quel luccichio nello sguardo mi sorrise mestamente.

    «Ti amo, Sarah».

    La vista si appannò.

    Perché lo fai?

    Il naso pizzicò per le lacrime, accorgendomi all’improvviso di quanto la sofferenza, come l’amore, privasse di tutte le parole che un cuore vorrebbe disperatamente urlare a gran voce. Al contempo mi accorsi che stavo sbagliando tutto, ogni cosa, ma non ero ancora pronta per incamminarmi verso una direzione differente alla sua.

    Lo abbracciai inaspettatamente.

    Gli gettai le braccia al collo ed egli rimase impalato, sconvolto, mentre io gli accarezzavo i capelli con le dita di una mano respirando il suo profumo ad occhi chiusi. Le sue mani si posarono sulla mia schiena e mi fecero rabbrividire.

    Vorrei soltanto capire...

    Inspirai forte.

    Se questo è stato ed è ancora amore...

    Mi morsi il labbro e mi strinsi ancora più forte al suo corpo per non farmi vedere sul punto di piangere.

    Ti basterebbe così poco per farmi cambiare idea...

    «Vuoi rimanere qui stanotte?»

    Lo chiesi con il cuore, nella speranza che avrebbe accettato l’ennesima proposta di passare del tempo insieme. Non volevo fare necessariamente sesso, tutt’altro; mi bastava stare al suo fianco e sentire il suo calore come non lo sentivo da settimane, mesi. Tutta quella assenza di amore ricambiato – per quanto odiassi ammetterlo – mi faceva star male. In quei momenti mi pensavo egoista ed egocentrica oltre ogni limite, ma la realtà è che ogni cuore ha bisogno di sapere che quello che si dona alla persona amata può essere accettato, apprezzato e ricambiato.

    Quando si separò dal mio corpo, il suo sguardo ammirava l’anello infilato nel mio anulare sinistro.

    «Penso che sia meglio che tu rifletta sulla proposta».

    Aveva capito?

    Lo scrutai con un velo di inquietudine e dubbio. Sorrideva, ma era un sorriso senza emozione; i suoi occhi erano vuoti come lo erano stati negli scorsi mesi, ad eccezione di quando stava con i suoi tre bambini.

    Si alzò in piedi e si diresse velocemente verso la porta della mia stanza.

    «Non avere fretta, pensaci un po’ su», abbassò la maniglia dandomi le spalle. «E quando sarai pronta, io sarò lì ad attendere la risposta».

    Trattenni il fiato. Il suo pacato sussurro mi colpì come un fulmine a ciel sereno.

    Aveva capito tutto.

    Come può una persona intrappolata nella propria angoscia guarire un altro essere umano altrettanto fragile e bisognoso di cure? Come si può pretendere che questa ami di rimando, pur essendo incapace di trovare la forza – o la volontà – di farlo? Niente aspettative, niente seconde opportunità, niente mani tese ad aiutare, niente abbracci affettuosi o baci risananti… non se si rimane bloccati all’inferno. Ma a volte per tornare in piedi si ha bisogno di aiuto... sta a quel qualcuno decidere se accettare o rifiutare, morire o vivere, tenere duro o mollare.

    Quando chiuse la porta dietro di sé, senza salutarmi, mi sentii come se le pareti di quella casa fossero diventate una vera e propria prigione.

    Di riflesso portai le dita dietro il collo.

    Da quel giorno smisi di indossare la collana con la mezza Luna.

    *

    «Stare così non migliorerà le cose...».

    Ma Michael non ascoltava.

    Lui non ascoltava più niente di quello che gli diceva la gente, tanto meno quello che dicevo io.

    Mi faceva una tale rabbia. Una rabbia incredibile.

    Alzai le braccia al cielo e per un attimo le labbra mi tremarono, soprattutto quando riuscii ad emettere un respiro tanto angosciato quanto rauco. «Smettila di stare qui a… a morire perché pensi e credi di non essere abbastanza forte per farcela! Anche se sei debole, sai benissimo di non essere da solo e abbandonato; il processo sta volgendo a tuo favore, non hanno prove per inchiodarti, lo sappiamo entrambi… eppure ti isoli perché in fondo è quello che vuoi: morire!»

    Perfino i bambini non erano così sciocchi da non capire che c’era qualcosa che non andava nel loro papà.

    Tutti lo capivano.

    Lui non ascoltava... non reagiva... si abbandonava alla disperazione. Scompariva per ore. Delirava per ore. Affondava nelle sue lacrime invisibile per ore. Per giorni. Per mesi.

    Perché lui?

    E più gli parlavo – qualsiasi argomento fosse – più Michael si infastidiva.

    Se ne stava accoccolato nel divano quando Prince, Paris e Blanket uscivano con Grace; si chiudeva in camera a chiave, rannicchiandosi su se stesso in un angolo del letto vuoto, circondato da gelide tenebre. Aveva cacciato tutti gli addetti alle pulizie o alla cucina, dando a tutti settimane di ferie prima del licenziamento vero e proprio. Usciva dal suo stato di perenne stanchezza e distaccato isolamento solo quando era obbligato a farlo, di solito la mattina per andare in udienza, o per mentire ai suoi piccoli dicendo di essere soltanto ammalato, volendo dedicarsi semplicemente a loro. Mi voleva con lui soltanto durante la notte, quando aveva bisogno di qualcuno a tenergli la mano fino a quando non si sarebbe addormentato.

    Era così freddo che mi spaventava, tanto da destarmi dal mio sonno leggero e domandarmi se stesse ancora respirando.

    Giorno dopo giorno si spegneva sempre di più. Era un tenue sfolgorio di luce, come il lume di una candela che sciogliendosi lentamente, prima o poi, non avrebbe più illuminato il buio che aveva attorno.

    Era quasi fine maggio.

    Michael, tenacemente, continuava a respingere ogni contatto con altri.

    Il fiato tremò uscendo dalla bocca e il grande mattone sullo stomaco mi rese più pesante di quanto già non fossi.

    Avanzai a grandi passi verso il divano in cui era seduto, verso la sua figura che mi dava sfrontatamente le spalle, e mi posi al suo fianco. In piedi, rigida e tremante d’ira, lo guardai con il sangue caldo nelle tempie.

    «Mi stai ascoltando...?!», alzai la voce.

    Credevo che fare la dura qualche volta potesse scuoterlo.

    Non fece una piega.

    I suoi occhi erano fissi sulla Tv a pochi metri di distanza, la quale ronzava fastidiosamente e a vuoto; lo schermo era macchiato di immagini a colori e confuse. Non detti molta retta a cosa stesse guardando ed ero sicura che per Michael fosse lo stesso.

    Le sue sopracciglia leggermente inarcate non scesero di un millimetro. Neanche i lineamenti facciali parvero aver intenzione di manifestare un qualsiasi accenno d’attenzione.

    Era terribile. Era terribile vivere così.

    Più per lui che per me, ma non potevo negare quanto mi sentissi fragile anch'io.

    «Dio, Michael, rispondimi!» Un moto di rabbia irreprimibile mi attraversò come adrenalina nel sangue. Spalancai le ciglia ed espirai percependo un brivido lungo la schiena. «Io sono qui per te da mesi, sono qui perché ti amo veramente! Non lasciarmi fuori dalla tua vita!», gesticolai.

    Egli inspirò alzando ed abbassando le spalle vigorosamente. Le mani afferrarono le ginocchia frattanto che le labbra formavano una linea sottile e diritta. Non credevo di riconoscerlo più. Sembrava tutt’un’altra persona.

    «Voglio essere... lasciato in pace... ok?», sibilò in tono roco e macabro, calando le palpebre e sollevando le sopracciglia contemporaneamente. «Non mi sembra difficile da capire...»

    Mi scoccò un'occhiata fulminante.

    All’improvviso mi mancarono le parole.

    Fu una questione di pochi secondi – o minuti – prima che la collera mi avvolgesse come lava incandescente. Mi tremavano le mani. Le mie iridi iniettate di disprezzo – mascherato da un verde chiarissimo – lo osservarono come se lo volessero stritolare.

    «Vuoi rimanere qui in un angolino, con te stesso, infliggendoti colpe su colpe e crogiolandoti nel tuo dolore...?» chiesi velenosamente, inarcando un sopracciglio. «Preferisci rimanere così, sapendo che c’è qualcuno disposto ad amarti…?», la mia voce si ruppe.

    Lo vidi inspirare col naso digrignando i denti.

    Alzai le braccia al cielo, esasperata e arrabbiata. «D’accordo, cazzi tuoi!»

    «Sì, sono cazzi miei!», Michael urlò con gli occhi fuori dalle orbite e si alzò in piedi con violenza.

    Sebbene quel suo atto non avesse fatto il minimo caos e nessun oggetto si fosse rotto, nella mia testa fu come se avesse buttato a terra tutto ciò che era presente in salotto. Vasi, tavoli, televisore, divani. Porcellane ridotte a pezzi sparse per tutto il pavimento, tende squarciate, finestre distrutte.

    Indietreggiai di due passi.

    «Sono cazzi miei! Lo sono adesso e sempre lo saranno! Tu non ti impicciare, lasciami in pace e vattene!», gesticolava a vuoto, con iridi nerissime accecate da una rabbia che non gli avevo mai visto addosso. Vacillava sul posto, postando il peso da una gamba all’altra. Mi puntò il dito. «Non sei nessuno per venire qua, nessuno, e dirmi come devo comportarmi, assillandomi con le tue stronzate

    Le lacrime furono in procinto di sgorgare fuori dai miei occhi e scossi la testa incredula, spalancando anche la bocca. «Sto solo cercando di aiutarti, idiota che non sei altro!» sbraitai calpestando per terra, alzando la voce di due ottave più alte.

    «Che ne sai, uh?!», gridò. Il suo viso sfigurato e i suoi occhi accecati di rabbia mi fecero paura. «Che ne sai?!»

    Lo studiai sconvolta.

    Mi ci volle un po’ per realizzare il significato di quello che aveva detto. Quando lo feci, strinsi le labbra e storsi il naso in un cipiglio quasi schifato. Due lacrime scesero lungo le mie guance e la forza che avevo per urlargli contro morì improvvisamente; ma non cedetti, continuai a osservarlo con il petto che si gonfiava e si sgonfiava per la rabbia e la tristezza.

    Stette zitto, poi sbuffò. Mi diede le spalle passandosi le mani sul volto.

    Si voltò nuovamente in mia direzione, con una mano sospesa in aria – prima aperta e poi chiusa a pugno – e credetti di vederlo mordersi un labbro. Guardò in basso non riuscendo a reggere il mio pianto imminente.

    «Tu... tu non devi fare niente. Stammi lontano, ok? Stammi il più lontano possibile...» sibilò crudele. Il cuore mio venne stritolato dalle sue parole. «Non ho bisogno di aiuto, io non voglio che la gente si sacrifichi per me! Sono solo e morirò solo».

    Michael si sedette una seconda volta. Poggiò i gomiti sulle ginocchia, portò le mani fra i capelli, serrò le palpebre e infine le riaprì rassegnato, dondolando avanti e indietro.

    Indietreggiai ancora.

    A distanza potevo scorgerlo rabbrividire terribilmente.

    Sembrò arrabbiarsi di nuovo, stavolta più di prima.

    «Voglio stare da solo, in pace, senza i tuoi rimproveri e… i tuoi sguardi... il tuo affetto e appoggio incondizionato…», sibilò con una sorta di velato disgusto, «che non fanno altro che farmi sentire peggio, che mi condannano! Tu, più di altri, mi fai sentire più solo che mai!».

    Crack, il mio cuore che si crepava e si riduceva immediatamente in polvere.

    Crack, le mie fragili sicurezze e aspettative che cadevano a pezzi.

    Poi un tonfo. La mia vita che, scivolando dalle mani, si era disintegrata a terra con uno scoppio assordante. Uno di quelli che rimbomba nel cuore e nella testa e colpisce così forte da farti credere di essere morto… e in realtà sei più vivo che mai.

    E poi il silenzio.

    Un vuoto indicibile.

    Indietreggiai ancora di un passo.

    Non riuscivo più a sentire.

    Non avevo voce, non avevo fiato, non avevo la testa per pensare.

    Michael non si muoveva. Non era lì.

    Rimanemmo ognuno nella propria posizione. Non ricordo quanto tempo passammo così, ma sono sicura che prima di avere il coraggio di fare un altro passo, dire una parola o semplicemente muovere un muscolo passarono parecchi minuti. In tutto quel tempo cercai di abituarmi a quella bomba a mano che Michael aveva lanciato e fatto esplodere senza pensare alle conseguenze delle sue azioni.

    All’improvviso parlai.

    «Io ho finito qui...».

    Non mi accorsi di avergli dato la schiena e di essermi diretta verso l’uscita della sala. Salii le scale. Mi incamminai verso la mia stanza. Vi entrai e rimasi lì, in piedi e immobile, a guardare il letto ancora stropicciato e le finestre aperte su quel pomeriggio di inizio estate, mentre le tende danzavano delicatamente con il vento.

    Ogni gesto che compivo, ogni mossa, ogni pensiero era oscurato. Non vedevo niente.

    Non asciugai nessuna lacrima.

    Non urlai.

    Non mi arrabbiai.

    Non potevo permettermi di essere debole.

    In un certo senso ero sempre stata abituata a essere così. Dovevo essere come mia madre mi aveva insegnato di essere: dignitosa, forte, una roccia, la spalla su cui piangere, una salvezza incontrollabile, una forza della natura. Spalle alte e schiena dritta, sguardo dritto davanti a me. “Per quanto il mondo possa essere contro di te, tu continua ad andare avanti e non farti schiacciare da niente, tantomeno da te stessa”.

    Sarah non poteva permettersi di essere insicura, di lasciarsi andare ad un momento di vulnerabilità, perché non sarebbe più riuscita ad alzarsi. Sarah non poteva affondare quando doveva tenere le persone a galla. Sarah non era mai stata quel tipo di persona che lasciava intravedere la sua fragilità, che si poteva permettere di vivere la sua vulnerabilità, non se doveva reggere il mondo con le sue sole mani; Sarah era quel faro a cui si poteva chiedere sempre aiuto e sostegno, senza dover donare a propria volta.

    Io non dovevo e non potevo crollare a pezzi.

    Dopo la mia partenza in Italia fino a prima che incontrassi Michael, andavo avanti senza cedere di un passo. Certo, avevo avuto dei momenti di crisi, perché non ero una macchina; ero stata male, avevo avuto dei tentennamenti e ricevuto forti scossoni che avevano messo a dura prova la mia resistenza, ma mai una vera e propria caduta. Niente poteva farmi perdere la retta via definitivamente, per quanto mi sentissi temporaneamente insicura e sperduta. Così facendo lasciavo che le piccole cose della vita mi passassero a fianco, quasi silenziosamente, ignorate dalla sottoscritta che indomita continuava a fare quello che le veniva meglio: guadagnarsi un posto nel mondo con coraggio.

    Prima di Michael non mi ero mai permessa di essere veramente fragile. Ero arrivata negli Stati Uniti da sola e da sola avevo lottato, sputato sangue, sudato camicie su camicie, supportandomi e incoraggiandomi affinché potessi dimostrare a me stessa e alla mia famiglia che potessi farcela. Avevo studiato tutto il giorno e tutti i giorni, mi ero fatta il culo per guadagnare quello che credevo di meritarmi; ero stata insultata per le mie capacità e per l’invidia della gente; ero stata tradita dal mio primo amore, ero stata abbandonata dal secondo, perché non avevo fortuna nelle relazioni amorose. Ero un essere indipendente, una tigre che apparentemente non abbassava mai lo sguardo di fronte a niente e a nessuno, ma in tutto questo era sempre stata sola. Anche se in ginocchio, anche se con le lacrime agli occhi, anche se stremata, Sarah non crollava mai del tutto.

    Prima di Michael avevo lavorato continuamente, senza sosta, senza lasciarmi andare ad un momento di vero e proprio sconforto e abbattimento. Continuavo a camminare, a faticare, come la vita fosse una ripida e infinita salita e mai un terreno dritto e sicuro, per ottenere la soddisfazione di una vita e una carriera che mi rendesse fiera della persona che ero e sarei diventata. Come se riuscire a farcela senza cadere mai a pezzi fosse una cosa da persone veramente coraggiose, resistenti a tutto e a tutti, incapace di essere vittima di qualcosa più grande di lei: il senso di impotenza e la mancanza di controllo.

    Prima di Michael avevo vissuto una vita in cui precipitare nel vuoto senza fine non era all’ordine del giorno, perché il mondo non si fermava se io rimanevo immobile a far niente, a compatirmi o a deprimermi. Le mie mani e le mie gambe si erano impantanate in sabbie mobili di sfiducia e solitudine, ma quest’ultime non erano mai state abbastanza forti da distruggermi.

    Prima di Michael non avevo mai permesso a nessuno di scoprirmi facilmente. Non mi ero mai mostrata apertamente vulnerabile con nessuno se non con lui. Non piangevo davanti a qualcuno; anche se mi guardavo indietro e vedevo solo una ricchezza apparente, stare da sola mi permetteva di avere il controllo su quasi ogni cosa. Non stramazzavo al suono, non mi spezzavo del tutto; non osavo aprire il mio cuore per paura di perdere le redini della mia vita, non osavo mostrare le mie paure e le mie ferite; soffocavo inutilmente le mie paranoie nonostante fossero lì, davanti ai miei occhi, pronte a disintegrarmi anche solo avessi aperto bocca.

    Prima di Michael avevo sperimentato un vuoto diverso da quello che di colpo sentivo dentro; prima di Michael avevo provato un tipo di solitudine che mi aveva fatto capire di non aver mai avuto un rapporto vero e proprio con qualcuno prima d’allora; mai una sintonia reciproca, intima e profonda con un uomo; mai un amore divino e assoluto, uno di quelli che ti fa capire di aver trovato la tua persona; mai una relazione che ti facesse capire che tutta la fatica fatta potesse essere stata, in qualche modo, utile per arrivare fino a lì, in quel punto della tua vita dove ogni cosa trova un senso.

    Prima di Michael nessuno mi aveva tenuto il viso fra le mani e aveva capito chi fossi pur non avendo emesso una parola; nessuno mi aveva sorriso in quel modo, nessuno mi aveva amato in quel modo, interessandosi a me fino a quel punto, preoccupandosi del peso che reggevo sulle mie spalle da anni – il peso del mio stesso corpo e di tutti i problemi derivanti dal mio tentare di essere imperturbabile. Come poteva non accorgersene lui, che di pesi e sofferenza ne sapeva molto più di me? Come poteva non vedermi per quello che ero, lui, così intuitivo ed empatico? Così intelligente e così umano?

    Michael mi aveva permesso di essere me stessa. Era stato la boccata d’aria fresca che aspettavo da non so quanto. Essere libera di sentire qualcosa che non fosse soltanto la mia ambizione e il vuoto nel petto… quello era stato il più grande traguardo mai raggiunto fino ad allora. Mi aveva aiutato ad abbassare la guardia, mi aveva insegnato a piangere di nuovo, mi aveva insegnato a vivere un sentimento che fosse veramente qualcosa, non solo l’idea di qualcosa1. Mi ero sentita più viva e più donna con Michael che con tutte le altre persone che avevo incontrato prima di lui; ero stata coinvolta in un amore più grande di me e delle mie previsioni, uno di quelli che ti avvolge e ti rassicura… ma che, nel caso peggiore, tira fuori tutti i tuoi scheletri nell’armadio – quelli che pensavi di aver gettato via per sempre. Quell’amore amplificava la mia vulnerabilità repressa, ogni ombra e paura che conoscevo bene ma non ero stata in grado di affrontare, ed era la scure calata sul mio collo mozzandomi il fiato per sempre, cambiandomi per sempre.

    Non avrei mai pensato che facesse così male.

    Crollare a pezzi, intendo.

    Un anno prima non avrei mai creduto possibile che, per tanto amore ci potesse essere tra noi, sarei andata incontro ad una così grande desolazione.

    No, in realtà sapevo benissimo come sarebbe finita, ma ero troppo innamorata per dare retta all’istinto.

    Sentivo di non voler essere più forte come un tempo. Desideravo lasciarmi andare e non rialzarmi più, perché il mio amore per Michael non era mai stato sufficiente. Non lo era stato per me e neanche per lui, e probabilmente per nessun’altra persona che avessi mai incontrato sul mio percorso.

    Non era mai stato un mio pregio, quello di amare. Non potevo salvare nessuno. Non ero un eroe invincibile, ma dovevo sempre fingere che stessi bene, anche quando volevo soltanto mollare.

    Quando la persona che ami non accetta la tua forza, il tuo appoggio e il tuo amore… che cosa devi fare? Quella persona ti ha liberato dalle catene che portavi al collo da un’esistenza intera e – per quanto dolorose fossero – sono state proprio quelle catene che ti hanno tenuto in vita per così tanto tempo. Se la persona che ti insegnato ad essere fragile non ti ha mai amato veramente, come puoi ritornare ad essere quello di un tempo?

    Non ero più così forte.

    Ero stanca.

    Stanca di lottare da sola, di cadere e di rialzarmi da sola; stanca di sentirmi felice e il momento dopo peggio di come stavo quando mi sentivo in trappola; stanca di dover reggere il peso altrui e fingere che niente mi facesse male, che niente mi scalfisse, quando in realtà avrei voluto soltanto sentirmi amata e apprezzata dall’uomo della mia vita almeno per un istante – e non allontanata.

    Di nuovo il mio ego era tornato alla carica e mi aveva riso in faccia, gridandomi “Pensavi che saresti durata tanto senza di me?”, ma stavolta non voleva aiutarmi a rialzarmi… voleva lasciarmi lì, a terra, perché anche il più nobile degli eroi può cadere.

    Perché tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo bisogno di essere salvati. Abbiamo bisogno di sentire che quello che facciamo ha un senso, che ha un valore per coloro che amiamo. Abbiamo bisogno di un segno, di una parola buona, di non essere respinti quando siamo pronti a dare anche l’ultimo briciolo di sanità mentale che ci rimane. Abbiamo bisogno di chiedere aiuto e di essere raccolti – e non solo di salvare gli altri – nel momento del bisogno. Abbiamo bisogno di cadere e di sostenerci a vicenda, affinché l’amore non sia soltanto un sentimento unilaterale; abbiamo bisogno di essere rassicurati come noi rassicuriamo coloro a cui vogliamo bene. Abbiamo bisogno di apprezzare chi ci ama nonostante stia soffrendo e cerchi comunque di farci sentire importanti, e di non allontanarci quando qualcuno è pronto a donarci il suo affetto nonostante sia debole e vulnerabile a sua volta. Abbiamo bisogno di sapere che quello che facciamo è importante per chi amiamo.

    Alzai lo sguardo verso il telefono cellulare appoggiato sul comodino destra che fiancheggiava il letto. A piccoli passi lo raggiunsi e digitai un numero che conoscevo ancora a memoria.

    Tutti abbiamo bisogno di essere salvati una volta nella vita.

    Anche la persona più forte di questo mondo.




    1 Frase ispirata a una poesia di Taylor Swift, Why she disappeared.


    Edited by fallagain - 23/4/2020, 21:48
  2. .
    Capitolo Quarantaquattro: L'Incudine


    Un passo, due passi, tre passi.

    Il rumore che si sollevò in aria a causa del contatto tra le mie scarpe col tacco e il ciottolato in sassi sembrava fare più rumore di un cannone da battaglia.

    Mi fermai a qualche metro dall’entrata di villa Jackson, la residenza di Beverly Hills. Anche con gli occhiali da sole quella casa era così bianca che sembrava accecare lo sguardo. Il Sole stava tramontando all’orizzonte e il vento non era freddo come quando me ne ero andata due settimane prima.

    Rafforzai la presa sulla valigia e mi sistemai meglio la borsa sulla spalla destra, sospirando pesantemente. Non sapevo se sentirmi sollevata, emozionata o sul punto di vomitare da un momento all’altro.

    Alla fine ero tornata in Italia per le vacanze di Natale. Partii il 19 dicembre e tornai in America qualche giorno dopo il primo dell’anno. I miei genitori fecero i salti di gioia, letteralmente, soprattutto mio padre. Passai con loro la maggior parte del tempo, facendo visita praticamente ad ogni membro della famiglia di mia madre e quel che rimaneva della famiglia di mio padre (visto che la maggior parte viveva all’estero), ad eccezione di… be’, mia nonna paterna.

    Mi erano state fatte domande, troppe domande, e sugli stessi argomenti di sempre: sul mio lavoro attuale, sulle mie esperienze passate, sulla mia gavetta e sui miei studi, sugli amori della mia vita e su un’ipotetica idea di metter su famiglia. Ovviamente quest’ultimo tipo di domande mi veniva fatto dai parenti serpenti, le tipiche persone che se la godono a mettere il dito nella piaga e farmi passare per una zitella – pur avendo quasi e soltanto trent’anni – perché secondo loro era inconcepibile che non avessi ancora trovato l’amore della mia vita. E quando dicevo loro – apposta – che preferivo morire con uno squadrone di gatti e cani al mio fianco piuttosto che con un uomo e dei bambini, questi impallidivano o mi guardavano con malcontento. Adoravo prendere in giro quei parenti che pensavano che fossi ancora la stessa ragazzina di molti anni fa, incapace di reagire o rispondere con un sorriso sarcastico in volto; soprattutto adoravo vedere l’espressione stizzita di mia madre e quella fiera e orgogliosa di mio padre.

    Una leggera brezza mi scompigliò i capelli e mi maledissi per non essermi fatta una coda alta come al solito. Alcuni ciuffi si posarono sul mio rossetto color rosso mattone e, al ricordo di quanto accaduto due settimane prima, il senso di vomito si fece ancora più forte.

    Mi tremarono le gambe.


    *

    Mi guardai allo specchio e sistemai meglio la linea dell’eyeliner sopra gli occhi da entrambe le parti. Sbattei piano le palpebre allontanandomi e le labbra delinearono un sorrisetto forzato. Vedere il mio riflesso non era più bello come una volta, soprattutto in quel periodo... stavo cominciando a gonfiarmi di nuovo, pur mangiando meno di come facessi di solito... lo potevo notare dalle gambe – fasciate da un paio di jeans scuri –, dalla mia pancetta e dalle braccia, fasciate da uno scollato pullover nero.

    O forse era solo una mia impressione.

    Mi allontanai un po’ dallo specchio, abbastanza da riuscire a vedermi pure i fianchi. Li analizzai accuratamente con occhio critico. Li sfiorai con le mani, mi posi di lato.

    Mi sentivo pesante.

    Con un sospiro soffocato guardai il telefono alla mia destra, sul ripiano accanto all’eyeliner e al rossetto: pochi minuti e sarei partita per l’Italia. Precisamente 9 interminabili minuti. Invece che andare da sola con la mia auto, Michael aveva preferito che uno dei suoi bodyguard mi desse un passaggio fino all’aeroporto.

    Il mio sguardo si rivolse alla figura che aveva davanti a sé.

    Quel giorno ero più triste di quanto lo fossi mai stata.

    Quando credi di essere completa, quando senti di essere felice, ad un certo punto immagini che ci sia qualcosa che può rovinare tutto. Be’, quella era la sensazione che mi tormentava da più di tre giorni: non so se fosse la paura della distanza da Michael e se, invece, fosse un mio castello di carta costruito su paranoie e insicurezze che non riuscivo ad esprimere a voce. Era come se temessi che, andandomene anche solo per due settimane, il sentimento svanisse completamente per entrambi. Eppure la scorsa estate non mi ero mai sentita così insicura.

    Sapevo fin troppo bene come ci si sentiva a ricevere una mazzata non appena arrivati al culmine della felicità, e se una parte di me viveva l’amore così com’era, un’altra invece se ne stava in agguato, con una mazza tra le mani pronta a colpire la tristezza prima che mi potesse abbattere definitivamente. Nessuna relazione passata mi aveva portato a credere che un rapporto umano potesse durare per sempre; prima o poi sarebbe potuto cadermi un pianoforte in testa, o sarei potuta andare a sbattere contro un muro di illusioni. Il fatto che quel pensiero potesse divenire la realtà subito dopo la mia partenza mi dava il voltastomaco.

    La cosa peggiore di quei giorni fu la distanza da Michael. Se provavo a dirgli cosa sentissi dentro, evitava il discorso e la buttava sullo scherzo; mi parlava di qualcosa di divertente o bambinesco, manipolando la conversazione su tutt’altro argomento. Se tentavo di avvicinarmi con la scusa di stare con Michael negli ultimi momenti prima della partenza – durante la notte, l’ora migliore per passare inosservati agli occhi dei curiosi – mi accarezzava il viso con un sorriso apparentemente rincuorante e poi evitava il contatto fisico completamente. Era come se, così facendo, evitasse di pensare a cosa sarebbe successo in quelle settimane di allontanamento… o peggio, era come se volesse tenermi distante. Non riuscivo a capire cosa gli passasse per la testa perché non voleva affrontare quella conversazione, e perciò vivevo nell’insicurezza e nel rancore per quel suo categorico silenzio.

    Vedevo che non stava bene dai suoi occhi... ma stavo cominciando a stancarmi di essere sempre lì a chiedergli se volesse parlarne o meno, se volesse un mio gesto affettuoso o meno, se mi volesse accanto o meno.

    Dalla sera precedente ero muta come un pesce e non mi aveva mai chiesto come stessi. Mi aveva sorriso, aveva parlato del più e del meno, mi aveva chiesto se fossi eccitata per il rimpatrio e l’incontro con la mia famiglia... ma percependo una risposta alquanto fredda da parte mia non aveva domandato altro. Aveva abbassato lo sguardo mostrando una smorfia fintamente serena e poco dopo se ne era andato lasciandomi in compagnia di me stessa, a bere una tisana tremendamente amara nel tentativo di dormire ed evitare una notte insonne e occhiaie violacee.

    Si poteva amare e al contempo sentirsi senza amore nel cuore?

    Ero conscia di cosa stesse passando, di quanto fosse teso e bisognoso di distrazioni, ma non lo giustificavo in tutto e per tutto. Non potevo sempre chiudere un occhio e giustificare le sue azioni e i suoi comportamenti perché stava male, pur rendendomi conto che il suo tipo di sofferenza fosse un fardello pesante da reggere. Reprimevo i miei dubbi e le mie paranoie perché, nonostante tutto, sentivo di amare Michael veramente. Mai avrei usato il processo per attaccarlo e farlo sentire incapace di amare, sarebbe stato crudele.

    Ma anch’io ero umana, fatta di carne, sangue e sentimenti.

    Chiedevo troppo? Era quello l’effetto negativo dell’amore? Quello che ci aveva conquistato mesi prima era solo un’infatuazione destinata a scomparire nel tempo, al primo grande ostacolo sul nostro cammino?

    Nel silenzio di quel bagno avevo versato quella che pensavo sarebbe stata la mia prima e ultima lacrima; mi ripromisi che non mi sarei lasciata sopraffare dal pianto fino alla fine di quel stramaledetto processo.

    Un leggero bussare alla porta mi distrasse dalla donna allo specchio. Questa si aprì quasi a metà.

    «Sei pronta?»

    Michael spuntò da oltre la soglia vestito con un completo molto elegante; pantaloni neri e camicia bianca, quest'ultima appena visibile da sopra una giacca nera, decorata con strani motivi giallo oro proprio sopra le spalle; mi osservò un po’ incuriosito, sorridente, felice. Per un attimo un pensiero orribile mi trapassò il cuore, ossia che fosse felice che mi levassi dai piedi.

    La mia faccia rimase assunse un’aria fintamente tranquilla.

    «Sì, grazie».

    Si bagnò le labbra e si strofinò le mani. «Mike sarà qui a momenti. Gli ho comunicato il giorno e l’ora in cui ritornerai. Ti aspetterà proprio davanti al gate di arrivo», si avvicinò di tre passi.

    Annuii piano e senza osservarlo di rimando rimisi apposto i trucchi nella trousse, ad eccezione del rossetto. Con un cenno del capo allontanai un ciuffo di capelli dalla fronte e mi incamminai al di fuori del bagno, passandogli accanto senza dire una parola, in direzione della grande valigiona nera e della mia borsa. Chiusi la prima tirando la zip e mettendo un codice numerico a mo’ di serratura, per poi sistemare l’astuccio dei trucchi nel mio bagaglio a mano. Con la coda dell’occhio lo vidi immobile, teso e attento alla benché minima espressione sul mio volto.

    Presi il rossetto color rosso mattone e me lo passai velocemente sulle labbra.

    «Dovresti sorridere un po’ di più...», sentenziò usando una voce calmissima. «Tra poco rivedrai i tuoi genitori... non sei contenta?»

    Una fiammella d’ira s’impossessò di me e delle mie corde vocali.

    «No, non sono contenta e tu dovresti sapere il perché», misi il tappo al rossetto e lo fulminai con un’occhiata glaciale. La sua faccia quasi schifata mi fece capire che lo avevo offeso. «Se non mi sento di sorridere non lo faccio».

    Fui un serpente a sonagli e sul momento non mi pentii neanche.

    «Spiegami», si mise le mani nelle tasche. Si bagnò la bocca con evidente nervosismo. «Cos’è che non ti rende più felice come una volta? Io? Stare con me non ti rende più felice?»

    Al contrario di me – notai –, Michael stava dimagrendo un sacco. Soprattutto sulle cosce.

    Infilai il rossetto a casaccio nella borsa. Le labbra disegnarono una smorfia incollerita ma trattenuta. Issai la valigia dal letto e la posi a terra con uno schiocco a dir poco rumoroso, per non prendere la sua testa tra le mani e scuoterla ferocemente. Gli scoccai un'occhiata eloquente.

    «Da quando non stai bene quando siamo nella stessa stanza?», sibilai con parole rotte dal nodo che trattenevo in gola. Michael rimase composto e serio senza muoversi di un millimetro, sguardo impassibile e indecifrabile. «Hai colto tutti i segni e li hai ignorati. Non dirmi di sorridere o di essere felice. Gli unici che mi fanno contenta, qui, sono i tuoi figli»

    Fu come se gli avessi dato uno schiaffone in piena guancia.

    Dopo aver spalancato le palpebre con un misto di orrore e tristezza, scosse la testa storcendo appena il naso. Si guardò intorno, in silenzio, con le nocche delle mani sui fianchi. La mascella serrata si irrigidì e mi fissò un sorrisetto sfrontato stampato in faccia.

    «Se pensi che sia così freddo e anaffettivo, non dovresti più spendere il tuo tempo con me», soffiò velenosamente. Indirizzò una mano verso la porta. «Avanti, vai pure dai miei figli!».

    Emisi uno spasmo di risata sardonico. Lo guardai allibita, sempre più arrabbiata dalla sua reazione sconsiderata. Come se fossi io quella a delirare e lui la vittima della situazione.

    Stavo esagerando? Pretendevo troppo?

    «Ascoltati ogni tanto, Michael, perché sei fuori di testa

    Non mi ascoltò nemmeno. Continuò a parlare a vanvera, senza calcolare chi avesse di fronte.

    «Io non so cosa dirti per farti capire che per me è difficile tutto questo! Lo sai che non è facile, lo sai che mi chiudo in me stesso, ma questo non vuol dire che non ti ami! Pretendi che ti dia attenzioni continue, vero? E tu cosa fai per me, per amarmi incondizionatamente?», mi gridò con palpebre spalancate dall’ira.

    I miei occhi si lucidarono immediatamente.

    Se c’era una cosa che poteva fare per ferirmi, era quella di dirmi che non stessi facendo abbastanza per lui e questo lo sapeva bene. Non aveva il diritto di farmi questo, non quando stavo praticamente mettendo al secondo posto me stessa o i miei bisogni pur di non inciampare mai in litigi futili o che lo appesantissero più di quanto già non fosse.

    Si umettò un’altra volta la bocca e scosse il capo a destra e a sinistra in modo convulso. Cominciò a camminare avanti e indietro sullo stesso punto.

    «Non puoi pretendere che non mi preoccupi dei miei figli o del processo, di quello che sarà il mio futuro e di cosa può accadere a Prince, Paris e Blanket nel caso in cui io non ci sia più!», esclamò gesticolando animatamente, senza guardarmi. «Non puoi pretendere che io non mi arrabbi e mi senta terribilmente affranto da quello che mi sta accadendo! Non puoi! Mi sento una merda, ora sei soddisfatta? Sono una merda perché non do abbastanza amore alla donna che mi sta a fianco!». Mi scoccò un’occhiata furente e devastata. «Non avrei mai dovuto prometterti di amarti per sempre, perché evidentemente è un sogno che non si avvererà mai!»

    Silenzio.

    Glaciale silenzio.

    Esattamente come quello che pervade la notte dopo una tempesta di lampi e fulmini spaventosi; lo stesso che si crea quando il tifone si placa e ogni suono si annulla, portando con sé un vuoto quasi paralizzante. Quel silenzio.

    Non sapevo cosa pensare. Non avevo la forza di parlare, di piangere, di arrabbiarmi, di andare su tutte le furie, di gridare, di stare male. Eccolo, dissi fra me e me, quel pianoforte caduto in testa, finalmente... l’incudine tanto attesa.

    Io non sono forte abbastanza per tenere testa a questo peso...

    Chinai il capo.

    Lo sguardo duro di Michael prese una piega che non riuscii a scorgere a causa di quel velo d’acqua salata davanti alle mie iridi. Lo sentii a malapena fare un passo in avanti mentre qualcuno bussava alla porta della mia camera.

    Silenzio.

    Bussarono di nuovo.

    Afferrai la maniglia della valigia con una mano e borsa e giacchetta con l’altra. Gli diedi la schiena, mi incamminai verso la porta e uscii dalla stanza senza guardarmi indietro. Davanti a me una domestica – una donna di mezza età scura di pelle – abbozzò un sorrisetto imbarazzato e mi comunicò che era l’ora di partire.

    *

    A dire il vero in Italia non era andata affatto bene. Il peggior Natale di sempre.

    Gli unici momenti che salvavo di quella “vacanza” erano stati quelli passati a suonare e cantare a squarciagola con mio padre – mangiando le peggiori schifezze e dolciumi –, fare giardinaggio o cucire in compagnia di mia madre, incontrare i miei zii e cugini preferiti passando i pomeriggi a giocare a carte o altri giochi da tavolo assieme; mi era mancata la mia casa e quell’odore che mi ricordava un’infanzia dal retrogusto dolceamaro, un misto di lavanda e crostata alla marmellata di ciliegie – il piatto preferito di mia madre. Mi era mancata tutta quella natura, le strade desolate, le case tutte attaccate, la vita tranquilla di un paese di gente chiacchierona e curiosa.

    Per il resto, ogni cosa sembrava ricordarmi Michael.

    Più i giorni passavano, più lo sentivo distante. Non fisicamente parlando, ma emotivamente. Non ci chiamavamo, non ci inviavamo messaggi. Percepivo come se l’amore si stesse spegnendo – non da parte mia, da parte sua – e di conseguenza mi ritrovavo nel cuore della notte a guardare il soffitto con il fiato strozzato in gola. Stringevo le mani al petto e mi sentivo sovrastare da un’emozione di terrore puro. Non ero in grado di piangere perché mi sentivo ancora in un limbo, eppure la mia mente era un vero e proprio inferno senza via d’uscita. Ero stremata, paranoica e abbattuta.

    Pensavo e ripensavo al nostro ultimo litigio, quello che non avevo avuto la possibilità di chiarire perché avrei rischiato di non arrivare in aeroporto per tempo… ricordavo le sue ultime parole e quell’ultimo sguardo che mi aveva rivolto.

    Avevo immaginato il mio ritorno e le conseguenze di quel lungo silenzio tra noi, ma in realtà le cose erano decisamente diverse da come avevo fantasticato.

    Di fronte all’enorme villa bianca, conscia di non poter tornare indietro, sentivo solo il desiderio di fuggire a gambe levate da una delusione ancora più forte di quella che già covavo dentro. Mi facevano talmente male il petto e la gola che sembrava che qualcuno mi avesse messo un cappio al collo e stringesse ogni secondo più forte. Desideravo tornare là, in Italia, e lasciare tutto in sospeso. Ciò nonostante, il mio cuore lo aveva pensato notte e giorno e pregava affinché non mi avesse dimenticato sul serio. Desideravo sistemare ogni cosa.

    Non ero ancora pronta a perderlo…

    Era giunto il momento di chiarire.

    *

    Restai ferma sul posto per qualche secondo, fissando il mio pugno sospeso in aria davanti alla sua porta, ed espirai a pieni polmoni. Provai a dire qualcosa a me stessa che riuscisse a scuotermi da quello stato di trans.

    Ero una scema. Un'idiota. Una completa rincoglionita.

    Non avevo neanche aspettato che fosse notte fonda per andare a parlargli. Avevo salutato Prince, Paris e Blanket negando loro la possibilità di giocare con me, con la scusa che fossi stanca per il viaggio e che avessi bisogno di dormire. Avevo lanciato un breve saluto a Grace che non ricambiò neanche e – senza che ci fosse bisogno di chiederlo – Paris aveva proposto di andare ad avvisare papà del mio arrivo. Negai con un’ulteriore scusa, consigliando di non andare a disturbarlo per niente. Dopo essermene andata in camera e aver sistemato borsa e valigia sopra il letto, ero corsa immediatamente fuori dalla stanza in direzione dell’ufficio di Michael.

    Mentre attraversavo il corridoio perfino la nausea sembrava essere scomparsa, non solo la capacità di formulare un pensiero logico e chiaro.

    Non avevo fatto altro che pensare a lui, lo ammetto. Non avevo smesso nemmeno per un secondo, neanche a diecimila chilometri di distanza.

    Niente incertezze, vai da lui – sussurrava l’istinto – parlagli, digli ciò che provi, raccontagli tutto quello che senti come tanti mesi fa, lasciati andare... e magari lo farà anche lui. Non aspettare, cercalo una volta ancora e lascia perdere l’orgoglio.

    Alzai gli occhi al soffitto ed imprecai. «Maledizione...»

    Lo stomaco protestò per quell’illogica decisione.

    Coraggio...

    Non feci tempo a battere la nocca della mano destra sul legno scuro che la porta si aprì da sola. M’irrigidii immediatamente e spalancai le palpebre dallo shock. Divenni di ghiaccio. La bocca s'inaridì come dopo una maratona nel deserto.

    Michael apparve con sguardo basso e distratto da oltre la soglia; non si accorse di me fin quando notò di avere davanti a lui uno stoccafisso. Mi puntò stupito e confuso, sobbalzando appena per lo spavento; tutt’e due avremmo riso di quel suo saltello se entrambi non fossimo stati privi della capacità per parlare.

    Mi esaminò da capo a piedi, focalizzandosi infine sul mio viso contratto dalla tensione. Potei scorgere le sue iridi illuminarsi improvvisamente a causa di uno scintillio di sbalordimento puro; il suo petto si sollevò appena e gli ci volle qualche secondo per potersi riabbassare completamente, segno che stava trattenendo il respiro.

    «Ciao», bisbigliai.

    Rilassò appena le spalle e la sua espressione si fece più conciliante. Sembrava più sereno di come lo avessi lasciato… quasi la stessa persona di quattro mesi prima.

    «Ciao...»

    Ingoiai la saliva. «Possiamo parlare?»

    Michael si umettò le labbra. Con una mano si teneva sullo stipite della porta e con l’altra sulla maniglia. Lo sguardo calò sulle piastrelle bianche sotto di noi ed infine annuii. Mi osservò con un cipiglio così docile e gentile che mi fu difficile credere fosse reale.

    Si scostò dall’uscio e mi fece entrare. Scivolai nel suo ufficio immensamente spazioso e semibuio, disordinato ma pulito come al solito – rischiarato soltanto da una debole lampada a comodino. Quando il suo profumo di sandalo m’invase l’olfatto mi sentii sul punto di piangere. Chiuse a chiave dopo aver controllato che nessuno si fosse accorto della mia presenza in quella camera.

    «Accomodati...»

    Voltai la testa in sua direzione. Affondò le mani nelle tasche di morbidi pantaloni in velluto nero con un’occhiata apparentemente tranquilla. Non indossava abiti formali, quanto piuttosto una camicia a quadri rossa un po’ stropicciata; i suoi capelli erano più spettinati del solito e non aveva un filo di trucco in volto.

    Guardai la scrivania alla mia sinistra e mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

    «No, grazie... dovevo solo dirti due cose...».

    Si avvicinò con camminata impercettibile. I suoi occhi si accesero per quella che definii attesa e preoccupazione assieme. Perlomeno non era irritato all’idea di avermi nella stessa stanza…

    «Dimmi».

    Mi strofinai il naso ed evitai di incrociare il suo sguardo per tutto in tempo che passai in silenzio alla ricerca delle parole giuste da dire. Ero stata troppo impulsiva; prima di andare da lui avrei dovuto pensarci su...

    Qualcosa dentro di me, delicato e fragile come un cristallo, si scagliò a terra e si frantumò in mille pezzi. Da quell’esplosione inaspettata le mie paure si trasformarono in sabbia finissima; questa non esitò, s’infilzò nei miei occhi e si tramutò in lacrime.

    «Hai sbagliato a farmi entrare...».

    «Cosa?»

    Roteai gli occhi verso l’alto sbuffando. Presi un profondo respiro e dondolai nervosa sul posto. Le mani si sistemarono sui fianchi mentre cominciavo a vedere tutto appannato.

    «Ti sei sbagliato, Michael... mi dispiace, davvero... ma hai fatto un errore con me. Non dovevi lasciarmi entrare nella tua vita… io non sono la persona meravigliosa e dolce che hai sempre creduto che fossi. Io sono complicata, sono problematica, appiccicosa, brusca... scema...»

    La voce tremò.

    Incrociai le braccia al petto. Arricciai fronte, labbra e naso per fermare il pianto imminente, ma senza successo; dapprima si elevò in aria in modo impercettibile, poi sempre più rumorosamente e così dovetti mettermi una mano davanti alla bocca.

    Fece un passo in mia direzione ma lo ammonii con una mano di aspettare e, per non farmi vedere fragile, gli diedi le spalle.

    Mi maledetti per quel crollo non programmato.

    Udii Michael venirmi incontro a passo veloce non appena mi vide sprofondare in quel momento di debolezza, ma non mi toccò. La sua vicinanza mi provocava un dolore e una gioia indescrivibile.

    Emisi uno spasmo di risata per niente affatto allegro.

    «I-io... mi sono sentita sola…», un’altra lacrima scese veloce sulla guancia sinistra e la cancellai subito con il dorso di una mano. «Perché mi sento persa... s-senza di te...?»

    Michael mi prese per le spalle e mi guidò con il busto in sua direzione. Obbedii controvoglia e lo vidi corrugare le sopracciglia con una smorfia di dolore; le due immensità che aveva al posto degli occhi luccicarono nella semioscurità di quella stanza e mi abbracciò senza darmi il tempo per contemplarli come volevo. Quei palmi che adoravo sentire sulla pelle nuda avanzarono tremolanti sulla nuca, mi strinsero a sé, posero il mio viso nell’incavo del suo collo. Freneticamente l’altra mano mi agguantò la schiena, salì verso la spalla, scese verso la spina dorsale... le sue labbra mi sfiorarono i capelli con il timore che potessi sfuggirgli dalle dita.

    «Mi dispiace...» bisbigliò a voce rotta. «Sono stato solo anch’io...».

    Cercò le mie gote e asciugò con i suoi baci l’acqua salata che mi incorniciava in viso.

    «Mi... mi sei mancato…», lo dissi ammirando le sue labbra.

    «Shhh...», m’issò il viso con i palmi delle mani. I suoi occhi tristi e passionali assieme mi sorrisero debolmente. «Non torturarti, e smettila di dire stupidaggini...». Mi baciò sulle labbra. «Siamo proprio due imbecilli».

    *

    «Sai, Paris mi ha detto che tua madre ti ha insegnato la coreografia di Proud Mary di Tina Turner». Michael ridacchiò arricciandomi una ciocca di capelli attorno alle dita della sua mano destra. «Lo sai che dovrai farmela vedere prima o poi!», mi ammonì inarcando un sopracciglio.

    «Le avevo detto di non dirtelo...!» pigolai col capo adagiato sul suo braccio, disteso sotto di me.

    Assunsi una smorfia imbronciata e lui sogghignò a bassa voce.

    «Pensa… è stato un caso più unico che raro. Mia madre è sempre stata una donna molto seriosa e posata» borbottai. Giocherellai distrattamente con un bottone della sua camicia da notte rosso scuro e allacciai una gamba alle sue. Sorrisi. «Mio padre è sempre stato il vero pazzo di famiglia. Era il più giocherellone, oltre che il più ingenuo… così ingenuo da far venire l’esaurimento!»

    Lo guardai di sfuggita. Il viso era vagamento illuminato dalla piccola lampadina in ceramica sul mio comodino. Mi fece voltare lentamente a pancia in su e le sue labbra, leggermente curvate in un sorriso sereno, ricercarono le mie. Gli occhi erano carichi di amorevolezza, così luccicanti come non li vedevo da tanto.

    «Dimmi di più» mi sfiorò la guancia con due dita ed io rabbrividii. «Parlami di loro»

    Ammirai il soffitto e strinsi labbra e palpebre in un’espressione pensosa.

    «Mmh… ma sai quasi tutto di me e dei miei, ormai!»

    «Tu non ti preoccupare», ridacchiò tirandomi indietro alcuni capelli sparsi sulla fronte. «Non mi annoia risentire la stessa storia più e più volte»

    «Mmh…», arrossii. «E va bene, allora… io e mio padre abbiamo un rapporto assolutamente amichevole. Ci prendiamo in giro a vicenda e facciamo i bambini ogni qualvolta ne abbiamo l’occasione, facendo arrabbiare mia madre per le nostre risate che lei definisce “poco dignitose”», soffocai uno spasmo di risata. «È matto da legare. Se io sono rimasta sempre molto infantile sotto questo punto di vista lo devo a lui. Ciò nonostante non abbiamo mai parlato di cose propriamente intime: abbiamo un senso di rispetto e privacy reciproci che non ci permette di dirci ogni cosa, soprattutto i nostri sentimenti più profondi. Quando e se mi vedeva piangere – da bambina, intendo – faceva finta di niente: piuttosto che chiedermi come stessi, mi faceva qualche regalo di nascosto e me lo lasciava nei posti più impensabili. Solo in questi ultimi cinque anni si è lasciato andare e cerca di conoscermi meglio… probabilmente è l’effetto della lontananza. Questo Natale era super gioioso ed entusiasta. Ho passato davvero dei bei momenti con lui, tra la musica e le nostre battute idiote.

    Mia madre è sempre la stessa donna elegante e raffinata di quando ero bambina. Parla un sacco, veramente tanto, e se io facessi scena muta per tutto il giorno sono sicura che ventiquattro ore dopo sarebbe ancora lì a parlare a macchinetta! Per quanto austera sia – e per quanto mi sia sempre mancato il suo appoggio e il suo affetto più di quello di chiunque altro – cerca sempre di accontentarmi in ogni cosa. Se ho ancora fame, rinuncia al suo pasto per me; se ho voglia di piantare un ulivo piuttosto che un rosaio, pur borbottando e protestando alla fine ascolta il mio suggerimento. Sono la sua unica figlia. Credo che il problema tra me e lei sia il fatto che ha sempre preteso che io avessi una vita migliore della sua, fatto di rinunce e rimpianti; così facendo mi ha pressato molto e questo ci ha portato a litigare tre volte su quattro, quando stavamo assieme…». Sbuffai. «Ma la mamma è una soltanto, dopotutto…»

    Mi scossi e scrutai distrattamente il collo di Michael. Con un dito passai sulla sua giugulare, prima su e poi giù, prima a destra e poi a sinistra, per finire con una leggera carezza del mento.

    Fu Michael a tremare, allora.

    «Soltanto quando peccavo di immaturità o irritabilità diventavano un padre e una madre molto severi. Al contrario, io diventavo ribelle quando mi veniva imposto di fare una cosa che non volevo fare assolutamente… o quando mi si trattava come un’irresponsabile cronica, senza neanche avermi dato la possibilità di provare. Mi hanno sempre tappato un po’ le ali e la voce, fino a quando non sono venuta qui. Per quanto mi siano mancati e mi manchino ancora, non tornerei indietro: verrei in America anche se dovessi tornare indietro nel tempo mille altre volte».

    «Ti hanno cresciuto bene. Sei una donna con la testa sulle spalle e determinata. Sei coraggiosa e ambiziosa. Sono stati severi ma senza toglierti l’innocenza», sorrise. In seguito mi rivolse un’occhiata a mo’ di leggero rimprovero; mi pizzicò il naso con il pollice e il medio. «Tu, poi, hai un carattere indomabile... io che sono padre capisco cosa significhi avere dei figli monelli...»

    Misi il broncio ancora di più ma sorrisi impercettibilmente. Mi sentii attraversare da una piacevole e stranissima sensazione che non seppi definire; lui era un padre, un meraviglioso padre, ed io avevo quasi vent’anni meno di lui... non che l’età importasse granché, ma qualche volta mi capitava di rifletterci sopra. E l’immagine di Michael, papà amorevole e uomo di quarantasei anni, me lo faceva amare ancora di più.

    Gli scoccai una finta occhiataccia.

    «Be’, non mi è mai piaciuto che – quando volevano avere ragione a tutti i costi o volevano prevaricare sulle mie scelte – io dovessi rimanere zitta e dire di sì ad ogni cosa!», mi tirai su a sedere. Michael strinse la bocca in un sorriso sbarazzino e istigatore. «Proprio non sopporto queste cose!»

    «Non ti scaldare» mi portò i capelli dietro le spalle. Dire che avesse una faccia da schiaffi era dire poco. «Nessuno ti dice che hai sbagliato... io ero come te...»

    Roteai gli occhi in alto. «Oh, grazie al cielo!»

    «Però rispetto i miei genitori... e anche tu fai lo stesso» si corresse vedendo il cambio d’espressione sul mio volto. «Vorrei che al mondo ci fossero più famiglie come la vostra...»

    Si incupì momentaneamente.

    Fin da quando era giovane, Michael si era sempre occupato e preoccupato di importanti temi sociali, anche grazie ad una fama di livello internazionale che poteva aiutarlo ad ispirare e far ragionare le masse. Invitava i fan che lo seguivano ad essere una famiglia unita, ad amare i propri genitori e i propri figli, a curarsi delle generazioni future senza far mancar loro un posto sicuro e amorevole dove crescere. Una volta mi parlò di un discorso fatto ad Oxford e per curiosità, quando lui ovviamente non poteva scoprirmi, ero andata a cercarlo su Internet. Quel poco che avevo trovato allora era stato sufficiente a farmi venire le lacrime agli occhi. Il suo amore per i bambini, per il pianeta e per il futuro del genere umano – così come la dedizione che traspariva dalla sua voce rotta dalla commozione – lo rendevano uno degli umanitari più importanti di questi ultimi decenni.

    Qualche volta mi chiedevo se il mio desiderio di aiutare gli altri fosse una pallida imitazione del suo stesso obiettivo esistenziale. Non capivo se sentissi veramente quel fuoco nel petto o se fosse solo un tentativo inutile di emularlo.

    Michael pensava che fossi una persona buona ed altruista, me lo diceva sempre. Perché io non riuscivo a vedere me stessa attraverso i suoi occhi? Perché non riuscivo a credere che – prima che fosse divenuto parte della mia vita – io fossi stata una bella persona?

    Mi sbagliavo. Io lo ero, ero una bella persona ancora prima che lo incontrassi. Michael mi aveva soltanto migliorato, aveva aperto porte che un tempo avevo tenuto spalancate e poi avevo sigillato con una miriade di lucchetti. Lui era riuscito a farmi ricredere su tantissime cose, mi aveva aperto gli occhi su questioni a cui non avevo mai riflettuto, aveva permesso a quel piccolo focolare nel cuore di riaccendersi, invece che lasciarlo perire nell’oscurità e nel gelo di un inverno senza fine apparente. Forse il nostro amore sarebbe finito presto e le nostre strade si sarebbero interrotte per sempre, o magari qualcosa sarebbe andato per il verso giusto e le nostre questioni irrisolte si sarebbero chiarite col tempo... ma, nel bene o nel male, Michael mi aveva aiutato a tirare fuori il meglio di me e rivelare la vera me stessa, portandomi a lavorare su quegli aspetti di me per cui era necessario fare un cambiamento. Se fossimo stati insieme per sempre o ci fossimo separati nel giro di una settimana, non avrei mai potuto negare l’enorme impatto che aveva avuto sulla mia vita e sulla mia persona. Aveva risvegliato una parte di me completamente sepolta da anni: mi aiutava ad essere una donna migliore, giorno dopo giorno, lasciando andare il vecchio e facendo entrare il nuovo.

    Il suo complimento a me e alla mia famiglia riuscì a darmi un po’ orgoglio e soddisfazione, ma non completamente. Mi fece riflettere molto; non potevo negare che fossimo una bella famiglia, ma...

    «Grazie» accennai un sorrisetto e lo baciai sull’estremità sinistra delle labbra. Michael si risvegliò dal suo stato meditabondo e mi esaminò con sguardo apprensivo. «Da una parte vorrei anch’io che molte famiglie fossero come la mia, da un’altra parte no... non c’è mai stata una vera e propria pace e serenità tra noi, e credo sia normale... nessuna famiglia è perfetta...» Appoggiai la fronte sul suo petto una volta che ci fummo ridistesi sul letto. «A volte mi domando se sia giusto così...», bisbigliai.

    Michael stette in silenzio e io pure.

    Chiusi gli occhi. Il suo battito cardiaco era uno dei suoni più belli che avessi mai udito al mondo.

    «Che cosa intendi con “A volte mi domando se sia giusto così”?»

    Sospirai impercettibilmente. Feci scivolare le mani sotto il viso e in seguito vi poggiai sopra il mento, così avrei potuto guardarlo negli occhi.

    «Quando i miei litigavano ferocemente speravo che potessero divorziare», mormorai. «Piuttosto che vederli star male, desideravo vederli felici con altri. Ci sono stati anni terribili, momenti in cui speravo di poter scappare di casa».

    Michael inclinò il capo da una parte e lo sguardo si fece rammaricato ma comprensivo.

    «Le loro sfuriate e le loro urla, i loro insulti e i loro silenzi mi hanno aiutato molto... mi hanno portato a cercare l’amore vero… non solo con la A maiuscola, ma con tutte le lettere maiuscole!» inarcai la fronte ammirando distrattamente il cuscino vuoto in parte a lui. «Ho sempre creduto che andassero d’accordo soltanto perché non potevano fare altro. Me lo dimostrano ogni anno che passa: quando ritorno in Italia e sto con loro, percepisco che non stanno insieme per amore, ma per semplice istinto di sopravvivenza. Io non voglio questo per me. Per loro, per i parenti e per tutto il paese separarsi è quasi una vergogna, ma io non la vedo così... si sta parlando della felicità e della pace di due persone, non di un gioco. Se due esseri umani non riescono più ad amarsi e andare d’accordo - e ogni scusa è buona per trovare ciò che non va l’uno dell’altro, non importa quanti anni si prova a sistemare i casini e le situazioni irrisolte – che senso ha continuare?

    Non penso che vadano più d’accordo da prima ancora che partissi per l’America… pff, litigavano sei giorni su sette. Dai miei quattordici anni in su non ricordo un periodo in cui riuscissero ad essere felici e godere l’uno della compagnia dell’altro per più di tre giorni consecutivi. Probabilmente anche per questo mia madre sperava che non me ne andassi dall’Italia. Perché senza di me non avrebbe più avuto una ragione per tenere duro, per cercare di non litigare continuamente con mio padre… mi chiedo se non sia stata io l’egoista a voler partire, a volte…»

    Michael sorrise con gli occhi lucidi. Mi afferrò la mano e strofinò i suoi polpastrelli sul dorso.

    «Loro hanno fatto una scelta e tu ne hai fatta un’altra. Non darti colpe. Non sei responsabile per le vite e le decisioni altrui. Le cose possono cambiare se due persone lo vogliono veramente... ma devono essere in due, Sarah. Se i tuoi genitori vogliono rimanere così, è perché pensano che sia il meglio per loro… e anche per te»

    Abbassai lo sguardo e respirai a fondo.

    «A che cosa stai pensando?»

    Gli occhi saettarono in direzione dei suoi, spaesati. «Uhm?»

    Sollevò entrambe le sopracciglia. «Ti conosco. Quando fai quella faccia c’è qualcosa che ti tormenta...», sussurrò con una voce in grado di farmi venire i brividi ogni dove. Sorrise. «Avanti, a cosa pensi?»

    «Penso a quello che mi hai appena detto...», con un rapido gesto di dita slacciai il primo bottone della sua camicia da notte.

    Fui ipnotizzata dal movimento del suo torace che si alzava e si abbassava seguendo una melodia inesistente. Resistetti all’istinto di sbottonargli tutta la maglia e dopo un altro lungo silenzio alzai lo sguardo. La sua espressione era quella di poco prima, solo più scettica.

    «... davvero!», esclamai a palpebre spalancate e un sorriso imbarazzato.

    Bugiarda! Bugiarda! Bugiarda! Una fastidiosa cornacchia strepitò nella mia testa. La scacciai con invisibili manate in aria e questa prese il volo, offesa.

    Michael si accigliò e osservò il soffitto. «Farò finta di crederti».

    «Credimi...», gli posi una mano sul busto.

    Un tocco soltanto e le iridi di uno sfrecciarono alla ricerca di quelle dell’altro. Senza smettere di fissarlo, con uno sguardo appannato di desiderio e un sorriso sbarazzino in viso, mi allungai verso il suo collo e gli detti un bacio caldo e affettuoso nell’incavo tra guancia e spalla, lasciandogli un debole schiocco.

    Michael non rispose se non con un veloce umettarsi di labbra. Mi fissò con iridi offuscate tanto quanto le mie e allora gliene diedi un altro... un altro ancora... piegando la testa e respirando pesantemente.

    Ricambiò quando non riuscì più a resistere alla tentazione, abbassando le palpebre, inspirando a pieni polmoni, e avvertii i suoi palmi di mano cercare il mio fondoschiena un po’ rialzato dal materasso. Lo pizzicò teneramente ed io soffocai una risata imbarazzata, frattanto che la lingua s’insinuava all’interno della mia bocca e le dita scivolavano in basso, sulla sua camicia, per sbottonarla completamente. Egli mi strinse sulle natiche febbrilmente, accarezzandomi con pressioni forti e passionali, ed un gemito fuoriuscì dalla gola di entrambi. Quando mi posi sopra di lui, a cavalcioni, il cuore scalpitava sulle tempie e nella mia intimità.

    Soffiò il mio nome con un sussurro d'approvazione.

    Arrivai a slacciargli quasi tutta la giacca del pigiama, fermandomi sull’ombelico dove il suo stomaco era vigorosamente contratto. Appoggiai il ventre sulla sua protuberanza già emozionata al di sotto dei pantaloni. Esalò un respiro di lascivia, facendo cadere la testa all’indietro e chiudendo le palpebre per un millesimo di secondo.

    «Ti guardavo oggi... mentre giocavi a carte... con Prince...», gemette sentendo le mie dita infilarsi sotto i suoi pantaloni elastici.

    Emisi un distratto “Sì” di risposta.

    «Ad un certo punto ti sei chinata... ti è caduta una carta...», farfugliò.

    Sorrisi.

    Non appena sfiorai il suo membro mi afferrò le natiche e le strinse a sé con ancora più forza di prima. Scontrandomi con la sua fierezza incespicai in un piagnucolio di impazienza, inarcando la schiena di riflesso.

    Mi aiutò ad abbassargli pantaloni e mutande sollevando appena il bacino dal materasso. Io, per fortuna, ero già con gli slip e basta. Ci osservammo intensamente. Il mio seno sporse dalla camicia da notte. Accostai percettibilmente il mio sesso al suo.

    «Ero troppo scollata...?», bisbigliai con premurosità furbesca.

    Sollevò un sopracciglio e un angolo della bocca. «Oh, se lo eri...»

    Mi morsi un labbro.

    «E ti è piaciuto...?»

    Sorrise.

    «Da matti»

    Se fossi ingrassata di qualche chilo o se fossi asciutta come l’estate passata, non c’era problema: mi mangiava con gli occhi in ogni caso.

    «When I get this feeling...» canticchiai ironicamente. «I need sexual healing...»

    Rise a voce roca e sguardo acceso di lussuria, arrossendo a malapena. «It’s something that’s good for me...»

    Arricciai le labbra con divertimento. Mi tolsi la camicia da notte rimanendo in canottiera. I suoi polpastrelli vagarono veloci in direzione del mio seno, superando l’ostacolo imposto dal reggiseno e dalla canotta. Il calore delle sue dita che si posava sulla mia pelle mi regalò brividi di freddo e di eccitazione, nonostante la sua temperatura corporea fosse tutto fuorché tiepida.

    Abbassai le spalline del reggiseno, lo sganciai e lo sfilai da sotto la canotta; chinandomi su di lui, ventre contro ventre, gemetti. Per quante parole volessi enunciare non riuscii a dirne neppure una che esprimesse come mi sentissi per davvero.

    Puntai la fronte nel punto dove si trovava il suo cuore.

    «Pensi che potrebbero sentirci...?», fremetti.

    Michael prese una gran dose di ossigeno e mi massaggiò teneramente le cosce.

    «Se ti controlli, anche no...»

    Alzai la testa per guardarlo a bocca aperta.

    Michael mi puntò divertito, compiaciuto ma visibilmente scombussolato. Per quella sua frase premetti ancora di più il ventre contro il suo. Entrambi ci sentimmo mancare il fiato dai polmoni ma mantenemmo il contatto visivo.

    «Ti ricordo che non lo sono l’unica che prega quando facciamo queste cose...», gli feci la linguaccia e ridussi gli occhi in due fessure.

    «Shhh...», mi prese le guance tra le dita della mano destra. Mi avvicinò a sé e mi baciò intensamente. «È troppo tardi per tornare indietro, adesso...»

    Mugugnai contrariata, ma non protestai. Con un dito scostai le mutandine da un lato e lo lasciai entrare in me. Un gemito piuttosto acuto venne bloccato dalla mano di Michael sulla mia bocca; il pollice e l’indice dello stesso arto scivolarono tra le mie labbra e li lambii emettendo gemiti più soffusi ed eccitati; dopodiché scivolammo – dapprima lentamente, in seguito rapidamente – nell’ennesima e deliziosa caduta senza fine.
  3. .
    Capitolo Quarantatre: La Lama A Doppio Taglio


    «Prince, mi passeresti la scatola vuota della panna?»

    Il bimbo, comodamente seduto su uno sgabello, mi annuì e si allungò verso l’oggetto richiesto. Me lo porse con un sorriso furbesco. Paris, nel frattempo, dopo aver frullato le more e i mirtilli assieme al succo di limone, zucchero e panna, si apprestava a ripulire il tutto come una vera donnina di casa; teneva la punta della lingua stretta tra i denti appena scoperti, gesto che faceva inconsciamente quando era molto devota al lavoro che stava compiendo.

    «Grazieee».

    Dopo aver buttato la scatola nella spazzatura iniziai a riempire una bacinella con l’acqua e il detersivo per i piatti. Nel frattempo indossai i guanti da cucina ed estrassi dal forno il vassoio con tutti i muffin al cioccolato appena cotti. Prince poggiò le ginocchia sullo sgabello e si sporse in avanti, in mia direzione, incuriosito e goloso. Non appena cominciai a sistemare tutti i muffin a cerchio su un enorme piatto azzurrino, adocchiai Prince e Paris con divertimento. Entrambi erano rigidi e fissavano i dolcetti senza battere ciglio.

    Trattenni un sorriso. «Volete assaggiarne uno con me?»

    Sorrisero sornioni e i loro sguardi si illuminarono come se avessero visto il Sole.

    Presi un muffin intiepidito e ci soffiai sopra. Con delicatezza lo divisi in quattro pezzi aiutandomi con un coltello. Per fortuna – prima di estrarre il vassoio dal forno – avevo lasciato raffreddare i dolci quanto bastava per non scottarmi le dita o la lingua. Sapevo che mi avrebbero chiesto un assaggio, ero stata perspicace.

    Sia Prince che Paris presero il loro pezzettino di muffin tra le dita e se lo portarono alla bocca. Prince arricciò il naso con evidente allegria e soddisfazione, mentre Paris sembrò sciogliersi sul posto assieme al boccone appena gustato.

    Avevamo fatto il disastro in quella cucina. Farina ovunque, residui di gusci d’uovo sul tavolo, zucchero sparso e posate sporche come non mai. I nostri grembiuli da cucina erano inguardabili. Avevamo appena finito di montare la panna (rigorosamente viola) per ultimare la decorazione dei muffin e mi stavano aiutato a ripulire per quanto possibile.

    Mancava un giorno ad Halloween e i bambini erano entusiasti. Era da una settimana che io, Prince e Paris pensavamo al tipo di torta da fare per quella festività: alla fine avevamo optato per semplici muffin ricoperti di panna montata viola (colore ottenuto frullando le more e i mirtilli al resto). Una volta che la panna si sarebbe un po’ raffreddata, ci avremmo fatto qualche piccola decorazione sopra a mo’ di ragnatela (anzi, l’avrebbero fatta loro).

    Blanket sbattè le mani sul suo seggiolone per protesta. Mugugnò delle frasette confuse e irritate. Con un mezzo sorriso mi diressi verso di lui, lo sollevai e lo tenni in braccio. Le sue labbra e le sue sopracciglia corrugate si distesero immediatamente non appena gli diedi il piccolo pezzo di muffin che avevo tagliato per lui.

    «Pensi che a papà piacerà, zia Sarah?», Paris osservò la panna montata viola con labbra increspate dal dubbio e dalla trepidazione.

    Nascosi un’espressione di cinico sarcasmo.

    «Assolutamente».

    Non parlavo con Michael da una settimana. L’ultima volta che ci avevo parlato mi aveva guardato freddamente, tenendo il suo telefono portatile stretto in una mano, e mi aveva liquidato davanti alla porta del suo ufficio con una bugia da quattro soldi. Ci ero rimasta male, avevo sperato che lui volesse parlare con me e sistemare il silenzio tra noi, ma mi aveva trattato come se si potesse permettere ogni cosa. Come se potesse prendermi per il culo e sperare che io non avrei fatto una piega soltanto perché lui era Michael Jackson. Sottovalutava la mia ira e sopravvalutava la mia tolleranza.

    Non ero disposta ad avere a che fare con un uomo a cui piaceva fare i giochi del silenzio. Perciò, dalla mattina a seguire, avevo smesso di rivolgergli la parola. Lo evitavo a colazione, pranzo e cena. Appena finite le lezioni sgattaiolavo in camera o al di fuori dei cancelli di Beverly Hills (quando e se potevo farlo senza creare disordini). La sera mi mettevo a leggere o a scrivere in camera mia e chiudevo la porta a chiave, accompagnata dalla musica nelle cuffiette che tenevo spasmodicamente nelle orecchie come scusa per non sentire bussar di porta.

    Dopo quattro giorni passati ad evitarlo come la peste, impedendomi di incrociarlo anche per sbaglio, cercava di presentarsi a me durante gli orari più impensabili: interrompeva le lezioni, arrivando dieci minuti prima che terminassero, oppure veniva in cucina quando mangiavo in anticipo o in ritardo rispetto alla famiglia Jackson; in quei casi fingevo di essere piena e portavo i miei avanzi in cucina – pur patendo la fame. Michael non cercava di trattenermi; faceva un passo in mia direzione, spalancava la bocca per dire qualcosa e si ammutoliva subito dopo. Oppure si leccava il labbro inferiore e rimaneva fermo immobile dov’era come uno stoccafisso, mentre io gli passavo in parte di corsa.

    Non mi serviva parlare per far capire quando fossi arrabbiata.

    «Avanti, bambini!», cercai l’entusiasmo momentaneamente perso. «Mettiamo la panna in frigo e lasciamo che i muffin si raffreddino ancora un po’. Altrimenti si scioglierà tutto, se decoriamo i muffin ora. E intanto finiamo di ripulire la cucina da tutto questo caos».

    Prince e Paris annuirono. Scattarono subito sull’attenti e sotto le mie indicazioni mi aiutarono a sistemare il tutto – cosa che mi fu difficile fare da sola, con Blanket su tutto il peso di un braccio; in ogni caso sapevo che Michael voleva che i suoi figli fossero il più autosufficienti e responsabili possibili; se non avessero fatto niente di niente avrebbe avuto la scusa per riprendermi e dirmi di non viziarli. Preferivo evitare di parlarci.

    Non soffrivo perché non voleva parlarmi dei suoi problemi, potevo capire che volesse un po’ di privacy e tempo per gestire i suoi sentimenti. Soffrivo perché mi evitava come se fossi la causa del suo malessere; ad un certo punto rischiavo di credere che lo fossi veramente e sapevo che non me lo meritavo. Mi ignorava e mi guardava con freddezza, come se parlare con me lo mettesse di fronte a un altro probabile litigio. Ma quello nervoso in quel periodo era lui; forse sbagliavo a fargli troppe domande, a interessarmi troppo al suo stato d’animo e sul perché stesse così, ma lo amavo e mi preoccupavo per lui. Michael era arrabbiato con il mondo – con i suoi manager, con uomini d’affari di cui preferiva non parlarmi per non coinvolgermi in cose troppo pesanti e ingestibili. Era arrabbiato perché i giorni passavano troppo velocemente e si avvicinava il processo. Era frustrato.

    Ma io non meritavo quel comportamento.

    Non avevo fatto niente per essere trattata in quel modo.

    Ero la sua donna – la sua migliore amica e la sua spalla – o un oggettino da tenere sul soprammobile delle mille e mille persone che fingevano di essere veramente sue amiche?

    «Finito!», esclamò Paris sollevando le braccia in aria e guardandomi con aria trionfante. «Adesso cosa ci manca, zia?».

    «Lasciate fare a me», sorrisi candidamente. «Lavo i piatti e do una pulita per terra mentre voi andate a giocare. Avete praticamente pulito tutto. Prendete vostro fratello Blanket e andate a divertirvi senza problemi».

    «Ma ci divertiamo tanto con te…», mormorò Prince mentre afferrava il fratellino minore e, con un sospiro di fatica, se lo teneva stretto in braccio. «Ti possiamo aspettare per continuare a giocare».

    Mi scioglievano il cuore. Letteralmente. Erano la mia gioia in tutto quel silenzio. Mi volevano bene e mi trattavano come una loro eguale. Erano educati, erano rispettosi, ma soprattutto erano amorevoli in maniera incondizionata. Stare con loro mi faceva capire che non stavo sbagliando proprio tutto nella mia vita. E posso dire con certezza che non fossi molto serena in quel periodo, né con me stessa né con la persona a cui tenevo di più al mondo… forse l’unica a cui avevo tenuto così tanto… una vera e propria lama a doppio taglio.

    Mi ero già messa i guanti e lavato qualche posata quando udii dei passi leggeri dietro di me. Riconoscevo il rumore delle scarpe a contatto con il parquet in legno chiaro: un suono decisamente basso, ma fioco come pioggia sul terreno.

    Per un secondo smisi di strofinare un bicchiere e le spalle mi si irrigidirono. Poco dopo ritornai al mio lavoro cercando di essere impenetrabile… cosa assai difficile. Dentro di me il cuore scalpitava come un ossesso. Di nuovo la tensione ribollì nel mio cervello mandando in pappa qualsiasi possibilità di formulare una frase di senso compiuto.

    Un passo, un altro passo, un terzo e un quarto.

    Pausa.

    Impazienza.

    Di nuovo un passo e un altro ancora, fino a quando non lo percepii dietro di me. Una vibrazione costante, più calorosa del solito. Mi strinse lo stomaco in una morsa terribile.

    «Possiamo parlare?».

    Risentire quella voce bassa e candida mi fece venire i brividi dietro la nuca. Per quanto lo odiassi, era innegabile che mi mancasse e che tutto quel silenzio mi pesasse nel cuore più di quanto volessi dar a vedere. Stargli lontano nonostante tutta quella vicinanza era più difficile che con qualsiasi altra persona sulla faccia della terra.

    Non mi voltai, ma feci spallucce.

    Avrei detto qualcosa molto volentieri, ma la voce si era annodata in gola e non voleva proprio saperne di liberarsi.

    Michael sospirò appena. Un altro passo e mi fu accanto, alla mia sinistra, con il petto che sbatteva contro la mia spalla.

    Trattenni il respiro.

    Aveva un profumo molto più intenso del solito. Sempre il solito, ma decisamente più pungente.

    Rimanemmo così senza dire una parola per un tempo indefinito. Io continuavo a lavare i piatti come un automa e Michael mi fissava senza mollare la presa. Anche se qualche volta mi scivolava un cucchiaio o un pentolino dalle mani, lo recuperavo senza mostrare un risolino divertito a causa del mio imbarazzo. Ciò nonostante, le mie guance erano calde e leggermente colorate di porpora.

    Michael mi afferrò un ciuffo di capelli e me lo pose dietro l’orecchio con delicatezza quasi impalpabile. Mi bloccai un’ennesima volta, con una forchetta e una spazzolina tra le mani, ingoiando il respiro.

    «Mi dispiace».

    Lo guardai.

    Sembrava che non avessi visto il suo viso da mesi.

    La prima cosa che mi saltò all’occhio fu il completo che indossava: smoking scuro con una camicia viola sotto. Gli occhiali da sole erano appesi a un taschino della giacca nero opaco. Le fossette sulle guance erano più marcate del solito. Non indossava un trucco pesante, solo un sottile velo di fondotinta. Le labbra erano strette in un’espressione tesa. Gli occhi, grandi e scuri, avevano la stessa profondità di come quando li avevo lasciati prima del nostro momentaneo distacco: osservatori, intensi, così pieni di sentimenti che sembravano scavare all’interno dei miei con una forza indomabile. Le sopracciglia erano un po’ aggrottate, i capelli più ordinati del solito.

    Era così bello che non credevo fossi in grado di fingere indifferenza.

    Inspirò schiudendo appena la bocca, con occhi improvvisamente scintillanti.

    Per un attimo mi si bagnarono le iridi e dovetti concentrarmi sui piatti da lavare per non lasciarmi andare o cedere alle emozioni. Inghiottii la saliva e mi bagnai le labbra, continuando a strofinare piatto dopo piatto, posata dopo posata.

    «Non volevo farti star male».

    Inarcai appena un sopracciglio.

    «Perché non mi hai più cercato?», domandai a voce bassa e tremante.

    «Perché sono un idiota», proruppe sinceramente. Lo scrutai con leggera sorpresa. Teneva lo sguardo basso sulle mie mani. Gli occhi erano vuoti. «E perché non sto affatto bene».

    Appoggiai piatti e spazzolina nella bacinella di acqua calda e detersivo. Mi tolsi i guanti uno alla volta mentre lo fissavo senza dire una parola. Michael mi lanciò uno sguardo di sottecchi.

    Mi asciugai le mani con uno straccio poco lontano.

    «Anche se mi chiedi scusa sono ancora arrabbiata con te. Mi hai trattato freddamente, e mi hai ignorato senza darmi una ragione. Ti sei scaldato con me per una semplice domanda che ti ho fatto riguardo a come stavi, solo perché ero preoccupata per te. Mi hai tenuta lontano con la falsa promessa di sistemare le cose», dissi straordinariamente seria e pacata. Lo percepii puntarmi per tutto il tempo in cui parlai. «Posso capirti se hai dei momenti in cui non vuoi parlarmi dei tuoi problemi. Se qualche volta non vuoi rendermi partecipe della tua vita, è ok. Va bene così. Ognuno ha i suoi tempi e il bisogno di gestire le sue cose autonomamente. Ma mi hai fatto pensare che fosse tutta colpa mia e del mio preoccuparmi per te – e sappi che lo farò sempre. Ci terrò sempre così tanto a te da sembrare insistente, è inevitabile».

    Appoggiai lo straccio sul bancone in legno e ritornai al lavabo. Mi tenni ad esso con una mano.

    «Non ti voglio sforzare a parlare sempre», mi bagnai il labbro inferiore e Michael, di riflesso, fece lo stesso, abbassando gli occhi e massaggiandosi il collo con una mano. «Quando vuoi sai dove trovarmi».

    «Lo so», chiuse le palpebre e si passò la mano sulla faccia, stropicciandosi gli occhi con pollice e indice. «Il processo si avvicina e c’è sempre un problema nuovo nella mia vita. Non voglio scusarmi, so di essermi comportato male… quello che voglio dire è che tu non sei la causa dei miei malumori… è tutto il resto che sta andando a puttane».

    Trattenni un sorriso quando lo sentii imprecare. Lo trovavo molto sexy quando lo faceva, ma anche buffo; da parte di un uomo pacato ed educato come lui non ci si aspettava mai un certo tipo di parole. Conoscere anche quel lato di Michael mi faceva sentire la donna più fortunata al mondo.

    Non sono le apparenze che ci fanno capire di amare una persona. Sono tutte le piccole cose che conosciamo solo noi, l’uno dell’altro, e che nessuno vedrà mai. Questo rende un amore veramente unico e speciale a modo suo.

    Michael appoggiò la schiena al lavabo, tenendosi con entrambe le mani ad esso. Il suo sguardo era quello di una persona stanca, esaurita, stressata. Guardò dinanzi a sé mentre continuava a parlare.

    «Mi dispiace veramente se ti ho fatto pensare che fossi arrabbiato anche con te. Sono frustrato sotto ogni punto di vista. Sono stato veramente un coglione. Comincio a vedere sempre più nero… sempre e sempre più nero. Ho come una morsa che mi prende qui». Si afferrò la camicia, in direzione del cuore. Mi guardò con una sofferenza che cercava invano di trattenere. «Ma se adesso sono così, come farò tra due o tre mesi?».

    La voce diveniva man mano sempre più bassa e tremante. Gli si irrigidirono le mascelle.

    Per un attimo mandai a quel paese la rabbia dei giorni scorsi. Non avrei sbollito così facilmente, ma cercai di essere comprensiva. Il che non mi venne poi così difficile.

    «Non puoi essere Superman ogni giorno e ogni momento della tua vita», gli appoggiai una mano sulla spalla. Inclinò il viso in mia direzione e mi ammirò con due occhi improvvisamente gentili. «Ricordati che sei amato e che ci sono persone che tengono a te. Non permettere al tuo dolore di annullarti. Quando sei frustrato, ricerca la serenità stando con chi ami. Anche se non vuoi parlare dei tuoi sentimenti, dovresti – ».

    Sorrise candidamente e mi accarezzò le labbra con due dita, impedendomi di continuare oltre. I suoi occhi scuri e intelligenti lasciarono trasparire uno sfavillio a me noto.

    «Ho capito», mormorò con dolcezza. Michael incastrò il viso nell'incavo del mio collo e vi pose le labbra. Sapeva esattamente come farmi delirare. Permisi alla testa di piegarsi verso destra ed espirai forte. «E tu sei una delle persone più meravigliose che conosco».

    Ingoiai il fiato.

    Non ebbi il coraggio di parlare, e non ne ebbi nemmeno la voglia.

    «Mi sei mancata...»

    Col naso tracciò linee e curve che avanzarono fino alle scapole. Il respiro batteva contro la pelle e potevo percepirlo inspirare a fondo e buttare fuori il fiato quasi mugolando. Le dita della sua mano sinistra scivolarono lungo le mie, appoggiate al lavabo, e accarezzarono la pelle con leggere pressioni. Mi diede un bacio sul collo.

    E poi l’imprevisto.

    Mentre contemplavo la dolcezza di quel contatto e i brividi serpeggiavano dalle cosce alla nuca, unì quattro dita assieme e mi schizzò una grande manciata d’acqua verso il mio viso e il mio petto. Strinsi gli occhi e cercai di fare qualche passo indietro, ma fu troppo tardi.

    Michael indietreggiò prontamente prima che i getti bagnassero anche lui.

    «Caz... zo!», sbottai.

    Si spanciò dalle risate.

    Con le palpebre ancora serrate mi accigliai. Mi passai lo straccio usato poco prima lungo le braccia, nei punti bagnati d’acqua, assumendo una smorfia scioccata e fintamente divertita. Aprii gli occhi e lo linciai con un’occhiata dura che Michael ignorò; rimase adagiato al bancone di legno osservando la mia espressione con pazza gioia.

    «Maledetto bugiardo!», sibilai con un sorriso indefinibile.

    Immersi le dita nell’acqua e tentai di schizzarlo.

    Si riparò col braccio sinistro senza smettere di sogghignare, indietreggiando bruscamente, alzando la voce ad ogni spasmo di risata che emetteva ogni qualvolta cercassi di lavarlo. Alla terza volta, comprendendo che non sarei riuscita a ottenere ciò che volevo con quelle misere spruzzate, presi una grande manciata d’acqua unendo le mani a coppa e avvicinandomi di corsa gliela buttai da sotto in pieno viso.

    Michael fece un gran balzo all’indietro e si portò le mani sulla faccia, inspirando a pieni polmoni per la sorpresa. Lo avevo praticamente inzuppato; anche alcune ciocche di capelli e i lembi del colletto della camicia erano bagnati.

    «Oh, no...», mormorò cupamente, cercando di asciugarsi sulla manica dello smoking. Quando i suoi occhi mi puntarono erano malvagiamente divertiti. «Adesso lo sai che mi vendicherò, vero?»

    «No...», sorrisi inquieta ed elettrizzata assieme.

    I piedi si mossero nell’assurdo tentativo di fuggire prima che mi inseguisse. Michael fu scaltro come una gazzella, con soli due passi fu vicino al lavandino e, trovato un bicchiere dentro la vasca colma d’acqua, mirò alla mia schiena. Quando percepii il caldo liquido sulla spina dorsale mi arrestai e mi inclinai in avanti, spalancando le labbra e soffocando un urlo.

    Con una risata nervosa gli corsi incontro, provando a strappargli il bicchiere di mano. Michael non la smise di ridere e io pure; gli urlai di lasciare andare la presa e in tutta risposta strillò dicendo che non l’avrebbe mai fatto.

    «Papà?»

    Ci voltammo in direzione della porta della cucina. Davanti a noi c’erano i tre piccoli Jackson. Paris teneva le labbra serrate per evitare di ridere a crepapelle. Prince ci guardava tra il dubbioso e l’emozionato. Blanket, invece, tenuto per mano da Paris, ci guardava perplesso.

    «Vostro padre sta cercando di difendersi», emise Michael con una vena di falsa innocenza.

    Lo guardai ad occhi e bocca aperta ed egli mi evitò, incapace di nascondere un sorriso che partiva da un orecchio all’altro.

    «Sono stato attaccato ingiust – »

    Splash.

    Nel giro di mezzo secondo ero stata così rapida da prendergli il bicchiere dalla mano – ancora mezzo pieno – e colpirlo sulla pancia, in basso, verso l’ombelico. Trattenne il fiato, contrasse gli addominali e mi fulminò con un pizzico di adrenalinico divertimento nelle iridi.

    Prince, Paris e Blanket scoppiarono a ridere fragorosamente.

    Gli mostrai un sorriso da schiaffi.

    «Così impari!»

    «Ah sì?!», strepitò maliziosamente esaltato, sollevando un sopracciglio e un angolo della bocca.

    Mi voltai subito verso i suoi figli.

    «Tutti contro papà!», urlai.

    Un coro di giubilo si levò dai tre piccoli Jackson, che accorsero veloci verso di noi e recuperarono due bicchieri ciascuno. L’unico che proseguì cautamente – fino a quando non ebbe capito cosa stava succedendo – fu Blanket. Quest’ultimo venne preso in braccio da Michael e usato come sorta di “mezzo per corromperci” e, al contempo, farlo giocare assieme a noi.

    La lotta proseguì fino a quando tutti non fummo fradici fino al midollo. I nostri strilli eccitati risuonarono per tutta la cucina e l’intera casa. Grazie a Dio in quei giorni non c’erano domestici.

    E nel mezzo di questo nostro gioco sconsiderato, tra una risata e un urlo di guerra, incrociai più volte gli occhi luminosi di Michael guardarmi con quell’amore che sembrava riemerso dalle ceneri, quello stesso affetto che mi faceva vibrare il respiro ogni volta.

    Quanto sarebbe durato tutto questo?

    *



    «Dai, promettimi che ci penserai su!»

    Cercai di non sbuffare e mi limitai ad alzare gli occhi verso il soffitto. Mia mamma sapeva essere veramente dura di comprendonio.

    «Ok», bofonchiai in italiano, «ti so dire presto, mamma...»

    Sistemando i capelli tutti sulla spalla sinistra lanciai un’eloquente occhiata a Michael, comodamente steso sul mio letto con un libro sulla pancia e gli occhiali da vista abbassati sulla punta del naso. Mi fissava da quando avevo iniziato la conversazione al telefono, seguendomi con lo sguardo mentre camminavo nervosamente avanti e indietro per la stanza. Sorrideva divertito.

    Non feci subito caso ad un silenzio alquanto sospetto proveniente dall’altra parte della cornetta.

    «Ancora non capisco cosa ti trattiene lì se non amore!» sbottò con quel tono indagatore un po’ da finta tonta. «Tu non mi convinci...»

    Arrossii ancora e spalancai le labbra esasperata, piroettando non solo gli occhi ma anche la testa in direzione di un armadio su cui andare a sbattere per finta. Michael si pose il libro davanti alle labbra per non esplodere in una risata, seppur non sapesse realmente di cosa stessimo parlando io e mia madre.

    «Mamma ora ti devo lasciare, devo andare. Ti chiamo io per darti la risposta. Saluta papà!»

    Cercai di chiudere utilizzando frasi secche e concise, ma lei non cedette. Mi dette il colpo finale.

    «Ma se vieni a Natale qua da noi potresti anche farci conoscere questo uomo misterioso! Se ti amasse veramente lo farebbe».

    Eccola che arrivava con il concetto “Se ti segue ovunque vai, di sicuro ti ama e ti rispetta”. Io non la pensavo uguale. Già immaginavo la sua faccia – e quella di mio padre – se avessi detto loro “Mamma, papà, questo è Michael Jackson! È il mio uomo misterioso”. A volte mi era impossibile credere che io e lui... be’, ci amassimo.

    «Te lo ripeto, mamma, non c’è nessun uomo» gesticolai assumendo una smorfia innervosita. «Ora vado per davvero! Ci sentiamo presto! Buona giornata».

    Non contenta di come mi stessi congedando mi salutò un po’ freddamente, contrariata per non averle raccontato nulla di quello che stavo vivendo con quell’ipotetico – ma in verità fatto di carne ed ossa – amante o fidanzato della sua unica figlia. Conclusi la chiamata, appoggiai il telefono sul comodino e mi sedetti a peso morto sul letto. Mi distesi ed emettendo un grugnito affondai il capo fra il cuscino e la spalla di Michael. Chiuse il libro e voltò la testa in mia direzione.

    «Cosa vi siete dette di così terribile per essere tanto stressata?»

    «Lascia perdere...»

    Michael si raddrizzò a sedere. Alzando un sopracciglio e anche un angolo della bocca capii che non aveva intenzione di accettare una risposta del genere. Voleva sapere tutto.

    Sospirai e mi posi a pancia in su, una mano sullo stomaco e l’altra sotto cuscino. Con la coda dell’occhio notai Michael osservarmi maliziosamente a causa di quell’invitante posizione in cui mi ero posta.

    «Mia mamma vuole che vada da lei, questo Natale...», mormorai. «Dice che è da quasi un anno che non mi vede e che sono una figlia scellerata» feci spallucce.

    Michael corrugò un po’ la fronte e io non proseguii.

    «E perché sei arrossita?»

    Non gli scappava proprio nulla. Storsi le labbra colorando le gote di debole rossore.

    «Perché sa che l’unico motivo che mi trattiene così distante da lei e mio papà sei tu»

    Michael assunse un’espressione confusa.

    «Intendo dire che pensa che io sia innamorata… così cotta del mio “uomo” da non prendere un dannato aereo e volare da loro».

    Forse non avevano sbagliato...

    «Oh...» mormorò annuendo piano. Abbassò lo sguardo e si bagnò il labbro inferiore. «Potremo organizzare qualcosa al riguardo, lo sai?»

    Spalancai le palpebre. Eh?

    Sorrise. «Se li stuzzicassi con l’idea di far conoscere il tuo uomo, verrebbero in America?».

    Mi alzai a sedere anch’io.

    «Potrei provare e proporlo, ma sicuramente mio padre e i suoi attacchi di panico per l’aereo non glielo permetterebbero. E poi, dai… è impossibile… qualcuno sospetterebbe sicuramente di noi, che sia parte del tuo staff o – »

    «Organizzerò un evento a Neverland, per festeggiare questo Natale» disse risoluto, senza far svanire quel sorrisetto dal viso. Lo sguardo però era cambiato. «Ci saranno famiglie – genitori con bambini – che passeranno una giornata al parco. Potrebbero confondersi con la folla».

    In un primo momento pensai mi stesse prendendo in giro. Poi quando vidi che non stava affatto ridendo considerai le sue parole come vere.

    Da quanto tempo stava organizzando quell’evento? Era pericoloso farlo con ciò che stava affrontando, ossia il processo per reati sui minori? Era un atto incosciente? Non lo sapevo. Qualcosa mi faceva temere il peggio. Come una sorta di “brutta impressione”... soprattutto perché la stampa avrebbe evidenziato la parola “bambini” a caratteri cubitali su ogni articolo... non sarebbe passato di certo inosservato.

    «Michael... non penso sia saggio...»

    «Perché no?» alzò le spalle. «Nessuno penserà mai che sono i tuoi genitori, con tutta quella gente!»

    «Non stiamo parlando di quello, lo sai...» mormorai sbattendo le palpebre lentamente. Michael smise di sorridere e mi osservò senza dire nulla. «Hai pensato a cosa potrebbe accadere? Ai pro e contro della situazione?»

    «Certo che ci ho pensato, non sono uno stupido» disse scandendo parola per parola come se fossi io quella che non comprendeva. «In un modo o nell’altro troveranno sempre qualcosa per farmi del male».

    «Posso essere onesta? Non credo che sia una buona idea…».

    Michael si bagnò la bocca e portò lo sguardo verso il suo libro; lo prese in mano e si stese una seconda volta sul materasso; sfogliò le pagine cercando il punto in cui si era fermato. Questo valeva a dire – per lui – che la discussione era definitivamente chiusa. Avrebbe fatto quello che voleva senza neanche considerare ciò che avevo da dire.

    Odiavo quando si richiudeva in quella dannata “bolla” e non ascoltava nessuno tranne se stesso. Se non gli piaceva cosa dicevi, in automatico ti lasciava fuori. Non voleva che la gente gli dicesse cosa fare, soprattutto quando era convinto di non fare niente di male.

    Lo stavo giudicando troppo crudelmente? Lo pensavo uno sconsiderato?

    Per un attimo tentennai e pensai di averlo offeso. Anche se in fondo credevo che stesse vaneggiando, io non sapevo cosa si provava ad essere nei suoi panni. Non potevo perciò sapere se, fossi stata in lui, sarebbe stato giusto agire diversamente o meno. Ma sicuramente vedeva la mia schietta opinione come un’offesa alla sua intelligenza…

    «Forse non sbagli…» continuai a voce bassa. «Non sono così esperta di legge per sapere se questo potrebbe complicare le cose in udienza... quello che voglio dirti è che devi stare attento, ok?».

    Ripose il libro sul materasso. Stavolta rimase a fissare il soffitto senza guardarmi, con una rabbia nel cuore che si rispecchiava nei suoi grandi occhi neri.

    «Mi stanno privando di ogni cosa, Sarah. I bambini sono l’unica ragione per cui vivo. Sanno che facendo così mi uccideranno. È ovvio che stavolta non sarò così ingenuo da cadere in errore» mi puntò severo. «Dovrei rinunciare a cosa mi fa stare bene a causa loro? Tu lo faresti?»

    “L’unica ragione per cui vivo”.

    Non seppi se essere più amareggiata per il fatto che mi avesse detto in faccia che non credevo abbastanza in lui o se perché, invece, considerava i bambini come il suo unico punto di luce.

    Sì, mi preoccupavo tanto per lui, troppo, e così facendo rischiavo di tappargli le ali senza lasciargli la possibilità di sbagliare… probabilmente per Michael ero una sorta di “mamma chioccia” e lo feriva che lo pensassi un incosciente. Dopo aver fatto affidamento sulle persone sbagliate per tanto tempo, per Michael doveva essere inconcepibile che io mettessi in dubbio la sua maturità scaturita da questo. Ma ascoltare l’istinto lo avrebbe portato a sbagliare ancora? O gli avrebbe dato più rogne di quelle che non aveva già?

    Davvero pensava che i bambini fossero la sua unica fonte di gioia?

    A parte i suoi figli e gli altri bambini del mondo… chi lo rendeva felice? Perché da quel discorso sembrava che io non fossi così importante.

    Di colpo mi rabbuiai. Mi sentii trapassata da parte a parte da una spada invisibile dalla lama incredibilmente affiliata. Fu una sensazione di dolore impalpabile, anche se deprimente.

    «No» enunciai seria. «Non rinunciarci».

    Non mi guardò. «Non lo farò».

    Afferrò il libro e si estraniò ancora una volta dal mondo e da me.

    Non capiva neanche di aver ferito la mia sensibilità. Mi stavo comportando da bambina viziata ed egocentrica? Forse ero troppo suscettibile e prendevo tutto troppo alla lettera. Avrei dovuto essere più comprensiva nei suoi confronti.

    Mi chiesi se pretendessi troppo.

    C’era un mattone nel cuore mi faceva sentire pesante, pesante come un incudine che affonda nelle profondità dell’oceano... un piccolo tonfo nel mare ed eccomi cadere nell’oscurità: all’inizio ero avvolta in un manto d’acqua leggermente freddo, quasi piacevole al contatto, ma col tempo la mancanza di calore si sarebbe fatta sentire e sarei divenuta un blocco di ghiaccio.

    Respirai a fondo.

    «Questo Natale andrò dai miei, in Italia».

    Sì, fu un comportamento da stronza.

    Lo dissi apposta per ferirlo. Lo dissi pur sapendo che sarebbe stato felice sapendo che i miei sarebbero potuti venire a Neverland, se tentati a dovere. Sperai che, così facendo, mi avrebbe detto che era triste all’idea della mia partenza.

    Mi comportai come una bambina che faceva i capricci.

    Lo guardai per cercare un suo accenno di interesse. Mi diede un’occhiata di sfuggita cimentandosi in quello che io definii un sorriso sarcastico, dopodiché tornò al suo libro. Sembrava offeso per ciò che gli avevo detto! Non ci potevo credere!

    «Sarebbe fantastico», sussurrò inarcando le sopracciglia.

    «Già», mormorai. «Si vede»

    Mi alzai di scatto e gli voltai le spalle. Mi diressi verso il bagno senza nascondere la mia irritazione.

    «Sarah».

    Fanculo, Michael.

    Aprii la porta e lo fulminai con un’occhiata terribile. «Niente! Continua a leggere»

    La sbattei, chiusi a chiave nel caso in cui avesse tentato di entrare e mi appoggiai al lavandino con entrambe le mani. Un moto di nausea terribile mi fece rivoltare lo stomaco.

    Che cretina.

    Rimasi in ascolto. Non ci fu nessun rumore.

    Evidentemente continuava a leggere.

    «Sarah?»

    Dio, sono proprio una stronza egocentrica…

    «Esci, per favore...»

    «Se permetti vorrei finire di fare le mie cose. Dammi un minuto», mentii.

    Lui s’ammutolì per qualche secondo.

    «D’accordo, come vuoi».

    Perché ero così stupida? Dovevo parlargli subito, discutere, litigare fino a quando avevo la possibilità di farlo! Perché sprecavo quelle occasioni? Perché, per paura di affrontare la sua indifferenza, mi lasciavo trasportare dal mio stupido orgoglio?

    Andai verso la porta a passo lento e l’aprii piano.

    Michael era immobile davanti a me e i muscoli del viso erano contratti in un’espressione indecifrabile. Quegl’occhi sapevano denudarmi l’anima, sempre. Mi sentii piccola piccola in confronto al suo sguardo penetrante. Non sembrava arrabbiato… quanto piuttosto rattristato e amareggiato assieme.

    Mi accarezzò la gota con il dorso della mano destra. Rabbrividii e chiusi le palpebre. Lasciai cadere il capo sulla sua mano e, spinta da un moto di dolcezza, lo abbracciai allacciando le mani alla sua schiena. Mi accarezzò i capelli.

    «Scusami, non volevo ferirti… cioè sì, ma perché mi sono sentita come se non ti importasse nulla di me… mi dispiace…», pigolai. «E scusa se ti ho pensato un incapace…»

    Mi scoccò un lieve bacio sui capelli.

    «Non ti preoccupare», mormorò e il fiato mi accarezzò la nuca dolcemente. «Forse è giusto che tu vada dai tuoi…»

    Alzai la testa e lo fissai con perplessità. Mi sorrise tristemente.

    «Credo che sia quello che vuoi veramente...»

    «Non voglio partire perché mi vergogno di te», mi strinsi alla sua felpa e lo guardai con uno sguardo inquieto. Ricambiò l’occhiata addolcendosi e rilassando la fronte. Si bagnò le labbra. «Non voglio metterti nei guai. Non voglio che tu sia al centro di ulteriori scandali o gossip, se per caso qualcuno vicino a te scoprisse che abbiamo una relazione. Sicuramente si intuirebbe. È già da un po’ che noto gli altri inservienti fissarmi troppo curiosamente, sento che hanno intuito qualcosa… una volta finito tutto questo – e sono sicura che finirà bene – ti prometto che te li presenterò. Ma ora non voglio essere un ulteriore problema…».

    Mi sorrise mostrando i denti e scuotendo piano la testa, ammirando la mia collanina con la mezza Luna che mi aveva regalato lo scorso gennaio. La indossavo ogni giorno.

    Mi accarezzò la guancia con più ardore. I suoi occhi fiammeggiarono di amore.

    «Lo so, percepisco il tuo senso di protezione», si bagnò le labbra una seconda volta. «Non appena tutto questo sarà finito, io, te e i miei figli andremo in Italia. Sono sicuro che sarà così».

    Ma le sue iridi erano velate di dispiacere. Colsi subito quella scintilla di sottile rammarico che venne rispecchiato nei miei stessi occhi nel medesimo istante. Sorridevamo cercando di mantenere alta la speranza, ma entrambi non sembravamo convinti di quello che stavamo dicendo.

    «Inviterai anche i giornalisti, per Natale?», mormorai fissando i ricami della sua felpa rossa e blu.

    Le sue braccia scivolarono dietro la mia schiena. Scosse il capo. Chiusi gli occhi cullata dal nostro dondolio sul posto, odorando il suo profumo a pieni polmoni. Mi prese il mento fra due dita e mi baciò le labbra.

    Quando sollevai le palpebre, le iridi erano colme di un’ostinata malinconia.

    «Sono le ultime persone che inviterei a casa mia».

    *

    «Dimmi cosa non hai capito...», mi chinai verso Prince con fare comprensivo.

    Lui teneva la fronte così corrugata che faceva paura. Mi disse che non aveva capito un calcolo matematico, e mentre io gli spiegavo un’altra volta il procedimento Paris continuava con i suoi compiti mattutini come se niente fosse.

    Quando Prince capì finalmente il ragionamento proseguì da solo. Distraendosi qualche volta, chiacchierò o ridacchiò con la sorella per poi essere ripreso dalla sottoscritta con tono abbastanza severo.

    Guardai l’orologio a muro, vicino alla porta, e notai che mancava ancora un bel po’ alla fine della prima parte della lezione. Venni rapita dal panorama al di fuori della finestra e da una Neverland piuttosto invernale; il vento sbatteva contro il vetro muovendo piano le rame degli alberi del parco, quest’ultimo illuminato da un pallido sole dicembrino. Potevo percepire quella tenue corrente fresca insinuarsi nella carne come aghi pungenti. Mi strinsi nella felpa e mi sedetti in mezzo a Prince e a Paris.

    In giorni come quelli credevo che stare coi bambini fosse la mia cura perfetta. Così facendo imparavo a non pensare troppo e a non venir colta da una tristezza senza motivazione apparente. Sentivo una sensazione di inquietudine incomprensibile, che non riuscivo ad allontanare in alcuna maniera.

    Capivo perché Michael stesse bene con i bambini – benissimo, divinamente – e quel pensiero mi fece star male.

    Abbassando lo sguardo potevo scorgere nuovamente la figura di Michael nella sua camera, al buio, assieme a quel solito peso nello stomaco che mi pervadeva da fine ottobre.

    Michael non vuole il mio aiuto.

    Era capitato circa quattro giorni prima. Tutto rannicchiato su se stesso come un bambino impaurito, terrificato all’idea di aprire le palpebre soltanto; la voce gli usciva a fatica dalle labbra. Le mie carezze non erano servite a nulla e i suoi baci erano stati come quel vento al di fuori della finestra: deboli e freddi. I miei abbracci erano caldi, ma il suo corpo non assimilava il calore.

    Gli avevo detto che insieme potevamo farcela e Michael era rimasto congelato in un silenzio che non riuscii a decifrare, occhi persi nei lineamenti del mio viso... ma Michael non mi aveva guardato veramente. Aveva guardato oltre.

    Il suo nascondersi e allontanarsi si faceva di giorno in giorno sempre più forte.

    Lo comprendevo e lo amavo alla follia, ma pian piano divenivo sempre più… svuotata. Avevo bisogno di ricaricare le energie. Di non sentirmi una salvatrice, con il bisogno incontrollato di sapere che l’amore che davo veniva ricevuto e apprezzato. Avevo bisogno di essere così forte da non farmi intrappolare nel suo stesso dolore e di non sentirmi un’inetta completa. Avevo bisogno di creare dei confini.

    Non ero d’aiuto.

    Non ero capace di amarlo forse, ma volevo tenergli la mano anche se fossi stata sul punto di sprofondare con lui. Addirittura gli avevo comunicato che non sarei andata in Italia a Natale, contrariamente da quanto concordato, ma aveva negato con insistenza; mi aveva allontanato da sé e non mi aveva guardato negl’occhi: “Non voglio che rinunci, devi andare”. Lo diceva per il mio bene? Pensava che lo stessi facendo perché provavo pena per lui? O assumeva quell’atteggiamento difensivo per farmi intendere che non mi voleva tra i piedi?

    Tutto il mio mondo sembrava confuso.

    «Prince, mi dai i pennarelli?», Paris richiamò l’attenzione del fratello.

    Il mio sollievo era la risata, quella che ancora gli facevo fare quando lo distraevo con le mie mille espressioni diverse, il mio macabro senso dell’umorismo o la mia goffaggine; la speranza era racchiusa in degli abbracci inaspettati, in suoi “Ti amo” che – seppur non sempre sinceri – in un attimo assumevano la stessa sfumatura di quelli detti mesi prima. Sentivo la mancanza del suo sorriso spensierato, dei suoi occhi luminosi, delle conversazioni profonde fino a tarda notte, dei suoi scherzi stupidi, dei momenti a fare gli scemi come due bambini dell’asilo, delle piccole cose che rendevano la mia giornata migliore.

    «Ma servono a me adesso!»

    «Non è vero, non li stai usando!», Paris inclinò il capo a destra con evidente fastidio. «Mi serve l’azzurro...!»

    Prince fece rotolare il pennarello verso la sorella velocemente e lei lo fermò con uno schiocco rumoroso sul legno del grande tavolo. Sobbalzai un po’. Ella rise e lo ripassò all’altro, che di seguito rifece la stessa cosa.

    Mi risvegliai dalle mie riflessioni e con un battito di mani rumoroso posi fine ai loro giochi.

    «Avanti, su!», presi il pennarello che scivolava veloce verso Paris ed entrambi mi guardarono delusi, emanando un “Nooo” pregante. «Ancora mezz’ora e vi lascerò giocare tranquillamente. Non è ancora il momento della pausa»

    Tutt’e due strinsero le labbra in una smorfia avvilita. Tornarono ai loro compiti in silenzio.

    Era venerdì 3 dicembre 2004 e, come di consueto, il weekend lo avremmo passato a Neverland.

    Nessun tempismo fu più sbagliato di quello.

    Quando Paris terminò il suo scritto lo correggemmo assieme e dopodiché gli spiegai alcune cose di grammatica; facemmo qualche esercizio e, nel momento in cui Prince ci interruppe per dirci che aveva concluso la sua esercitazione di matematica, qualcuno bussò alla porta.

    Pensai subito che fosse Michael ed il cuore mi tamburellò in petto; anche i bambini drizzarono subito la schiena. Ma la porta si aprì e nessuno dei tre riconobbe Michael tra quel gruppetto di tre uomini in divisa.

    Il sangue mi si congelò nelle vene e, con esso, anche il luccichio che avevo negli occhi.

    Li guardai uno ad uno e loro ricambiarono. Per niente agitati, scossi o imbarazzati: erano tre poliziotti in abito blu scuro, mediamente alti e con la pelle chiara. Soltanto uno sembrò vacillare quando individuò i due bambini al mio fianco.

    Da sotto il tavolo Paris mi prese la mano. Prince mi guardò e io ricambiai l’occhiata con uno scatto fulmineo.

    «Mi dispiace disturbare, Miss...», disse il poliziotto al centro, avanzando di due passi. Strinsi la mano di Paris e cercai quella del suo fratellino. Prince afferrò le mie dita quasi immediatamente. «Ma dobbiamo dirle di uscire, Lei e i bambini...»

    «Che succede, Sarah?», pigolò Paris.

    Il poliziotto e io ci fissammo senza dire nulla. Gli altri due entrarono nella stanza e cominciarono ad esaminare dapprima i mobili della stanza, dopodiché aprirono alcuni cassetti. Senza alcun rispetto. Senza perlomeno aspettare che fossimo tutti e tre usciti dalla camera.

    «Il signor Jackson non è in casa», dissi risoluta, fulminando l’uomo che non si era ancora mosso dalla sua posizione e mi puntava.

    «Lo sappiamo, ma abbiamo il permesso di entrare».

    Notai soltanto allora che teneva un documento nella mano sinistra. Lo dispiegò e me lo mostrò. Non potevo capire cosa ci fosse scritto da così lontano, ma non mi fu difficile intuire che quello fosse un mandato di perquisizione.

    «Il procuratore distrettuale ci ha ordinato di venire qui».

    Da dietro le sue spalle spuntò Grace, allarmata e affannata. Teneva il piccolo Blanket in braccio e quest’ultimo piangeva disperato, con le guance arrossate dallo sforzo. Ebbi la pelle d'oca e la prima parola che mi venne in mente fu soltanto il suo nome: Michael. Fissai la tata e questa mi indusse con lo sguardo ad uscire da quella stanza senza protestare, nonostante anche lei fosse piuttosto furiosa.

    «Avanti, andiamo...»

    Mi alzai dalla sedia. Paris e Prince si strinsero a me, impauriti.

    «Voglio papà...», mormorò la piccola scendendo dalla sedia e avvinghiandosi alla mia mano e alla mia gamba. «Dov’è papà?»

    «Cosa succede, Sarah?», domandò l’altro mentre ci dirigevamo alla porta.

    Lo stesso poliziotto che mi aveva mostrato il mandato ripiegò il documento senza smettere di osservarmi. Non abbassai lo sguardo. Abbandonammo penne e quaderni sul tavolo e ci incamminammo verso la porta.

    «Non vi preoccupate». Cercai di esibire un tono di voce più calmo, strizzando le loro manine affettuosamente. «Questi uomini sono soltanto venuti a fare dei controlli in casa, per vedere se è tutto apposto».

    Nel passare accanto a quello che dedussi fosse lo sceriffo – un uomo che da vicino sembrava molto più anziano che da lontano – distolsi finalmente lo sguardo dal suo viso e puntai dritto di fronte a me. Egli non reagì e seguì con gli occhi le vane ricerche dei suoi compagni.

    Oltrepassata la porta scoccai un’occhiata eloquente a Grace. Mi invitò a “non far domande”. Paris cercò anche la mano della sua tata e tutti e cinque ci dirigemmo fuori dal residence. Nel passare per i corridoi notammo circa una quarantina di agenti con indosso quel completo scuro; alcuni ci ignorarono, altri ci adocchiarono giusto giusto di sfuggita.

    Uscimmo da quella casa e ci sedemmo su un muretto di pietra non distante, vicino ad aiuole fiorite all’ombra di un albero quasi spoglio. Grace abbottonò meglio il giubbotto di Blanket sul collo e io mi chinai a terra per tirare su la zip della giacchetta di Prince e Paris. Quest’ultima mi pregò con lo sguardo.

    «Perché quegl’uomini sono entrati in casa senza papà?»

    La fissai a lungo. «Perché avevano bisogno di controllare se tutto fosse apposto, e urgentemente. Sono persone impegnate e ci tengono affinché tutti noi siamo al sicuro. In alcuni casi si può fare, purché si abbia un permesso per farlo… e loro ce l’hanno. Non sono cattivi, credetemi».

    Prince annuii abbassando il capo e Paris poggiò la fronte sul mio seno. Li abbracciai forte. Con quelle parole si rilassarono un pochino.

    Non era la verità, lo sapevo bene.

    Immaginavo perfettamente cosa stessero cercando: prove di presunta pedofilia che potessero inchiodare Michael al muro e sbatterlo in prigione una volta per tutte... ma perché? Perché un’altra perquisizione e poco prima del processo? Alla prima – quella di novembre 2003 – non ero ancora l’insegnante di Prince e Paris, eppure ricordavo che Michael era stato portato in prigione fino al pagamento della cauzione. Lo ricordavo per il suo dolore alla spalla, perché gli ero stata accanto, perché lo avevo sentito piangere e confidarsi con me – una perfetta estranea. Avevano già fatto le loro indagini, che cosa cercavano adesso? Perché di fronte ai bambini?

    Michael sapeva che non gli avrebbero dato pace.

    «Che ne dite di andare a fare un giro al nostro solito parco giochi, intanto che aspettiamo il ritorno di vostro padre?» propose la tata con un sorriso confortante. «Magari ci prendiamo anche una buona tazza di cioccolata caldo per scaldarci le ossa»

    Grace non mi guardava.

    Paris accarezzò una gota di Blanket per asciugargli il pianto ormai finito. «Io voglio aspettare che torni papà... non me ne vado senza di lui...», le rivolse uno sguardo triste, «quando torna?».

    Incrociai Grace con la coda dell’occhio.

    «Non lo so, ma non ha senso rimanere qui ad aspettare ore e ore», le accarezzò la testolina.

    Prince si appoggiò alla mia spalla e lo strinsi al mio corpo con un braccio.

    «Grace ha ragione», dissi. «Sono sicura che il vostro papà sarebbe contento di vedervi giocare felici, piuttosto che stare qua a prendere freddo. Non gli accadrà niente. Rimango io qui: quando arriverà, chiamerò Grace e vi avviserò».

    Loro annuirono. Gli occhi di Blanket erano lucidi e scuri, allarmati. Quando mi alzai per stringergli la manina, mi chiese silenziosamente di venire in braccio; lo abbracciai, gli baciai le guance e stette con il capo contro il mio petto per un paio di minuti. Le sue piccola dita s’allacciarono ai miei capelli come di consuetudine.

    Nessuno disse più una parola, nessuno osò piagnucolare o lamentarsi; Prince, soprattutto, sembrava non avere più voce. La tata invitò Prince e Paris a seguirla, le consegnai Blanket tra le braccia e – senza neanche un ultimo sguardo di intesa – fece dietro front e si allontanò da quel luogo con i bambini al seguito.

    *

    Me ne stetti chinata sulle ginocchia su quel muretto per ore, senza dire una parola, puntando il viale in ciottoli con un cipiglio indefinibile. Solo quando sentivo strani rumori all’interno dalla casa, come il vociare concitato dei poliziotti, alzavo il viso; speravo se ne andassero via presto, molto prima che arrivasse Michael.

    Inspirai debolmente e tirai su col naso. Il freddo cominciava a penetrarmi le ossa.

    Avevo lasciato il telefono in camera mia.

    Forse qualcuno lo aveva avvisato. Grace, per esempio.

    Forse Michael aveva saputo di quella perquisizione tramite i media, piuttosto che da qualche suo dipendente.

    Potevo sentire le voci degli altri in maniera molto confusa, ma non potevo rispondere. Non potevo far altro che pensare a Michael e pregare affinché soffrisse il meno possibile. Pregavo Dio con tutta me stessa, chiedendo che quel fatto lo sfiorasse soltanto – cosa assolutamente impossibile.

    Mi ero immaginata sue svariate reazioni, fra le più pazze alle più posate; un Michael fuori di sé che si scatenava contro di me e il suo staff, contro i poliziotti, urlando e imprecando come faceva solo quando era veramente arrabbiato; oppure un Michael disperato, sull’orlo dell’esaurimento nervoso, che piangeva incontrollabilmente; o, ancora peggio, un Michael incapace di manifestare sentimenti.

    Che cosa avrei dovuto fare? Non sapevo neanche cosa provare.

    Quando arrivò a casa ebbi finalmente la possibilità di mettere a tacere le mie domande.

    Fortunatamente i poliziotti se ne andarono via prima del suo arrivo, circa alle cinque e mezza del pomeriggio: li osservai uno ad uno, con un’espressione quasi schifata, come se di fronte a me vedessi le persone più disgustose in questo pianeta. Non appena lo sceriffo comparve sulla porta di casa ci puntammo a vicenda. Un secondo e tornò a parlare con un suo collega, come se niente fosse.

    Una trentina di minuti più tardi, o forse anche di più, un SUV nero di mia conoscenza salì rumorosamente il viale, per arrestarsi ad una decina di metri da me e dal resto dei domestici che, nel frattempo, erano stati obbligati a lasciare la villa.

    Non mi ero nemmeno accorta della loro presenza per tutto quel tempo...

    Raddrizzai la schiena non appena vidi due bodyguards uscire dalla grande macchina e accorrere verso la portiera del sedile posteriore destra, dove evidentemente si trovava il loro capo. Questi non fecero in tempo ad aprirla che una figura vestita in abiti scuri ed eleganti li aveva già preceduti, lasciando la portiera aperta e incamminandosi veloce verso il villino.

    Il cuore era una bomba ad orologeria che in pochi secondi sarebbe esplosa.

    Vidi il suo viso e trattenni il fiato.

    Sfigurato. Non indossava gli occhiali da soli e il colorito era decisamente più pallido del solito. Sembrava aver trascorso le ore più brutte della sua vita; i lineamenti facciali erano tirati, la rabbia pervadeva ancora i contorni del suo viso che sembrava improvvisamente smagrito – come se avesse vissuto una settimana senza mangiare, invece che una sola mattinata. Le iridi erano scure, vitree, e la bocca formava una sottile linea retta.

    I nostri sguardi si incrociarono.

    Michael mi osservò neutrale, inflessibile, e subito dopo tornò a fissare la casa che aveva davanti, profanata una seconda spietata volta.

    Mi si bagnarono gli occhi.

    Le guardie del corpo lo seguirono e si fermarono ad un metro di distanza dalla sua figura, a causa di un suo improvviso gesto di mano che li indusse a non avvicinarsi oltre; i domestici e alcuni addetti al parco – apparsi dal nulla per la preoccupazione o la curiosità – lo fissavano senza dire una parola; le donne erano perlopiù scioccate, una aveva perfino le lacrime agli occhi, e gli uomini erano immobili nelle loro smorfie incomprensibili.

    Michael non sarebbe mai crollato di fronte a loro.

    Osservava tutto ciò che aveva davanti con freddezza, irrigidendo ogni muscolo del corpo. Di punto in bianco si diresse verso la casa con passo veloce e schiena diritta. Non badò a nessuno, e tutti i suoi dipendenti abbassarono il viso non appena lo videro muoversi; pian piano se ne andarono per lasciarlo da solo. Credo che fui soltanto io l’unica ad accorgersi che, per un fulgido istante, l’impassibilità sulla sua faccia era stata corrosa da una patina di acqua salata nelle iridi spente.

    Si fermò davanti all’uscio. Tentennò ad aprire la porta, alzò una mano e notai che tremava paurosamente.

    Volli abbassare le palpebre, ma non ci riuscii.

    Un rumore sordo e brusco.

    Con un movimento di mano abbassò la maniglia, lasciò aperta la porta ed entrò in casa a grandi passi.

    Potei immaginarlo aggirarsi per quelle stanze come se avesse paura che da un momento all’altro i poliziotti lo avrebbero aggredito. E poi ci fu un boato – un tavolo ribaltato a terra, sollevato da terra e ribaltato sul pavimento a causa dell’esaurimento e della rabbia; vetri che si frantumavano, altre cose che venivano distrutte. Fui in grado di immaginarlo mettersi le mani fra i capelli non appena fu di fronte alla sua vecchia camera da letto, inginocchiandosi a terra dopo aver visto il disastro ch’era diventata la sua dimora per la seconda volta.

    Da lontano – separati da spesse pareti di pietra, legno e cemento – lo vidi piegarsi su sé stesso dal dolore e piangere. Senza emettere un suono, nemmeno uno strepitio disperato o un gemito, scivolando nella più sconfortante disperazione.



  4. .
    Concludere
  5. .
    Capitolo Quarantadue: L'Inevitabile


    Umettandomi le labbra feci oscillare la penna rossa fra l’indice e il pollice. Un mezzo sospiro e corressi un numero sbagliato nella verifica di matematica di Paris; non era un errore gravissimo, solo una svista... ma l’avrei avvisata di stare sempre attenta ad ogni passaggio.

    Mi strofinai gli occhi dalla stanchezza e decisi che avrei riflettuto sul voto da darle l’indomani, prima di iniziare un altro giorno di scuola, segnando da subito l’ipotetico giudizio in matita per non rischiare di dimenticarmene. Mi alzai dalla sedia con uno sbuffo assonnato, sistemai ogni foglio nelle apposite cartelline e le penne nel mio astuccio. Dopodiché sgattaiolai in camera per farmi una doccia prima di andare a cena.

    Tornare alla vecchia vita, quello non era facile.

    Oltre al fatto di dovermi abituare alla routine di tre mesi prima – cosa che non era poi tanto male – era complicato fingere di essere soltanto un’insegnante e basta; stare coi bambini e tenere all’oscuro l’amore che provavo per loro padre, fingere che quando lo avessi di fronte il nostro rapporto fosse soltanto professionale o da buoni amici... mi costava un po’ di fatica. La “zia” Sarah doveva trattenere la sua gioia non appena Michael entrava nella stessa stanza in cui si trovava anch’ella, doveva recitare il suo ruolo. È come un gioco, mi dicevo, soltanto un po’ più complicato. Tutto sommato credevo di poter reggere quella situazione, ma c’erano momenti in cui avrei voluto abbracciarlo e non potevo farlo. Me l’ero andata a cercare da sola dopotutto, no?

    Entrai in camera e sistemai le cose di scuola sul letto. Era passato solo un mese dal compleanno di Michael e di nuovo mi ero abituata alla grandezza di quella stanza, dell’enorme letto a baldacchino con morbide coperte bianco panna. Le finestre puntavano la lontana e caotica Beverly Hills e il Sole tramontava e colorava di arancione le pareti e ogni mobile presente.

    Mi spogliai, tirai fuori dall’armadio il cambio per quando avrei finito di fare un doccia calda e mi chiusi nel bagno. Stancamente mi lasciai massaggiare la schiena e la nuca dal fiotto d’acqua pensando e ripensando a quando Michael sarebbe tornato a casa.

    Quel giorno, per esempio, non lo avevo visto dalla mattina presto. Aveva fatto velocemente colazione e poi se ne era andato, vestito con un elegante completo bianco; aveva in programma un’udienza preliminare e non avevo fatto altro che preoccuparmi per il suo stato emotivo e psicologico; per fortuna c’era la famiglia che lo accompagnava... si era mostrato sicuro di sé, ma avevo dubbi che fosse sereno veramente. Sapevo che avrebbe avuto bisogno di sostegno; potevo solo sperare di farlo sentire meglio quando nessuno avrebbe sospettato di nulla, di notte, come avevamo sempre fatto da quando ci conoscevamo, anche se non corrergli incontro appena tornato a casa sarebbe stato arduo.

    Dopo quell’udienza era chiaro che il processo sarebbe iniziato a gennaio.

    Per un essere umano comune, esterno alla situazione e dal caso in questione, un processo per accuse di pedofilia sarebbe stato un problema come un altro, un’ingiustizia che col tempo avrebbe perso il suo valore… i giornali e la TV avrebbero parlato della situazione per qualche mese e poi fine, tutto sarebbe finito nel dimenticatoio. Ma per Michael non era così. Lui era Michael Jackson. Il mondo lo voleva etichettare come qualcosa che non era e sarebbe stato marchiato a vita.

    Superare tutto questo per Michael era come cercare di sconfiggere la fame nel mondo; in questo ambito si tenta sempre di fare quel che si può per abbattere questo male, ma ogni tentativo sembra non avere mai successo. E così era il suo dolore: una difficoltà che appariva insuperabile e mai vinta completamente.

    Avevo compreso da tempo che lui era un’anima bellissima, con un cuore pieno d’amore e una sensibilità paragonabile a pochi, seppur rimanesse un essere umano come tutti gli altri. A dir la verità, di persone come Michael non ne avevo mai incontrate prima... sapevo che esistevano, ma non avevo mai avuto la possibilità di conoscerle prima d’allora, prima di lui...

    Ed era proprio per la sua spiccata emotività che quelle accuse lo ferivano fin dentro le interiora, lo sconvolgevano a tal punto da condurlo verso l’orlo del baratro. Essere incolpato per un reato simile per lui significava un tradimento, un’accoltellata a tutto l’amore che provava per quei bambini ai quali, fino ad un anno prima, aveva donato affetto senza chiedere nulla in cambio.

    Uscii dalla doccia circondandomi con un asciugamano che sapeva di vaniglia. Lo portai sotto il naso e mi chiesi se anche quelli di Michael odorassero dello stesso profumo; dopodiché mi asciugai e indossai la biancheria intima.

    Una cosa positiva – nel tornare a vivere nella stessa casa con lui – era poter nuovamente inspirare la sua essenza nell’aria e nelle cose che gli appartenevano. Quello mi era mancato di più durante l'estate. Ovunque andasse lasciava sempre un alone, una traccia del suo passaggio; un profumo, un tocco, o semplicemente minuscole cellule dell’anima che si separavano dal suo corpo e si incollavano agli oggetti che aveva intorno.

    Dopo essermi asciugata i capelli con un altro piccolo asciugamano li lasciai umidicci e leggermente ondulati lungo le spalle. Aprii la porta del bagno per prendere il cambio di vestiti e indossai una maglietta a maniche corte e un paio di pantaloni di tuta da ginnastica neri.

    Qualcuno bussò.

    Guardando verso la porta alzai la voce: «È aperto!»

    Questa si dischiuse lentamente. Sorrisi rallegrata nell'istante in cui vidi Michael – ancora vestito di bianco e con gli occhiali da sole indosso – entrare nella stanza.

    «Ciao, Moony...», appena fece girare la chiave nella serratura – una volta entrato in stanza – gli angoli della bocca si alzarono.

    Gli andai incontro e gli misi le braccia al collo. Respirai quel profumo che gli dava un’aria estremamente elegante e mi separai quel tanto che bastava per potergli sfilare gli occhiali da sole e agganciarli alla sua giacca. Ridacchiando mi donò un dolce schiocco sulle labbra, premendomi il viso fra i palmi delle mani.

    Nonostante quel momento di perfetta beatitudine non potei ignorare lo sguardo angosciato che per un millesimo di secondo ero riuscita a scoprire, un’espressione che i suoi occhi non riuscirono a nascondermi.

    «Come stai?», sussurrai fissandolo umettarsi la bocca.

    «Bene, ora che sono qua...», mi prese i fianchi e accostò il mio bacino al suo. «Ora che sono da te e dai miei figli, tutto va meglio...»

    Lo guardai preoccupata. «Sicuro...?»

    «Sì», fece spallucce e ricambiò l’occhiata con una faccia strana. «Perché non dovrei?»

    Conoscevo bene quella smorfia: sorrideva ma i suoi occhi erano tristi, mentiva con un tono così pacato e in un certo senso ironico che comprendevo subito che stesse celando i suoi veri sentimenti. In più quella domanda giustificò ogni mia intuizione.

    «Com’è andata l’udienza?»

    Il suo sorriso si spense quando realizzò che avevo inteso ogni cosa. Portò lo sguardo sulle enormi finestre della camera, debolmente illuminate dal Sol calante, e si passò la lingua fra le labbra.

    Mi parlò con un fil di voce. «Ci sediamo, che ne dici?»

    Annuii.

    Mi offrì la mano osservando il modo in cui intrecciavo le mie dita alle sue, come le stringevo affettuosamente e come le legavo in una solida stretta mentre ci avviavamo verso il bordo del letto; neanche quando ci sedemmo con un leggero tonfo volle mollare la presa. Era chiaro come l’acqua che la situazione fosse tutto fuorché tranquilla.

    «Raccontami, dai...», gli detti un buffetto simpatico con il gomito.

    Sospirò fissando un punto vacuo davanti a sé. «Oggi all’udienza ho incontrato Janet...»

    «Janet...?»

    «Janet Arvizo, anche se in realtà ama farsi chiamare Janet “Jackson”», soffiò con sottile rancore. Le iridi si velarono di uno strato di rabbia irrequieta che cercò di contenere. «Ci siamo a malapena guardati. Non so come abbia fatto a controllarmi...», strinse i pugni. «Ha avuto il coraggio di mostrarsi arrabbiata, in collera...!»

    Mi portai la sua mano alla bocca e la baciai; in seguito, con l’arto libero, gli massaggiai una spalla rigida per l’oppressione psicologica a cui era sottoposto; chiuse le palpebre increspando la fronte.

    «Quella donna è cattiva...», gli si spezzò la voce mentre ingoiava a fatica, «è molto cattiva...»

    Poggiai le labbra su un punto della sua mascella crudelmente serrata. Col naso sfiorai la guancia e la strofinai appena. Michael rabbrividì.

    «Lo so, vuole farti ancora più male di quanto non te ne abbia già fatto... sa benissimo l’effetto che ha su di te. Anche la sua sola presenza può mandarti fuori di testa e lei ci gode».

    Il suo fiato tremò.

    «Mi ami, Sarah?»

    Lo scrutai con premurosa apprensione. Infilai le dita tra i suoi capelli neri e li sistemai lontano dalla faccia, piegando un po’ il capo di lato. Non ostentava ad aprire gli occhi e ora la bocca descriveva un’espressione agonica.

    «Ti amo immensamente»

    Aumentò la presa sulla mano. «Davvero?»

    «Certo che sì, piccolo incosciente...!», borbottai imitando la sua voce e riuscendo a farlo sorridere, anche se tristemente. «E credo in te, nella tua forza d’animo e nella verità… tempo al tempo...»

    Espirò piano. «Sono... sono molto stanco...»

    Con un gemito sofferente fece cadere la testa sul mio seno, affondando la nuca nella conca fra gola e scapola. Gli accarezzai i capelli ciocca per ciocca.

    «Ora sei a casa», bisbigliai. «Andrà tutto bene».

    Sentirlo così amareggiato faceva sanguinare anche me con lui. Ma ero forte, potevo farcela. L’importante era che Michael si sentisse bene, anche per un fulgido istante, fra le mie braccia. Percepii i nervi del suo corpo rilassarsi man mano che le carezze sulla sua testa aumentavano.

    «Ti prego, rimaniamo ancora un po’ così...», mormorò nascondendo tutta la faccia sul tessuto della mia maglietta. «Voglio sentire il tuo cuore battere... il tuo respiro... soltanto per un po’...»

    Mi fece sussultare silenziosamente.

    «Certamente, tesoro».

    Se molti mi avessero visto, probabilmente mi avrebbero dato della pazzoide esattamente come credevano che Michael fosse; mi avrebbero guardato dall’alto in basso aggredendomi con frasi del tipo: “Ma perché con Michael Jackson, il pedofilo?” ecc. fino a farmi venire la nausea. Mi avrebbero chiesto perché lo credessi innocente, e io con sguardo fiero e deciso avrei spiegato loro che un uomo come lui non poteva essere l’incarnazione di un mostro. Mi avrebbero dato della pazza e io non ci avrei dato retta perché sapevo qual era la realtà, e soprattutto ero orgogliosa di provare un sentimento tanto forte per lui.

    A me non importavano le loro voci. A me importava amarlo, perché sapevo fin dal principio che Michael non era colpevole. Sentivo questa verità scorrere nel sangue, nelle vene, e fluire per tutto il corpo così come ero certa di amarlo. Non avevo ragioni per pensarlo colpevole, soprattutto quando avevo avuto la possibilità di stargli vicino e capire che sotto quel suo finto “sto bene”, talvolta, non c’era niente di vero, perché soffriva più di quanto non desse a vedere.

    A dire il vero, non sapevo come sarei riuscita ad aiutarlo del tutto…

    Io ero capace di essere forte, è vero, lo avevo dimostrato a me stessa in molti momenti ed ero sicura lo avrei dimostrato anche in futuro, nei momenti peggiori, ma forse non ne ero abbastanza capace di amare. Forse quella cosa avrebbe logorato anche me con lui… ma di certo non mi sarei allontanata da Michael fino a quando non mi avrebbe cacciato via.

    E frattanto che il suo cuore straziato piangeva lacrime di sangue e rimpianto, la mia mente gridava contro l’ingiustizia e arrabbiata chiedeva al vento impalpabili preghiere di aiuto. Dio solo sapeva quanto desiderassi una bacchetta magica per cancellare tutto quello strazio dalla sua anima.

    «Qui non ti possono fare del male...», sussurrai dolcemente. Gli scoccai un bacio tra i capelli. «Ti va di andare a mangiare qualcosa? Scendiamo giù per cena così puoi stare un po’ con i tuoi bambini...»

    Inclinai il capo per poter vedere i suoi occhi aperti, le palpebre che sbatteva lentamente e il cipiglio terribilmente assente che aveva assunto. Quell’espressione mi riduceva in pezzi. Ciò nonostante, Michael annuì piano ed io sorrisi mestamente.

    Si separò dal mio petto con un impercettibile movimento del corpo e raddrizzò la schiena; gli presi le mani e le tenni al caldo fra le mie. Istintivamente desiderai che quel calore potesse inglobare anche il suo spirito.

    Un debole mormorio scivolò al di fuori di quelle labbra sorprendendomi.

    «Grazie, Sarah...».

    Nell’istante in cui mi guardò, le sue iridi si ravvivarono dal bagliore di lacrime salate. Mi abbracciò senza alcun tentennamento, facendomi oscillare a destra e a sinistra. Alzandomi in piedi, abbassando lo sguardo in un momento in cui non mi avrebbe visto, chiusi gli occhi e smisi di pensare.

    *

    «Riproviamo, ti prego!», mi incitò Paris con uno sguardo acceso dalla determinazione.

    Sorrisi. Mi passai una mano tra i capelli, portandoli tutti all’indietro, e mi bagnai le labbra.

    Con la coda dell’occhio guardai Michael, Prince e Blanket. Erano seduti su una coperta a quadri nera e rossa, circondati dall’erba appena tagliata all’ombra di un albero poco distante. Blanket cercava di correre da solo, parlottando con il fratello maggiore, il quale lo teneva per una manina e lo bloccava quando questo velocizzava il passo nel tentativo di sfuggire alle sue attenzioni. Blanket era vivace, molto più di quanto desse a vedere. E mentre Prince sbuffava e lo rimproverava, Michael ci fissava con un sorriso smagliante. Teneva gli occhiali da sole – nonostante fosse quasi il tramonto – e appoggiava il peso sugli avambracci, con le gambe distese e a pancia in su.

    Trattenni un sorriso complice.

    «Voglio fare una verticale perfetta! E la ruota senza mano!».

    Quel giorno avevo rivelato a Paris di essere in grado di fare la ruota con una mano e la rovesciata all’indietro. Quando mi aveva visto fare quest’ultima i suoi occhi avevano luccicato in una maniera incredibile, abbagliati dal desiderio di farlo altrettanto.

    Anche Michael e Prince erano rimasti basiti… in particolare Michael, il quale sguardo si era dipinto di una sorta di ammirazione misto a desiderio.

    «Va bene, Paris… ma mi raccomando», la ammonii mentre le andavo vicino, «la schiena deve sempre rimanere dritta, così come la gamba su cui butti il peso, altrimenti ti fai male. Guarda, così…».

    Rifeci ogni step passo per passo, lentamente, e compii un’ennesima verticale in aria con entrambe le mani. Prima di insegnarle a fare una ruota come si deve avevo pensato che fosse meglio spiegarle come si facesse la verticale. Per sua fortuna era portata per la ginnastica artistica e aveva avuto un equilibrio e una scioltezza da far paura.

    «Vieni, riproviamo», le feci cenno con la testa, ansimando appena. «Di nuovo ti tengo le gambe e poi le lascio. Io sono qui e ti afferro nel caso in cui fossi sul punto di cadere».

    Paris annuì diligentemente. Aveva proprio il portamento da ginnasta.

    Facemmo qualche altro tentativo e poco dopo riuscì a fare una verticale senza bisogno del mio aiuto. Rimase con le gambe sospese nell’aria per dieci secondi abbondanti, per poi rischiare di cadere di lato; riuscii a prenderla in tempo e da sola ritornò in posizione iniziale.

    «Ancora».

    Sorrisi. «Possiamo continuare domani, se sei stanca».

    Era madida di sudore ma tenace. Il suo sguardo serio e composto non dava segno di volersi arrendere fino a quando non lo avrebbe deciso da sé.

    «No, voglio provare da sola un’ultima volta».

    Poi abbassò lo sguardo e mi venne vicino. Capii che volesse dirmi qualcosa all’orecchio e mi abbassai sulle ginocchia. Paris arrossì appena.

    «Voglio che papà mi veda fare una verticale perfetta e mi faccia i complimenti».

    Sbattei le palpebre dallo stupore, ma un secondo più tardi sorrisi apertamente. Le accarezzai i capelli avvolti in una treccia. Mi scrutò eloquentemente con i suoi occhioni verde-azzurro da cerbiatta.

    «D’accordo, riproviamo!».

    Ritornammo ai nostri posti. Mi fissò intensamente, in posizione eretta e con le braccia alte verso il cielo, e io annuii. Sospirò con il naso, guardò verso suo padre e i suoi fratelli e poi mirò al terreno. Da sola, senza il mio supporto, riuscì a fare una verticale perfetta: rimase sospesa nel vuoto per qualche tornò in posizione iniziale senza mostrare perdita di equilibrio. Per essere così piccola, aveva proprio talento.

    «Sì, Paris, bravissima!», applaudii con visibile eccitazione.

    Mi guardò mostrando un sorriso che pareva andare da un orecchio all’altro, per poi lanciare un’occhiata ancor più emozionata al luogo in cui Michael, Prince e Blanket stavano. Da lì si levò un applauso e quando mi voltai vidi Michael alzarsi in piedi, orgoglioso come non mai. Si era tirato via gli occhiali da sole e ammirava la sua piccola con ammirazione. Anche Prince si era messo ad applaudire, decisamente più pacato del padre, lasciando perdere Blanket che nel frattempo cercava di filarsela a gambe levate.

    Paris corse incontro al suo adorato papà in un battibaleno.

    «Hai visto, daddy? Ce l’ho fatta!».

    Michael la prese in braccio e le scoccò un sonoro bacio sulla guancia. La piccola ridacchiò imbarazzata.

    «Non avevo dubbi, sei stata bravissima».

    Paris era proprio la principessa di papà. Michael stravedeva per lei e Paris ricambiava la sua devozione. Era un rapporto incredibile, il loro. Non avrei detto che fosse “più intimo e intenso” di quello che Michael aveva con Prince e Blanket, perché ognuno di loro aveva un legame profondo e unico con il padre; semplicemente – forse per il fatto di essere l’unica femmina della famiglia, forse per il carattere decisamente guerriero e tenace che li accumunava – Michael e Paris si capivano molto bene. C’era un feeling visibile.

    Michael fece scendere Paris dalle sue braccia, la quale corse appresso a un Prince che rincorreva minacciosamente un Blanket dispettoso. Michael disse loro di non correre sui sassi.

    Anche Prince e Paris condividevano un legame molto speciale, diverso da quello che avevano con il padre, e Paris guardava molto a Prince come la sua guida e il suo mentore... quando non litigavano e non competevano tra loro, ovviamente. In quel caso Michael diventava severo.

    «Non mi hai mai detto che sapevi fare quelle cose…».

    Voltai il capo alla mia destra e percepii il profumo di Michael come un’onda improvvisa. Si era posto al mio fianco più silenziosamente di un felino, mentre io ero rimasta a fissare i tre bambini giocare ad acchiaparello.

    Mi sorrise con uno sguardo malizioso e incuriosito assieme, riponendo particolare attenzione sulle mie labbra. Arrossii e guardai i bambini.

    «In realtà non credevo di ricordarmi più come si facesse, fino a quando Paris non mi ha chiesto di provare».

    Ci incamminammo lentamente verso il percorso in sassolini, non dopo che Michael avesse raggomitolato la coperta a quadri sotto un braccio.

    Era difficile non cedere alla tentazione di abbracciarlo, tenergli la mano o baciarlo. Era come una calamita per i miei istinti: più resistevo, più volevo stargli accanto. Sperai che per Michael fosse lo stesso.

    Quella sensazione mi eccitava più del normale – l’idea di non poterlo toccare così come l’idea di poterlo provocare e percepirlo scosso ogni qualvolta ci fosse uno sfiorarsi di mani o di sguardi… quella sì che era una soddisfazione. Aumentava il mio desiderio di lui e vederlo trattenere il fiato e assumere un’occhiata seria ma eloquente mi faceva impazzire. Solo la sera, quando tutti andavano a dormire e non potevamo essere visti o uditi da nessuno, tornavamo ad essere intimi.

    Oh, eccome se ritornavamo ad esserlo, e ne valeva la pena.

    «Paris è eccezionale. Secondo me questa disciplina sportiva sarebbe perfetta per lei».

    «Dici?».

    Annuii vigorosamente.

    «Hai fatto corsi di ginnastica artistica?».

    «Sì, ma per poco tempo», dissi mentre camminavamo fianco a fianco. Michael non perdeva di vista i suoi bambini e io con lui. «Non sono mai stata portata per gli sport, ma in questo non ero affatto male. Ho sempre avuto una buona elasticità e resistenza».

    «Eccome se ce l’hai…».

    Lo adocchiai fintamente stupefatta. Fece lo stesso, alzando un sopracciglio e un lembo delle labbra con fare furbetto. Compresi immediatamente a cosa si stesse riferendo. Mi scontrai con il suo braccio e gli feci la linguaccia.

    «Mi stai prendendo in giro?».

    «Assolutamente no», si accigliò. «Ti sto proponendo di darmene prova più tardi».

    Ridacchiai e arrossii. Scossi il capo e mi portai un ciuffo di capelli ribelli dietro l’orecchio.

    Questi sarebbero stati i momenti che mi sarebbero mancati di più nei mesi del processo. La tempesta era alle porte, sempre più visibile all’orizzonte, eppure continuavamo a comportarci come se niente fosse. Mentivamo al mondo – nascondendo la nostra relazione – e mentivamo a noi stessi – cercando di rinviare preoccupazioni e tensioni inevitabili. Era la cosa più semplice da fare per entrambi. Vivere il momento e non pensare al dopo, ai “se” e ai “ma”, ai “tieni duro” e ai “non crollare, per favore”.

    I suoi figli giocavano beati, in direzione del carosello.

    Era un sabato di fine settembre ed eravamo tornati come di consueto al Neverland Ranch.

    Con la mano libera Michael mi afferrò due dita. Cercai le sue e le stringemmo in un abbraccio silenzioso, che comunicava più di quanto le parole o gli occhi potessero permettersi di fare, sfruttando la distrazione dei suoi figli.

    Avevamo le mani legate, due cuori incatenati l’uno all’altro, nel disperato bisogno di respirare quell’aria settembrina che sapeva di ultimi istanti di spensieratezza e libertà.

    *

    Battei un piede a terra fissando la porta con un cipiglio indefinito.

    Anche se mi fossi imposta di parlargli, sarei riuscita a dirgli quello che pensavo?

    Sentivo le domande – e le automatiche risposte – delle mie programmate (e fantasticate) conversazioni perforarmi la testa, il cuore agitato e rinvigorito da un fuoco ben diverso dall’amore. Una parte di me non vedeva l’ora di chiarire le cose tra me e Michael, mentre un’altra mi invitava a rinunciare.

    Ero sicura che fosse nello studio di registrazione. Non sapevo dove altro potesse essere da due giorni a quella parte.

    Accostai un orecchio alla porta nera davanti a me per sentire se provenissero dei rumori ovattati dalla stanza.

    Da qualche giorno Michael mi aveva evitato senza apparente motivo e senza darmi una ragione sensata; più gli chiedevo indirettamente cosa gli prendesse, più mi ignorava con un silenzio tombale; ad un certo punto – alla mia domanda diretta – si era arrabbiato perché sosteneva che dicessi stupidaggini e che non mi fidassi abbastanza di lui, gesticolando irritato come non mai. Era in modalità “vittimismo sfrontato” e seppur io potessi sopportare quell’atteggiamento per un po’ di tempo – diciamo 24 ore come minimo, nei giorni in cui ero più comprensiva – in quella terza sera di mancata comunicazione tra noi avevo raggiunto un limite.

    Mi decisi a uscire dalla mia camera dopo essermi mordicchiata tutte le pellicine in parte alle unghie. Sentivo lo stomaco sotto sopra e il battito del cuore veloce come se avessi appena terminato una maratona.

    La verità era che mi dispiaceva che mi escludesse dalla sua vita e dai suoi pensieri con un taglio netto e non motivato. Avevo provato a pensare e ripensare continuamente a cosa potessi aver fatto di male, ma non ne venivo a capo.

    Voleva allontanarsi come aveva fatto molti mesi prima, per paura di continuare la nostra relazione e non riuscire a mantenerla durante il processo? Oppure era di malumore per qualcosa che non ero io e non se la sentiva di parlarne? In ogni caso, poteva essere sincero e andare dritto al punto. Avrei cercato di capirlo nei migliori dei modi, dico davvero. Ma non me ne dava l’occasione. Come al solito, faceva tutto da sé.

    Mentre cercavo di capire se fosse presente nella sala registrazione o meno, osservai l’intero corridoio addobbato per i festeggiamenti di Halloween.

    Era la terza settimana di ottobre. Nonostante il fatto che la famiglia Jackson non abitasse più in quel meraviglioso posto, Michael aveva espressamente richiesto che tutto venisse addobbato per la felicità dei suoi figli. Avevano già programmato la festa di Halloween (tra i quattro membri della famiglia) che si sarebbe fatta proprio al ranch. I bambini erano entusiasti e non facevano altro che pensare ai loro possibili travestimenti e alle leccornie che avrebbero gustato.

    Se non fosse stato per il mio litigio con Michael, anch’io non sarei stata nella pelle. Le settimane erano passate, le foglie erano ingiallite e cadute una dopo l’altra, il Sole si era addolcito e aveva smesso di ardere la terra con il suo rovente calore.

    A breve sarebbe stato un anno da quando ero arrivata lì, dai Jackson, come insegnante. Era una ricorrenza che avrei voluto ricordare con gioia, non con la preoccupazione che tutto potesse andare a farsi maledire.

    La notte era calata da un pezzo, la casa era silenziosa.

    Non ce la facevo più a stare zitta. Ero pronta a discutere pur sapendo che quel mio atteggiamento avrebbe potuto costare un litigio tremendo. La mia salute psicologica e fisica non reggeva un clima di oppressione e rancore a lungo.

    Mi staccai dalla porta con un leggero sbuffo. Per un attimo tentennai di nuovo e fui persuasa a non bussare; mi ripetei mentalmente per circa la milionesima volta ciò che avevo da dirgli e, alla fine, colpii tre volte con il pugno.

    Nulla.

    Riadagiai l’orecchio una seconda volta per sentire un qualche suono dall’interno della stanza, ma non udii neanche una melodia soffusa.

    Forse mi sbagliavo.

    Grugnii insoddisfatta, sistemando tutti i capelli su una spalla.

    Tornai al primo piano con la testa bassa. I miei occhi erano inchiodati sul pavimento, mentre pensavo e ripensavo dove potesse trovarsi; mi presentai e bussai anche alla sua camera da letto, ma non ebbi risposta. Aspettai un suo segnale per circa due minuti abbondanti e, alla fine, passai all’ultima stanza – l’unica – in cui avrei potuto trovarlo: l’ufficio.

    Prima di battere alla porta accostai l’orecchio proprio come avevo fatto per le altre stanze; lo sguardo s’illuminò e il cuore riprese a scalpitare. All’interno vi era un sottile bisbigliare, abbastanza distinguibile da poter affermare che fosse la voce di Michael.

    Mi presi dieci secondi per tranquillizzarmi.

    Inspirai concentrandomi su ciò che avrei dovuto dirgli e bussai pianissimo, in modo che però riuscisse a udirmi. Ero sicura che fosse solo – al telefono – visto che percepivo la sua voce e lunghe pause di silenzio.

    Sempre appoggiata al legno lo sentii interrompere il discorso che stava portando avanti con chissà chi. Il tono non era uno dei più allegri, lo riconobbi fin da subito... e cominciai a pensare che molto probabilmente avevo fatto la guastafeste nel bel mezzo di una conversazione con qualcuno di importante.

    Di colpo udii lo scatto della chiave che girava nella serratura e feci appena in tempo a separarmi dalla porta prima che questa si aprisse.

    Ahia...

    Con un’espressione che non saprei definire mi allontanai di un passo per poter scrutare meglio Michael negli occhi; subito mi pentii di quello che avevo fatto... perché l’occhiata che mi stava rivolgendo era seria e distaccata, senza quel calore che normalmente lo illuminava quando mi guardava.

    Vidi che teneva il telefono cellulare in una mano e con l’altra copriva la cornetta.

    Ingoiai la saliva.

    «Ho bisogno di parlarti», bisbigliai a fior di labbra.

    Poggiai il peso del corpo su una gamba sistemando una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

    C’era qualcosa di strano.

    Il viso rimane scolpito in una smorfia impenetrabile.

    «Più tardi, Sarah...», la voce era bassa ma non calda come l’avevo sentita più volte. «Ora sono occupato...»

    Smettila di trattarmi così, come se non esistessi... come se fossi un’estranea appiccicosa...

    «Ok», notai che era vestito in jeans scuri e camicia nera. «Fra quanto posso passare?»

    Abbassò lo sguardo stringendo la mascella, umettandosi la bocca.

    «Non lo so», rispose in tono tetro, bagnandosi il labbro inferiore e martellando la punta del piede a terra. «Non ho idea di quanto tempo mi prenderà questa cosa...»

    «Allora cercami tu, così non rischio di disturbarti», mormorai falsificando un sorriso rasserenato. «Appena hai finito ti aspetto in camera mia. Ti va?»

    Annuì appena, senza guardarmi.

    «Adesso scusami...», si congedò.

    Non attese una risposta e mi chiuse la porta in faccia, seppur piano, lasciandomi in silenzio come uno stoccafisso. Non riuscii neanche ad assumere una qualsiasi faccia sconvolta o contrariata: chiusi gli occhi e alzai un sopracciglio provando a reprimere un moto di delusione.

    Feci retromarcia e mi avviai di corsa verso la mia stanza. Quando arrivai e mi chiusi al suo interno, mi gettai a letto frenando un mugugno esasperato. Ciò nonostante, la mia speranza non morì. Decisi di attenderlo veramente, pensando che fosse semplicemente nervoso per la telefonata che stava portando avanti. Probabilmente era quella a renderlo nervoso, non io.

    Affondai la testa sul cuscino.

    Stavo ricadendo negli stessi sbagli compiuti in passato, errori che avevo compiuto con persone che avevo amato per le quali avevo sofferto molto. Cercare di aiutare mettendo al secondo posto me stessa, anche se per il momento in forma abbastanza lieve, non era la cosa giusta da fare.

    Se lui non voleva parlare, lo avrei dovuto lasciare nel silenzio? Mi sarei dovuta mettere da parte? Probabilmente sì.

    Michael doveva agire così per un motivo preciso e molto grave. Non sapevo quale fosse la ragione, ma di certo ciò che gli era accaduto influiva sul nostro rapporto. Il mio istinto mi diceva che c’entrasse il processo o quel fattaccio avvenuto qualche settimana prima riguardante un video di Eminem. Il solo pensarci mi faceva salire il ribrezzo, che c’entrasse l’uno o l’altro fatto.

    Quando Michael non voleva parlare ti ignorava o faceva cadere il discorso con frasi così idiote da far perdere la pazienza anche all’uomo spiritualmente più equilibrato del pianeta. Era testardo, si chiudeva in se stesso e se aveva davvero la giornata “no” riusciva a essere scostante in una maniera allucinante. Ma cercavo di stargli accanto nonostante tutto.

    Per quello avevo deciso di aspettarlo, quella notte.

    Alle 23 mi ero messa a leggere un libro, perché Michael non era ancora arrivato.

    A mezzanotte e mezza avevo smesso, preferendo scrivere una parte di un nuovo racconto molto abbozzato e senza trama, perché Michael non era ancora arrivato.

    All’una e mezza di notte avevo deciso di andare a dormire, ma ci misi un’altra ora e mezza per riuscire ad addormentarmi.

    Alle tre di notte, sfinita dal pensar troppo, mi addormentai.

    Michael non sarebbe mai arrivato.
  6. .
    Capitolo Quarantuno: La Sua Canzone


    Michael masticò un altro boccone del dolce che avevo preparato per quell’occasione: un semplice dessert con morbida consistenza al pan di spagna e cocco, ricoperta di panna e frutta fresca; se la stava gustando volentieri, e io con lui.

    Mi guardò con sopracciglia inarcate. «Perché ogni cosa che cucini è buonissima?»

    Arricciai la bocca in un sorriso furbino e gli diedi un buffetto sulla spalla.

    «Adulatore».

    Incrociai una gamba sopra l’altra, lasciandomi cadere sullo schienale del dondolo; nel terrazzo l’aria era fresca ed un improvviso colpo di vento mi fece rabbrividire, penetrando al di sotto dei pantaloni a gamba larga in raso nero e del top a motivi floreali nero, arancione e giallo che indossavo. Michael mi accarezzò i ciuffi ribelli fuoriusciti dalla morbida acconciatura che tenevo dietro la nuca. Davanti a noi c’era un piccolo tavolino con vari piatti sporchi, due bicchieri riempiti a metà e una bottiglia di vino bianco.

    Era la sera del 28 agosto: il giorno prima del compleanno di Michael.

    Era venuto a trovarmi sotto esplicita richiesta della sottoscritta. Mi ci era voluto quasi un mese per pensare a che regalo fargli senza cadere nel banale; sarebbe stato meglio donarglielo il dì successivo, ma avrebbe avuto una cena con suoi famigliari. Fortunatamente aveva la possibilità di restare a dormire da me senza destare troppi sospetti, purché se ne andasse poco prima dell’alba.

    Non volevo regalargli un semplice oggetto che si trovava nei negozi di Malibu o del resto del pianeta, volevo fargli qualcosa che non si sarebbe dimenticato per il resto della vita; qualcosa che gli ricordasse chi era davvero, la bella persona che era, che trasmettesse l’importanza di ciò che Michael (e non Michael Jackson) era per me. Meritava qualcosa di speciale.

    Non mi ci era voluto molto per scoprire quale fosse la cosa migliore da fargli.

    Inclinai la testa verso quel viso rasserenato. Mi scrutò sorridendo e l’incontro coi suoi occhi mi fece salire per la milionesima volta il cuore in gola. Erano così belli e pieni di emozioni contraddistinte che potevo perdermi ogni qualvolta mi imbattessi in loro. Erano la sua essenza. A quelli mi ero ispirata per il dono, fra le tante altre cose...

    «Vai avanti con il tuo discorso...» dissi mentre mi portavo un altro pezzo di torta in bocca. Michael mi ripulì le labbra con un rapido movimento di polpastrelli, ridacchiando. «Tuo padre ha scritto un libro?»

    Si accigliò impercettibilmente e fissò il mare, cinico come non mai.

    «Sì. Sinceramente non sono intenzionato a leggerlo. Posso solo immaginare che cosa abbia scritto».

    «Brutte cose?»

    Gli sistemai un ciuffo di capelli da davanti gli occhi. Al mio imprevisto segno d’affetto un lembo di quelle labbra si alzò, anche se per poco. Parlare della sua famiglia non gli dava fastidio, solo che facendolo in automatico si impensieriva. Rifletteva molto.

    «No, anzi. È solo che tutto quello che dice non rispecchia quasi mai la verità dei fatti», sentenziò con durezza. «Ci sono cose che sottolinea sempre –“Ho creato io i Jackson 5” – e altre cose che sembra voler eliminare completamente dalla sua memoria e quella degli altri. Ma nessuno dimentica, non io perlomeno. Sono sicuro che sarà mooolto diverso rispetto a quello che scrisse La Toya anni fa...»

    Mi aveva raccontato di La Toya e della situazione che, in un periodo di circa dieci anni prima, aveva raffreddato notevolmente il loro rapporto. Non che l’avesse mai sopportata, a dirla tutta.

    «Pensi che tuo padre lo abbia scritto per un motivo in particolare? Magari per il processo?»

    Mi concesse un’occhiata serena. Fece spallucce.

    «Non lo so e non voglio saperlo. È in vendita solo in Germania, penso che sia molto meglio così per ora...». Espirò piano e con due dita mi massaggiò la guancia destra. «Domani ci sarà quella cena e fingerò di non saperne nulla».

    «Dai che magari non andrà così male...»

    Mi osservò intensamente. Capii subito dove voleva andare a parare.

    «Preferirei mille volte che ci fossi anche tu. La serata sarebbe sicuramente meno noiosa...», intrecciò l’indice in un mio ciuffo rossiccio e lo tirò con dolcezza, «ma - anche potendo farlo senza destare sospetti e inutili gossip - dubito che affronteresti la mia famiglia una seconda volta...»

    Roteai gli occhi al cielo.

    «Ti prego, lo sai che...», gemetti.

    Si atteggiò da finto deluso sapendo che poteva intenerirmi.

    In realtà Michael era una persona decisamente privata. Preferiva tenere distante le sue relazioni amorose dai suoi parenti e, così facendo, dalle voci e dagli occhi del pubblico. A me stava bene. Sapevo che, se Michael fosse stata una persona normale e per niente popolare, non avrebbe esitato a farmi diventare parte della sua famiglia. Tuttavia si divertiva a prendere in giro la mia ansia all’idea di doverli incontrare nuovamente.

    «Quella volta in cui incontrerai i miei genitori potrò partecipare a tutte le cene o incontri che vuoi!»

    Il suo sorriso scemò immediatamente.

    «Dici sul serio?»

    Annuii con un’espressione beffarda in volto. «A-ha».

    «E quando potrò incontrarli?»

    Non li incontrerai mai, rise una voce malvagia all'interno del mio cervello.

    «Chiamo qualcuno che li mandi a prendere con un aereo privato? Potrei farlo subito, lo sai», sorrise perfidamente. «Avanti...», mi intimò ad alzarmi scuotendomi il braccio. «Vai a prendere quel telefono e chiama subito!»

    Gli lanciai uno sguardo obliquo.

    «Non verranno mai in America».

    «Potrebbe essere la buona volta per riuscire a convincerli a venire qui», mi dette un pizzicotto sulla guancia e rise della mia smorfia imbronciata. «Potrebbero passare una meravigliosa giornata a Neverland; qualunque visitatore si sente a casa quando arriva lì…», il sorriso si congelò appena. «Anche se non ti porto dalla mia famiglia voglio seriamente incontrare la tua, non scherzo» sussurrò a bassa voce. «Se fosse per me vorrei che mi seguissi ovunque vada. Domani non è un’eccezione…»

    Emisi un borbottio disperato e tenni gli occhi puntati sull'oceano.

    «Lo so, lo so... ma onestamente mi sento meglio all’idea di mantenere la privacy su queste cose, esattamente come te. Non voglio che la mia famiglia sappia, non ancora. Forse un giorno, quando le acque si calmeranno. E mio padre ha troppa paura di viaggiare per venire qui, lo sai. Ad ogni modo stiamo festeggiando io e te adesso, no? Lo stiamo facendo per quello che verrà fra qualche ora... e poi ho una sorpresa per te, qualcosa che volevo potessi godere lontano dagli sguardi altrui…».

    Michael corrugò le sopracciglia e sorrise stranito. Forse, con quella frase, il piano di cambiare argomento e lasciare quel discorso sospeso nel nulla avrebbe funzionato.

    «In che senso farmi “ho una sorpresa per te”?», sottolineò curioso. Portò un ginocchio sopra i morbidi cuscini del dondolo e mi esaminò vividamente interessato: le iridi brillavano come quelle di un allegro bambino. «Dimmi tutto».

    Abbozzai un sorrisino dispettoso e incrociai le braccia al petto.

    «Assolutamente no, devi resistere!», gli feci la linguaccia. «Non è niente di straordinariamente grandioso, ma l’ho fatto con amore», alzai le spalle e abbassai lo sguardo arrossendo.

    Restò in silenzio a meditare; poco dopo rise delicatamente. Chinò la testa verso di me e si avvicinò alla mia bocca; le sue labbra mi regalarono una soffice e rassicurante carezza.

    «Non mi diresti cos’è… se ti chiedessi di farmelo vedere subito... vero...?», bisbigliò rocamente.

    Gli occhi guizzarono nei suoi e Michael mi pregò in silenzio, sogghignando beato.

    Sentendo quel tiepido calore sulle gote farsi più vivido e indiscreto iniziai ad agitarmi; l’ansia di fargli udire ciò che avevo preparato per lui mi rendeva la ragazzina di otto anni che aveva affrontato il suo primo saggio di pianoforte.

    Perché quello che avevo preparato per Michael era un brano, uno spartito senza parole. La mia canzone per lui.

    «Sì», risposi issandomi con un balzo. «Non te lo direi...!».

    Michael mi prese le mani per trattenermi da una fuga a gambe levate. Mi inchiodò al posto con uno di quegli sguardi che solitamente usava quando voleva ottenere qualcosa senza aspettare oltre. Le labbra erano inclinate all’insù con sfrontatezza assurda.

    «Neanche se ti tentassi?»

    Alzò un sopracciglio e mi spinse verso di sé; aprì le gambe per farmi accostare al suo petto, mollò la presa delle mani per agganciarsi ai miei glutei. Ridacchiai.

    «Noooo...»

    «Mmh...», storse la bocca e strofinò il naso contro il tessuto del top floreale, sulla parte vicina all’ombelico. «Sei sempre così difficile... mi potrei stancare di questo, prima o poi... lo sai che potrei...»

    Provai ad allontanarlo per vedere la sua faccia e lo colsi ridacchiare; mi abbracciò ancora più energicamente di quanto non facesse già. Mi baciò presso la scollatura sul seno.

    «Non riesco a resisterti in nessun modo...», soffiò contrariato.

    Una morsa allo stomaco e mi parve di sentir cedere le gambe.

    «Lascia che vada a mettere a posto i piatti in cucina...», mi bagnai la bocca e cercai di scollarmi dalla sua stretta.

    Le labbra salirono fino alla conca in mezzo ai due seni e lì rimasero. «Puoi farlo dopo, no?» rantolò con voce fioca. Alzò lo sguardo percependo i muscoli del mio addome indurirsi, a causa dello sforzo che facevo per sopportare quel dolore al ventre. Gli occhi erano vispi ed affamati. «Almeno fammi quest’altro tipo di regalo mentre aspettiamo il 29...»

    Per un attimo volli accettare la sua proposta.

    Oh, se volevo farlo.

    Espirai con accondiscendenza. Alla fine gliela diedi vinta.

    «Vieni, ti mostro subito il regalo per te...»

    Non lo guardai in faccia quando si scostò dal mio seno. Col cuore che martellava come impazzito gli afferrai una mano, aspettai che si alzasse in piedi e lo portai verso la mia camera da letto, affrettando il passo man mano che ci avvicinavamo alla stanza.

    Lì vi era la tastiera pesata che portavo con me ad ogni mio trasferimento, sistemata vicino alla finestra scorrevole. L’ambiente era buio, illuminato appena dalla luce della Luna, e decisi di accendere la piccola lampada del comodino. Mentre facevo tutto questo con velocità sorprendente, sistemandomi nervosamente i capelli dietro le orecchie, Michael rimase imbambolato sullo stipite della porta.

    Mi incamminai verso il piccolo pianoforte e, prima di sedermi sulla sedia di fronte, osservai Michael. Arrossii per la sua espressione sorpresa ed emozionata.

    «Ti prego, non mi guardare così...», lo pregai sorridendo agitata, portando una massa di capelli all’indietro.

    Gli andai incontro e si lasciò guidare fino al punto del letto in cui desideravo che si sedesse: da quella posizione non sarebbe stato in grado di vedermi la faccia, ma avrebbe potuto osservare accuratamente le dita che si appoggiavano sulla tastiera.

    Michael non riusciva a parlare mentre io sì, a vanvera.

    «Chiudi gli occhi se vuoi, mettiti comodo... rilassati soltanto, ok?», lo intimai mostrandogli i palmi delle mani e indietreggiando.

    In realtà ero più tesa di lui, ma poco importava.

    Michael rise piano con le iridi accese di gioia e trepidazione. Unì le mani scrollando le spalle per sciogliere ogni particella di ansia ed attese, aprendo e chiudendo le ginocchia e battendo spasmodicamente i piedi a terra. Una parte di me sorrise intenerita per il bambino che era.

    Presi la sedia accanto al pianoforte e mi lasciai cadere sopra inspirando a pieni polmoni.

    Feci mente locale per ricordarmi l’accordo di inizio e le dita si sistemarono sopra i tasti in un nanosecondo: un flash di luce e ricordai tutto, non fui preoccupata all’idea di sbagliare.

    Mi arrestai ancora prima di suonare le prime note.

    Mi voltai verso Michael con le gote che scottavano.

    «Come ho detto prima non è granché... ci ho messo quasi un mese per scriverla, cancellando e riscrivendo lo spartito... questo è ciò che penso di te, il modo in cui ti vedo e ti percepisco, perciò...», smisi di gesticolare a vuoto e alzai le spalle.

    La voce tremò ma non feci tempo a finire.

    «Suona, ti prego».

    Lo guardai. Michael mi osservava amorevolmente e mi stava regalando un sorriso rassicurante. Le sue ossidiane scure brillavano di contentezza. Il suo torace si alzò per il profondo respiro che fece.

    «Suona per me, Sarah...».

    Quella frase e quel tono furono come velluto sulla pelle, come una carezza inaspettata sulla guancia e un sottile richiamo che induceva tutte le mie preoccupazioni a placarsi; perciò annuii, gli detti le spalle e fronteggiai la tastiera.

    Il suono dei battiti cardiaci rimbombava nelle orecchie al posto del silenzio.

    Inspirai a pieni polmoni.

    Non appena le dita scorsero sui tasti autonomamente come facevano da giorni, dopo prove e prove per arrivare a suonare quella melodia in maniera perfetta, i miei occhi si chiusero. Lasciai che la tensione si liberasse dal corpo non appena il dolce suono del piano s’elevò in aria. Nel sangue fluì l’amore che provavo per Michael; lasciai che quella luce che mi avvolgeva il cuore si estendesse oltre i confini della pelle. Rilassai la schiena, inclinando il capo da un lato, rasserenando le pieghe della fronte.

    Ci era voluto tempo per arrivare al risultato che volevo. Ogni volta che tentavo di scrivere qualcosa che mi ricordasse Michael non veniva fuori niente che mi piacesse... ed effettivamente sbagliavo. Nel momento in cui non avevo pensato a inventare una canzone, nell’attimo di quotidianità più normale che potessi vivere, l’ispirazione era piombata su di me come un fulmine a ciel sereno.

    Accadde quando percepii un suo “Ti amo” al telefono, subito dopo avergli detto che mi venivano i brividi quando lo vedevo sorridere ai suoi figli o anche quando generalmente parlavamo dei bambini del mondo. In quell’istante, inventando una scusa che non stava né in cielo né in terra, avevo chiuso la conversazione ed ero corsa al pianoforte, prendendo il primo foglio di carta per buttare giù lo spartito: avevo serrato le palpebre e tutto era venuto da sé.

    In quella melodia vedevo Michael. Anche lì, con lui vicino, riuscivo a percepirlo nel cuore. Michael era effettivamente parte della mia anima – dentro la mia anima – ed era un pezzo di me che non se ne sarebbe mai andato lontano; qualunque cosa sarebbe accaduto, qualsiasi cosa sarebbe successa fra noi, quella parte di me lo avrebbe amato per sempre. Quella parte di lui, che pervadeva angoli remoti del mio corpo e del mio spirito, mi avrebbe sempre indotto a rimembrare l’amore che eravamo.

    Suonando quella canzone potevo vedere il suo sorriso e i suoi occhi di una beltà incommensurabile. Vedevo il suo viso illuminato da una luce che non faceva male agli occhi; lo vedevo giocare con i bambini e poco dopo sedersi su un prato fiorito e ammirare il cielo stellato, con la camicia sbottonata e il fiatone, indicandomi quali fossero le stelle e quali fossero i pianeti; potevo visualizzare le sue lacrime di felicità e di tristezza, i momenti bui e quelli felici, solo attraverso qualche accordo messo assieme. Potevo sentire il suo odore di sandalo e borotalco, di dopobarba e di pulito che indossava ogni santo giorno, ogni santa ora che spendevo con lui; potevo percepire una sua mano sulla spalla, sulla guancia o sulla testa tramite una debole folata di venticello fresco; potevo percepire le sue labbra morbide posarsi sulle mie e subito dopo un fremito lungo tutta la schiena. E non importava se Michael fosse con me per davvero, perché lo sentivo abbracciarmi anche a metri o chilometri di distanza. Potevo sentire la sua voce chiamarmi.

    Lui era e sempre sarebbe stato un uomo e un bambino fuso in una cosa sola. A volte torbido e insidioso, altre volte limpido e trasparente. Sarebbe stato la bellezza di una risata – a volte acuta e a volte roca; sarebbe stato il malinconico splendore di un pianto colmo di tristezza e vulnerabilità, talvolta anche di divertimento e allegria. Semplicemente Michael, con il suo carattere colmo di sfaccettature diverse... ma soprattutto sarebbe stato amore.

    Una lacrima mi sfuggì dagli occhi scendendo rapidamente per la guancia destra quando finii di suonare... non riuscii a trattenerla e non lottai per farlo. Con le mani che tremavano mi separai dai tasti bianchi e neri premuti per ultimi, mi asciugai la guancia bagnata ed inspirai riprendendo un po’ di fermezza. Solo allora ascoltai attentamente il suono del silenzio.

    Mi girai verso Michael, incuriosita e al contempo intimidita per la reazione che pensavo di avergli causato.

    Teneva gli occhi chiusi e il capo alzato verso l’alto come se si trovasse in un profondo stato di estasi. Le ginocchia e i piedi erano immobili rispetto a quando avevo iniziato a suonare, le mani erano ancora allacciate fra loro e penzolavano nel vuoto in mezzo alle gambe. Il suo cipiglio mostrava chiaramente l’interesse posto nell’ascoltare quella melodia, in particolar modo quelle labbra serrate e le sopracciglia appena sollevate.

    Sbattei le palpebre per la sorpresa.

    Avevo immaginato che a fine canzone mi avrebbe guardato con uno sguardo tranquillo e sorridendo mi avrebbe detto un semplice “Grazie, piccola”; ed invece no, anche dopo un minuto abbondante da quando avevo smesso di suonare non ostentava muoversi.

    Tentai di dire qualcosa per risvegliarlo da quello stato di trance, ma non mi uscì nulla.

    Improvvisamente mi guardò.

    Un sorriso commosso gli sollevò le estremità delle labbra, mentre la lingua scivolava più e più volte su queste. Abbassò lo sguardo percependo la mia confusione e scosse energicamente il capo, ridacchiando. La fronte si corrugò quando una lacrima scivolò visibilmente sulla sua guancia.

    Il cuore si fermò e Michael si alzò in piedi venendomi rapidamente incontro. Alzai il mento in sua direzione e subito dopo vidi buio. La mia faccia si scontrò con la sua camicia e le sue grandi mani che, tremolando, affondarono nei miei capelli.

    Mi baciò sulla nuca e in seguito si chinò a terra, puntando alla mia bocca; fu appassionatamente, dolcemente e quasi angosciosamente bello. Di sfuggita potei vederlo piangere.

    «Sarah…», mi chiamò emozionato. «Perdonami se non riesco a dirti cosa provo, perdonami...» Sorrise e mi baciò una seconda e una terza volta senza lasciarmi ribattere. Aprì gli occhi e mi abbracciò con una sola occhiata. «Io ti amo in modo folle».

    Affondai il viso nell’incavo del suo collo. Odorai il suo profumo e le dita si afferrarono alla sua schiena; con un respiro mozzato dalla felicità mi lasciai andare ad un lungo attimo di silenzio. Avrei voluto ricambiare il suo amore a parole.

    «Andiamo...», mormorai e gli diedi un bacio delicato sulla gota, «devo farti vedere ancora una cosa...»

    Mi guardò sorpreso, accecato dalla commozione.

    Gli sorrisi.

    *

    <div style="text-align: justify;">«Ta-dan!», portai le braccia in alto in segno di euforia e in seguito mi strinsi nelle spalle, allacciando le mani dietro la schiena.

    Michael si guardò a destra e a sinistra, davanti e indietro come se non avesse mai visto delle candele sulla spiaggia. La luce evanescente delle fiammelle ravvivava debolmente la zona, donando all’atmosfera tiepido calore e soffuso erotismo. Le onde del mare sussurravano al vento bisbigli dolcissimi, il profumo di salsedine era pungente.

    Non ero mai stata una donna sdolcinata. Nonostante questo, per Michael le avrei fatte anche mille volte di seguito. Tra i due era lui quello delle manifestazioni romantiche.

    «Tu sei matta, ragazza...», mormorò scrutando la coperta che, adagiata a terra, seguiva le piccole dune presenti. Vicino vi era anche una piccola borsa frigo semirigida nel quale avevo sistemato una bottiglia di champagne e due calici di vetro. Sorrise e mi guardò sbigottito, massaggiandosi il mento con due dita. «Ma come...?»

    Feci spallucce. «Volevo che questa serata fosse perfetta. Ho organizzato tutto in modo abbastanza carino, vero?», assunsi una smorfia soddisfatta e analizzai il tutto con le guance arrossate.

    Avrei voluto disporre le candele seguendo un disegno predefinito, ma poi avevo cambiato idea e le avevo messe a casaccio. Non era male neanche così.

    «Be’...?», lo adocchiai incuriosita e gli andai vicino. «Ti piace?»

    Michael si torturò il labbro inferiore. «Non so che dire».

    «Non te lo aspettavi?»

    Mi esaminò sorridendo, un po’ intimidito dalla situazione ma per nulla scontento. Era molto più felice di quanto desse a vedere, disse una vocina nel cuore...

    Mi penetrò con uno sguardo. «No, per nulla»

    Sorrisi.

    «Ne sono felice», rilassai le spalle.

    Gli occhi di Michael scivolarono verso i miei fianchi dopo un rapido check-up; una mano si pose leggera su quello destro e mi attirò a sé inclinando il capo di lato. Socchiuse gli occhi avvicinandomi pian pianino a lui e si bagnò le labbra.

    «Grazie, principessa».

    I formicolii irruppero nella mia zona più intima.

    «Ho dello champagne per brindare...» bisbigliai quando le sue dita s’infilarono sotto il mio top e mi accarezzarono la schiena.

    Faticavo a rimanere lucida se contemplavo di continuo la sua espressione seria e passionale, perciò mi puntai sulla sua camicia nera; ma così non facevo altro che delirare più di quanto non stessi già facendo, soprattutto se quelle morbide carezze si arrampicavano verso il seno. Bastava quello e la terra tremava sotto i piedi.

    «E ho portato anche il cellulare per controllare l’ora, non si sa mai...», infilai la mano nella tasca sinistra dei pantaloni e Michael arrestò momentaneamente i suoi tocchi. «Adesso sono le... 23:51. Siamo un po’ in anticipo...»

    «Mi fai respirare...»

    Lo osservai impacciata e perplessa. «Uh?»

    Sorrise ancora.

    «Ho detto...» mi prese il telefono dalla mano e lo gettò sul plaid, «che mi fai respirare. Con te vicino le mie funzioni vitali riprendono a lavorare come in un essere umano qualunque». Feci per rispondere ma continuò con un sorriso decisamente più ampio e sognante. «Non capisco perché e come...»

    Storsi le labbra. «Non è che dici questo solo perché mi vuoi, eh?»

    «Mmh...» guardò in alto e assunse una smorfia fintamente meditabonda. Scoccò la lingua al palato. «Anche...», mi fissò.

    Mi baciò infilando le dita nella carne, ancora con le mani al di sotto del mio top, corrugando di poco la fronte. Lo stomaco si chiuse e scoppiettii di gioia infinita partirono dal cuore di entrambi verso l’oscurità sopra di noi. Ricambiai afferrandomi alla sua camicia.

    «Ti amo», ansimai. Mi separai da quella bocca con espressione contrariata. «Anche quando dici queste cose e non so come rispondere...»

    Sogghignò a voce roca. Le labbra passarono in rassegna del collo e delle scapole, scendendo verso l’apertura del top floreale, scivolando sulla pelle come gocce di acqua piovana rasentano lo splendido piumaggio di un cigno senza scalfirlo.

    «Direi di preparare da bere, intanto che aspettiamo...»

    Con un abile scatto sfuggii dalla presa di Michael, scivolando lontano dalle sue braccia, e mi diressi verso la borsa ghiaccio. Evitai di salire sulla coperta per non sporcarla di sabbia; mi inchinai a terra, aprii il borsone e ne estrassi lo champagne e i calici. Alzata in piedi lo vidi uccidermi con un’occhiata indispettita e maliziosa.

    «La smetti di filartela sempre?», potei udire la sua irrequietezza nascosta sotto un tono di velata affabilità.

    Assunsi una faccia da poker assurda.

    «Io?»

    Alzò un sopracciglio.

    «Dai, siediti...», lo incitai attraverso un cenno del mento, ridacchiando, «io preparo qui intanto...»

    Sbuffò. A piccoli passi si portò verso il centro della coperta e si sedette; si sbottonò tranquillamente la camicia e la lasciò aperta fino all’ombelico.

    Lo adocchiai di soppiatto con finta nonchalance, cercando di nascondere il mio disorientamento per quei suoi atteggiamenti tremendamente eloquenti. Riempii i calici senza dire nulla. Detti un cenno del capo per mandare via una ciocca di capelli dagli occhi e mi sedetti sul plaid, tenendo d’occhio i calici per non rovesciarne il contenuto.

    Le iridi scure di Michael non facevano che studiarmi ed io evitai di dirgli “Smettila di fissarmi così, mi fai scottare le guance dall’imbarazzo”. Allungò una mano e gli consegnai il suo bicchiere; nel momento in cui lo feci mi accarezzò il dorso della mano. Lo osservai. Mi sorrise.

    «Quegl’occhi mi uccideranno», proruppe gentilmente. «Amo quella tua buffa smorfia di stupore e quelle palpebre un po’ sbarrate quando faccio qualcosa che non ti aspetti... piccola incosciente...»

    Storsi la bocca. «“Piccola incosciente” è ormai il mio soprannome appurato. Non lo cambierai mai, vero?»

    Rise e chinò la testa.

    «No, ti dona perfettamente». Due stelle apparvero al posto di due occhi perfettamente neri. «Come io sono ancora il tuo vecchietto occhialuto, d’altronde...»

    Arricciai il naso per trattenere un risolino.

    «Mi tieni un momento anche il mio?», chiesi porgendogli il calice, «Devo prendere il cellulare...»

    Annuì. Strisciai verso il telefono gattonando e controllai l’ora: erano le 23:57.

    «Mancano tre minuti di numero», sospirai. «Ancora un po’ di pazienza»

    Mi girai e lo scoprii ispezionare il mio fondoschiena con fare pensieroso; notò che lo stavo fissando e allora mi lanciò un’occhiata perforante, passandosi lentamente la lingua fra le labbra. In un secondo Michael sembrò avvolto dalle fiamme.

    Mi afferrò un piede con le dita che bruciavano, salendo e scendendo dal collo fino alla caviglia. Mi trascinai un po’ verso di lui in assoluto silenzio, sedendomi, e mi passò nuovamente il bicchiere. Tutt'e due rimanemmo in silenzio, ma potemmo ben percepire le vibrazioni che ci avvolgevano.

    «Sono felice di essere qui», disse apparentemente tranquillo. Il suo petto fu scosso da un tremore improvviso. Socchiuse le labbra per dire qualcosa, si interruppe e poi continuò. «Io con te... non sono solo...»

    La voce mi si smorzò in gola. «Io neppure...»

    Guardò rapidamente lo schermo del cellulare accanto a me e serrò la bocca mandando giù la saliva.

    «Io non mento quando dico che ti desidero...», bisbigliò, «e non intendo solo fisicamente. Desidero tutto di te, amarti... e ogni giorno che passa mi rendo conto che mi è impossibile non farlo». Mi guardò emozionato. «Mi hai stregato».

    «Anche tu... corpo e anima, come dice Mr. Darcy nel film Orgoglio e Pregiudizio», sogghignai e alzai il calice in aria. Ma la risata scomparve presto. Lo puntai dritto negli occhi. «Io ti amo davvero...», mormorai.

    Sorrise e piccolissime lacrime brillarono come cristalli sotto il Sole. Anche il silenzio, per un attimo, parve fare rumore. Un rumore sordo, che vibrava e scorreva nelle vene a velocità della luce; una melodia confusa, che non esiste in nessun luogo o tempo se non in quei secondi in cui tutto si fa nullo, in cui ogni cosa assume un aspetto irreale, dove le anime si scontrano ma non si fanno del male.

    La suoneria della sveglia che avevo impostato a mezzanotte ci destò ognuno dai nostri pensieri. Presi il telefono fra le mani e spensi l’allarme con un solo “click”.

    «Be’, Michael...», lo adocchiai amorevolmente, «buon compleanno!».

    Ringraziò sorridendo. Facemmo suonare i calici uno contro l’altro con un adorabile tintinnio, bevvi un sorso alla volta e, terminato quel breve brindisi, risistemai al loro posto bicchieri e bottiglia. Quando mi risedetti una mia mano venne inglobata nella sua.

    L'anima fu scossa da un forte sussulto.

    Mi accostò a sé.

    «Tu sei il mio regalo più bello, stasera». Mi baciò la guancia e sussurrò gentile al mio orecchio, «Lasciami ammirarti...»

    Il fiato si spezzò in gola.

    Capii cosa voleva che facessi.

    Indietreggiai fino al centro della coperta e senza interrompere il contatto visivo mi sedetti distendendo le gambe sul plaid. Michael si mise a cavalcioni sopra i miei piedi per potermi togliere i pantaloni e slip. Lo lasciai fare issandomi appena sul posto, in uno stato di esaltazione pura, con lui che li faceva scendere lungo le cosce e poi li sfilava con delicatezza. Mi regalò uno sguardo intenso e meravigliato, avanzò di qualche passo verso il bacino e mi invitò ad alzare le braccia in alto per togliermi il top floreale. Non avevo reggiseno.

    Mi sentii privata di ogni difesa, ogni barriera, ogni muro, ogni via di fuga, ogni possibile scappatoia.

    Indietreggiò. Mi agguantò i piedi ed il sangue fluì nelle tempie; coccolò le caviglie con squisiti e mansueti baci, salendo verso i polpacci e le ginocchia prima di una gamba e poi dell’altra. Gemetti poco prima che, languidamente cordiale, mi invitasse a distendermi sotto di lui. Lo feci e si lasciò cadere a seguire, a pancia in giù, reggendosi sui gomiti.

    Desideravo osservare a lungo quella scintilla di passione che soffocava la sua lucidità, vederlo vaneggiare quando mi aveva vicino, ed invece rimase lucido. Fu tremante di emozione – di prezioso e intimo affetto – ma non perse il controllo.

    Fletté la testa di lato. Mi contemplò con un sorriso fra le labbra e una luce in viso che abbagliava il mondo intero, me per prima.

    Sembrava ammattito, incantato oltre ogni limite... ed era pazzo. Un adorabile pazzo.

    Avvampai e piegai il viso verso il mio seno, per poter esaminare il viaggio che tre dita – quelle della mano sinistra – avevano intrapreso verso il basso, tracciando curve e strane forme geometriche; mi accarezzarono ovunque – sulla conca fra i due seni, presso la zona ombelicale e tutt’intorno, per poi avviarsi sulle cosce e tornare rapidamente su; gli addominali si contraevano ogni qualvolta mi sfiorasse l’intimità.

    Studiai ogni dettaglio della sua faccia, ogni lineamento a me caro, come se non lo facessi da molto tempo; i suoi occhi con il loro colore scuro e il taglio che li rendeva grandi e pieni d’emozioni; le labbra rosee e vellutate che nascondevano un sorriso stupendo e devastante, le guance marcato e il naso all’insù; i capelli corvini, il collo, ogni cosa che passava sotto la mia attenzione, dalla più minuscola alla più marcata. Non vi vedevo difetto alcuno. Anche io ero persa per lui.

    Nell’attimo in cui riuscii a percepire quanto desiderio gli stessi procurando – anche senza essere dentro di me – serrai le palpebre come se fossi avvolta da una scarica d’elettricità, che pizzicava la spina dorsale e si diramava verso ogni arto.

    La voce che uscì dalla sua bocca fu bassa e premurosa. «Ti piace?»

    Stavo respirando a fatica.

    «Sto tremando...», bofonchiai.

    Michael sorrise. Con i polpastrelli che aveva utilizzato poco prima mi sfiorò le labbra. Lo guardai con uno sprazzo di illogico delirio in volto, la bocca si socchiuse autonomamente sotto le sue amorevolezze; si chinò con un’occhiata struggente e mi baciò le labbra seguendo ritmi dolci ma appassionati, scanditi come il ticchettio di un orologio a pendolo; dopodiché i suoi baci percorsero tutto il tragitto eseguito qualche minuto prima con la mano, rasentando ogni zona toccata, aiutato talvolta anche dalla lingua, respirando contro la mia carne.

    Espirai tutta quell’impazienza che mi irrigidiva: la sensazione inebriante che mi donava non riusciva a farmi star ferma. Mugolai impercettibilmente e le palpebre si chiusero da sole.

    Quando arrivò al ventre, la mia femminilità sussultò atterrita e serrai le gambe.

    «Shhh», con due dita mi invitò a rilassarmi.

    Vedevo offuscato. Più sentivo che si stava avvicinando alla mia intimità, più quella ribelle emozione si dimenava tra le mie membra. La bocca di Michael si posò sulla mia collina ed emisi un gemito strozzato, stringendo la coperta tra i pugni e inarcando la schiena; scese verso le labbra gradualmente - torturate da onde di lussurioso piacere - e donò gentili ed umide lusinghe al mio grilletto. Con l’indice salì il sentiero verticale che proteggeva la mia carne senza infilarsi in essa.

    «Michael...», boccheggiai.

    Un ultimo bacio al monte di Venere e lì vi rimase per dieci secondi abbondanti, ad occhi chiusi, senza separarsene. Depose la fronte sul ventre ed inspirò pesantemente, massaggiandomi le cosce. Di punto in bianco lo udii sghignazzare.

    «Scusami... ma se continuo così delirerò».

    Tu...?!

    Ritornò alla posizione iniziale e portò il peso sugli avambracci. Mi guardò nascondendo l’improvviso smarrimento attraverso una maschera di pacata serietà. Lo scrutai senza fiato.

    Gli chiesi di lasciarmi spazio per mettermi a sedere: lo fece e nel mentre analizzò ogni mia mossa, esattamente come prima. Mi morsi la lingua e sorrisi con guance che scottavano dall’emozione.

    «Hai mai fatto un bagno in mare di notte?»

    Michael si accigliò.

    Ritornai in piedi con uno sbuffo affaticato, gli detti le spalle e avanzai solitaria verso il punto in cui l’acqua rendeva la sabbia una deformabile consistenza, a qualche metro di lontananza da dove avevo lasciato Michael. Mi volsi in direzione della coperta ed ebbi un forte batticuore nel vedere Michael togliersi i vestiti e la biancheria intima.

    Ammirai la vasta distesa d’acqua che si confondeva con l’oscurità del cielo e il riflesso della Luna sulla superficie quasi immobile. Inspirai portando tutti i capelli sulla spalla destra.

    Consapevole di non dover aspettare molto tempo, due braccia mi circondarono. Il corpo premette contro il mio, il sesso retto in tutto il suo vigore mi sfiorò appena il fondoschiena. Sciolse la stretta dopo avermi baciato la scapola e mi tenne la mano, distendendola lungo il fianco.

    La sua presenza fisica mi tolse la capacità di parlare e guardandolo un'ulteriore volta negli occhi il cuore esplose in un trionfo di gioia e amore divino, così ultraterreno e puro che subito le mie braccia ricercarono il suo abbraccio.

    Michael mi strinse a sé senza esitazione alcuna.

    Se quello fosse l'Amore nella sua forma più vera, non ero sicura di saperlo... e, in realtà, credevo di non aver mai saputo niente di concreto o assoluto riguardo a quel sentimento in tutta la mia vita. Solo parole al vento fino a quando non avevo incontrato Michael. Allora quell'anima confusa aveva scelto di vivere l’attimo e di provare a respirare di quel sentimento. Così, semplicemente per quello che era.
  7. .
    Capitolo Quaranta: La Fiducia


    Rientrai in casa attraversando il terrazzo, stando attenta a non sporcare il pavimento di sabbia. Mi appoggiai alla grande finestra scorrevole del salotto e mi spazzolai bene i piedi con una mano, frattanto che con l’altra reggevo l’asciugamano attorno al torace: faceva caldo, così tanto che mi ci era voluto soltanto il percorso dalla spiaggia fino alla casa in affitto per asciugarmi a metà.

    Feci un brusco cenno del capo all’indietro per togliere alcuni ciuffi bagnati dalla fronte.

    La pelle sapeva di sale e di quella strana essenza che io, da bambina, chiamavo “profumo del Sole”: quel calore che i raggi solari lasciano sulla carne appena abbronzata. Un misto di salsedine, crema abbronzante e tepore.

    Lasciai le ciabatte vicino alla veranda. Raccolsi l’asciugamano che nel frattempo mi era scivolato di mano e mi avviai verso la cucina, adagiando quest’ultimo su una sedia vicino al bancone in legno scuro. Cantai allegramente un motivetto sconosciuto mentre mi versavo un bicchiere d’acqua per risciacquarmi la bocca dall’acqua di mare.

    Il mio sguardo si posò sul cellulare che avevo lasciato sul tavolo poche ore prima, finita la mia conversazione mattutina con Michael.

    Con mia sorpresa notai che era arrivato un messaggio giusto venti minuti prima. Era suo.

    Aggrottai le sopracciglia sorridendo stranita e lo lessi.

    Scrivimi quando sei libera, devo parlarti di una cosa.

    Aggrottai la fronte. Mi sedetti sulla sedia al mio fianco non rendendomi conto del gesto appena compiuto e mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

    Sono libera ora, dimmi tutto.

    Inviai il messaggio senza esitare.

    Avevo sempre un po’ paura di qualcuno che mi diceva “Devo parlarti”. Sotto quel punto di vista potevo capire benissimo l’angoscia del sesso maschile e il perché prendesse in giro noi donne per fare terrorismo psicologico con questa frase.

    Rimasi appoggiata al tavolo tenendo il mento su una mano fino al momento in cui non sobbalzai. Il mio telefono emise un trillo continuo: mi stava chiamando.

    Fissai il telefono e lo afferrai in un batter d’occhio: mi stupii per la velocità con cui Michael doveva aver letto quel messaggio, ma ancor di più per il mio respiro fermo nei polmoni. Il petto tuonò dall’emozione.

    Posizionai il cellulare accanto all’orecchio dopo aver accettato la chiamata. La sua risatina profonda mi impedì di emanare un suono.

    «Lo sai che ti amo?»

    Eh?

    Non seppi se maledirlo, ridere o sciogliermi per quella eccessiva dose di zucchero.

    Era sorprendente, completamente innaturale, sentirmi in quella maniera. Era bello e angosciante, tutto perché non riuscivo a trovare le parole per descrivere ciò che provavo... era terrificante.

    Sospirai. «Lo hai fatto apposta per farmi stare in ansia, di’ la verità…»

    «Esatto...» Michael ridacchiò in tono abbastanza rauco.

    Se una voce avrebbe potuto abbracciare una persona, la sua lo poteva fare senza dubbio.

    Una folata di vento tiepido mi spettinò i capelli.

    «Ti amo...», deglutii l’aria a fatica.

    «Anche io, Moony».

    Strinsi le dita attorno al telefono. «Ma smettila di fare queste... queste sdolcinatezze quando meno me l’aspetto! Altrimenti arrivano quei silenzi che non so sostenere», risi.

    Sogghignò. «E tu non dire queste cose...». In breve la sua risata scemò e si fece serio. «Perché sto impazzendo per te...»

    Il basso ventre formicolò dall’entusiasmo.

    «Mi stai portando fuori di senno...», prese fiato, «vorrei che tu fossi qua... ti vorrei...»

    «Michael!» piagnucolai e risi assieme. «Così fai peggio!»

    «Mi desideri? Ti manco?»

    «Costantemente, amore».

    Mi zittii. Non avevo mai chiamato Michael “amore” prima d’allora. Arrossii violentemente e ringraziai il cielo che non mi potesse vedere.

    «Amore...» ripeté la parola con adorazione. Ridacchiò mestamente. «Lo vedi? È colpa tua...» La frase venne spezzata per mancanza di fiato. «Non immagini cosa ti farei se ti avessi di fronte...»

    «Dimmelo».

    Allacciai una gamba sopra l’altra posando la mano sinistra sulla pancia. La tentazione di far scivolare le dita sulla mia femminilità fu fortissima.

    «Non posso...»

    «Davvero?» sghignazzai con sguardo vacuo, arcuando un sopracciglio.

    «Sei sola?».

    Feci una smorfia e roteai gli occhi al cielo.

    «No, ho invitato due bei ragazzi che ho incontrato sulla spiaggia... mi aspettano tutti madidi di sudore a letto... a petto nudo...», sussurrai con voce bassa e sensuale.

    «Scema!», mi rimproverò soffocando una risata. «Non fa ridere!»

    «Pff! A me pare tutto il contrario», i polpastrelli scivolarono verso il bicchiere vuoto di fronte a me e picchiettai insistentemente il vetro con le unghie.

    «Sei in costume?»

    «Sì... ho appena fatto un bagno al mare e ora mi sto bevendo qualcosa», guardai fuori.

    «In cucina?»

    «A-ha» seguii con l’indice il bordo del bicchiere formando cerchi infiniti, il tutto molto lentamente.

    «Descrivimi tutto»

    «Uhm...» mi guardai intorno. «Be’, sono in costume... è uno a due pezzi, nero, molto semplice, che però si allaccia dietro il collo. C’è una brezza stupenda… e anche un completo silenzio, se non per le nostre voci e il suono del mare...». Sorrisi maliziosa. «Ma perché queste domande?».

    «Ti sto immaginando...», emise in un soffio.

    «Mmh...», sussurrai, «e tu? Dove sei?»

    «Sono in camera...» Michael schioccò la lingua al palato. «Sono disteso a letto, in canottiera e pantaloni neri... c’è il condizionatore… le serrande sono abbassate quasi del tutto...»

    «Mi stai pensando?»

    «A-ha»

    «Bene», sorrisi maliziosa.

    Ingoiai la saliva. Immaginavo eccome le mani di Michael su di me e io sopra il suo corpo. Mi pareva di sentirlo immergersi in me, volta dopo volta, sempre più a fondo. Di colpo ebbi una sete così tremenda che avrei potuto bere tutto l’acquedotto di Los Angeles.

    «Dimmi come mi vedi...»

    Chiusi gli occhi. «Tu non mi hai detto cosa mi faresti».

    Attesa.

    «Vuoi saperlo davvero?»

    «Certamente».

    «D’accordo...»

    Lo udii inspirare.

    «Per prima cosa, ti prenderei tra le mie braccia... ti indurrei a sdraiarti su quel tavolo...» mugolò impercettibilmente «e ti toccherei, ti bacerei, ti sfiorerei ovunque... e tu mi pregheresti per averne di più, molto di più, come fai ogni volta che siamo assieme. Le mie dita si poserebbero dappertutto, sulle tue morbide curve… le labbra salirebbero dal collo verso la tua bocca... e allora entrerei in te, con dolci movimenti... verrei in te...»

    Ondate di piacere intenso si scagliarono contro la mia intimità. Il torace fu scosso da respirazioni pesanti. Fui tentata di portare i polpastrelli in basso, luogo già in attesa di lui, pensando che Michael stesse facendo la stessa cosa.

    «Io ti vedo disteso...», feci sfuggire un sospiro emozionato.

    «Vai avanti», le sue parole erano taglienti come coltelli affilati.

    «Mi vedo sopra... ti sento...», strinsi il palmo della mano attorno alla coscia, afferrando la pelle per non cedere alla tentazione.

    «A-ha...»

    Mi bagnai le labbra. «Immagino come mi stringi i fianchi mentre sei dentro di me, prima piano e poi sempre più forte...». Arrossii per quell’idea ma le parole non smisero di fluirmi liberamente dalla bocca. Mi inarcai in avanti. «Ti vedo mentre ti mordo il labbro inferiore e mi guardi intensamente... il mio seno che segue i nostri movimenti...»

    Lo sentii sospirare pesantemente.

    «Non mi fermerei... anzi, continuerei a dire il tuo nome e pregarti di continuare… più forte, più forte, sempre più forte e velocemente…»

    Mandai giù la saliva accennando ad un sottile spasmo di risata intimidita, non smettendo di arrossire, dispettosa e bastian contraria come al solito.

    «Ma preferirei continuare questa tortura se venissi a trovarmi…»

    Una lunga pausa.

    «Uh...?» Michael espirò, scombussolato.

    Ridacchiai e guardai l’orologio a muro. «Non sai quanto mi dispiace interrompere tutto questo, ma oggi devo uscire prima di mezzogiorno…».

    Dalla cornetta si diffuse un silenzio che mi fece paura.

    «Dove?»

    Feci una faccia strana, comprendendo dal modo in cui aveva posto la domanda che si era incupito, o peggio offeso.

    «Devo andare a fare la spesa, altrimenti morirò di fame e vivrò di stenti. Magari farò una torta salata».

    Parlottai a vanvera capendo immediatamente che non mi avrebbe chiesto nulla al riguardo, e che non gli sarebbe interessato nulla dei miei progetti culinari. Non quel giorno.

    «Mmh-mmh...»

    Roteai gli occhi al cielo.

    «Dai, non ti offendere...»

    «Chi si offende?»

    «Tu, gufo brontolone. Per una volta che non ci sto non è la fine del mondo!», feci spallucce. «Se non te ne sei accorto ti ho indirettamente invitato a casa mia... anche per mettere in atto queste fantasie», bofonchiai.

    «Mmh...»

    Espirai e gesticolai animatamente con me stessa.

    «Due giorni fa mi avevi proposto di vederci oggi e non mi hai più fatto sapere niente! Sappimi dire entro qualche ora, per sapere se devo fare da mangiare per due. Ma se sei offeso e hai cambiato idea dimmelo subito, così non prendo cose per niente», pronunciai quelle ultime parole con orgoglio ferito.

    «Aspetta...», sussurrò.

    «Cosa?»

    «Ti voglio, lo sai questo?»

    Tremai.

    «Sì, certo che lo so...»

    «E stasera subirai le conseguenze». Quelle sillabe erano graffiate dal desiderio e impregnate di furente ardore. Sghignazzò in maniera quasi inaudibile. «Non puoi scapparmi».

    «Conseguenze?»

    «Non fare la finta tonta. Le conseguenze per avermi lasciato così, adesso...»

    Nella testa avevo l’immagine precisa di quell’espressione maliziosa che gli dipingeva il viso.

    «A-ha, certo...», mormorai divertita. «Ti aspetto allora».

    «Sì...», mi parve di vederlo sorridere. «Ti amo».

    Risi. «Anche io... nonno antipatico!».

    Terminai la chiamata attorcigliando una ciocca di capelli attorno alle dita, mordicchiandomi il labbro inferiore pienamente compiaciuta per l’affare appena concluso. Ero innamorata, completamente assente dalla realtà, e non c’era sensazione più bella.

    *

    Studiai i due paia di tacchi ai miei piedi con fronte aggrottata, tenuta compagnia dal lieve vociare di donne allegre in negozio e dal ronzio della radio, percepibile nitidamente dalle casse sopra di me.

    Un paio di tacchi era davvero elegante, quasi dieci centimetri di altezza e di color avorio, e l'altro era bianco, semplice, ma con un tacco finissimo con il quale - ne ero sicura - avrei potuto benissimo rischiare il suicidio. Ne valeva la pena comprare almeno uno dei due?

    Da circa un'ora ero entrata in quel lussurioso negozio di Santa Barbara e non avevo ancora le idee chiare su cosa fare. Avevo visitato chissà quanti posti nel pomeriggio e quello sembrava il meno costoso di tutti. Non era da me indossare tacchi a dirla tutta, ma serviva sempre un paio per l’estate.

    Ad ogni modo, non sapevo proprio in che occasione avrei potuto usarli. Per fare colpo su Michael? Probabile. Impazziva quando mi vedeva vestita da donna elegante. Per andare in giro a fare spese? Nah, anche no.

    Indossai per l'ultima volta i tacchi color avorio e pensai alla borsa da abbinarci. Mi osservai allo specchio che avevo dinanzi, ponendomi sul fianco destro e sinistro per un’altra manciata di minuti. Odiavo fare shopping di scarpe.

    Si sta parlando molto di Michael Jackson in questi tempi, non credi che il processo gli stia dando troppe attenzioni?

    Al nome “Michael Jackson” le antenne che avevo al posto delle orecchie vennero attratte da ciò che i due personaggi alla radio stavano dicendo. Alzai appena lo sguardo.

    Oh be’, questo è certo!

    La donna alla radio rise.

    - Ma per il momento non sembra preoccuparsene! Proprio oggi è stato beccato in un centro commerciale a Houston, accompagnato dalla solita mandria di sfasati e da una bellissima ragazza a braccetto!
    - Ma non era gay?
    - In realtà credevo che fosse un pedofilo!

    Entrambi i due tizi risero delle loro battute e continuarono i loro ridicoli discorsi dimenticando Michael, passando ad un'altra star di Hollywood che in quel periodo aveva difficoltà con la popolarità e tutto ciò che ne conseguiva.

    Feci una smorfia disgustata e ingoiai un moto di rabbia. Mi sedetti sulle poltroncine in velluto rosso e mi tolsi i tacchi: decisi di comprare quelli avorio senza pensarci sopra ulteriormente.

    C'è un motivo – semplice, a dire il vero – che porta alcune persone a parlare male degli altri: basta dar aria alla bocca. Quando nella loro vita c'è spazio soltanto per l’infelicità, l’odio e il rancore, costoro trovano uno sfogo in chi - secondo loro - all'apparenza sta peggio o dovrebbe stare peggio. Scaricano la propria frustrazione sugli altri, perché non conoscono altro di meglio.

    Ma lasciai perdere i commenti sarcastici su Michael per rimuginare sulla notizia udita.

    Che fosse partito per il Texas lo sapevo; me lo aveva detto al telefono e mi aveva detto le “causali” che lo avrebbero portato lontano... ma quale bellissima ragazza lo accompagnava? Era una balla dei due speaker radiofonici o era la verità?

    Storsi le labbra e il mio sguardo si perse nel vuoto. La mente elaborò le sue teorie assiduamente mentre rimettevo le scarpe nella loro scatola, pagavo il conto e me ne uscivo dal negozio... pronta per tornare a casa e ricevere una qualsiasi risposta ai miei dubbi.

    Dopo quasi un’oretta fui a casa. Appena superata l'entrata e aver chiuso la porta mollai la borsetta e il nuovo acquisto sul divano con espressione fiacca e pensierosa.

    Ero in dubbio, tremendamente in dubbio, e le parole dei due tizi alla radio non facevano altro che offuscare qualsiasi mia funzione mentale. Domande e conseguenti risposte ronzavano nel cervello impedendomi di pensare a mente lucida: avrei dovuto chiamare Michael o avrei dovuto aspettare? Facevo bene a lasciar perdere o indagare?

    Effettivamente un breve viaggio Michael lo aveva intrapreso, pensai, e i giornalisti avevano individuato la tappa esatta... su quello non avevano mentito... ma avevano detto il vero anche sulla ragazza? Avevano chiamato i fans “invasati”, quindi non mi stupii troppo se avessero esagerato coi loro giudizi anche riguardo a quella donna (se davvero esisteva). Eppure ero più propensa a credere a loro e a ciò che avevo udito – probabilmente perché la mia mente era terrorizzata alla sola idea di essere “tradita”. Se Michael avesse davvero approfittato per incontrare una sua vecchia conoscenza o anche una nuova, meritavo di saperlo.

    Qualcosa - forse il mio istinto - mi induceva a essere impulsiva, a telefonargli e a porgli una domanda dopo l'altra. Invece il cuore mi diceva di aspettare prima di tartassarlo con le mie “frasi senza senso”.

    Rinunciai a prendere il telefono dalla borsetta e comporre il numero di Michael. Scoccai a questa un’ultima occhiata estremamente irritata.

    Sbuffai accendendo il televisore e cercando insistentemente il canale della ABC, uno dei tanti programmi in cui si sarebbe potuto parlare di gossip, e lentamente mi diressi in cucina.

    Con la testa ancora fra le nuvole preparai un piatto di roast beef a fette condito con pepe, limone e un goccio d'olio; a parte, invece, verdura mista. Condito il tutto portai entrambe le portate sul tavolo della sala da pranzo adempiente al salotto.

    E all’improvviso lo vidi.

    Con la coda dell'occhio individuai un uomo con camicia rossa e una schiera di persone che lo fiancheggiavano. Il respiro si fermò un attimo e accorsi al divano per prendere il telecomando e vedere se fosse Michael o meno.

    Per mia sfortuna, lo era.

    Un tizio parlò in sottofondo mentre le immagini di un Michael sorridente e allegro passeggiava per il centro commerciale di Houston, indicando chissà quale negozio alla ragazza accanto a lui e tenendosi a braccetto senza la minima preoccupazione. Osservai tutto senza emettere parola o pensare a nulla di definito, mentre una tizia sconosciuta offriva ai due qualcosa da mangiare e poi si passava ad un perfetto zoom del viso di Michael e della giovane donna dai capelli castani, fisico longilineo e occhiali da sole. Poi apparvero i due conduttori televisivi, un giovane reporter in linea con lo studio da Houston e di nuovo Michael con quella sconosciuta: il servizio diceva in poche parole di una visita inaspettata del cantante accompagnato dal suo entourage e da un’amica chiamata Monique.

    Mi lasciai cadere sul divano una volta che Michael scomparve dallo schermo.

    Rimasi incantata e senza parole per un paio di secondi.

    Cominciai a vedere sempre più offuscato.

    Lo sguardo cadde poco dopo sulla borsetta e impulsivamente mi allungai per immergere la mano al suo interno e afferrare il telefono. Lo presi con aggressività, composi il suo numero e rimasi a fissarlo con il naso che pizzicava per lacrime.

    Conoscevo bene l’esperienza del tradimento e Dio solo sapeva quanto questo fosse la cosa che più disprezzassi al mondo. Il tradimento mi aveva demolito l’anima e l’autostima, non solo il cuore e una relazione. Avevo fatto di tutto per evitare una persona che avrebbe potuto farmi male in quella maniera di nuovo.

    Il tradimento cambia.

    Ti stravolge.

    Niente torna come prima e tutte le certezze si disintegrano così come sono nate.

    Spensi il telefonino. Lo lasciai cadere sul sofà e non ci diedi più peso.

    Espirai tutto il rancore che si era posizionato nella zona dello stomaco, ispirando vulnerabilità, ponendo così fine al mio desiderio di cenare. Affondai il viso fra le mani adagiando i gomiti sulle ginocchia; inspirai ed espirai a fondo una seconda volta.

    Non pensai a niente.

    Non piansi.

    Mi feci prendere dalle paranoie senza voler chiedere conferma al diretto interessato… ma in quel momento non avevo il minimo interesse di ricevere chiamate o messaggi da parte sua.

    Il tempo si era immobilizzato e io con esso.

    Mi issai di scatto e accorsi verso la mia terrina di insalata e il piatto di roast beef. Presi il tutto e lo misi in frigo, pensando che avrei potuto mangiarlo l'indomani o qualche ora più tardi nel caso in cui avessi avuto un attacco di fame nervosa. Buttai posate e bicchiere nella lavastoviglie e mi appoggiai al lavello.

    Non sapevo se essere più arrabbiata e delusa da me stessa o da Michael.

    Gli occhi divennero lucidi e annebbiati da un velo di emozioni che da parecchio tempo non provavo così intensamente.

    Mi aveva lasciando la sera prima con un sorriso sulle labbra, per poi scoprire questo.

    E se era una finta? Perché non me lo aveva detto?

    Non devo odiarmi, non devo odiarmi, non devo odiarmi. Non devo provare le stesse emozioni del passato. Devo essere più forte.

    Andai a disattivare l'allarme di casa e aprii le finestre scorrevoli del terrazzo. Scesi le scalinate che portavano alla spiaggia, mi spogliai dei vestiti rimanendo in reggiseno e mutande e con una rincorsa mi immersi in mare. Fu un gesto completamente senza senso, ma preferivo fare un bagno in acqua piuttosto che rimanere immobile a piangere, disprezzando me stessa e la mia stupidità in quella silenziosa cucina.

    *

    La mattina seguente mi svegliai con il cuore muto e la mente affollata di offese.

    Dal momento in cui mi ero svegliata fino a quando mi ero trascinata in cucina, sedendomi sullo sgabello con sguardo fisso a terra e una tazza di tè in mano, non avevo fatto altro che pensare alle parole intrinseche di rabbia che avrei voluto urlare a Michael senza il timore di fargli male.

    E alle parole che continuavo a urlarmi per non scoppiare a piangere e crollare a pezzi.

    Presi una fetta biscottata e vi spalmai sopra un cucchiaino di marmellata. Ne preparai un’altra addentando la prima e una volta finito di mangiare entrambe mi alzai dallo sgabello e mi diressi verso la sala da pranzo. Non avevo fame.

    Appoggiandomi all’enorme vetrata che dava alla spiaggia, con occhi assenti osservai il punto d’incontro tra mare e cielo, due meraviglie della natura di cui non riuscii a meravigliarmi con il cuore leggero.

    Ero convinta del suo tradimento e di conseguenza credevo di sapere cosa fosse giusto fare senza pensarci ulteriormente: avrei dovuto trovare un altro appartamento in cui stare, il meno costoso possibile e magari verso LA, qualcosa di economico ma comunque apprezzabile. Non volevo debiti con Michael: lo avrei ripagato di tutte le spese e me ne sarei andata... ma non prima di avergli urlato un “Vaffanculo” a gran voce. Il solo concretizzare quell'idea mi faceva crollare le ginocchia, mi rendeva debole come un rametto sottile in una bufera di neve.

    Credevo al suo tradimento, ma non completamente. Era come essere in un limbo. Fino a quando Michael non mi avrebbe dato la certezza attraverso il suo sguardo, non sarei caduta a pezzi e quell’idea non sarebbe stata una verità assoluta.

    Avrei voluto sputargli in un occhio da tanto schifo che mi faceva.

    Prendere il telefono, controllare se mi avesse chiamato o scritto e in caso rispondergli…? Oppure ignorarlo fin quando non si sarebbe presentato davanti a casa mia?

    Ricordavo, seppur vagamente, che il suo giro turistico a Houston sarebbe dovuto durare soltanto per un giorno. Doveva essere già tornato a Los Angeles.

    Non ero pronta per affrontarlo faccia a faccia.

    Ancora una volta mi venne da piangere e mi trattenni.

    Strofinai gli occhi e ingoiai una boccata di ossigeno poggiando la tazza di tè vuota sul lavandino, non appena tornata in cucina. Potevo sentire quel nodo allo stomaco stritolarmi le viscere. Come un automa mi incamminai verso il divano dove la sera prima avevo abbandonato il telefono spento.

    Lo accesi.

    Non volevo averlo di fronte quando gli avrei detto che lo odiavo e che lo pensavo un traditore. Sarei stata più forte nel dirglielo senza averlo vicino... la spina dorsale sarebbe stata molle, ma le mie mani forse no.

    Aspettai pochi istanti e la schermata del cellulare si riempì di notifiche. Le mie sopracciglia si inarcarono un po’ ma il resto del viso rimase fermo in una smorfia impenetrabile.

    Subito il cuore fece un salto in gola, come a ricordarmi che ero ancora viva e vegeta.

    Quindici messaggi, di cui undici erano avvisi di chiamata, uno era una registrazione in segreteria telefonica e tre erano messaggi scritti. Una chiamata delle tante era stata effettuata poco prima.

    Mi sentivo sottosopra.

    Sarah perché non rispondi? È successo qualcosa?

    Ma vaffanculo.

    Mi sto seriamente preoccupando.
    Se stai leggendo rispondi! Ho bisogno di sentirti!!!

    Grazie a Dio non l’avevo davanti agli occhi altrimenti lo avrei ucciso.

    Se non rispondi entro mezz’ora vengo lì.
    Non posso pensare ti sia accaduto qualcosa.
    Se non mi vuoi parlare almeno dimmi che stai bene

    Stava per arrivare... e il messaggio era di quasi un’ora prima.

    No, non lo volevo vedere...

    Non volevo affrontarlo...

    Mi avrebbe posto di fronte alla possibilità che mi aveva effettivamente tradito, cosa che mi avrebbe fatto bene ma mi avrebbe anche distrutto. Gli avrei sicuramente urlato contro e sarei scoppiata a piangere dal nervoso, mi conoscevo. Non volevo agire così. Non volevo svergognarmi così. Non volevo sentire altre cazzate da parte di nessuno.

    Con le dita che tremavano scrissi e riscrissi una bozza del messaggio che gli avrei inviato. Cancellai e riscrissi, cancellai e riscrissi… riflettei su cosa fosse giusto dire per non farlo venire in quella casa. Alla fine, con il respiro e il cuore pesante, optai per un misero secco “Sto bene”.

    Inviai.

    Mi sedetti sul divano e attesi una risposta che pensavo non sarebbe arrivata presto. Mi sistemai l’abito in satin nero che mi faceva da vestaglia, un accessorio abbastanza sensuale che avevo comprato grazie ai continui incoraggiamenti di Margaret, quella volta che era venuta a trovarmi a Los Angeles. Non indossavo nemmeno il reggiseno, ma poco mi importava.

    Non mi importava di niente.

    Mi sentivo un guscio vuoto e una bomba ad orologeria al tempo stesso.

    Lo schermo del cellulare si illuminò e il nome “Michael” risaltò davanti ai miei occhi ansiosi. Pensai per un attimo di aver perso la capacità di respirare.

    Esitai. Quella vocina che mi diceva di fronteggiarlo fu più acuta di quella che mi invitava a lasciar perdere. Forse lo avrei fatto per provare a me stessa che sapevo essere indifferente al suo potere... o, molto probabilmente, perché non aspettavo altro che litigare.

    Accettai la chiamata inspirando a pieni polmoni.

    «Cosa c’è?»

    «Porca puttana, Sarah!».

    Sembrava furioso.

    «Perché ci hai messo tanto? Ti sto raggiungendo in macchina! Cosa diavolo è successo?!»

    Era da parecchio che non lo sentivo così arrabbiato. Non inveiva così facilmente, ma quando lo faceva sembrava irriconoscibile.

    Lo stomaco si contorse su di sé.

    «Niente», dissi fissando il vuoto, atona. «E a te?»

    Silenzio.

    «Che ti prende?», quel tono era specchio della serietà.

    Silenzio tombale per la seconda volta.

    «Dimmelo».

    Scattai in piedi.

    «Non c’è bisogno che vieni a trovarmi, ok?», mi accigliai irritata, «Io sto bene e non ho intenzione di dialogare. Tu mi chiami per qualche ragione particolare?» abbozzai una risata sardonica. «Ti manca qualcuno

    Volli aggiungere “per passare la giornata e anche la notte assieme”, ma non ce la feci. Le parole si arrestarono assieme all’istinto di urlargli contro.

    «Ma che...»

    Rimase di nuovo in silenzio, stavolta accompagnato dal soffuso borbottio di un motore e da parlottii in sottofondo, emessi da una voce bassissima e lieve. Restai in ascolto ma non riuscii a distinguere neanche una parola, troppo furiosa per pensare a mente fredda. Tutto mi sembrava ancora più confuso di prima.

    Un fruscio dall'altra parte della linea e una cupa sentenza seguì la lunga assenza di suoni.

    «Sono di fronte casa tua, aprimi, sto arrivando».

    Buttò giù il telefono con tono addirittura sfacciato.

    Me ne stetti per un millesimo di secondo ferma sul posto per metabolizzare la risposta... quando realizzai che non c'era più niente da fare per fermarlo, andai verso l'uscita con il corpo che tremava dal freddo nonostante fossimo in piena estate. Quel sentimento di furore salì in superficie come la lava in un cratere di un vulcano in eruzione.

    Arrivata alla porta aprii con velocità incredibile e mi appoggiai allo stipite pensando che non fosse ancora arrivato.

    Mi sbagliavo.

    Mi stava raggiungendo e in fondo al vialetto di ghiaia e sassolini, nascosto dal verde, se ne stava un grosso SUV nero lucido.

    L’espressione di Michael fu scoperta dagli occhiali da sole che si stava togliendo rapidamente, allacciandoseli su qualche bottone della camicia un po' aperta color blu notte. Le mascelle erano contratte come ogni volta che si arrabbiava o era in tensione, gli occhi scuri e profondi entravano in me quasi con impazienza. Le sopracciglia, le labbra, la fossetta sul mento e ogni suo lineamento facciale sembravano ancora più marcati del solito.

    Ebbi la pelle d'oca, lo ammetto... ma finsi di non avere alcuna reazione, ingoiando il sentimento di eccitazione e lasciandomi guidare dall'astio.

    Le spalle si scossero per colpa di un rumoroso sospiro.

    Si fermò a pochi centimetri dall'entrata. La sua presenza era come l'aria che respiravo, in quei momenti più che mai... era soffocante, credevo di potermi sentire piccolissima rispetto alla grandezza di quell'aura che – sebbene arrabbiata – dovevo riconoscere fosse immensa.

    Ma Michael sottovalutava l’impatto che il tradimento aveva su di me.

    Mi scoccò un’occhiata dall’alto in basso e si soffermò sulle curve più abbondanti e rotondeggianti del mio fisico. Mi ero dimenticata che indossavo una vestaglia molto corta. Un bagliore di appannato desiderio parve confonderlo così come accadde a me nel vedere le sue spalle larghe e la camicia sbottonata sul collo.

    Mi sentii spogliata senza essermi tolta i vestiti e la cosa, ad ogni modo, non mi fece per nulla piacere.

    Si scosse incrociando i miei occhi e nessuno dei due disse nulla. Era attratto, confuso, indispettito, amareggiato, incazzato.

    «Mi fai entrare?»

    Diedi un ultimo sguardo all’auto nera che spegneva il motore. Feci passare Michael incollandomi al muro come una sogliola. Il macchinone non partì neanche quando entrammo in casa e chiusi la porta alle mie spalle.

    L’ira che fluiva nel corpo era incandescente, illuminando le mie iridi come un falò di grandi dimensioni. Mi rendeva impossibile anche solo parlare.

    Michael avanzò fino al divano ma non si sedette, lasciò cadere gli occhiali da sole sul poggiolo del sofà. A braccia incrociate picchiettai le dita sulla pelle nuda delle braccia e lo seguii silenziosamente, tenendomi a distanza di sicurezza nel caso avessi deciso di menarlo (non si poteva mai sapere). Dondolai sul posto.

    Tenendo la bocca serrata in una smorfia incomprensibile si guardò intorno, prima di voltarsi verso di me con le mani sui fianchi. Mi guardò da capo a piedi una seconda volta.

    Alzai un sopracciglio in modo alquanto strafottente.

    Serrò i pugni di tutta risposta.

    «Perché cazzo non mi hai risposto? Perché hai chiuso il cellulare?!»

    «Mi sembrava che tu non avessi bisogno della mia compagnia», sibilai.

    Lo sguardo che mi diede fu incisivo e al contempo indefinito. Non mollò il contatto visivo neanche per un secondo. Si bagnò le labbra e chinò il capo verso il basso. Un attimo dopo mi puntò e la fronte si increspò per un improvviso lampo di amarezza. Disprezzavo il suo essere apparentemente offeso.

    «Non è come pensi...», mi adocchiò con seriosità.

    Sorrisi senza divertimento, guardando in alto. «Già! È quello che mi venne detto quando successe la prima volta! “Nooo, stai vaneggiando!” e invece sono stata tradita per mesi».

    Mi incamminai verso il tavolo della cucina dove c’era ancora il bicchiere mezzo vuoto di acqua che non ero riuscita a finire poco prima. Gli voltai le spalle senza avere il coraggio di osservarlo in viso.

    «Non mi credi?» mi seguì alzando il tono di voce. «Io non ti tradisco Sarah, non l’ho mai fatto! Hai creduto alle parole di stupidi tabloid?! Come fai a essere così sciocca?!»

    Mi voltai di scatto e spalancai le palpebre.

    I suoi occhi emanavano scintille di rabbia che cercavano inutilmente di trattenere.

    «Sciocca?! Oh sì, hai ragione!». Fui faccia a faccia con Michael. Mi tenni stretta al bancone della cucina per non cadere. «Sono io che mi faccio tante fisime per niente»

    Una ruga comparve sulla sua fronte e serrò le mascelle. Un secondo dopo si bagnò le labbra.

    «Non ti tradirei mai».

    Forse la serietà in cui lo disse, forse la scintilla d’ira che per un breve istante lo accecò, mi fece crollare il castello di carte che mi ero costruita sulla base di presupposizioni. Le mie spalle si rilassarono, ma la rabbia era ancora lì – e non perché non gli credevo, ma perché mi rendevo conto che non si era sprecato a parlarmene prima. E pretendeva che non mi arrabbiassi.

    «Come posso fidarmi di te?». Sputai fuori quella domanda storcendo il naso. «Non mi hai detto che avresti incontrato che avresti fatto finta di amoreggiare con una ragazza».

    Michael restò impassibile ma si umettò la bocca di nuovo. Sembrava così convinto di sé che finii per incazzarmi ancora di più.

    «Non sono uscito con nessuno, Sarah. Era una finta!», si mosse verso di me e spalancò occhi e braccia inarcando le sopracciglia. «Era una mia ammiratrice, io e lo staff eravamo d'accordo perché sapevamo che i media mi avrebbero seguito dappertutto! Era una manovra pubblicitaria!»

    Smisi di muovermi sul posto. Socchiusi la bocca toccando i denti con la lingua e incrociando le braccia al petto. Lo ridussi in cenere con una sola occhiata, che egli ricambiò con sbigottimento e un filo di rancore.

    «Davvero?», sorrisi con palese cinismo.

    Annuii fra me e me ignorando il suo rabbioso e determinato “Sì”. Le pulsazioni che sentivo sulla nuca si fecero più forti e quello era il sintomo che stavo per perdere la calma definitivamente. Quello che mi aveva detto era forse peggio di sentirmi dire che mi aveva tradito veramente – cosa a cui faticavo a credere al cento per cento.

    «E allora perché non me l'hai detto?», alzai i toni. «Costava così tanto dirmelo? Tirare su il telefono e dire “Sarah, guarda che sta succedendo questa cosa qua, non preoccuparti”?! Costava tanto inviarmi un messaggio

    Michael cominciò ad innervosirsi e a muovere concitatamente le mani. «E a cosa sarebbe servito?!»

    Silenzio.

    La mia bocca si spalancò ed egli non mostrò pentimento alcuno.

    «Stai scherzando?!».

    Non rispose.

    Sbattei le palpebre e poi risi. Risi sarcasticamente. Mi strofinai le mani e distogliendo lo sguardo dalla sua faccia ritornai a dondolare sul posto.

    «Non capisci proprio niente»

    «No, non capisco!», mi venne accanto alzando le spalle, fissandomi con un mezzo sorriso ironico e fronte raggrinzita per il nervosismo ingiustificato. «Non ti stavo tradendo e tu dovresti conoscermi. Solo perché non ti rendo partecipe di ogni cosa che mi succede nella vita non significa che sto scopando con qualcun’altra! E anche tu potresti tradirmi con qualcuno senza che io lo sappia!», si guardò intorno come se si aspettasse di veder comparire un uomo completamente nudo dal terrazzo.

    Sbarrai gli occhi.

    «Cosa?!»

    Mi chiesi se si fosse drogato con qualche sostanza stupefacente prima di venire a trovarmi, o se tutti gli uomini agissero in quella maniera per pararsi il culo così sfacciatamente.

    Ero senza parole.

    Senza dubbio si stava comportando da vittima della situazione.

    Più faceva così, più mi imbestialivo.

    Gli occhi pizzicarono di lacrime.

    «Con me queste stronzate non funzionano» le parole sussultarono ma il tono si elevò con più ardore. Mi misi una mano al petto e Michael ingoiò la saliva indurendo i muscoli del collo. Mi fissava impenetrabilmente. «Stiamo parlando di complicità fra due persone che si dovrebbero amare! Quella era una cosa importante da sapere, PER ME! È ovvio che io pensi male, se tu non mi racconti cosa ti passa per la testa!», battei il palmo della mano sul petto.

    «Le tue sono stronzate, Sarah!» gridò allontanandosi con una smorfia di diabolico orrore. Le mani si muovevano nell'ambiente circostante come impazzite. «Sono solo stronzate per appenderti a qualcosa che in realtà è gelosia

    Emisi uno spasmo di risata basita.

    «E anche se lo fossi?! Hai ottenuto quello che volevi?! Sei così contento quando tutto ciò che progetti va secondo i tuoi piani. Eppure hai così paura di dire “Scusa Sarah, non ho considerato i tuoi sentimenti”, che preferisci dare la colpa a me!», stesi le braccia lungo i fianchi con un colpo secco.

    Sbarrò i grandi occhi neri.

    Stavo esagerando? Probabilmente. Ma poco mi importava.

    «La smetti di dire cazzate?! É una sceneggiata totalmente ridicola! Non... non puoi capire!» scandì rabbiosamente. «Non sei nei miei panni per giudicare e solo allora, solo in quel caso, sarai in grado di dire cose sensate!», mi intimò con l'indice.

    Lo sguardo che mi rivolse fu terribile.

    Era sconnesso dalla ragione, sul punto di scoppiare in una crisi di nervi, ma in fondo lo eravamo entrambi; per Michael mi ero scaldata per una cazzata assurda - quando in realtà non riusciva a capire cosa mi facesse star male per davvero - mentre io lo avevo accusato senza avere prove certe del suo tradimento.

    Potevo credere che non mi avesse tradito, ma non accettavo che non mi avesse comunicato che avrebbe inscenato quella finta – proprio sapendo quanto mi angosciava l’idea di essere tradita. Quello proprio no.

    Lo guardai con un’espressione glaciale.

    «Se vuoi fare la vittima innocente, puoi uscire da questa casa immediatamente».

    Rimanemmo in silenzio assoluto per un minuto. Nessuno dei due si mosse dal posto.

    Scostò l’attenzione dal mio viso alla finestra e si bagnò le labbra incurvate in un sorriso sempre più finto e irato, puntando le nocche sui fianchi.

    «Pensi di sapere sempre come agire bene, giusto? Pensi di poter darmi del bugiardo e del falso senza sapere nulla?! Fai con comodo. Non sei né la prima né l’ultima».

    Fu l’ultima goccia che fece traboccare il vaso.

    Accorsi alla porta d’entrata sorpassandolo con rapidità quasi incredibile. Le lacrime mi allagarono le iridi. Mi seguì e si arrestò in mezzo alla piazzola che divideva cucina e salotto.

    «Io con le teste di cazzo non ci voglio avere nulla a che fare! Esci!»

    Ci fissammo, ognuno convinto di avere ragione.

    “Esci subito da questa casa” volli gridare... ma non ebbi ossigeno a sufficienza per farlo. Ero talmente sconvolta che aprii la porta con un sonoro botto facendomi male ad un dito. Respinsi il dolore momentaneo, scambiandolo con il dolore di non poter tornare indietro sulle mie azioni.

    «Hai ragione...» s’irrigidì disgustato. Inspirò e con sguardo adirato s’avvicinò al punto in cui ero piantata con i piedi. Una folata del suo profumo mi colpì e un incontrollabile brivido serpeggiò lungo la colonna vertebrale. «Hai ragione su tutto»

    Mollai la presa della maniglia e uscendo Michael sbatté la porta.

    Sobbalzai.

    L'immagine di lui che usciva correndo era l'unica cosa che avevo davanti agli occhi; l'essenza legnosa del suo profumo mi confondeva. Solo immagine sfuocate e quell'odio indescrivibile che si dissolveva più veloce della luce, fondendosi con la voglia di riaverlo in quella casa, prendergli la testa fra le mani e pregarlo in modo che si facesse perdonare. Volevo che mi chiedesse scusa.

    Passai una mano sul collo e soffocai l'ultimo grido di rabbia repressa.

    Chiamalo, su! Esci da quella porta e avviati alla macchina prima che parta! Fallo prima che se ne vada via per davvero, hai pochi istanti! Potresti essere ancora in tempo!

    No.

    Lo vuoi

    No, non lo volevo.

    Volevo che riconoscesse i suoi sbagli e capisse il mio punto di vista, imparando a chiedere scusa per la sua immaturità sconsiderata. Però non volevo neppure che mi trattasse bene con improvvise sceneggiate romantiche, non desideravo che mi chiedesse perdono mettendosi in ginocchio.

    Sei così arrabbiata con lui e allo stesso tempo non fai altro che desiderarlo.

    Era da incoscienti, da idioti. Era come in quei film sdolcinati in cui i due protagonisti dopo un brusco litigio pensano immediatamente a fare sesso, in maniera brusca e irruenta, provando il massimo del piacere... e sapere di comprendere finalmente come si sentivano quei due ipotetici amanti mi faceva impazzire.

    Non avevo mai apprezzato tutto ciò. Non avevo mai apprezzato l’idea di fare l'amore dopo un litigio.

    Ero ancora furiosa.

    «Oh fanculo, cazzo!», sbottai roteando gli occhi al cielo, facendo dietrofront e riaprendo la porta di casa.

    Nelle iridi apparve un bagliore opalescente nell'istante in cui lo vidi di fronte a me, ancora una volta sull'uscio, accompagnato dal borbottio di sottofondo del SUV che se ne stava andando. Fermo in attesa, col pugno quasi alzato, il petto che si scuoteva e mi chiamava a sé. Lo sguardo momentaneamente scosso si trasformò in un’occhiata tanto profonda quanto lame affondate nella carne.

    Non feci tempo ad osservarlo per più di un secondo o dire una sola frase di senso compiuto che Michael fu lì, labbra sulle labbra, mano affondata nella mia chioma rossiccia, portandomi ad un brusco indietreggiare.

    Mi strinsi alle sue spalle e il sordo schiocco della porta che si chiudeva mi portò ad emettere un miagolio di protesta, mentre ad occhi chiusi mi sentii appoggiare al muro più energicamente di quanto avessi potuto immaginare da parte sua. Le sue mani mi tenevano i fianchi, mi accarezzavano veloce e scendevano per cercare la fine della vestaglia. Il contatto con la parete fredda non fece che aumentare il calore che sentivo pizzicare sulla pelle.

    «Non ti sopporto quando fai così...» soffiò. Gli tolsi frettolosamente la camicia che lui mi aveva lasciato sbottonare velocemente, la lasciai cadere a terra ricambiando i suoi baci con altrettanti schiocchi rumorosi. «Ti odio così tanto da amarti alla follia...», biascicò.

    Ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Gli permisi di tirarmi via le mutandine da sotto la vestaglia con un solo gesto di mani, adagiandomi con la schiena al muro, per poi allacciare una gamba attorno al suo fianco. Allungai le dita sul suo collo e inclinai il viso per baciarlo. Lo assaggiai con la lingua, lo lambii frattanto che tentava di tirarsi via le scarpe e abbassarsi i pantaloni. Ansai quando si riavvicinò al mio bacino e la sua erezione mi sfiorò le gambe. Tutto così rapido, tutto così frettoloso.

    «Oh Dio, se ti odio» gemette con un ringhio lussurioso, infilando le dita tra i miei capelli e portando la mia bocca sulla sua. Il suo sguardo era una cosa che non avevo mai visto: un misto di lascivia e sicurezza di sé. «Odio le tue paranoie...»

    Le nostre membra si sfiorarono. Mugolai rumorosamente e Michael si spinse con i polpastrelli al di sotto della vestaglia, in direzione del seno; sfiorò le mie protuberanze con carezze febbrili ogni dove, bloccandosi sui capezzoli irrigiditi dal suo tocco. Poi si portò in basso, lungo la schiena, fin quando le dita si posero sul fondoschiena e lo spinse verso il suo bacino. Emisi un urlo strozzato di piacere arrestando i baci sul collo.

    «Sono io che ti odio di più al momento… quindi pensa... pensa a farmi cambiare idea...», ansimai.

    I nostri sguardi si incrociarono. Le sue labbra si sollevarono in un sorriso impercettibile e gli occhi appannati di desiderio assunsero una piega maliziosa, irruente, che all'inizio parve addirittura spietata; ricambiai mordendogli il labbro inferiore.

    Mi fece girare su me stessa prendendomi per i fianchi, in modo tale da dargli la schiena, guidandomi ad inclinare il busto in avanti e fare un passo indietro. Indice e medio della mano destra si infilarono in me, mentre la sottoscritta inarcava la spina dorsale e gettava il capo all’indietro, tenendosi al muro con due mani.

    «Dimostralo...», spinse più forte e sospirò.

    La voce si alzò di qualche ottava quando lo sentii aumentare il ritmo delle dita.

    Si fece spazio nelle profondità di me nel giro di un minuto. Fu forte, immediata, e quella solida prominenza mi portò a gemere ancora più rumorosamente. Lasciai cadere il capo in avanti, ammirando il pavimento sotto di me, frattanto che i suoi movimenti si facevano pian piano più fluidi e tuttavia aggressivi.

    «M... Michael...»

    «Ancora» rispose sopra i miei gemiti continui, «Ancora...»

    Ogni cosa era appannata, sconnessa, tanto che non seppi nemmeno cosa stessi facendo quando lo pregavo di continuare e mi muovevo seguendo la frequenza delle sue movenze. Il sangue fluiva nelle tempie e cercavo di mantenere quel poco di resistenza nelle gambe sufficiente a tenermi in piedi; ascoltavo i suoi mugolii di approvazione, urlavo e ansavo anche prima di raggiungere il picco… e non smisi nemmeno quando tutto finì una prima volta, per ricominciare immediatamente con la seconda.

    *

    Guardai a lungo il soffitto per non imbattermi continuamente nello sguardo osservatore di Michael, il quale mi ammirava da chissà quanto tempo, chinato su di me con i gomiti puntati sul materasso. Mi accarezzava distrattamente i capelli e non faceva altro che studiarmi in viso: non era cupo, ma pensieroso.

    Gli avrei detto di non esaminarmi in quel modo ma non ebbi il coraggio di farlo; in realtà credevo di non avere neppure la capacità di alzarmi a sedere.

    Di sicuro quella era stata una di quelle mattinate che non mi sarei scordata per il resto della vita, in tutti i sensi. Era stato emozionante oltre ogni limite, passionale, feroce, forse anche esagerato... unico. Non mi ero mai sentita così in tutta la mia vita, e non era una delle tipiche frasi che si sentono nei film o si leggono nei libri. Era stato magnifico.

    Immaginai che mi scrutasse per quella piccola questione che, nonostante il tentativo di eliminarla dalle nostre menti, non era stata ancora risolta.

    Non sapevo cosa pensare al riguardo.

    Non sapevo se fossi stata una stupida ad arrendermi a lui un’altra volta o se avessi fatto bene a farlo. Soprattutto, ero ancora arrabbiata perché si era comportato come un bambino.

    Non che io fossi stata da meno, comunque…

    «Sarah»

    Quel flebile sussurro mi risvegliò dai miei pensieri.

    «Mmh?»

    Strinse appena le labbra. «Come ti senti?»

    Riammirai il soffitto espirando tutta l’anidride carbonica risiedente nella gabbia toracica. Non avevo avuto abbastanza fiducia in lui e questo non era un buon segno… ma l’avrei mai avuta anche per un uomo qualsiasi? Era complicato.

    Sospirai. «Non lo so...»

    «Sei ancora arrabbiata...»

    Lo adocchiai di soppiatto ed egli mi scoccò un’occhiata intensa e rammaricata, dolce e sinceramente dispiaciuta.

    «Mi dispiace...»

    Sospirai e gli accarezzai una guancia con tre dita. «Anche a me».

    Era una situazione difficile per me. Volevo che capisse che per me era importante comunicare a cuore aperto, e che per me non erano “solo stronzate”. Potevo credere che quella situazione di Monique fosse tutta una messa in scena, ma non tolleravo il fatto che credesse che fosse inutile rendermi partecipe. Mi vedeva come la sua ragazza o come una qualsiasi? Perché, se era la seconda opzione, non volevo sentirmi così. Non volevo sentirmi una qualunque. Come potevo fidarmi di Michael ed evitare di pensare male o arrabbiarmi se lui stesso non capiva l’importanza di dirsi le cose? Sapeva benissimo che al minimo segnale di tradimento le mie certezze sarebbero crollate. Sapeva che avevo bisogno di rassicurazioni sotto quell’aspetto. Cosa avrebbe pensato al posto mio, se non gli avessi detto di una tale sceneggiata?

    Mi fissò intensamente.

    «Non ti ho tradito, devi credermi. Non ho fatto niente con quella donna e ne avrei avuto la possibilità...», disse in tono fermo. Ma poi notò la mia smorfia indefinita e respirò chiudendo le palpebre per un millesimo di secondo. Smise di accarezzarmi i capelli e si umettò le labbra. «Cosa devo fare per farti cambiare idea?»

    «Io ti credo quando dici che non mi hai tradito», lo fissai negli occhi. «Ma il fatto che tu non mi abbia voluto dire nulla al riguardo – pur sapendo quanto ci avrei sofferto pensando male e per niente – mi ha fatto stare peggio. Per me è essenziale dirsi queste cose, anche se a te sembrano sciocchezze. Io ti direi qualsiasi cosa, pur di non farti sentire insicuro sulla nostra relazione. Le donne hanno bisogno di uomini che parlino con loro e che le rendano partecipi della propria vita, soprattutto quando c’è di mezzo un’altra donna»

    Lo vidi rabbrividire. Studiai accuratamente ogni gesto che compiva, quando si toccava le labbra con le dita oppure quando nervosamente pensava a cosa dire.

    Con uno scatto mi alzai a sedere per averlo quasi faccia a faccia; ma Michael si mise a pancia in giù con i gomiti piantati nel materasso e il suo sguardo vagò da me allo spazio in cui ero stata distesa fino a poco prima.

    «Promettimi che la prossima volta me lo dirai, se dovesse accadere una cosa del genere. Promettilo su tutto ciò che consideri più importante al mondo. Allora ci crederò. Se le parole che mi hai detto rispecchiano veramente i tuoi sentimenti, non tenermi più segrete certe cose… per favore. Perché omettendo la verità si finisce sempre col creare disastri e incomprensioni irreparabili...».

    Gli occhi mi si riempirono di gocce salate. La fronte di Michael si distese dallo stupore. Dopo un attimo di smarrimento si tirò su e con delicatezza mi trattenne il mento in sua direzione con due sole dita.

    «Guardami e ascoltami bene...»

    Obbedii alla sua richiesta, riluttante. La sua espressione fu qualcosa di terribilmente magnifico da descrivere, increspato dal rammarico e commosso dalle mie parole.

    «Io ti amo».

    Inarcai un sopracciglio. «Certo, perché sono l’unica al mondo che ti riesce a dare quello che ti ho dato io stamattina...!», bofonchiai con finta allegria.

    Ma Michael non dette alcun cenno di divertimento.

    «Io ti amo davvero, Sarah. Lo giuro sui miei figli».

    Il suo cipiglio era imperscrutabile. Diresse le sue iridi lucide verso la mano destra, quella che tenevo appoggiata ad una coscia. Lasciò andare il mio mento e mi strinse le dita tra le sue, portandosele al petto. Quando mi accorsi che le stava appoggiando sul cuore, mi irrigidii. Mi parve di oscillare nel vuoto.

    S’incatenò ai miei occhi con un sussurro emozionato.

    «Mi dispiace se non ho pensato a come ti potessi sentire. Tu sei l’unica, sei – »

    Mi inclinai verso di lui e posi la mano libera sopra la sua bocca.

    «Ti amo anche io», bisbigliai. «Ma adesso basta, se no mi sciolgo come un ghiacciolo al Sole».

    Il cipiglio triste che decorava il suo volto scomparve. Si rasserenò alla vista del mio sorriso. Mi allontanai piegando la testa da un lato, ammirandolo come se fosse l’uomo più bello del mondo, e Michael mi baciò il dorso di una mano. Arrossii.

    Mi fidai.

    «Che ore sono?», mi allungai in direzione del comodino per poter osservare l’orario sulla sveglia. Sbarrai gli occhi. «Sono già mezzogiorno e un quarto!», feci per gattonare verso il bordo del letto, «Preparo da mangiare!»

    «No...!»

    Michael farfugliò qualcosa di incomprensibile mentre mi afferrava il bacino circondandolo da dietro con le braccia. Mi sedetti di nuovo, incoraggiata dalla pressione del suo peso corporeo; lo fissai sbigottita.

    «Non andare...», mi scoccò un bacio sulla curva della schiena, sorridendo da vero furbetto, «ti voglio ancora... ti prego...»

    Ancora?!

    Spalancai la bocca con evidente sorpresa.

    «Michael, ma...» borbottai. «Ti sciuperai, se continui così!»

    Lui rise e pose le labbra sul mio fianco sinistro. Lo baciò lentamente.

    «Dai...»

    Accennai ad un riso sbarazzino.

    Invitai Michael a lasciare la presa sul mio bacino e mi avviai in direzione del suo petto a gattoni. Si distese a pancia in su, mi seguì con sguardo stupito ed eccitato frattanto che mi chinavo sopra di lui, pronta a baciarlo sull’incavo del collo come facevo sempre, con movimenti lenti e umidi. Accostai il seno al suo torace gemendo e lo sentii fremere sotto di me, lasciando cadere la testa all’indietro. Lo ammirai sciogliersi nel più completo benessere.

    Era stregato.

    Mi morsi la lingua con soddisfazione.

    La bocca si sistemò a contatto con la sua e pian piano i cadenzati baci si unirono a miei deboli movimenti di bacino verso la sua intimità. Michael emise un mugolio di piacere afferrandomi bruscamente le natiche, cercando di avvicinarmi il più possibile a sé, e allora mollai le sue labbra intensificando le scosse verso quella amabile mascolinità: quando lo percepii quasi completamente vigoroso sotto di me soffocai una risata.

    Michael annaspò. «Mio Dio...»

    I formicolii che sentivo nella mia femminilità si trasformarono ben presto in contrazioni sempre più energiche. Mi afferrò la vita e ammirò lo sfiorarsi dei nostri due membri, soprattutto il modo in cui il mio seno danzava sopra di lui.

    Quando percepii che l’unico desiderio rimasto era quello di entrare in me, sorrisi e mi sciolsi da quella posizione, sedendomi di fianco. Le nostre intimità smisero di sfiorarsi e Michael mi squadrò come se fossi impazzita.

    Ansando e con il cuore a mille ampliai il mio sorriso.

    «Penso che andrò a mangiare qualcosa...». Strisciando mi sistemai sul bordo del letto senza degnarlo più di uno sguardo. «Ho fame, tu resti ancora un po’?»

    Mi fulminò con lo sguardo, è vero, ma ne era valsa la pena: aver compreso che non mi avrebbe avuto subito lo faceva diventare più deciso nel possedermi ancora e ancora e ancora. Era quello che volevo ottenere.

    «Sei perfida», sibilò sorridendo.

    «Lo so», gli mostrai la lingua. «Resti?»

    Ci pensò su un momento. Abbassò lo sguardo e picchiettò le dita sul materasso rimettendosi a sedere. I miei occhi ricaddero sulla sua eccitazione. Storse la bocca contrariato e mi scoccò un’occhiata alquanto maliziosa.

    «Resto per qualche ora. Adesso prendo il telefono e avviso. E non pensare di averla vinta così!», mi puntò con l’indice vedendomi alzare e incamminarmi verso il salotto, nel luogo dove avevo abbandonato la sottoveste e le mutandine.

    Afferrai tutti i vestiti sparsi all’entrata di casa, dividendo i miei da quelli di Michael e adagiandoli sul divano mentre aspettavo che anch’egli uscisse dalla camera; andai in cucina, presi due piatti lisci e cercai qualcosa in frigo che potesse placare la nostra fame. Chiamai Michael a gran voce.

    «Ti va bene un po’ di salmone fresco e qualche verdura fresca?».

    Mi voltai sperando di ottenere una risposta, sentendo un rumore di passi sempre più vicini.

    Aveva un’aria scossa, i boxer addosso e il telefono in mano, tenuto proprio sopra le labbra. Le iridi erano piene di lacrime e fissavano il basso. Poche volte lo avevo visto così sconvolto.

    «Michael...», lo richiamai a voce bassissima, spaventata. Subito temetti che fosse successo qualcosa ai figli o ad un membro della sua famiglia, magari un incidente o addirittura peggio. «Cosa è successo?»

    Non rispose.

    Si arrestò ad un passo da me. Dondolò sul posto con le dita che tremavano.

    «Michael, dimmi...», gli andai incontro e gli sfiorai un braccio.

    Avevo paura quando si comportava in quel modo, perché non sapevo come aiutarlo… ma cercavo di nasconderlo. Almeno uno dei due doveva essere una roccia se l’altro era sconvolto o depresso per esserlo.

    «Mi ha telefonato Mesereau, il mio avvocato...», mormorò.

    Trattenni il fiato.

    «E...?»

    Mi guardò negli occhi. Un luccichio che sembrava dolore misto a terrore sorse in quel volto congelato dal dramma. Le labbra si alzarono un po’ verso l’altro, mentre coi denti si mordeva il labbro inferiore perché non sapeva se ridere istericamente o disperarsi; le sopracciglia si aggrottarono per trattenere un pianto liberatorio.

    «Il processo è rinviato a gennaio... il processo inizia a gennaio…»

    Tutto fu chiaro come l’acqua.

    Per qualche minuto entrambi perdemmo la cognizione del tempo. Lo abbracciai ed egli mi trattenne a sé, soffocando il respiro. Gli accarezzai i capelli, lo baciai e lo assicurai che tutto sarebbe andato bene.

    Lo speravo con tutta l’anima.




  8. .
    Capitolo Trentanove: Il Profumo


    Spensi il motore con un giro di chiavi.

    Grazie all’aiuto dello specchietto retrovisore mi slegai la coda alta dietro la nuca e mi riaggiustai i capelli, stando attenta a non impigliarli negli orecchini a cerchio che indossavo. Afferrai la borsa sul sedile alla mia destra, cercai le chiavi che aprivano casa e una volta trovate aprii la portiera, inserendole nelle tasche degli shorts. Uscii e andai verso il bagagliaio per prendere tutte le borse – un misto tra spesa e qualche nuovo prodotto di bellezza – e chiuse tutte le portiere mi avviai a passo calmo e placido verso la porta d’entrata.

    Mi fermai sotto il loggiato a quasi un metro di distanza dalla porta. Posai le tre borse a terra, ripresi le chiavi e feci per infilare quella giusta nella serratura.

    All’improvviso mi sentii prendere da dietro con una stretta energica.

    Le chiavi caddero a terra e il sangue ribollì nelle tempie.

    Il cuore si fermò un secondo prima di agitarsi in gola come impazzito. Una serie di immagini terribili passarono davanti ai miei occhi convinta che colui che mi stesse alle spalle fosse un maniaco sessuale o un rapinatore, ma l’istinto di sopravvivenza fu maggiore rispetto al terrore.

    Una mano mi stringeva il fianco, una il petto.

    Nonostante mi sembrasse di vivere quel momento a rallentatore non esitai a sferrare un colpo al mio cosiddetto molestatore (ovunque potessi colpirlo).

    Di impulso gli diedi una gomitata in direzione dello stomaco. Questo non reagì, anzi; non appena percepì il colpo alla pancia si reclinò in avanti, mollò la presa sul mio corpo e si piegò su se stesso.

    Avrei dovuto, come sarebbe stato sensato fare, prendere la borsa e scappare verso la macchina o meglio ancora dargli un bel colpo in testa per guadagnare del tempo prima di riaccendere l’auto... invece, sotto la debole luce di un lampione non lontano dal porticato, vidi una figura maschile a me conosciuta.

    Spalancai le palpebre e mi misi le mani davanti alla bocca, sconvolta nel vedere i suoi capelli ricadergli davanti agli occhi e quelle grandi mani che si tenevano febbrilmente il luogo in cui l’avevo colpito. Emise un gemito di dolore.

    «Cazzo, Michael...»

    Gli andai vicino e gli afferrai un braccio senza sapere cos’altro fare. Michael non rispose: non sembrava neanche che avesse udito le mie parole – e come dargli torto, vista la botta che aveva preso.

    «Dio, mi hai fatto pensare che fossi un... ma come hai... oh, lasciamo perdere...», andai verso la porta, presi il mazzo di chiavi caduto a terra e brandendo quella giusta la aprii. Feci un passo all’interno per accendere la luce.

    «Ciao, Moony...»

    Ritornai verso Michael e gli accarezzai una spalla.

    «Vieni, entriamo... ce la fai a muoverti?»

    Lo sguardo era fisso a terra, una smorfia di trattenuta sofferenza gli marcava tutti i muscoli del viso. Inspirava ed espirava lentamente col naso. Poco dopo incrociò la mia occhiata preoccupata e colpevole: accennò ad un debole sorriso ma non rispose.

    Dovevo essere stata piuttosto violenta.

    Lo aiutai a drizzarsi ed infine ad oltrepassare lo stipite della porta, tenendolo stretto per un braccio, lasciandolo appoggiarsi su di me con tutto il peso.

    *

    «Ouch...»

    La sua fronte si corrugò mentre le mie dita percorrevano la parte lesa con un sacchetto di ghiaccio secco. La camicia sbottonata fino all’ombelico mi tentava, per non dire che mi eccitava molto, ma mi allontanai subito dall’idea. Mi sentivo ancora straordinariamente in colpa per quanto accaduto.

    «Michael...» pigolai, «scusa... non volevo farti questo...»

    Sorrise dolce, ad occhi schiusi, guidandomi nel punto in cui gli doleva di più.

    «Sarah, stai tranquilla», mormorò pacato. «Hai fatto più che bene, potevo essere stato un ladro o qualcuno che voleva farti del male. Ti sei difesa e io sono felice per questo... anche se dovresti mettere più energia nei colpi, e mirare più in basso...»

    Accennai ad un sorriso.

    Quella sera si era presentato con il desiderio di “spaventarmi leggermente”, ma soprattutto di “farmi una sorpresa”: si era fatto portare dai suoi bodyguards (che se ne erano andati soltanto dopo avermi visto arrivare a distanza) mentre i piccoli erano rimasti sotto le cure di Grace. Non so con quale pazienza aveva aspettato al buio per circa un’ora, in attesa del mio rientro a casa. Erano le 21.30 e avevo cenato fuori, da sola, in un ristorante giapponese che avevo scoperto da poco.

    Non era certamente nei suoi piani farsi pestare dalla sottoscritta.

    «A volte non riesco a controllare la mia forza, sembro un uomo...», arrossii per l’imbarazzo, «ma concordo su una cosa: sei stato incauto».

    Ridacchiò. «Lo so... è stata una cosa molto... ah...! Stupida...»

    Tolsi il ghiaccio nell’istante in cui fu colpito da uno spasmo di dolore. Attesi che la sua espressione facciale si rilassasse e mi fece cenno di continuare con le medicazioni. Gli piaceva essere sotto le cure di una donna, molto più di quanto desse a vedere: seppur dolorante sembrava compiaciuto di avermi lì, seduta su quel divano con lui, mentre lo “viziavo” e mi preoccupavo della sua salute.

    «Tu piuttosto, come mai hai rincasato così tardi?», mi esaminò con aria attenta.

    «Ho fatto la spesa e dato che c’ero ho fatto un po’ di shopping», alzai le spalle. «Siccome era tardi sono rimasta a cenare fuori. Una settimana fa ho scoperto un ristorante giapponese che fa del cibo veramente squisito. Il sushi è una droga, non l’avrei mai detto!».

    Rise per la mia espressione bambinesca e stupita.

    «E che cosa hai comprato di bello?», i suoi occhi puntarono le due borse adagiate a terra, proprio davanti all’uscio di casa. La terza, quella con la spesa, era già stata sistemata a dovere. «Sono curioso».

    Emisi un “Mmh” a labbra strette.

    «Niente di che. Stavolta niente vestiti, solo trucchi. Avevo finito il fondotinta e la crema idratante».

    Michael sorrise arcuando un sopracciglio. «Come se il tuo viso avesse bisogno di trucco».

    Gli scoccai un’occhiata scettica e contrariata.

    Gli angoli della sua bocca si alzarono ancor più di prima.

    «Non è una critica, non essere permalosa», spalancò le palpebre assumendo una faccia da bronzo incredibile. «Voglio dire che sei perfetta così come sei. Hai una pelle meravigliosa».

    La mano che reggeva il sacchetto di ghiaccio venne presa dalle sue dita. Afferrò l’oggetto senza alcuna protesta da parte mia e lo lasciò cadere a terra. I suoi occhi improvvisamente ridenti ma languidi puntarono il mio collo e, con affettuosità disarmante, mi venne incontro per poggiarvi le labbra. Riuscii a malapena a ingoiare la saliva.

    Il suo respiro mi colpì la pelle con un soffio leggero.

    «Sono convinto che hai comprato cose utili...».

    Rabbrividii e trattenni una risatina nervosa.

    «Penso... che andrò a sistemare il resto delle cose...», mi alzai. Non gli concessi il tempo per scendere dalla gola al seno, là dove la scollatura della maglietta senza maniche lasciava intravedere appena i miei seni. «Torno subito».

    «Adesso?»

    Mi incamminai verso le borse.

    «Sì, ci metterò pochissimo. Tanto non puoi fuggire da questa casa finché ho le chiavi», lo guardai negli occhi e gli mostrai la lingua.

    Michael alzò maliziosamente le sopracciglia. «Giusto».

    La complicità che condividevamo era in grado di farmi camminare a sette passi da terra, con uno sfrontato sorriso in faccia che, nei momenti in cui Michael non c’era, mi faceva credere di essere una totale rimbambita.

    Presi le borse chinandomi a terra, accennando un sorriso soddisfatto che lui non poté vedere. Quando mi rialzai, tenendo entrambe le borse in una mano, mi passai le dita dell’arto libero tra i capelli per togliermi dagli occhi delle ciocche ribelli e indomite.

    Ci fu un lampo di luce incandescente. Si scontrò con le pareti del muro e con il mio viso. Abbagliante ma fugace. Mi voltai verso Michael capendo subito che proveniva da lui.

    Lo vidi con una macchina fotografica in mano. Era una Polaroid – la mia vecchia, preziosa Polaroid. L’ultima volta che l’avevo adoperata era stata per scattare una foto al mare con la luce del tramonto e non l’avevo più rimessa al suo posto. L’avevo lasciata là, sul tavolino del salotto, pensando che sarebbe potuta essermi utile una seconda volta. Michael sapeva della sua esistenza e del fatto che tenessi tutte le foto che facevo in un grande album ormai rovinato; di tanto in tanto mi piaceva riguardarle e anche Michael lo aveva sfogliato, molti mesi prima, chiedendo i perché e le ragioni di ogni scatto fatto. Era un tipo curioso e questo stimolava la mia mente molto più di quanto pensasse.

    «Bella questa macchina».

    Mi gettò un’occhiata furbesca e vorace, una di quelle che pareva spogliare con gli occhi. La foto di piccole dimensioni fuoriuscì dalla macchina ed egli la nascose dalla luce, appoggiandola sul tavolino al contrario, in modo che rimanesse all’oscuro e che si sviluppasse nel migliore dei modi.

    «Ti prego, sono in condizioni orribili!», scattai di corsa verso il divano e Michael rise. Strinse la fotocamera fra le mani e cercò di nasconderla come se gli appartenesse. «Michael, dai! Non sono nelle condizioni per fare foto!», risi del suo atteggiamento infantile.

    Mi sedetti e mi allungai verso le sue braccia in un misero tentativo di strappargli la Polaroid dalle dita. Eseguì un rapido movimento all’indietro nonostante lo stomaco gli dolesse – lo notai dall’espressione contratta del suo viso.

    «Perché?», domandò sorridendo come un’idiota, alzando i lembi della diapositiva per vedere se fosse pronta. Si divertiva un mondo. «Sei venuta benissimo. Vuoi controllare?».

    Aveva una faccia da sberle impossibile da descrivere.

    Lo fissai senza dire nulla, incrociando le braccia al petto. Strinsi le labbra in un’espressione fintamente irritata, mentre Michael prendeva la Polaroid in una mano e lo scatto in un’altra e mi sventolava quest’ultimo davanti al naso.

    Sospirando, accettai.

    Mi posizionai al suo fianco, appoggiando il mento sulla sua spalla. Michael mi sorrise e mi mostrò la foto. Mi guardai dapprima con occhio cinico e disgustato, poi sempre più interessato. Non ero venuta male, neppure la posa era orribile: pensavo che il viso sarebbe venuto decisamente più paffutello, invece lo sguardo che aveva inquadrato era decisamente bello, attraente in un certo senso, ma pensoso.

    Inclinai la testa da un lato. «Mmh... potrebbe piacermi...». Esaminai ancora le mie gambe ben tornite. «Non sono proprio così male, dai...»

    Mi rimproverò con gli occhi e tornò ad ammirare la foto.

    «Non dire sciocchezze, sei una bambolina».

    Lo guardai. Esaminava lo scatto così intensamente e dolcemente che mi vennero i brividi. Il palmo della sua mano destra schioccò sulla mia coscia.

    «Avanti, vai a sistemare le tue cose», mi puntò deciso ma affabile. Studiò le mie labbra per poi posarvi un bacio tenue. «Così non hai più scuse per sfuggirmi».

    Mi alzai con uno sbuffo leggero, ripresi le borse lasciate sul pavimento accanto al divano e mi incamminai verso il bagno.

    Un altro flash, un altro scatto rubato.

    Mi fermai sul posto. Il riflesso della luce mi fece capire che stava fotografando proprio me, e non mi fu difficile comprendere il luogo a cui aveva mirato.

    Mi voltai a rallentatore, serrando le labbra in un sorriso sospettoso, guidando un sopracciglio verso l’alto. Michael non mi badò nemmeno ed eseguì lo stesso procedimento compiuto per la foto precedente: la capovolse, la poggiò sul tavolino e ritornò a fissare quella scattata poco prima. Aveva la tipica aria compiaciuta che possiedono gli uomini quando vedono qualcosa che li accendono sessualmente nella donna che amano.

    «Cosa stavi fotografando…?», bofonchiai.

    «Uhm, niente di che», fece spallucce. Mi osservò: quello sguardo fece contrarre le pareti della mia femminilità e del mio stomaco. «Stavo facendo prove tecniche con le varie modalità di scatto...»

    «Seh...», sorrisi e scossi il capo, «farò finta di crederti!»

    Gli detti le spalle e arrivata allo stipite della porta neanche la sua esclamazione a voce alta sembrò distrarmi dall’entrare in bagno.

    «Questa foto me la tengo!»

    Risi. «È tutta tua!»

    *

    «Ma a cosa stai facendo foto?»

    «Alle tue espressioni. Così potrai vedere tu stessa le facce da cartone animato che fai!», sorrise.

    Fui tentata di fargli presente che le conoscevo esattamente le mie facce.

    Posi le due limonate fresche sul tavolino di fronte a noi. Mi sedetti accanto a Michael, lasciando cadere tutto il peso del corpo sul divano, prendendo le tre Polaroid che mi aveva fatto nel giro di neanche mezz’ora – ad eccezione di quella dedicata al mio fondoschiena.

    «Mmh... questa è carina…», ammirai l’ultima che mi aveva scattato, dove stavo sullo stipite della porta del bagno e abbassavo lo sguardo ridendo timidamente. «Devo ammettere che sei molto bravo! Hai l’occhio giusto, riesci a cogliere le angolazioni migliori!».

    Sghignazzò imbarazzato, grattandosi la guancia con l’indice.

    «Sono un bravo osservatore». Mi adocchiò con un’espressione ridente. «Penso le terrò tutte, se per te non è un problema».

    Mi strinsi nelle spalle, riponendo le foto sul tavolino.

    «Per me va bene, non amo avere foto di me stessa negli album fotografici».

    Mi prese il mollettone da dietro la nuca e lo sganciò. Mi ero stancata della coda alta e perciò mi ero fatta un chignon alla veloce; Michael mi preferiva con i capelli sciolti, decisamente; la folta chioma castana rossiccia scese lungo le spalle e io protestai affinché mi ritornasse il mollettone. Mi arresi poco dopo, quando mi baciò languidamente: il respiro divenne pesante e la sua lingua si fece spazio tra le mie labbra.

    «Mmh...», emisi un suono simile ad un miagolio. «Non tentarmi...»

    Lo allontanai dal viso con una mano e arrossii. Michael si morse un labbro agguantando energicamente il mio ginocchio nudo.

    «E chi ti sta tentando? Io sono assolutamente innocente», borbottò fingendosi offeso.

    Con un cipiglio lussurioso iniziò ad ammirare i miei pantaloncini e il seno appena scoperto. Si fermò verso un punto indefinito vicino alle cosce. Mi afferrò entrambe le gambe con le dita, percependo la morbidezza della mia carne.

    «Ti dona il colore che indossi», si riferì alla mia canotta verde smeraldo.

    Mi strinsi un po’ nelle spalle apposta per far scontrare i due seni e dar loro più volume, in un tentativo quasi “comico” di attirare la sua attenzione e sedurlo.

    «Dici?», sorrisi.

    «Assolutamente» fece scattare impercettibilmente le sopracciglia verso l’alto. Un secondo e mi scoccò un’occhiata ammaliante, puntando le mie iridi chiare. «Smeraldo... come i tuoi occhi».

    Risi. «Io non ho gli occhi verde smeraldo!»

    Michael mi fissò profondamente.

    «Hai ragione. Sono più belli a causa delle loro mille sfaccettature, ma sono brillanti come quella pietra».

    Sono i tuoi che scintillano, adesso...

    «Perciò li paragoni ad uno smeraldo?», sorrisi visibilmente sorpresa. «Be’, è decisamente un gran complimento».

    Venni pervasa da brividi caldi e intensi. Michael proseguì dal ginocchio alla caviglia con i polpastrelli di entrambe le mani.

    Assumendo una smorfia maliziosa mollò la macchina fotografica sul tavolino, puntò le ginocchia al divano e mi tenne entrambe le piante dei piedi fra le dita. Si allungò verso il mio corpo semidisteso calcando il peso sui gomiti, affondando il capo nell’incavo del mio collo. Mi lasciai distendere sotto il suo peso.

    Il respiro che avevo tentato di non abbandonare si mozzò in gola. Gli occhi si coprirono di una patina di fuligginoso affetto. Michael mi accarezzò la coscia destra. In automatico l’agganciai al suo fianco, mentre si occupava di risalire al di sotto del mio top con l’altra mano, scavalcando l’ostacolo imposto dal reggiseno.

    «Abbiamo tutta la notte... perché così impaziente?»

    «Sono stanco di aspettare», gemette sfiorandomi il mento con le labbra. Lo osservai eccitata: lo sguardo era voglioso, il suo modo di fare precipitoso, le palpebre appena abbassate. «Possiamo finire di fare foto più tardi...»

    Mi baciò. I miei polpastrelli s’infilarono nella sua chioma corvina e mi permisi, per un fulgido istante, di spingere il bacino verso il suo. Mi scappò un mugolio pregante non appena afferrò un seno tra le dita.

    «Lo sai anche tu che dopo nessuno dei due avrà voglia di farle...», arrancai per rispondere, ingoiando la saliva con notevole sforzo. Gli accarezzai il mento nel tentativo di scostarlo da me. «E poi mi piacerebbe che ci fossi anche tu in qualcuna...».

    Gli regalai un sorriso dolce e una carezza, che dalla fossetta sul mento si abbassò fino al colletto della camicia sbottonata. Il suo profumo mi velava la capacità di pensare.

    Ripiegò la testa da un lato e la fronte si aggrottò un po’.

    «Vuoi fare qualche scatto assieme?»

    «Ovvio».

    Ritornò in posizione eretta e mi permise di sfuggire al suo abbraccio.

    Accarezzò il mio piede destro non più con fare distratto, ma con marcate e leggere pressioni. La luce evanescente delle mie iridi verdi incontrò quella delle sue, neri come la notte. Condividevamo lo stesso fuoco negli occhi.

    Sorrise scaltro ma per un istante sembrò vacillare. Mi prese la caviglia e la baciò.

    Abbassai lo sguardo sui suoi pantaloni: quel tessuto nero enfatizzava la protuberanza nascosta già impaziente di avermi. Il solo vedere come le sue dita mi afferrassero e il sentirle stringermi con amorevole forza mi mandava fuori di testa.

    Mi tirai su a sedere, spinta da una contrazione al bacino e un brivido alla femminilità. I capelli ricaddero scompigliati davanti al mio viso, alcuni entrarono per sbaglio in bocca e me le tolsi immediatamente. Le mie dita si avvicinarono ai bottoni della sua camicia rossa, piano pianino, mentre non distoglievo gli occhi da un Michael in attesa di una mia mossa. Il mio ginocchio destro si infossò fra le sue due gambe aperte.

    «Sembra che ti piaccia molto come sono vestito...», il tono di voce era basso e roco.

    Un lembo della mia bocca si incurvò verso l’alto. «Decisamente»

    Chiusi gli occhi e lo baciai piano sulle guance, con piccoli e scanditi movimenti di labbra. Attesi che mi lasciasse il tempo di sbottonare completamente la sua camicia; dopo averlo fatto gli accarezzai la pelle da sotto la canottiera bianca e soffocai un gemito mentre le nostre lingue s’incontrarono danzarono assieme.

    Le sue mani si affrettarono a raggiungere i seni e li massaggiò ferocemente. Mi afferrai alle sue braccia respirando affannosamente.

    «Michael...»

    Al diavolo le foto assieme.

    «Michael», annaspai. «Ti farà male... la botta...»

    La sua risposta arrivò come un sibilo di vento all’orecchio. «Shh… non ti preoccupare...»

    Mi slacciò i bottoni degli short facendo scendere la cerniera con un singolo movimento di dita. Scivolò al di sotto dei pantaloncini e scostò la biancheria intima in pizzo infilandosi al suo interno. Ingoiai il respiro ed entrò in me per mezzo di due dita, senza fatica alcuna.

    «Oh mio...»

    Mi strinsi a Michael, nascondendo lo sguardo tra i suoi capelli.

    Cercai di slacciare il reggiseno da sola. Uno schiocco e questo si smollò.

    «Mi vuoi?».

    Centrò il punto che preferivo e lo istigò fino a farmi soffocare un grido. Posai le labbra vicino alla sua gola e gli mordicchiai il lobo dell’orecchio destro. Mi parve di sentirlo tremare di rimando.

    «Non ho sentito...»

    Le spinte si fecero più possenti e rapide.

    «Ti voglio, Michael», piansi.

    Con l’altra mano libera si slacciò i pantaloni. Lo aiutai con una certa difficoltà e senza aspettare che si alzasse in piedi per togliersi il tutto, esattamente come lui aveva fatto con me. Infilai la mano al di sotto del tessuto che lo copriva e Michael sospirò elettrizzato, pronto a ricevermi.

    Mentre si sedeva appoggiandosi allo schienale del divano, abbassando i pantaloni e la biancheria intima fino alle caviglie, mi tolsi completamente shorts e biancheria intima per mettermi a cavalcioni sopra di lui. Uno sguardo di intesa e ci baciammo di nuovo, mentre Michael mi teneva per la vita e mi avvicinava al suo corpo mezzo nudo. Gli tolsi la camicia e la canottiera e lui fece lo stesso con il mio top e reggiseno. Gli lambii il collo mentre le dita lavorarono nuovamente alla sua mascolinità.

    Incespicò freneticamente nei suoi continui versi di supplica e mi persuase a non smettere. Più rallentavo, più mi chiedeva di accoglierlo in me.

    «Michael…»

    Mi fissò, ansimò pesantemente e si accostò alle mie labbra sfiorandole appena.

    Lo guidai e lo feci scivolare al mio interno, facendo cadere la testa all’indietro di fronte alla dolorosa ma piacevole sensazione di avvolgerlo completamente. Cercai di respirare profondamente, inarcando la colonna vertebrale, ed egli emise un lungo gemito di piacere.

    Ero sul punto di raggiungere il culmine ancor prima di iniziare per davvero.

    Cominciai a muovermi sopra di lui, dapprima lentamente e poi sempre più rapidamente. Michael sospirava a fatica ogni qualvolta lo facevo entrare nel punto più profondo che potesse raggiungere. Mi stringevo attorno al suo membro con forza, mugolando senza sosta.

    Mi appoggiai alle sue ginocchia con le dita, inclinando la schiena e continuando a danzare sopra di lui. Mi fissò rapito, a volte adocchiando il nostro legame e le mie movenze sulla sua mascolinità, altre volte ammirando l’espressione sul mio volto. Lasciai che mi accarezzasse i seni o mi desse lievi schiaffetti sul sedere senza protestare.

    Solo dopo un bel po’ di tempo aumentai la velocità e mi lasciai andare a gemiti sempre più forti. Mi strinse la presa sui glutei lasciando cadere la testa all’indietro. Lo lasciai immergersi in me senza sosta, fino a quando i corpi non tremarono e nettari preziosi vennero rilasciati in uno stato di ebbrezza indescrivibile.

    Per un tempo indefinito, quand’anche le tenebre si dissiparono all’orizzonte, la nostra danza non smise di esistere.

    *

    <div style="text-align: justify;">Un cinguettio allegro, unito al debole fruscio del mare, fu la prima cosa che le orecchie sentirono quando mi destai. Una sinfonia celestiale, la canzone di ogni glorioso risveglio dopo una notte indimenticabile – una delle tante.

    Ascoltai il mio respiro rilassato e riconobbi la posizione in cui ero sistemata; pancia in giù, una gamba posta fra quelle di Michael e la mano destra deposta sul suo petto nudo. Le dita di lui accarezzavano il dorso dell’arto e sospirava piano, sveglio da chissà quanto tempo. Il torace si alzava e si abbassava all’unisono col mio seno in un ballo lento e ben coordinato.

    Il fiato mi mancò per un millesimo di secondo. Uno sfavillio di luce diafana pareva avvolgere il cuore e, da esso, espandersi oltre i confini del corpo.

    Mi sentivo come una melodia nata senza spartito o strumento musicale, suonando il battito di un sentimento che non emetteva un rumore eppure avvolgeva ogni cosa. Ero protetta. Ero in salvo e al tempo stesso in caduta libera. L’amore che provavo era uno scoppio di colori e canti di giubilo in grado di trasformare l’essere umano in un essere divino: tutto l’universo è in equilibrio.

    Inspirai e strofinai il capo alla sua scapola con un movimento impercettibile. Le dita di Michael scivolarono verso il polso, tremando appena. Se lo portò alla bocca: vi posò un bacio gentile, delicato come i petali di un fiore. Il mio cuore fece una piccola capriola su di sé per l’emozione.

    Fece per rimetterla al suo posto ma lo bloccai. Sfuggii alla sua presa per percepire la sofficità della gota e degli zigomi marcati, quella parte del viso che non avrei mai smesso di lambire, assaggiare o adorarne il fresco profumo di dopobarba.

    Aprii le palpebre sbattendole piano. La vista era annebbiata eppure riuscii a intravedere il suo sorriso. I suoi occhi passarono in rassegna di ogni mio lineamento facciale e si arrestarono sulle mie preziose pietre verdi. Ricambiai con una smorfia stanca.

    «Ti ho svegliato, Moony

    «No...» mormorai stropicciandomi gli occhi. «Per nulla...»

    «Hai dormito bene?».

    «Mmh» Mi stiracchiai. Torsi il busto verso il tavolino, per bere un sorso di acqua fresca dal bicchiere di limonata della sera prima. Non ci eravamo mossi dall’enorme divano del salotto. «Non mi lamento. E tu?».

    «Mi piace osservarti quando dormi... sei così in pace che perfino io mi sento beato».

    Ovviamente evitava di rispondere.

    Per una volta lasciai perdere.

    Mi tirai su. Mi sedetti sul bordo del divano e mi allungai verso il pavimento alla ricerca della biancheria. Il reggiseno vicino al tavolino, le mutandine accanto al divano... un intero guardaroba posato a terra, a casaccio: mai disastro era stato più perfetto.

    Con un sorrisetto sulle labbra, mentre mi aggiustavo il reggiseno, Michael mi osservò. I nostri sguardi si incrociarono. Lo fissai incuriosita ed egli arcuò la fronte.

    Scoccai un’occhiata al suo corpo nudo mentre si sistemava di lato.

    «Devi andare via o puoi restare per un altro po'?»

    Picchiettò le dita sul cuscino che aveva accanto. Lo scrutò con fare pensieroso. Le labbra si attorcigliarono in un cipiglio rattristato e mi osservò a lungo.

    «Sarebbe meglio che andassi...»

    Annuii e abbassai il capo. Distrattamente infilai l’ultimo pezzo di intimo che ancora mi mancava.

    «Vado a mettere qualcosa di più comodo, attendimi un attimo».

    Adocchiai gli indumenti a terra. Li arrotolai attorno al braccio, mi issai in piedi e m’incamminai in direzione del bagno. Neanche un passo e Michael si sedette, con il busto in avanti e la mano che sporgeva di poco verso il mio polso. Aveva i capelli decisamente più arruffati dei miei.

    Ci studiammo a lungo – io confusa, lui imperscrutabile. Arrossii come se avessi già capito la sua domanda.

    Schioccò la lingua al palato.

    «Mi regali un tuo vestito?»

    «Eh?»

    Si bagnò il labbro ed emise un cenno di risata. «Mi regali un tuo vestito? Uno qualsiasi».

    Lo fissai incapace di dire qualcosa. Corrugai la fronte e sbattei le palpebre più volte.

    «Lo vuoi indossare…?».

    Michael esplose in una sonora risata e unì i palmi delle mani con uno schiocco.

    «No, piccola incosciente!», scosse la testa. «Voglio che nei momenti in cui non siamo assieme possa avere qualcosa di tuo, che mi ricordi la tua presenza...». Un angolo delle labbra si alzò di qualche millimetro. «Voglio sentire il tuo profumo nelle cose che indossi...»

    Arrossimmo entrambi.

    Gli avrei donato quello nero con le rose rosse. La prima volta che me lo aveva visto addosso i suoi occhi si erano abbagliati di desiderio e non era rimasto “improfanato” per più di cinque minuti.

    «Va bene», arricciai la bocca in un sorrisino imbarazzato. «Ma anch’io voglio qualcosa di tuo».

    Si lasciò cadere all’indietro, come se fosse in attesa che mi sedessi sopra le sue gambe completamente nude. Puntai la sua canottiera bianca, una di quelle che soleva tenere sotto la camicia, adagiata sullo schienale del divano. Michael seguì il mio sguardo e successivamente mi scoccò un’occhiata allegra.

    «Vuoi la mia canottiera?»

    Annuii.

    L’afferrò e me la porse.

    Non esitai a portarmela al naso. Quell’essenza mi accecò i sensi. Inspirai il suo profumo di borotalco, dopobarba e sandalo; avrei voluto abbassare le palpebre, invece le socchiusi e basta.

    Lo guardai negli occhi e in un istante lasciai cadere la canottiera a terra. Le gambe si mossero da sole verso il suo corpo. Abbandonai il peso sopra le sue ginocchia, incastrandomi perfettamente in loro come se fossimo due pezzi di puzzle combacianti. Michael mi guardò sorpreso ma interessato. Allacciai le mani attorno al suo collo.

    «Ho bisogno di te...», dissi con un fil di voce, baciandogli la tempia destra. «Non andare».

    «Sarah...».

    «Ti prego... ti voglio ancora»

    I suoi palmi avanzarono verso la parte più alta della schiena, vezzeggiandomi dolcemente, per poi stringersi ad essa con forza. Mi sfiorò come se fossi velluto, o una morbida e pregiatissima stoffa orientale. Con le labbra scese fino alla zona dei seni e la baciò fremente.

    Potevo percepire la sua eccitazione a pochi centimetri dal ventre. Gemetti.

    «Non me ne vado...», mugolò.

    Michael alzò lo sguardo e posai la bocca sulla sua. Infilai i polpastrelli nei suoi capelli, aspettando di essere spogliata un’altra volta dalle mutandine, le quali vennero scostate verso destra con due sole dita. La lingua cercò contatto con quella dell’altro e immediatamente la sua durezza mi invase con dolcezza.
  9. .
    Capitolo Trentotto: Il Fuoco dell'Anima


    Appoggiata al lavello del bagno in marmo lustrato, non potei far altro che analizzare accuratamente il mio riflesso allo specchio. Un gemito disperato ma voglioso fuoriuscì dalle mie labbra socchiuse.

    Non riuscii a chiudere gli occhi, troppo ossessionata dall'immagine di Michael nella mia testa.

    Mi aggiustai un po’ il vestito.

    Aprii la porta e mi incamminai verso la camera da letto. Arrivata allo stipite, guardai curiosamente al suo interno e lo fissai a lungo, immobile.

    Lo sguardo di Michael, apparentemente assente, era puntato al di fuori della finestra scorrevole. Si poteva scorgere la punta lingua fra le labbra serrate. Se ne stava in piedi e con le mani nelle tasche dei jeans. Una spalla era appoggiata al vetro liscio e freddo della finestra. L’aria che entrava dalla finestra socchiusa scuoteva appena la sua chioma corvina.

    C’era un’unica luce ad illuminare debolmente la camera, ed era quella della lampada del comodino.

    Quando Michael percepì la mia presenza inclinò il capo verso la sottoscritta. Lo sguardo si fece vivo e intenso. Mi fece cenno di andargli vicino, mi sorrise.

    Mi avvicinai incrociando le braccia al petto, ricambiando quel sorriso con un lieve dispiegarsi della bocca all’insù. Michael si separò dalla finestra e mi aspettò, ammirandomi da capo a piedi.

    Inarcò un sopracciglio. «Ce ne hai messo di tempo».

    Assunsi una smorfia contrariata e gli feci la linguaccia.

    Ricambiò con una pernacchia e io risi, abbassando lo sguardo e pettinandomi i capelli all’indietro.

    Quelle parole rimasero un flebile eco nell’atmosfera. Ingoiai la saliva e insieme anche il senso di improvvisa debolezza emotiva che mi aveva colpito alle spalle.

    Sobbalzai quando la mano destra di Michael si posò su una mia guancia. M’incatenai a quell’occhiata profonda e amorevole.

    «Ti amo», mormorò. «Più di quanto credi», mi baciò a fior di labbra.

    Ricambiai con un altro bacio, abbassando le palpebre.

    «Ti amo anch’io» bisbigliai.

    Quando aprii gli occhi rimasi incantata: l’espressione che mi stava rivolgendo era la più profonda, la più affettuosa e la più felice che avesse mai incorniciato il suo volto.

    Riposò la bocca sulla mia; deboli carezze si trasformarono in rapidi movimenti, rumorosi e saporiti. Le lingue s’intrecciavano, le teste si inclinavano e le mani di uno si stringevano ai vestiti dell’altro. Mi aggrappai a lui con dolcezza e Michael ricambiò con un sospiro pesante.

    «Io ti amo di più, Sarah...», fu il suo mormorio all’orecchio.

    Inclinai il capo all’indietro, mentre le sue labbra arrivavano alla gola, dirigendosi lentamente sempre più in basso.

    Il cuore tumultuava nel petto. Il ventre si contraeva e il sangue fluiva lungo la zona occipitale della nuca. Non sapevo spiegarmi come diavolo riuscisse a farmi sentire così, ma il fiato diveniva corto e pesante ancora prima che fosse dentro di me.

    Una lieve folata di vento scosse entrambi nello stesso momento.

    Michael mi attirò a sé.

    Percepivo la sua eccitazione alla ricerca di ciò che tanto ambiva, rigido al di sotto della stoffa tesa che lo teneva protetto. Un formicolio invadente mi scosse le membra. Un lamento lascivo percosse la mia gola... o forse un mugolio sottile, ma di un’ottava più alta rispetto al mio tono di voce normale.

    I suoi baci ardevano più della lava di un vulcano.

    Trascinò la mano destra, dapprima poggiata sul mio fianco, in direzione della spalla. Accarezzò a lungo la carne indugiando su questa solo per sentirne meglio la morbidezza, e salendo raggiunse una spallina del candido vestito bianco. La abbassò e posò labbra e naso sulla scapola, premendo forte per qualche secondo.

    Inspirò. «Sei così soffice...»

    Ridacchiai timidamente.

    Delicatamente mi voltò, in modo tale che potessi dargli la schiena. Tornò a lambirmi il collo e la spalla e, senza smettere di assaporare la mia pelle, con la mano sull’ombelico mi premette saldamente verso il suo bacino. Persi il fiato e fu Michael, quella volta, e gemere.

    La mano con la quale aveva abbassato la spallina scivolò al di sotto della stoffa del vestito e si diresse impaziente verso un seno. Emisi un debole mugolio di piacere. Accarezzò il seno con dedizione, passione e sospiri ansanti; si dedicò minuziosamente ad ogni parte di quella protuberanza in una lenta e crudele sevizia: lo avvolse tra le sue meravigliose dita, facendogli compiere piccoli cerchi concentrici, fino a quando non si decise a stimolare il capezzolo.

    L’altra mano, intanto, si era diretta verso la coscia sinistra. Alzando l’abito bianco si era diretto verso la pancia. L’accarezzò non curandosi del fatto che non fosse perfettamente piatta. Infossò il viso nella zona tra spalla e mento.

    Con entrambi gli arti si trascinò verso il mio fondoschiena, laddove mai avrei pensato che potesse provare piacere. Massaggiò a lungo le gambe e le natiche, prendendosi tutta la calma e il tempo che aveva per avviarsi in quel luogo sacro – mai profanato così bene da nessun altro uomo se non da lui.

    Abbassò anche la seconda spallina della veste e – essendo un vestito elastico – lo aiutai a toglierlo, tirandolo via da sopra, per poi farlo cadere a terra con un lieve fruscio. Rimasi solo con gli slip e tremai per l’ennesima volta.

    Espirai a fondo, mentre quei polpastrelli roventi iniziavano a liberarmi anche dalle mutandine, prima abbassandole soltanto e poi portandole un po’ verso il basso, per permettere che queste raggiungessero le ginocchia.

    Non avevo la forza di emettere parola. Non avevo la forza di reagire, di respirare, di rispondere alle sue carezze. Mi sentii ammattire una volta che – riuscita a spingere lontano gli indumenti con un abile gesto del piede – la sua mano sinistra si portò sulla mia femminilità, avvolgendola a coppa, la quale veniva invasa da continue e dolci pulsazioni.

    Gemetti aprendo gli occhi. Mi toccò nel modo più romantico e dolce possibile. Fece scattare le punta delle dita dal basso verso l’alto, spingendo il bacino con più forza verso il mio fondoschiena. In un secondo si infilò dentro di me. Mugolai appena.

    Giocò a lungo all’interno della mia carne, utilizzando la bravura dei polpastrelli, entrando e uscendo di continuo; velocizzando secondo dopo secondo la forza di quelle carezze, premendo in me con delizioso vigore e squisita operosità. Mentre Michael era l’esploratore del mio corpo, in pieno potere della mia anima, io mi lasciavo governare da lui.

    Il respiro sussultò. Piegai la testa all’indietro sempre di più, aggrappandomi al suo avambraccio.

    Non capivo più nulla.

    Cercai di interromperlo. Afferrai il suo collo e le mani che teneva sul mio ventre.

    Inspirai e lo percepii trasalire a causa di quel brusco risveglio.

    «Michael...», boccheggiai con una roca risatina.

    Si separò dalla mia mano che gli impediva di farmi gioire ancora e rispettò il mio richiamo. Si allontanò dall'intimità e mi portò il mento in sua direzione; parlò attraverso quella luce negli occhi.

    Mi sentivo disarmata.

    Vulnerabile.

    Si pose un dito fra le labbra e gustò il mio sapore, eseguendo lo stesso procedimento con tutte quelle utilizzate per toccarmi. Lentamente. Mosse un indice in mia direzione e compii lo stesso gesto che aveva ultimato poco prima, osservandolo intensamente, mentre voltavo il busto e il resto del corpo in sua direzione. Il contatto con la mia lingua lo fece sorridere, ma gli occhi erano completamente accecati dalla confusione.

    Gli presi una mano e lo guidai verso il bordo del letto, indietreggiando alla cieca.

    Quando arrivai a toccare il materasso con i polpacci mi fermai. Mi osservò interessato, silenzioso, con il petto che si abbassava e si alzava leggermente. Mi sedetti sul bordo del letto – in modo tale da trovarmi di fronte alla sua sessualità – e feci scorrere una mano sopra quel gonfiore coperto dai jeans scuri.

    Michael chiuse gli occhi alzando il mento verso l’alto, ma le mani si diressero verso la cintura. La slacciò e sbottonò i pantaloni. Io feci il resto: li abbassai fino alle caviglie e aspettai che se ne liberasse con un gesto del piede, esattamente come avevo fatto io con gli slip.

    Detti un’ulteriore pressione alla sua eccitazione, percettibile ma mansueta. Quel gonfiore scalpitava alto e fiero verso di me. Michael mi guardava a momenti, attento come non mai.

    Il suo sguardo così delirante quanto amorevole mi analizzò languidamente; si passò la lingua fra le labbra e mi fissò a lungo, anche quando gli tolsi l’intimo e mi apprestai a esaudire quel suo desiderio mai detto a parole.

    Il sicuro membro sussultava, mi desiderava, non aspettava altro se non riempire lo spazio che gli spettava. Quando le mie dita si poggiarono su di esso, avvolgendolo coraggiosamente, Michael lanciò un anelito roco e sensuale, oscillando sul posto. Afferrò le mie spalle nel momento in cui le mie labbra iniziarono a baciarlo.

    Michael mi afferrò la nuca e infilò le dita fra i capelli; i suoi piagnucolii mi pregarono sommessamente di continuare, di non smettere... le sue mani tremavano... mi richiamavano a sé... non avevo bisogno di una guida.

    Danzai seguendo il ritmo di quella frenesia che provava; dapprima piano, in seguito più rapido. Mi stringeva la nuca e io rallentavo, gemevo e lui rimaneva estasiato, e appena si ammutoliva velocizzavo il ritmo, stringendomi alla sua sessualità con una maggiore pressione. Mi spingevo fino in fondo e poi mi allontanavo e poi di nuovo tutto da capo. Quando lo sentivo richiamarmi capivo che stavo facendo la cosa giusta, e questo mi eccitava in una maniera incommensurabile.

    Ad un certo punto soffiò un lamento strozzato e, con una piccola pressione dei polpastrelli sui miei capelli, mi allontanò.

    «Moony...», ansimò. Le grandi mani di Michael scivolarono sulle gote con l’intenzione di arrestarmi. «Fermati...», sorrise.

    Obbedii controvoglia. Quando lo puntai di soppiatto, la sua vista era completamente oscurata.

    Lo vidi ingoiare la saliva con lo sguardo perso, frattanto che si mordeva il labbro inferiore. Due respiri profondi e, finalmente, un’occhiata d’intesa.

    Indietreggiai lasciandogli spazio per sedersi.

    Arrossii senza volerlo.

    Michael mi seguì senza fretta, non staccando gli occhi dalla sottoscritta. Mi lasciò distendere, inginocchiato e in attesa, e mi ammirò a lungo: le sue perle nere vagarono dappertutto e soltanto quando mi sistemai comoda si posizionò sopra di me. Fu attento a non poggiare tutto il peso sul mio corpo. La pelle nuda di uno accarezzò quella dell’altro e tremolii d’eccitazione mi portarono ad allacciare una gamba al suo bacino, con un movimento sinuoso e lento dell’arto, mentre inclinavo la spina dorsale verso l’alto. Entrambi trattenemmo un gemito.

    Era la sensazione più bella del mondo; il mio seno in contatto con il suo petto, le nostre intimità che si toccavano, le mie gambe che lo trattenevano in quella posizione, due persone che diventavano una cosa sola; la pelle d’oca dalle cosce alle braccia, sensazioni ovattate che la mente non sapeva trasformare in pensieri.

    Quando gli accarezzai una guancia, sorrise dolcemente. Mi guardò ancora, in silenzio, e io ricambiai. Sembrava voler memorizzare ogni lineamento del mio viso per paura di dimenticarsene da un momento all’altro.

    Ci baciammo ancora, ancora e ancora.

    Mi strinsi alla sua schiena e Michael soffocò un sospiro nell’incavo nel mio collo; mi strinse le cosce con una mano e con l’altra mi lambì il collo, avanzando verso l’attaccatura dei capelli dietro la nuca.

    Le sue labbra si mossero verso le guance, il collo e lo spazio fra i due seni: ne prese uno alla volta e li leccò, li pizzicò, li tormentò, li sezionò; le mani si spostarono sui miei fianchi, frattanto che le labbra e le dita di Michael sussultavano a ritmo dei miei tremori, incamminandosi sempre più in basso… fino a ritornare sulla mia femminilità.

    Quando percepii le sue labbra calde e umide su quella zona, pensai di essere sul punto di non ritorno. Scivolai in uno stato di libidine completa e mi tenni stretta al cuscino. La lingua si infilò in me, centrando il mio punto più sensibile, applicando la stessa tecnica che avevo usato con lui: lento quando ero sul punto di venire, più veloce quando mi tranquillizzavo. Non saltò neanche un punto. Esplorò ovunque, tentando di capire quale fosse la zona che più mi faceva impazzire. Non c’era bisogno che mi chiedesse niente: i miei gemiti si trasformavano in urla sottili non appena beccava la mia zona erogena prediletta.

    «Aspetta...» ansimai in tono pregante.

    Alzò il volto e mi studiò; non era confuso, non era nemmeno accecato dalla passione, neppure dolce e innocentemente amorevole: la sua espressione era misteriosa e divertita. Mi afferrò le ginocchia.

    «Lasciati amare...».

    Si bagnò il labbro inferiore e si infilò con due dita nella mia femminilità; mugolai rumorosamente. Ricominciò la tortura... frizioni che ben presto si trasformarono in penetrazioni accompagnate dalla lingua, esibendo una piena soddisfazione per l’effetto che mi stava procurando.

    Diedi il via a mugolii di compiacimento sempre più lascivi, acuti, fino al momento in cui si arrestavano in gola e quella vellutata protetta carne veniva assalita da ondate di piacere crudeli; una, due, tre volte… fino a quando l’orgasmo non mi faceva tremare completamente. La mente vagava nel buio per qualche secondo, si godeva quel breve istante di entusiasmo e poi ritornava a vacillare nel vuoto, a chiederne ancora.

    L’estasi che stavo vivendo mi dava la forza per volerne sempre di più. Avrebbe potuto continuare così per tutta la notte e io non sarei stata in grado di rifiutare.

    Quando Michael si sollevò da quella posizione, aveva un’espressione di segreta approvazione stampata in faccia. Mi strinsi alla sua schiena ed egli rimase con i palmi delle mani puntati sul materasso.

    Mi ammirò per parecchio senza dire nulla: con gli occhi accarezzò le guance, le spalle, il seno e i capelli.

    «Dio». Sorrise estasiato, intenerito... «Ti amo così tanto...».

    Arrossii più del necessario.

    Scostai il viso verso sinistra, ignorando l’occhiata di gioioso affetto con cui mi stava ammirando. Lo udii ridacchiare. Quando i miei occhi ritornarono su di lui, il suo volto era contratto dall’emozione. Puntò i gomiti sul materasso e mi accarezzò una guancia. Feci cadere la testa sul suo palmo.

    «Spiegami cos’altro devo fare, o dire, per farti capire come mi sento...».

    Le dita si posarono su un seno, quello sinistro, in direzione del cuore.

    Sembrava tutto così irreale.

    Così fottutamente irreale.

    Allacciai le mani attorno al suo collo.

    «Tu sei il mio migliore amico», mormorai.

    Una scintilla di stupore nei suoi occhi e labbra infuocate furono sulle mie nel giro di un millesimo di secondo. Cercarono ogni parte di me già o non ancora trovata, tastata o lambita. Ed eccolo, un altro giro d’ispezione lungo guance, fronte, naso e collo. Il profumo della sua pelle che mi invadeva i sensi e si fondeva con il mio. Mani che si adagiavano sulle mie curve più rotonde. Tremolii ogni dove. Sospiri sommessi, occhiate incandescenti e profonde, sorrisi complici.

    Gli sistemai un ciuffo ribelle da davanti la fronte.

    Se uno sguardo avrebbe potuto uccidere a causa dell’amore che esso lasciava trasparire, io sarei morta all’istante. Proprio lì, proprio in quel momento, mentre le gote si tingevano di rosso scarlatto per la maniera con cui mi voleva.

    Continuò a osservarmi seriamente, nonostante le mie mani stessero passando in rassegna delle sue spalle, scendendo sempre più in basso.

    «Voglio essere tua», gemetti. Lo osservai, pregai affinché potesse percepire almeno un po’ di quell’emozione che mi faceva tanto paura quanto felice. «Ti prego».

    Scosse la testa impercettibilmente, inarcando le sopracciglia, sconvolto dalla mia onestà. Accennò ad una smorfia allegra e maliziosa e mi baciò.

    Quando lo sentii invadermi fu pianissimo ma lacerante. Arcuai la schiena e il bacino verso l’alto, lasciando uscire un urlo sommesso dalle labbra. Mi aggrappai alla sua schiena; scivolò sempre più a fondo, portandolo ad una rauca esalazione di piacere, ed uscì poco dopo con la stessa calma che aveva usato poco prima.

    Era l’unione più grande, quella che fonde spirito e materia rimuovendo ogni pensiero, ogni paura, ogni legame con la realtà. Un viaggio verso l’indefinito e l’infinito, luoghi mai scoperti eppure non così distanti. La stanza si restringeva attorno a noi. Un’elettrica sensazione di lussuria e amore fusi in un’unica cosa.

    Mi accarezzò i capelli e continuò una seconda volta, una terza, una quarta, una quinta volta – una quantità infinità di volte utilizzando la stessa identica pressione e lentezza... mi colmava con la sua presenza e poi si scostava. Mi sentivo sopraffatta dalle emozioni come se le stessi provando per la prima volta: desiderosa di averlo dentro di me quando se ne andava, sul punto di delirare quando mi invadeva nuovamente.

    Le fronti si appoggiarono una all’altra e Michael sorrise nella semioscurità. Respirava a fatica.

    Non appena aumentava il ritmo, nascondevo il viso fra i suoi capelli, continuando ad emettere strepitii di piacere. Potevo scoppiare da un momento all’altro ma non riuscivo ad averne abbastanza. Poteva continuare così per minuti, ore, e avrei continuato a pregarlo all’infinito. Era una danza lenta, che assaporavamo con calma, mentre il tempo scorreva e noi non mostravamo il bisogno di smettere. Più i nostri mugolii aumentavano, più i movimenti acquisivano maggior sinuosità e profondità.

    «Michael...» piagnucolai.

    Le dita di ognuno cercavano l’altro con frenesia. Le mie urla leggere, come onde sugli scogli, morivano per diventare sue.

    «Dio, quanto ti voglio…», sbiascicò al mio orecchio.

    Entrò in me più a fondo e più velocemente: i colpi si facevano sciolti e energici mentre lo accoglievo in me cingendolo fin troppo strettamente. Credetti perfino di udire le mie pareti strepitare dal dolore. Ma non ne avevo abbastanza. Avrei voluto continuare in eterno.

    Si sollevò a sedere, ginocchia puntate sul materasso. Mi alzò il bacino e accostò le mie anche verso la sua virilità, completamente immerso in me, ammirandomi.

    Tutto ciò che vidi fu una serie di immagini sfuocate, fotografie scattate male dallo sguardo velato dal desiderio. Perfino l’ossigeno che avevo nei polmoni sembrava essersi condensato trasformandosi in un mattone pesante ma per nulla fastidioso.

    Uno sguardo in fiamme, il viso contratto. Una danza sempre più rapida ed emozionata.

    «Vieni con me».

    Ed infine uno squarcio di luce.

    Quando l’orgasmo ci colpì assieme il mio corpo sussultava e si abbracciava al suo, mentre Michael si distendeva temporaneamente senza forze sopra di me.

    Fu come lo scoppiare di una bomba e il conseguente silenzio dopo il boato causato.

    Restò piacevolmente all’interno delle mie membra, mentre sospirava ed io sbattevo le palpebre per riprendere il senno: ritornai a vedere i colori, a capire dove mi trovavo e che cosa stavo vivendo – soprattutto cosa avevo vissuto. Il niente aveva raggiunto il suo picco ed era esploso in aria, lasciando solo ricordi offuscati e sensazioni indelebili.

    Infossò il viso fra i miei capelli.

    Non ci movemmo da quella posizione per un po’.

    Eppure, quando i brividi smisero di sconvolgere i sensi di Michael, il mio corpo ne era ancora vittima. Sapevo che fino a quando non mi avrebbe lasciato libera dal suo abbraccio avrei continuato a trasalire in quel modo – tant’è che Michael, incapace di dire una parola, cercò di separarsi da me. Lo trattenni afferrandogli le spalle.

    Non volevo che se ne andasse.

    Michael alzò il capo. Mi fissò ed io gli sorrisi con occhi lucidi. I nostri corpi erano madidi di sudore. Con iridi luminose, stupito dalle lacrime che stavo per piangere, mi baciò.

    Lo abbracciai.

    Pian piano anche il mio corpo smise di tremare.

    *

    Passammo ore alternando momenti di passione come quello precedente ad attimi di completo silenzio, consumando il tempo con marcati e umidi baci, respirando la stessa aria e ubriacandoci di quel semplice gesto che era in grado di farmi girare vorticosamente la testa.

    Mi venivano i brividi ogni qualvolta mi sfiorasse. Ci interrompevamo e restavamo a guardarci occhi negli occhi, sprofondando uno nell’anima dell’altro. Una carezza sul braccio o sulla gamba, un bacio sulla nuca, un intreccio di dita, un abbraccio che eliminava qualsiasi possibile distanza tra noi; chiacchiere, discorsi lunghi ore, risate ed espressioni buffe, e di nuovo l’eccitazione, la sua virilità che entrava in me, io che lo accoglievo con gemiti che si levavano rumorosamente nell’aria.

    Dovevo frenare quelle emozioni prima che si prendessero ogni grammo di lucidità rimasta. Il suo amore era così splendente che riempiva ogni singola molecola del mio organismo.

    Michael mi accarezzò i capelli; con le dita gli sfiorai il collo marcato, pensosamente, perdendomi in ogni suo lineamento: immaginavo di diventare un’unica cosa con lui, nel vero senso della parola.

    «Che cosa guardi?» chiese.

    Mi afferrò la mano e la pose sulle labbra.

    «Il tuo collo...» risposi incatenandomi ai suoi occhi.

    Michael mise una mano sulla mia guancia.

    Sorrise arrossendo. «Ti piace davvero? Il tuo cuore scalpita nel petto per questo?».

    «Anche...»

    Aggrottò impercettibilmente le sopracciglia. «Anche se di punto in bianco perdessi tutti i capelli, il mio fisico invecchiasse e non riuscissi più a fare nulla – neanche un passo – senza l’aiuto di qualcuno? Mi ameresti anche in quel caso?».

    «Certo».

    Il suo sguardo fece domande che le parole non avevano chiesto. La mia espressione si fece seria e decisa.

    «Tu saresti perfetto per me in qualsiasi modo».

    Arrossii e vidi un viso bellissimo, amabile, ma preoccupato. Non capivo perché – in una parte profonda di sé – non mi credesse, e perciò gli lanciai un’occhiata interrogativa.

    «Pensi che l’amore di chi ti vuole bene potrà mai giudicare o cambiare in base a come il tuo corpo si trasforma?» chiesi. «Secondo me non è così. Sono sicura che molti la pensano come me, là fuori o nella tua famiglia... è ciò che pensi tu di te stesso che ti crea problemi... ma se ti guardassi con i miei occhi, o con quelli di chi ti ama davvero, lo capiresti».

    Mi scoccò un’occhiata crucciata. Probabilmente si chiese come facessi a dare più consigli a lui che alla sottoscritta.

    Michael mi si avvicinò al collo. Il respiro si scontrò con la pelle che venne baciata dolcemente mentre la mano si portava sempre più all’interno della coscia, verso la mia intimità che subito cominciò a scuotersi dai brividi. Una smorfia di smarrimento mi apparve in viso.

    «Ti amo... e amo ogni cosa di te…».

    Gemetti leggermente nell’attimo in cui le sue dita arrivarono alla zona inguinale.

    «Stai cambiando discorso…», borbottai.

    «Non è vero», mentì ridacchiando. Mi dette un soffice bacio sulla guancia. «Voglio solo dedicarmi alla meraviglia che ho davanti... niente pensieri oscuri o negativi…»

    Era bravo a ribaltare la frittata. Molto bravo.

    Lo analizzai con un’occhiata severa. Fissò la mia bocca intensamente e vi posò altri piccoli baci bagnati e saporiti. Quella mano curiosa che teneva vicino alla mia femminilità accarezzò la pelle con lievi pressioni.

    «Aspetta... aspetta» lo pregai prima che potesse giungere in quel punto. Mi alzai a sedere. «Lasciami andare in bagno prima... un secondo...»

    Anche Michael si mise a sedere sul materasso. Mi osservava beatamente, ma con un accenno di maliziosa impazienza.

    «Ti aspetto» sussurrò. Si bagnò le labbra. «Non farmi attendere troppo...»

    Mi alzai in piedi. Lo guardai e vidi che non la smetteva di osservarmi; non sarei riuscirà ad andare in bagno se Michael continuava a farmi sentire così tanto “sotto osservazione”. Non ero ancora abituata a farmi vedere completamente nuda.

    «Che c'è?» domandò vedendo come il mio sguardo vagasse da lui al lenzuolo bianco stretto fra le sue mani.

    «Puoi non fissarmi quando vado in bagno?» domandai ridacchiando e arrossendo. «Altrimenti prendo il lenzuolo...»

    Mi lanciò un’occhiata di disapprovazione pura.

    «Perché dovrei?»

    Sospirai. «Dai...»

    Feci per tirare il lenzuolo e Michael lo allontanò con un gesto fin troppo veloce. Lo raggomitolò e se lo tenne stretto al petto, arcuando i lembi della bocca in un sorriso birichino. Un’occhiata da capo a piedi e fu in grado di mandarmi fuori di testa.

    «Vieni a prenderlo» bisbigliò. «Ma temo che non riuscirai a portamelo via... stanotte voglio averti completamente così» e ammiccò al fisico nudo della sottoscritta.

    Attesi qualche istante, ma non sembrava intenzionato a cambiare idea.

    Mi arresi.

    Sospirando mi incamminai al di fuori della stanza verso il bagno adiacente alla camera da letto. Lo sguardo di Michael mi seguì fino a quando non oltrepassai la soglia della porta; se avessero potuto, quegli occhi sarebbero stati in grado di attraversare anche le pareti, non solo la mia anima.



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    Capitolo Trentasette: I Balli Proibiti


    Mi lisciai le pieghe del vestito, continuando a fissare il mio riflesso allo specchio.

    Avevo deciso di non truccarmi quella sera. Non solo perché non ci sarebbe stato il tempo materiale per farlo, ma perché tutto sommato mi vedevo bene anche senza. L’unica cosa che avevo fatto era stato detergere la pelle del viso e metterci un po’ di crema giorno, una di quelle ultra leggere che si assorbono in fretta, e un sottilissimo strato di labello. I capelli erano stati lasciati al naturale: appena appena mossi, castano aranciato come sempre.

    Anche l’abito che indossavo era molto semplice. Bianco, abbastanza corto, la cui gonna arrivava più o meno a metà coscia. Sul seno si apriva con una decisa scollatura a V e le spalline erano sottilissime; la gonna a cerchio si ampliava al mio minimo movimento o semi piroetta.

    Mi posi su un fianco e inclinai la testa di lato, per potermi esaminare meglio. Mi studiai per vedere se quei soliti centimetri di pancetta si vedessero al di sotto del vestito.

    Il bacino era sempre quello, ampio ed enfatizzato dalla vita stretta, ma da quando Michael aveva mostrato pieno apprezzamento per quella parte del corpo, non mi ero fatta più tanti problemi per come fosse. Mangiando meglio e facendo più passeggiate alla sera, ero anche riuscita a buttare giù qualche centimetro sulle cosce, pur rimanendo sempre ben tornite. Mi potevo scordare le tre fessure tipiche delle gambe delle modelle. Era già tanto che ne avessi una.

    Mi aggiustai le spalline sulle spalle. Ero felice di possedere curve abbondanti sul seno.

    Uscii dal bagno. Drizzai la schiena e di colpo fui scossa da brividi d’inquietudine e di euforia. Espirai emettendo uno strano verso di esasperazione, guardando l’orologio a muro e torturandomi le dita delle mani.

    Non vedevo l’ora che Michael arrivasse. Volevo poterlo abbracciare come non succedeva da un po’ – e come non era mai successo fino ad allora, in una danza di corpi nudi e accalorati. Desideravo la sua presenza come se – di colpo – mi fosse venuta a mancare l’aria nei polmoni, come se fosse l’unica cosa che mi facesse tornare a vivere.

    Ero emozionata. Ero felice. Lo volevo davvero e volevo lasciarmi andare all’emozione che provavo per lui, probabilmente l’amore più grande che avessi mai potuto conoscere e sperimentare in una vita intera. Era tutto troppo mozzafiato per poter essere represso.

    Andai in cucina, dove stavo per cucinare gli spaghetti: quella sera cibo italiano, giustamente. Siccome amava il pesce volevo preparargli la stessa pasta con le vongole e pomodorini che preparava mia nonna Angela. Non sarei mai arrivata al suo livello, ma sicuramente sarebbe stata decente.

    Controllai l’acqua che bolliva in pentola e accorsi in sala da pranzo, la stanza adempiente al salotto, per sistemare le ultime posate. Il tavolo rettangolare si trovava in un angolo ben appartato della stanza e affiancava un’unica ampissima finestra che puntava sul mare in lontananza, sul sentiero per arrivare alla spiaggia.

    Quando sentii suonare il campanello il cuore fece un triplo salto mortale su se stesso.

    «Arrivo!», urlai.

    Bastò uno scatto veloce per accorrere alla porta.

    Aprii emozionata.

    Sulla soglia trovai qualcuno, ma questi non era Michael.

    Il mio sorriso svanì immediatamente, congelandosi in una smorfia amareggiata ma cortese.

    Non era un bodyguard di Michael, o almeno così credevo: era un uomo alto, scuro di pelle, sorridente e con due occhi vispi. Indossava un completo blu che assomigliava a quello di un imbianchino, scarpe di ginnastica bianche e nere e un cappellino dello stesso colore della tuta.

    «Lei è la signorina Morris?»

    «Sì» guardai ciò che teneva in mano con un certo rammarico.

    Una lettera e un giglio bianco.

    Se fosse stata un’altra occasione, probabilmente avrei sorriso vedendo il giglio. Era il mio fiore preferito e Michael lo sapeva. Significava regalità, un simbolo che secondo lui mi si addiceva perfettamente.

    «Allora questo è per Lei...».

    Mi consegnò entrambi gli oggetti con fare gentile.

    Lo puntai con la coda dell’occhio. Ringraziai sorridendo mestamente, mentre l’uomo chinò il capo a mo’ di saluto. Quando lo vidi allontanarsi verso un piccolo furgone bianco rientrai in casa. Non sarebbe servito rimanere fuori come un’idiota: Michael non era lì.

    Chiusi la porta.

    Mi guardai intorno sperando di vederlo comparire di sorpresa, ma così non avvenne.

    Mi trascinai fin dentro in cucina. Abbassai il fuoco dell’acqua e ammirai il fiore; ruotai il gambo a destra e sinistra con due polpastrelli, appoggiandomi al ripiano accanto ai fornelli. Alzai lo sguardo in direzione del salotto, visibile dall’arco a tutto sesto che fungeva da porta comunicante con la cucina. Sospirai.

    Decisi di aprire la piccola busta. Stracciai la carta per estrarre la lettera. La sua calligrafia risaltava sul foglio bianco riempiendolo completamente, disordinata e a caratteri a volte maiuscoli e altre minuscoli. Corrugai la fronte per decifrarne le parole.

    In un giorno di oscurità sei arrivata, hai spazzato via le tenebre coi tuoi occhi profondi e la tua amorevole presenza. Hai indotto la mia anima verso un sentiero che non pensavo avrei intrapreso di nuovo, troppo angosciato dalle mie pene, non più intenzionato a dare fiducia a chi mi circondava. Ma ancora credevo nell’amore e così ti ho trovato. Ho incontrato il tuo sguardo quando meno me lo sarei aspettato. Ti ho lasciato entrare nel mio cuore e nella mia anima e ora sei una parte di me. Ho ceduto ai sentimenti ancora una volta, più intensamente di quanto abbia mai fatto, e so che Dio ti ha mandato per darmi la relazione che desidero da sempre. So che averti nella mia vita è il dono più bello che il divino potesse offrirmi.
    Il tuo amore è il respiro che mi si blocca nel petto quando mi sorridi. È l’abbraccio che mi dai quando meno me lo aspetto. Sei l’onda marina che si posa sulla spiaggia, che si allontana sinuosa ma che sempre ritorna. Sei la bellezza di un tramonto, quello che io adesso ammiro da qui, su questa sabbia fine e chiara aspettandoti.
    Sii la mia compagna, l’anima che mi sarà accanto adesso e in futuro… la donna capace di farmi viaggiare in galassie sconosciute soltanto attraverso il tuo amore, con la tua dolcezza, la tua unicità e la tua adorabile pazzia.
    Ti amo e ti amerò sempre, in tutto ciò che sei. Tienimi sempre stretto a te, Moony. Perché quello che provo per te è infinito e incondizionato, come quello che l’angelo ha coltivato per la principessa Selenite, sottraendosi dalla beatitudine del Paradiso per raggiungerla in un mondo fatto di buio e luce.
    Il nostro amore è profondo, indescrivibile, capace di abbattere la distanza e un giorno anche la morte. Ma soprattutto eterno... fino alla fine dei giorni.
    Ti amo davvero.
    Michael

    Trattenni il fiato per un lungo interminabile minuto, prima che il cuore scoppiasse in una danza di gioia incontenibile. Con l’indice mi asciugai una goccia di acqua salata scesa sulla guancia destra.

    Inspirai a fondo.

    Scoppiare d’amore, molto più di quanto mi illudevo fosse possibile, non era nei miei piani. Come non lo era piangere per la lettera appena letta. Come non lo era amarlo ogni giorno di più, più intensamente rispetto al dì precedente e quello prima ancora.

    Se avessi potuto, sarei esplosa d’amore.

    Desideravo solo affondare nelle sue labbra, sentire il suo profumo, stringermi al suo corpo in un abbraccio che mi privava di ogni energia e al contempo mi investiva come una valanga... volevo dirgli che lo amavo, senza orgoglio e paura, più di ogni aspettativa o previsione.

    Spensi i gas dei fornelli con dita tremanti. Corsi in corridoio e uscii dalla finestra a scorrimento del salotto, bloccandomi sull’uscio e scrutando in direzione della spiaggia, pregando di vederlo lì ad attendermi. Scesi le scale di foga, tenendo d’occhio i miei piedi per non inciampare, mentre i battiti del cuore impazzavano e i pensieri si confondevano l’uno con l’altro. Le parole macchiate su carta risuonavano ancora nelle mie orecchie, come se fosse stato lui ad avermele sussurrate.

    Era questo l’amore? Quello in grado di non essere descritto o spiegato o analizzato? Quello che non poteva essere espresso a parole, se non con uno sguardo? Uno di quelli capace di risplendere più di tutte le luci del firmamento?

    Quando mi tolsi le infradito e i miei piedi incontrarono la sabbia, mi arrestai. Lanciai un’altra occhiata nei dintorni, con il fiatone.

    Avanzai timidamente.

    La melodia dell’oceano dava origine ad una dolce e confortevole ninnananna. Alcune nuvole in cielo si erano colorate delle tinte del crepuscolo. Il Sole se ne stava andando oltre l’orizzonte, divenendo pian piano sempre più piccolo. Arancione, giallo e blu inglobavano il mio mondo e, probabilmente, anche quello di chiunque lo stesse ammirando.

    Ma lì non c’era nessuno, apparentemente.

    Conoscevo Michael abbastanza bene da poter dire che mi stava tenendo d’occhio da lungo tempo, nascosto dove non lo avesso potuto scorgere. Avrei voluto voltarmi e, a braccia incrociate, accennare ad un sorriso divertito e urlare “al nulla” di venire fuori... ma non ne avevo la forza.

    Il fiato tremava; a stento fuoriusciva dalla gola, per timore di spezzare quell’atmosfera incandescente.

    Continuavo ad avanzare verso il mare, a passo più o meno deciso, verso il punto in cui acqua e terra si incontrano. E mentre il mio sguardo ammirava l’orizzonte, lievi folate d’aria mi colpivano il viso portandomi ad abbassare lo sguardo e sistemarmi – continuamente e con impaccio – ciocche di capelli indomabili dietro l’orecchio. Per un momento scambiai la brezza marina con le sue dita, immaginandole accarezzarmi quella chioma infuocata dal Sole. La sua invisibile presenza mi circondava come un manto di stoffa preziosa sulla schiena.

    L’acqua incontrò i miei piedi. Chiusi gli occhi, cinsi le braccia al petto e cercai di rilassare le spalle. Respirai l’odore di sale che mi circondava e mi penetrava l’animo. Immaginai il volto di Michael davanti al mio… e quel pensiero mi attraversò la spina dorsale come una potente scarica elettrica.

    Rimasi in silenzio.

    Poi aprii gli occhi.

    Un sottile richiamo nell’aria mi indusse a voltare le spalle al mare.

    Quando lo feci, sorrisi con gli occhi lucidi.

    In piedi, schiena dritta e portamento regale, c’era Michael. Con le mani affondate nelle tasche dei jeans scuri e la camicia nera, leggermente aperta sul petto. I capelli venivano mossi insistentemente dal vento. Non c’erano occhiali da sole o trucco, era semplicemente lui nella sua magnifica naturalezza. Era bellissimo.

    Sorrideva anche lui.

    Scuotendo la testa, con le gote arrossate per l’emozione, gli corsi incontro. La vista era offuscata ma questo non mi permise di fermarmi, al contrario. Aumentai la velocità… di più e di più... sempre di più. Michael aprì le braccia in attesa del mio arrivo, sollevando le sopracciglia e allora, ridendo, lo abbracciai gettandogli le braccia al collo. Il fuoco che sentii divampare dal cuore mi fece abbassare le palpebre.

    Nascosi il viso nell’incavo del suo collo. Le dita cercarono i capelli di lui, ricci rispetto a come li teneva di solito, quella sera lasciati al naturale. Lo sentii sghignazzare soffusamente e quella risata mi rigenerò. Quando Michael era con me, ero in pace.

    Quasi mi venne da piangere, e non per la sua mancanza.

    «Pensavi che ti avrei lasciata da sola?».

    «Non proprio» mormorai con i brividi lungo tutta la schiena. Le sue mani, grandi e vellutate, mi cinsero i fianchi e mi accarezzarono. «In fondo sapevo che non l’avresti fatto...»

    «Mmh...» ridacchiò pensieroso. Mi parve di sentirlo rabbrividire dall’emozione. «Devo inventare qualche altra sorpresa più efficace».

    Guardai Michael negli occhi. Con un sorriso rimase ad osservarmi profondamente e io ricambiai. Quegli occhi erano la più grande dipendenza a cui potessi andare incontro: sempre così profondi, eloquenti, abbaglianti. Mi sentivo nuda di fronte a quello sguardo, ma non avevo paura. Mi conosceva più di qualsiasi altra persona al mondo. Io gli avevo dato qualsiasi cosa, anima compresa.

    Una sua mano scivolò sul mio collo. Tremai impercettibilmente, stringendomi appena nelle spalle, ed egli sorrise maggiormente.

    «Grazie» chinai lo sguardo sulle sue labbra. Soffocai le lacrime e il lieve prurito al naso causato da esse. «Grazie per esserci e per amarmi».

    Il suo viso mostrò una scintilla di sorpresa indescrivibile. Non sapevo se fosse più stupefatto o emozionato. Socchiuse le labbra, spalancando appena le palpebre e sollevando il petto nel tentativo di riprendere fiato. Quelle iridi nere lampeggiavano come tizzoni ardenti. Si bagnò la bocca, lentamente, e con lo sguardo sempre fisso su di me, gli si bagnarono gli occhi di gioia. Sorrise scuotendo il capo.

    «Sciocca…», mormorò con la voce che tremava. Analizzò ogni lineamento del mio viso, ponendomi le mani sulle gote. «Sono io che ti devo ringraziare».

    Sorrideva in una maniera così devastante che avrebbe illuminato anche la mia notte più buia.

    Le mie labbra furono sulle sue nel giro di un mezzo secondo. Mi strinsi alla sua camicia come se avessi paura di cadere da un momento all’altro, emettendo un gemito emozionato, mentre lui inclinava il capo a destra e guidava il mio a fare lo stesso nella direzione opposta. Mi stringeva con la stessa emozione che pervadeva anche la sottoscritta, con un debole sorriso sulle labbra e quei sospiri carichi di trepidazione.

    E in quel momento, io lo sentii. Sentii che tutto quello che stavamo facendo era giusto. Sentii che in quel sentimento non c’era niente di assolutamente irreale o scorretto. Per quanto mi fossi sentita completa anche da sola, Michael corrispondeva a quel pezzo di puzzle mancante che per anni credevo di non aver avuto bisogno. L’anima lo aveva riconosciuto e avevo capito che lui era proprio quella parte di me che stavo cercando di ritrovare da tempo.

    Amarlo era stata una delle poche cose giuste che avevo fatto nella vita. Amare Michael in tutto ciò che era. Lui e la sua solitudine, il suo estraniamento dal mondo, la sua bontà, il suo altruismo, la sua timidezza e quel suo bisogno di amare ed essere amato. Lui e le sue paranoie, la sua diffidenza, la sua testardaggine e quell’immaturità che si alternava ad un’intelligenza fuori dal comune. Lui e la sua ingenuità, la sua dolcezza e la sua allegria infantile. Lui e la sua eleganza, la sua educazione e la sua stupefacente capacità di essere padre. Michael era tutto ciò di cui avevo bisogno per trasformarmi nella versione migliore di me.

    Era l’amore di una vita intera.

    *

    «Ti ho proprio scelto una casa stupenda», mormorò guardandosi attorno con attenzione.

    Rientrati in casa mi ero sbrigata a raggiungere i fornelli per riaccendere l’acqua per la pasta. Michael, intanto, si era messo a curiosare in giro per il loft. Guardava in alto e in basso, a destra e a sinistra, come un bambino di cinque anni. Sorrisi tra me e me.

    «Però non è molto sicura in caso di furto...». Quando mi raggiunse in cucina attorcigliò la bocca in segno di disapprovazione. «Sono riuscito a raggiungere la spiaggia troppo facilmente, e volendo sarei potuto entrare senza che tu te ne accorgessi».

    «Avevo disattivato l’allarme sapendo che saresti arrivato. Anche se, a dire il vero, sapere che sono un po’ fuori dal mondo non aiuta...». Mi bloccai sul posto. Mi era venuto vicino e guardava la padella dove avevo già preparato il condimento per la pasta. Feci un passo verso di lui, mi alzai sulle punte e lo baciai sulla guancia. «Ma almeno sono lontana dal traffico e dai curiosi».

    Inarcò un sopracciglio. «Se hai le finestre sempre aperte, i ladri non avranno difficoltà ad entrare, allarme o no».

    «Ma almeno ho un bel panorama da ammirare» borbottai alzando le spalle. «Nel caso mi uccidessero prima di rapinarmi, morirei vedendo il mare, e sarebbe la morte più bella»

    Mi fissò accigliato, indeciso se rimproverarmi per quell’affermazione o ridere.

    «Perciò… la morte più bella sarebbe vedere l’oceano, piuttosto che il mio viso?», esclamò scherzosamente. Tenne una mano appoggiata al ripiano accanto ai fornelli e con l’altra mi prese il fianco, attirandomi a sé. Aveva le sopracciglia arcuate e non la smetteva di fissarmi. «Preferiresti quello a me?».

    Non ne ero più sicura.

    Abbozzai una risata imbarazzata. «Tanto, se per quello, io muoio ogni volta che...»

    Interruppi il mio borbottio avvampando e i miei occhi scivolarono subito sull’acqua in procinto di bollire.

    «Mmh?», fletté il capo incuriosito, sorridendo furbescamente. «“Ogni volta che...”?»

    Avvicinò le labbra sulla mia guancia sinistra.

    «No…» sghignazzai e mi buttai sul suo collo, cercando di nascondermi.

    Lo percepii espirare a fondo e dissentire col capo, ridacchiando appena. Le sue braccia si legarono alla mia schiena e cominciammo a dondolare sul posto. Serrai le palpebre, mentre il soffuso mormorio dell’acqua che bolliva in pentola e le onde in lontananza si fondevano assieme. Non mi ero mai sentita tanto in pace come in quel momento. A casa.

    Inspirò. «Se solo potessi, sono sicuro che accetterei di vivere qui per sempre, con te e i miei bambini...»

    «Sarebbe bellissimo...»

    «Te lo immagini, piccola? Il risveglio cullato dal suono del mare, io che ovviamente ti porto la colazione in camera, tu che mi ringrazi...» Mi accarezzò distrattamente i capelli. Non ebbi l’audacia di guardarlo. «E i bambini che entrano in camera per darci il buongiorno, che saltano sul letto con un sorriso felice sulle labbra... e non solo i miei figli, anche i nostri... bagni nell’acqua, passeggiate sul lungomare, giochi vari e castelli di sabbia... e la sera un bel film, o una bella lettura... e io e te che ce ne andiamo felici a letto dopo aver addormentato quelle adorabili pesti…», rise.

    Il mio cuore si strinse e mi venne da piangere per l’ennesima volta.

    Tutto quello che aveva detto me lo ero immaginato perfettamente, come se fosse già lì, concreto come il nostro abbraccio. Era una sensazione dolceamara: esaltazione all’idea che Michael potesse immaginarmi così, come la sua compagna di vita, e nostalgia per qualcosa che non c’era, ma che per un attimo avevo creduto che potesse esistere sul serio.

    Uno dei suoi sogni più grandi era la pace e la normalità. Un’enorme famiglia e la possibilità di poter vivere senza sentirsi tormentato dalla sua testa e dalle voci del mondo.

    I nostri figli...

    «Mangiamo italiano, questa sera?», sviò il discorso nel giro di qualche secondo e fu come una doccia gelata. Sbattei le palpebre e mi allontanai dal suo viso. Non smise di stringermi a sé, anche se per un attimo mi parve di cogliere una scintilla di amarezza nelle sue ossidiane nere.

    Lo adocchiai con visibile calore sulle guance. «Non ho fatto granché, eh... comunque sì, è una ricetta tipica italiana. Spero che tu possa apprezzare...»

    Michael mi studiò di rimando. Osservai le sue guance marcate, profumate di dopobarba, e le sue labbra stese in un sorriso curioso. Due dita avanzarono alla cieca verso la sua camicia un po’ sbottonata. Mi parve di sentirlo rabbrividire e la mia femminilità fu contratta da un’improvvisa pulsazione di desiderio.

    «Certo che mi va», esclamò in tono affabile e profondo, bagnandosi un labbro. «Lo apprezzerò sicuramente».

    Mi accostai alla sua bocca, sorridendo amabilmente, e Michael mi dette un bacio, delicato e destabilizzante. Assaporai quelle labbra dalla morbidezza irresistibile. Appena si allontanò lo vidi sorridere a malapena, con espressione furbetta e per nulla convincente, fronte un po’ aggrottata.

    «Oggi il tuo sapore è piacevolmente salmastro», sussurrò con voce rauca per poi bagnarsi le labbra un’ennesima volta.

    Scossi la testa e mi diressi verso il ripiano dove tenevo il sale grosso. Lo versai nell’acqua che bolliva freneticamente e poi – rimesso apposto – mi avviai verso il tavolo, dove già avevo preparato gli spaghetti pronti da buttare. Quando ebbi messo la pasta in pentola, riaccesi il fornellino dove vi stava il sugo – giusto per riscaldarlo appena – e Michael mi prese sulla vita con più energia. Posò le labbra fra i miei capelli, scoccandovi un bacio lento e appassionato. Potei sentirlo inspirare a fondo l’odore della mia chioma. Feci uno sforzo disumano per riuscire a tenermi in piedi.

    «Posso andare un secondo in bagno?».

    Mi scossi. «Certo, è laggiù», mi guardai alle spalle e Michael fece lo stesso. «Vedi quella porta dritta davanti a te, al di fuori della cucina? Bene, quello è il bagno!».

    Michael seguì il mio dito. «Oh, grazie».

    Feci per fare un passo in avanti ma mi sentii bloccare da un bisbiglio.

    «Sarah?»

    «Sì?»

    Mi voltai in sua direzione. Sorridendo mi inglobò le guance tra i suoi grandi palmi e portò la bocca sulla mia. Un altro bacio lungo e scandito, assolutamente più dolce di quelli prima. In seguito mi osservò con uno sguardo entusiasta. Le mie gote si colorarono di un leggero rosso scarlatto.

    «Sono tanto felice di essere qui con te stasera».

    Accennai ad un risolino imbarazzato. «Anche io... insomma, sono felice che tu sia qui con me... ti amo...», balbettai con atteggiamento buffo.

    Ridacchiò e le sue labbra mi accarezzarono ancora, quella volta sul naso. Si divertiva a baciarmi in quel punto soltanto per la faccia che facevo quando mi strofinavo il naso con la mano, soprattutto quelle volte in cui non si rasava e il suo accenno di barba mi pizzicava la pelle.

    Michael si avviò verso il bagno, ma fui io a interromperlo.

    «Michael?»

    Si girò con sopracciglia alzate. «Sì?»

    I lembi della bocca si incurvarono in un tipico sorriso di scherno. «Non è che mi accenderesti lo stereo, visto che passi per il salotto? Sta vicino alla Tv. C’è già un CD al suo interno, mi basta solo che tu l’accenda… per favore».

    L’impianto stereo, così come per la televisione e per molti altri accessori, aveva un proprio ripiano nella gigantesca struttura a muro del soggiorno. La Tv se ne stava proprio al centro, poco rialzata da terra, ed attorno ad essa si sviluppavano altre mensole; ad esempio, vi era un intero ripiano per le foto di famiglia, la stessa che aveva messo in affitto la casa, e in un altro vi era uno spazio dedicato solo ad oggetti di ceramica, libri di antica data, CD di Blues e Jazz...

    Storse le labbra in una smorfia divertita e scomparve dalla mia vista.

    Dopo qualche secondo partì della musica, prima a volume basso e poi sempre più alto. Doveva essere, se non sbagliavo, un CD misto. Amavo creare delle raccolte con le canzoni che preferivo di più. Solitamente dividevo la musica per genere o per “stagione”: è una cosa un po’ da pazzi, lo ammetto, ma collegavo la musica al periodo in cui le ascoltavo di più; alcune canzoni mi ricordavano l’inverno piuttosto che l’estate, oppure la primavera piuttosto che l’autunno. Quindi dividevo di conseguenza. Quando l’avevo detto a Michael mi aveva guardato interdetto; un secondo più tardi era scoppiato a ridere e, vedendo la mia espressione offesa, mi aveva detto che trovava quella cosa tanto divertente quando adorabile. Che paraculo.

    Quella che avevo lasciato nel lettore era una delle mie tre raccolte “estive” preferite: la prima canzone era di Whitney Houston e Enrique Iglesias. Si chiamava Could I have this kiss forever.

    Assaggiai il sugo per sentire se fosse caldo abbastanza. Decisi di scaldarlo ancora un altro po’ e intanto rimescolai gli spaghetti. Intanto che aspettavo il ritorno di Michael presi due piatti fondi da sopra la mensola; mentre lo facevo, i miei occhi si posarono sulla lettera di Michael, che avevo lasciato sul ripiano vicino ai fornelli.

    La presi in mano e tentai di leggerla velocemente, con un sorriso da idiota sulla faccia, ma non riuscii a finirla una seconda volta per l'emozione. La ripiegai in due e la appoggiai su un mobile distante, per far sì che non si sporcasse. Dopodiché cercai un vaso lungo e sottile affinché potesse contenere il giglio bianco – che non mi ero certo dimenticata –, canticchiando tra me e me.

    «I don’t want any night to go by… without you by my side… I just want – ».

    Feci per finire la frase ma mi interruppi. Incrociai lo sguardo di Michael accostatosi silenziosamente al tavolo al centro della stanza, incuriosito e meravigliato. Si bagnò le labbra e mi gettò un’occhiata divertita. Il suo piede destro batteva a terra seguendo il ritmo della musica.

    Era la prima volta che mi sentiva “cantare”, mi sembrava perfino impossibile crederlo.

    Vedendomi irrigidita sorrise apertamente.

    «Continua, dai!», mi indusse con un gesto di mani e un tono di voce soave.

    Dissentii e, arrossendo come mai, sogghignai in preda all’imbarazzo. Chinai lo sguardo.

    Michael alzò gli occhi al cielo mentre mi si avvicinava con passo felino. Con quella musica la sua camminata diventava sicuramente più elegante ai miei occhi... ed io cominciavo a vedere tutto appannato ancora prima che mi fosse a un respiro di distanza.

    «Non fare la sciocca...», mi venne vicino e mi sfiorò il bacino con tocco premuroso. «Lo sai che non ti giudicherei mai...», accostò un mio ciuffo dietro l’orecchio.

    Lo guardai con occhi spalancati: aveva uno di quei sorrisini preganti stampati in faccia. «Ti prego!», sembrava dirmi. M’umettai le labbra ridacchiando e guardai la pentola con gli spaghetti.

    «Un giorno, quando prenderò lezioni di canto, ti canterò una canzone… ma non prima!», mi scostai.

    Assaggiai due spaghetti per vedere se fossero più o meno cotto, spegnendo il gas dove il sugo si stava riscaldando. Feci tutti quei gesti in silenzio, con Michael che mi ammirava da dietro le spalle. Sapevo di non essere completamente stonata: il ritmo lo sentivo, ma si capiva lontano un miglio che mi mancava la sicurezza e la tecnica vocale. Se volevo farmi sentire cantare, volevo farlo bene.

    Le mie gote erano ancora arrossate quando due mani s’insinuarono da dietro la mia schiena per allacciarsi sulla mia pancia. Mi accarezzarono teneramente, mentre il debole respiro di Michael si adagiava sul mio collo come una foglia sull’acqua.

    Una nuova canzone iniziò. Era Amazing, del mio amatissimo George Michael.

    Ah, le cotte adolescenziali.

    Mi irrigidii immediatamente, tentatissima dal partire in quarta e cantare a più non posso. Michael rise per quella mia reazione. Quest’ultimo rimase immobile a coccolarmi a lungo, anche quando assaggiai di nuovo la pasta e spensi il gas. Lo sentivo muovere la testa e un piede per tenere il tempo.

    Mi baciò sulla guancia. «Che brutto non poter cantare le canzoni del proprio idolo, vero?»

    Che maledetto.

    Storsi le labbra in un’espressione indignata. «Mph… mettere il dito nella piaga non ti aiuterà…»

    Michael rise nuovamente.

    «Perché sei così testarda?», mormorò poggiando la guancia sulla mia tempia destra. «Ti posso aiutare e insegnare qualcosa, se vuoi... anche se non so niente di tecnica e di insegnamento», sorrise. «Non fai schifo. Ti ho sentito cantare, poco fa... hai una voce...», mi prese la mano affettuosamente e se la portò al viso. «Molto dolce… ma non sei stonata, questo no...». Fece una pausa ad effetto. «Ti amerei anche con la voce di una cornacchia».

    Quella volta fui io a ridere come una pazza. Andai a prendere lo scolapasta e mi apprestai a versare il tutto senza bruciarmi o spargere acqua ovunque. Michael rimase fermo immobile, con sguardo fintamente severo.

    «Mmh...» grugnii arricciando il naso in un sorriso malizioso. «Preferirei ballare piuttosto che cantarti una canzone»

    Soppesò la mia risposta. «Sul serio?»

    «Sì, tanto siamo abituati a farlo, no?». Ricordai tutte quelle nottate passate a fare gli scemi, cercando di imitare le coreografie di alcuni videoclip musicali famosi. «Non avrei problemi».

    «Ah sì?» sorrise malizioso.

    Mi venne vicino, mi afferrò il fianco destro con la mano e scese lungo il mio fondoschiena, quasi a rallentatore. Quegli occhi luminosi e scaltri furono attenti ad ogni mio gesto o espressione. La mia mente cominciava a non essere più in grado di formulare un pensiero o un’opinione. Il petto sobbalzò appena per quel sospiro che si era inceppato in gola.

    «Preferiresti ballare sul serio?» domandò come un leone pronto ad assalire la sua preda. «Su ogni genere di musica?»

    Ingoiai la saliva, sorridendo nervosamente.

    «Be’, oddio, perché no?»

    Mentii.

    Michael lo comprese immediatamente.

    Mi regalò un ghigno furbesco e mi lasciò andare. Quelle spalle discretamente larghe – enfatizzate dalla camicia un po’ sbottonata – si sollevarono a causa di un pesante anelito di rassegnazione.

    «Guarda caso stasera danno in TV un film che potrebbe interessarti». Mi pizzicò la guancia con due dita. «È uscito a febbraio. È il sequel di Dirty Dancing, ti va di vederlo?»

    Storsi le labbra mentre facevo scorrere l’acqua sul lavandino e versavo gli spaghetti e il sugo in una pentola abbastanza grande. Il vapore mi fece stringere gli occhi.

    «Un remake?»

    «Dal trailer non sembra brutto» fece spallucce. «Precisamente si chiama Dirty Dancing 2: Havana Nights. È ambientato a Cuba», arcuò un sopracciglio.

    «D’accordo... tanto vale provare, prima di giudicare. Premetto che provo un amore sviscerale per Dirty Dancing, e sarò molto puntigliosa», annuii tra me e me e mi asciugai le mani su uno straccio. «Ma prima, mangiamo».

    «Sissignora», Michael fece cenno militare e mi venne incontro a passo di marcia.

    Mi aiutò a sistemare la pasta sui piatti fondi che avevo tirato fuori dalla credenza. Faceva del suo meglio per essere un bravo assistente, chiedendomi se avessi bisogno di qualcosa in particolare. Volevo farlo sentire il più utile possibile, perché sapevo che quelle piccole cose lo rendevano felice come non mai.

    Ad un certo punto afferrò il cucchiaio ed assaggiò il condimento degli spaghetti. Lo scrutai intimidita. Si bagnò le labbra e sbatté le palpebre, meravigliato.

    «Squisito!»

    Gli sorrisi e mi accostai delicatamente a quella bocca che tanto amavo. Lasciò che lo baciassi ricambiando con molta più enfasi di quanto ci avesse messo in tutta la serata.

    *

    «Che ti è sembrato, allora?», domandò Michael fissandomi incuriosito.

    Mugugnai. «Non lo so. Avrei preferito un finale diverso...»

    I titoli di coda passavano davanti allo schermo accompagnati dalla musica. L’intera visione del film era stata abbastanza di mio gradimento, nonostante mi fosse rimasto l’amaro in bocca. Non sarebbe mai stato paragonabile al primo e sarebbe stato inutile ripeterlo in continuazione. Michael sapeva come la pensavo e perciò mi studiava con un sorriso ironico.

    «Immaginavo».

    Eravamo comodamente seduti sul divano e nessuno dei due osava muoversi di un millimetro. Michael mi accarezzava distrattamente l’avambraccio con una mano, con le gambe un po’ allargate ma distese, le quali toccavano il pavimento senza i mocassini ai piedi. Io, femminile come sempre, tenevo una gamba allacciata alla sua. Il vestito lasciava scoperte le cosce senza troppo riguardo; la mia testa era abbandonata sul suo braccio che, da dietro, si allungava verso lo schienale del divano.

    In realtà ero felice che il film fosse finito. Non perché non mi fosse piaciuto molto… più che altro per le vibrazioni che entrambi, sia io che Michael, emanavamo di continuo. Durante la visione del film potevo percepire nettamente la sottile ma palpabile tensione sessuale tra noi, ed ero sicura che lui provasse lo stesso. Ma nessuno dei due voleva darlo a vedere.

    Formicolio e brividi dietro la testa erano solo alcuni dei sintomi che mi avevano colpito. Qualche volta mi ero allontanata dal suo corpo, magari con la scusa di adagiare la nuca sul poggiolo del divano; avevo cercato di guardare quel film come se fossi l’unica spettatrice in quel salotto. Michael, d’altra parte, con l’avvicinarsi della fine del film non faceva che muoversi sul posto di continuo, senza sapere dove mettere la testa e in particolar modo la mano: in alcune scene tendeva a posarsi troppo frequentemente sul ginocchio e sulla mia coscia mezza nuda.

    «A me è piaciuto abbastanza!», disse con il suo solito fare tranquillo. «Più che altro è interessante conoscere la cultura del posto e la storia che lo caratterizza, oltre che il diverso genere musicale...».

    Sollevai un sopracciglio. «Non è che questo film si sia tanto focalizzato sulla rivoluzione cubana, eh...». Lui rise di gusto vedendo la mia espressione decisamente eloquente, portandosi una mano davanti alla bocca, e io continuai. «Però non è malaccio. Bisogna prenderlo come una cosa diversa dal primo, per apprezzarlo veramente».

    «Ci sono un sacco di persone che stanno dietro alla produzione di una pellicola cinematografica... chi deve fare la trasposizione o il seguito di un classico è sempre soggetto a pregiudizi. Deve avere idee chiare e innovative, che non cadano nel banale. È complicato», fissò davanti a sé massaggiandosi la fossetta del mento con un dito.

    «Già. Come è vero che alcuni remake o sequel sono più belli dei film originali. Anche per la musica è così. Molta gente non si interessa alla canzone originale, quanto piuttosto a quella “modificata”, che magari rispecchia la moda o il genere degli ultimi tempi... poi ovviamente centrano i gusti personali e il modo in cui si trasforma un prodotto, questo sì...».

    Ma figurarsi se Michael mi stava ascoltando.

    Si inclinò verso il mio collo e vi depose baci a fior di pelle. Mi accarezzò con il naso fino a quando non mi ritrassi per il solletico che mi procurava. Nell’attimo in cui mi allontanai lo scoprii mordicchiarsi il labbro, con un certo divertimento misto a indefinibile esaltazione.

    «Mi fai prurito così...», mi lamentai ridacchiando.

    Cercai di alzarmi dal divano, ma prima che compissi un passo in avanti fui bloccata dalle sue mani, le quali afferrarono di scatto i miei fianchi. Mi lanciò un’occhiata eccitata e ridente mentre io sospiravo con arrendevolezza, attorcigliando le labbra in un’espressione combattuta.

    «Posso andare a spegnere l’amplificatore?».

    «Non è detto che io voglia...», mormorò.

    Il suo sguardo scese verso il bacino.

    Un altro formicolamento al basso ventre – aggiunto a languide contrazioni di mia familiarità – mi irrigidirono sul posto. La mente fu abbagliata dall’immagine di me che sbottonavo piano la sua camicia.

    Le dita di Michael si diressero sempre più verso il basso. «Questo film...». Rimasi in attesa, impaziente. Mi lanciò un’occhiata intensa e lasciò la presa. «Mi ha messo voglia di ballare...».

    Un scoppio di fuochi d’artificio rumoreggiò in me. Credetti di aver afferrato subito a cosa si riferisse e quell’idea mi fece venire un leggero capogiro. Si morse il labbro inferiore e mi dette una pacca sul fondoschiena.

    «Avanti, vai a mettere un po’ di musica»

    «Eh?», sorrisi apertamente, allibita.

    «Balliamo».

    Rimasi a guardarlo con perplessità. Pensai che con quel “Mi ha messo voglia di ballare” intendesse qualcosa che non fosse davvero... danzare. E poi, all’improvviso, non seppi più cosa rispondere.

    «Non mi sono certo dimenticato cosa mi hai detto prima. Pensavi che me lo sarei scordato velocemente?», domandò con finta innocenza.

    Ridacchiai per la tensione. «Adesso?».

    «Sì, certo!». Assunse una faccia da schiaffi incredibile, sollevando le sopracciglia con nonchalance. «Perché non rimetti la canzone di poco fa? Quella di Whitney e Enrique Iglesias?».

    Arrossii ancora, ma storsi il naso contrariata.

    «Ho un’idea migliore».

    Inclinò il capo a destra. Con un sorrisetto andai a spegnere la tv e mi diressi verso lo stereo. Presi una pila di CD, incolonnati al suo fianco, e li scartai uno alla volta, alla ricerca di una delle mie raccolte preferite in assoluto.

    «Che cosa stai cercando?».

    «Una collezione di canzoni dei musical che amo», sorrisi senza guardarlo. «Te ne avevo parlato una volta, se non sbaglio. In quel CD ho di tutto: Footloose (mamma mia, che meraviglia), Flashdance, Grease, Moulin Rouge… un misto di cose… anche se ho tenuto solo quelle che preferisco. Nessuna canzone di Dirty Dancing 2 può battere Hungry Eyes».

    Il mio sorriso si ampliò quando trovai il CD e lo inserii immediatamente nel lettore apposito.

    Una cosa che io e Michael avevamo in comune era la passione per i musical, anche se lui ne sapeva decisamente più di me. Da quando ci conoscevamo mi stava facendo una cultura al riguardo mooolto più approfondita di un tempo.

    «Ero ossessionata da questa canzone, da adolescente. Penso che sia un capolavoro».

    Ricordavo quale traccia fosse: la 6. Cliccai il tasto “Skip” fino a quando non raggiunsi quel numero e la feci partire immediatamente, premendo “Play”.

    Non appena la melodia iniziò a risuonare nella sala, mi voltai con una mezza giravolta e mi incamminai verso il divano, passo lento e sguardo sognante, perso nel vuoto. Michael mi scrutava con una gamba accavallata all’altra, sorriso intenerito e occhi luccicanti di interesse. Teneva le braccia incrociate sul petto e il piede si muoveva seguendo la musica. Mi seguì con gli occhi per tutto il tragitto, anche quando – con leggerezza – mi sedetti al suo fianco, poggiando tutto il peso sulle ginocchia e orientando il corpo in sua direzione.

    Quella canzone parlava di sguardi famelici e desiderio. Sapevo benissimo di aver messo qualcosa che poteva accendere entrambi, ma nonostante tutto la trovavo una melodia dolcissima.

    Volli cantare. Così, dal nulla, con il semplice scopo di sussurrargli parole che solo la musica poteva esprimere al posto mio. Non mi interessò nulla delle mie paranoie, del mio imbarazzo, della mia testardaggine: volevo semplicemente conquistarlo. E sì, volevo sedurlo, anche se ero conscia che non ce ne fosse assolutamente bisogno: quegli occhi mi squadravano come quelli di un bambino goloso quando vede il suo dolce preferito, accesi da un bagliore di sfida che si infiammò quando mi vide sorridergli apertamente.

    Chinai il busto in avanti e la scollatura sul seno lo distrasse un attimo dal mio viso. Potei vedere il suo sguardo appannarsi dal desiderio. Un profondo, delirante desiderio.

    «I've been meaning to tell you…», sorrisi arrossendo. «I've got this feelin' that won't… subside…».

    Mi fissò sbigottito. Ridacchiai timidamente, ma non interruppi il contatto visivo.

    Il desiderio venne sostituito da un’espressione di completa sorpresa. Socchiuse le labbra, interdetto, come se fosse sul punto di dirmi qualcosa.

    «I look at you and I… fantasize…», inclinai il capo verso sinistra e gli afferrai le mani.

    Fui colta da una risatina improvvisa. Abbassai gli occhi, cercando di coprirmi il viso con le dita di una mano, e arrossii pensando a quanto lo volesi. Non mi vergognavo per come mi stavo comportando – perché era una parte di me di cui andavo fiera, che mi rendeva donna. Era l’idea di essere sua – completamente sua – che mi faceva vibrare il cuore e la voce in una maniera inimmaginabile.

    Michael mi prese la mano con la quale avevo tentato di nascondermi e l’abbassò con dolcezza.

    Non disse niente, neanche una parola, poiché le sue labbra cercarono le mie senza la benché minima esitazione. Non riuscii neanche a guardarlo negli occhi per poter osservare come mi stesse osservando.

    Nel momento in cui mi baciò, scavò con la lingua alla ricerca del mio sapore, emettendo un sospiro trionfante. Di rimando feci scivolare le mani sul suo collo, coccolandolo con morbide e sensuali pressioni.

    Cambiò posizione prontamente, mettendosi anch’egli con le ginocchia puntate sul divano, facendomi inclinare all’indietro e portandomi a distendermi sotto di lui. Mi prese una coscia con la mano e la massaggiò lentamente, su e giù, come se così tentasse di afferrarmi l’anima.

    Mi sentivo persa. Se mi avesse fatto una cosa del genere in piedi, sarei caduta a terra nel giro di due secondi. La mia intimità era scossa da fremiti delicati, mentre il suo profumo mi dava alla testa confondendo ogni funzione vitale. Mi sentivo drogata e totalmente dipendente da quel contatto fisico e dalle emozioni che mi scaturiva dentro. Volevo unirmi a lui, nel corpo e nello spirito.

    Con un sottile gemito di piacere andai a lambirgli il collo con piccoli baci. Feci scivolare un piede sotto di lui, in modo tale che tutto il suo corpo si ritrovasse tra le mie gambe, e le allacciai entrambe al suo bacino. Lo sentii emettere un mormorio di piacere, mentre inclinavo la schiena e andavo a baciargli una tempia. Con una mano gli accarezzavo i capelli e con l’altra mi tenevo stretta alla sua schiena, stropicciandogli la camicia. Lasciai andare un gemito decisamente più rumoroso e sottile quando mi si appoggiò contro e riuscii a percepire la sua protuberanza scontrarsi con il mio inguine. Mi afferrò la carne della coscia con più forza, sospirandomi pesantemente all’orecchio, carezzandomi le guance con le labbra. Veloce, sempre più veloce, via via sempre più appassionato, mentre i nostri bacini si sfioravano da sopra i vestiti.

    Mi sembrò di avere un giramento di testa.

    Ero totalmente in un altro mondo.

    Sapevo cosa sarebbe avvenuto da quel momento in poi.

    La canzone finii e ne iniziò un’altra, Memory dal musical Cats, la quale spezzò completamente l’atmosfera. Mi venne da ridere non appena la riconobbi e per poco non feci prendere un colpo a Michael. Quando mi guardò era stranito e arrossito: gli bastò sentire la prima frase della canzone, e una risata scivolò fuori dalle sue labbra. Scosse il capo e puntò lo stereo, nascondendosi la bocca con una mano.

    Ci guardammo intensamente, ridendo, ma gli occhi di entrambi sembravano comunicare tutt’altra cosa. Il petto di ognuno si rialzava e si abbassava con forza, accaldati come non mai, e le nostre espressioni lasciavano trapelare ogni cosa.

    Michael mi voleva.

    E il sentimento era ricambiato.

    «Vado un secondo al bagno...», bisbigliai. Gli sorrisi e si sollevò in piedi. Mi porse la mano per tirarmi su. «Tu aspettami pure...»

    «Dove?»

    Ci guardammo a lungo.

    Nessuno dei due rideva più.

    «In camera mia», e gli indicai con un cenno del capo la porta alla nostra sinistra.

    Sorrisi maliziosamente. La sua finta serietà venne disarmata dalla brillantezza di due pietre preziose al posto degli occhi, che splendevano di idee e desiderio di amore infinito.

    Mi accarezzò la guancia. «Perfetto».




  12. .
    Capitolo Trentasei: L'Attesa


    Il getto d’acqua calda intorpidì i miei nervi e permise alla schiena di rilassarsi sotto il suo morbido fiotto. Risciacquai ogni parte del corpo dai residui del bagnoschiuma e uscii cantando allegramente, avvolgendomi in un asciugamano che odorava di vaniglia.

    Presi la biancheria da un mobile vicino, indossai un paio di pantaloncini comodi e una maglietta senza maniche bianca. Alcuni ciuffi di capelli fuoriusciti dalla presa del mollettone dietro la nuca si erano bagnati, ma li ignorai; faceva un caldo tremendo in quei giorni e non avrei avuto bisogno di asciugarli.

    Scostai le tende del bagno e aprii le finestre. Il Sole mi colpì in pieno viso, mentre le aranciate sfumature dei miei capelli scintillarono al chiarore dei raggi.

    L’enorme vetrata che dava sul retro della nuova casa in affitto era stupenda. Quel giardino ben curato dalla vegetazione tipicamente mediterranea mi fece venire nostalgia dell’Italia. Da lontano si poteva vedere la lontana e deserta costa, in parte rocciosa e in parte sabbiosa. Alcuni alberi coprivano la visuale sulla strada, da cui il loft era parecchio distante, quel giusto che mi permettesse di evitare il caotico e continuo passare delle macchine.

    Era passata qualche settimana da quando me ne ero andata dalla famiglia Jackson.

    Michael mi aveva trovato una casa molto bella – costosa, sì, ma ne valeva la pena per tutti i comfort che possedeva. Era immensa: c’era una cucina, una sala da pranzo, un salotto, due camere da letto e due bagni. La casa aveva due giardini: uno che dava sul parcheggio e l’altro che dava sul mare. Il primo presentava un sentiero in mattoni rossi – delimitato da zone d’erba fiorite – e portava al loggiato, davanti alla porta di casa; il secondo lo si raggiungeva attraverso le due finestre a scorrimento del salotto. Anche lì vi era un sentiero in mattoni, che però guidava verso una scala di legno che permetteva il diretto accesso alla spiaggia.

    L’interno era eleganza e sobrietà assieme. Tutte le stanze presentavano pavimenti in marmo lustrato – ad eccezione delle camere da letto – e i soffitti erano in legno chiaro. Le porte erano realizzate con lo stesso materiale, solo di un colore leggermente più scuro, e in ogni stanza c’erano finestre di smisurata ampiezza, dando un’idea di pulito e freschezza rigenerante. Televisione al plasma, connessione Internet, vasca idromassaggio erano solo alcuni dei servizi a disposizione.

    Da quando me ne ero andata io e Michael non ci eravamo più visti: lo sentivo ogni sera per telefono fino alle prime ore del mattino e pareva che fosse sempre lì con me. Oramai mi ero abituata a quel nuovo stile di vita, ma non potevo negare quanto mi mancasse la sua presenza fisica. Ciò nonostante, non ero ossessionata dai dubbi e dalle paranoie.

    Cantando e improvvisando buffi passi di danza lasciai che la musica proveniente dallo stereo in salotto continuasse ad aleggiare nell’atmosfera. Mi diressi in cucina, luogo dove ricordai aver abbandonato il cellulare poche ore prima, e lo trovai sul bancone bianco poco distante da fornelli, quello al centro della cucina, dove solitamente preparavo i miei pasti. Lanciai un’occhiata allo spazio circostante respirando la brezza marina. Poi afferrai il telefono con un sorriso.

    5 Missed Call

    1 Message

    Era Michael.

    Lessi il messaggio senza esitare un secondo di più.

    Quando sei libera fatti sentire, grazie.

    Le mie sopracciglia si sollevarono notevolmente. Mi bagnai un labbro e in seguito la mia espressione divenne specchio della confusione.

    Erano due giorni che non facevamo lunghe chiamate, al massimo un saluto veloce, e non perché non lo volessimo; Michael stava sostenendo molti incontri con i suoi avvocati, con i produttori discografici e con alcuni collaboratori per la collezione di canzoni che non era ancora “perfetta”. Era stressato e impegnato. Mi aveva detto che quando avrebbe avuto più tempo mi avrebbe chiamato senz’altro, facendomi nota delle sue mancanze proprio nel caso in cui avessi “pensato male”.

    Rimasi stupita da quella risposta secca e spiazzante. Non era da Michael scrivere in quel modo. Pensai fosse meglio chiamarlo e così feci.

    Controllai l'orario del messaggio; lo aveva spedito alle 18.34, momento in cui ero andata sotto la doccia. Andai a chiudere la musica e avviai la chiamata. I cadenzati e sordi squilli che udivo attraverso la cornetta durarono giusto il tempo di chiedermi se avesse il cellulare con sé oppure no. Quando percepii il suo respiro, il cuore tumultuò.

    «Ehi!», esclamai mostrandomi felice.

    La risposta fu secca.

    «Ciao».

    Cominciamo bene oggi.

    «Il tuo messaggio era strano» dissi perplessa. «Tutto bene?»

    «Una meraviglia, mai stato meglio», rispose aspramente.

    Due secondi di silenzio per riflettere e mantenere la calma, al fine di evitare risposte troppo impulsive.

    «Sicuro…?»

    Lo immaginai sorridere ironico. «Assolutamente».

    «Ah», sussurrai scoccando la lingua al palato. «Sarà. Comunque… prima non ti ho risposto perché ero sotto la doccia, non perché non mi andava di alzare la cornetta».

    Il suo tono rimase canzonatorio. «Mi fa piacere saperlo!»

    Roteai gli occhi al cielo.

    Un sottile moto di rabbia si avviò dallo stomaco alla testa. Una piccola lampadina nel cervello suonò l’allarme “Ingiusta mancanza di rispetto”.

    «Bene», affermai duramente. «Allora a presto»

    Impediscimi di concludere la telefonata, ti prego.

    Ma non gli detti il tempo per ribattere.

    «Buona serata!» e buttai giù indispettita.

    Sbattei con una certa pressione il cellulare sul tavolo e mi adagiai con le mani su quest'ultimo, osservando al di fuori della gigantesca finestra alla mia sinistra.

    Fissai il Sole che non aveva ancora intenzione di scomparire all’orizzonte.

    Nervosamente estrassi una terrina da un cassetto e dell'insalata dal frigorifero. Presi una vaschetta di tonno, pomodori, olive e quant'altro per prepararmi una cena leggera, adatta alla stagione. Adocchiavo il cellulare ogni cinque secondi, ancora immobile sul tavolo, sperando in una sua chiamata o in un suo messaggio. Ma niente.

    La mia mente vagò a lungo alla ricerca di un perché che potesse giustificare il suo comportamento. In un primo momento immaginai che si fosse offeso perché non gli avevo risposto subito, ma la cosa sembrava totalmente senza senso. Non era il tipo. Era più probabile che fosse nervoso per tutti quegli impegni che aveva, ma solo perché era arrabbiato con il mondo non significava che dovesse sfogarsi su di me.

    Nel bel mezzo di questo pensiero, lo schermo del cellulare s’illuminò. Vibrò sul tavolo e la suoneria – la canzone di George Michael Fast Love – mi fece sobbalzare.

    Michael.

    Afferrai il telefono. Guardai lo schermo, esitante, cercando di tenere a freno il battito cardiaco e pochi secondi più tardi, sospirando, premetti il pulsante di avvio chiamata.

    «Pronto», esclamai secca.

    «Devo parlarti...»

    Inarcai un sopracciglio. «Dimmi».

    «Mi manchi», espirò rumorosamente.

    Quelle parole soffiarono su di me come una carezza.

    Ci fu un attimo di silenzio assoluto. Trattenni il fiato e mi bagnai le labbra.

    «Si vede...», bofonchiai. «Ma anche tu mi manchi...».

    Conoscete quella sensazione in cui vi sentite arrabbiati con il mondo, e poi all’improvviso tutte quelle emozioni si dissolvono come polvere dal cuore? Solo a causa della persona che amate immensamente, che fino a poco prima vi ha fatto andare fuori di senno? Era esattamente quello che io provavo in quel momento.

    «Scusami...», disse flebilmente. «Ma sono nervoso. Questo clima di oppressione psicologica senza di te è terribile. Mi sento sempre peggio...», prese un respiro profondo. «Non ce la faccio già più».

    Strinsi le labbra in sorriso dispiaciuto. «Non ti abbattere, Michael. Non ora», lo incoraggiai dolcemente. «So che è difficile da farsi, ma tenta...»

    «Non è quello…», esclamò con un ché di esasperazione. Si zittì un paio di secondi e riprese con maggior durezza. «Mi vogliono morto, Sarah, lo capisci questo?»

    Un brivido serpeggiò lungo la schiena.

    «Lo posso immaginare. Ma ci sono io con te, ci sono i tuoi figli e c’è la tua famiglia».

    «La mia reputazione ne risentirà per sempre, Sarah», mormorò. «La stampa non dirà mai le cose come stanno, le storpierà...», emise in tono sofferente.

    «Lo so, Michael...», bisbigliai desolata. «E ci sono persone che continueranno a credere a quello che i giornali dicono…»

    «Lo so… e questo mi fa star male. Non potrò toccare o aiutare anche un solo bambino in questa vita, senza venire accusato di ricommettere lo stesso reato, capisci? La gente verrà influenzata irrimediabilmente da questa falsa idea di me...».

    «Potrai donare tanto comunque, anche in anonimo se necessario». Sapevo che Michael si sarebbe sentito morire se gli avessero privato di fare del bene agli altri. «Non serve essere necessariamente conosciuti per aiutare chi ha bisogno, lo sai benissimo. Magari nessuno saprà chi sei, ma continuerai a dare una mano. Io non ho dubbi su questo, non devi preoccuparti. Forse non potrai stare a diretto contatto... ma anche se i media continueranno a sparare stronzate, sono sicura che questo non impedirà a chi ti ama di starti vicino. Ci sarà sempre qualcuno disposto a difenderti, a starti accanto e ad incoraggiarti. È un peso difficile da reggere da soli, ma tu hai l’appoggio e l’affetto di tante persone dalla tua parte. Ricordalo sempre».

    Avrei voluto vederlo.

    Avrei voluto essere con lui e tenergli la mano.

    «E tu sarai con me?», disse poco più tardi. «Mi sarai vicina quando tutto questo finirà e avrò bisogno di qualcuno con cui condividere le mie “anonime” operazioni umanitarie?»

    «Sempre», sussurrai. «Volta dopo volta».

    Un secondo di silenzio.

    «Ti amo».

    «Anche io». Poi storsi la bocca. «Tranne quando mi tratti male, come poco fa».

    «Ero sotto pressione, scusa...».

    Il tono della sua voce era dolce e amareggiata.

    «Lo capisco. Non fa niente, davvero».

    Cominciai ad aggiungere gli ultimi ingredienti essenziali alla mia insalata mista, mentre una lunga assenza di rumori lasciò ciascuno ai propri pensieri. Chiusi il barattolo con le olive snocciolate e lo riposi in frigorifero.

    «Allora...», parlò con voce carezzevole. «Che stai facendo?»

    «Sto per buttarmi sulla mia insalata mista e poi guardare un film alla Tv! Ma in realtà mi è passata la fame...», esclamai prendendo una forchetta dal cassetto delle posate, sventolandola a destra e a manca.

    «Ricorda di mangiare».

    Mi sembrò di sentire mia madre.

    Ridacchiai. «... disse l’uomo che si teneva in forma e mangiava come un uccellino! Ma non ti preoccupare, non rischio di diventare magra come uno stecco, non sono il tipo», sghignazzai senza troppo divertimento. «Lo giuro!»

    «Sei bellissima», affermò con un sussurro soave. «E non solo fuori...».

    Feci una smorfia divertita. «Ruffiano!».

    «Non tradirmi, mi raccomando...».

    «Io sono una donna fedele». Mi sistemai meglio sulla sedia e tenni saldo il cellulare all’orecchio, guardando fuori dalla finestra una milionesima volta. «Non farlo neppure tu...».

    Il suo tono fu serio e deciso. «Non lo farò».

    Sorrisi, ma poco dopo le mie sopracciglia si corrugarono pensando a cosa sarebbe potuto succedere in caso di tradimento. Se fossi stata io a tradire, probabilmente non mi sarei mai perdonata una cosa del genere... ma difficilmente lo avrei fatto. Non con il “trauma” di essere stata tradita dal mio primo ragazzo. Un tradimento non si dimentica mai. Però… se fosse stato Michael a tradirmi?

    Non riuscivo neppure ad immaginare la mia reazione.

    «Vuoi che ti lasci mangiare? Parliamo dopo?», eruppe di sorpresa.

    Mi scossi con un lieve sobbalzo. «No, scusa! Stavo pensando a cosa guardare più tardi…», mentii.

    «Uhm...». Pausa. «Ti va di guardare un film insieme?»

    «Eh?»

    Non mi badò. «Che film hai intenzione – ».

    «Vuoi venire qui?».

    Mi morsi le labbra: il mio tono era troppo gioioso. Afferrai una ciocca di capelli e la attorcigliai attorno a un dito, fissando la mia insalata con sguardo emozionato. Fremevo all’idea che mi venisse a trovare anche se non volevo darglielo a vedere, ma...

    «No, non potrei purtroppo», fu dispiaciuto nel dirmelo. «Grace ha la serata libera».

    «Oh», mormorai. «Quindi...?»

    «Quindi possiamo fingere di essere insieme, sul divano, abbracciati...», disse scandendo ogni parola con lentezza e amabilità, regalandomi soffici fremiti sulla nuca. Lo immaginai sorridere. «Alla stessa ora, lo stesso film...», continuò imperterrito, «ti va?».

    «Sì...», emisi in un soffio, meravigliata, «tantissimo».

    Era il primo uomo che mi diceva una cosa del genere. Come non rimanerne affascinata o profondamente lusingata? Dopotutto l’amore rincitrullisce tutti, perché io non sarei dovuta cadere nella trappola una seconda o terza o quarta volta?

    «Qualche idea per il film?», domandai cercando di scuotermi da quei pensieri destabilizzanti.

    Lo sentii inspirare ed emettere un “Mmh” pensieroso ma adorabile.

    «Stasera fanno Il Grande Dittatore. Oggi pomeriggio ho guardato un documentario su Hitler; seppur crudele, è stato un uomo di grande carisma. Ciò non giustifica i suoi atteggiamenti, ma trovo affascinante conoscere la psiche e il carisma di tali personaggi. Tu che ne dici?».

    «Oh be’, quello sicuramente. Un carisma diabolico, ma sempre carisma», risposi inarcando le sopracciglia e lui rise. «Il Grande Dittatore è il film con Charlie Chaplin, vero?».

    «Esatto», ridacchiò pianissimo, «In questo film interpreta due ruoli: il barbiere di un quartiere ebreo e Hynkel, ossia Hitler. È un attore magnifico. Sai che la donna di cui si innamora il barbiere si chiama Hannah?»

    Michael, ti prego, non rivelarmi tutto il film!

    Mi venne da ridere ma mi trattenni. «Uhm... questo non lo sapevo…».

    «Il suono di quella parola assomiglia a quello del tuo secondo nome... Anne...». Si prese qualche secondo per pensare. «Hanno lo stesso significato, no?»

    «Si», sorrisi. «Perché me lo chiedi?»

    «Anne ti rende più dolce...», sentenziò, «ma non è bello come Sarah. Sarah è perfetto per te. Mi ricorda il nome della ragazza di cui mi sono innamorato tempo fa…».

    Arrossii.

    «Io invece ho ricordi di due Michael, escluso te. Uno era un parente e uno era un ragazzo che per un breve periodo si innamorò della sottoscritta, al college...», mi morsi la lingua tentando di trattenermi dallo sogghignare di gusto.

    «Ah, questa mi è nuova!» sbottò in tono fintamente scherzoso. «E...?»

    «E all’inizio ci odiavamo. Un giorno gli tirai uno schiaffo così forte che presi paura di me stessa. Sapeva essere un gran cafone. Inoltre usava la forza per attirare la mia attenzione, e questo non lo accettavo. Non accetto le mani addosso da nessuno. Ma dopo avergli dato quello schiaffo, iniziò a rispettarmi seriamente. Fui l’unica ragazza che trattava come un bijou e si trasformò in un vero angioletto. Tentò in tutti i modi di conquistarmi con più dolcezza...».

    «E tu che dicevi di non avere corteggiatori...», mormorò a voce bassa. Sembrava meditabondo e offeso. «E come è andata?».

    Alzai le spalle, nonostante Michael non mi potesse vedere. «Non è andata. A me non piaceva e la sua infatuazione durò poco... forse». Drizzai la schiena e mi stiracchiai. «Ci siamo persi di vista. E comunque non ho avuto molti corteggiatori, dico davvero». Feci una pausa. «Non quanto te».

    Non mi badò neanche.

    «Quanti ne hai avuti?»

    Sorrisi. «Non ne ho la più pallida idea! Ma sicuramente meno di cinque».

    «Mmh», borbottò. «Menti… sono sicuro che ne avessi più di quanto la tua testolina ingenua crede. Non so se esserne felice oppure no. Di sicuro anche ora non passi inosservata...».

    Sapevo che stava dicendo così per provocarmi, per vedere fino a che punto lo avrei punzecchiato.

    «Forse», esclamai allegra. «Sarebbe piacevole sapere che sono desiderata».

    «Ma sei desiderata da me...», mormorò a voce ancora più bassa. «Questo non ti basta?»

    «Molto più di quanto immagini». Presi fiato. «Anche se non te lo faccio presente».

    «Allora fallo... ora...», emise con un rauco sussurro.

    Un secco dolore al ventre mi portò ad inclinarmi in avanti. Inspirai e ridacchiai per scaricare l’emozione improvvisa, scaturita da quella sua sottile provocazione. Mi eccitava.

    «Cosa? Assolutamente no!» esclamai crucciandomi divertita. «Poi penserai di avermi sempre sotto il tuo potere!».

    Stette in silenzio. Attesi una sua risposta a lungo, mentre il mio sorriso si dissolveva pian piano per paura di avergli arrecato offesa.

    «Strega».

    Spalancai di poco le labbra. A me?

    «Pff, vanitoso», rimbeccai.

    Emise uno spasmo di risata per nulla allegra. «Bambinetta arrogante... sei solo una bambina... e presuntuosa...».

    Inarcai le sopracciglia con sbigottimento. Mi sistemai meglio sulla sedia e arrossii, offesa.

    «Spocchioso», borbottai. «Spocchioso ed egocentrico. E anche maleducato!». Lo sentii ridere senza apparentemente motivo e mi imbestialii. «Sei sempre il solito! Non ti rispondo più!».

    «Vuoi sapere che ti dico?»

    «Cosa?».

    «Tu hai bisogno di me».

    Pausa.

    Le farfalle nello stomaco tornarono a dimenarsi in segno di protesta.

    Inspirai e la rabbia se ne andò così come era sbocciata.

    «E perché dovrei?», provai a modellare la voce seguendo un istinto di collera che ormai non mi apparteneva più.

    Michael rimase serio, ma il tono fu vellutato. «Cosa me lo fa pensare? Il fatto che tu non riesca a chiudere questa chiamata perché necessiti di sentire la mia voce come io la tua. Lo penso perché nonostante le provocazioni, non riesci a smettere di ascoltare quello che ho da dire. Mi consideri maleducato ed egocentrico, spocchioso e vanitoso, ma...»

    Fece una pausa ad effetto.

    Corrugai la fronte e arrossii. «Ma…?»

    «Ma non riesci a smettere di amarmi», annunciò docilmente. «Come accade a me, volta dopo volta, come hai detto poco fa. Non riesco a smettere». Pregai affinché non mi sciogliessi sullo sgabello. «In particolar modo amo quando reggi i miei assurdi test psicologici».

    Sorrisi insoddisfatta. «Vai al diavolo, Michael Jackson».

    Tipico di lui, tipico del Michael che conoscevo.

    Anche in quel momento il mio cuore batteva per lui e per la spietata voglia di baciarlo.

    Rise candidamente.

    «Be’, ora comincio ad aver fame sul serio. E metà del condimento della mia insalata l’ho mangiato parlando con te», sghignazzai tra me e me.

    «Ok, allora a più tardi. Alla visione nel nostro film...». Parlò con una tale lascivia che mi si appannò la vista. «Sii puntuale, perché voglio tenerti abbracciata a me per tutto il tempo».

    «Posso preparare i popcorn?»

    «Non sei a dieta?»

    «Ah-ah-ah», scandii quella risata sardonica sillaba per sillaba e Michael rise. «Per una volta posso abbandonare il mio regime».

    «D’accordo, allora».

    «Michael?»

    «Uhm?»

    «Ti amo».

    Silenzio.

    «Aspettavo che me lo dicessi», bisbigliò. Tentennai all’idea di chiedergli se si fosse incupito o se fosse soltanto una mia impressione. «Tu non lo sai, ma m’illumini».

    «Be’, ora lo so».

    Anche tu mi fai lo stesso effetto.

    «Ti amo anche io, Sarah».

    Sorrisi e ricambiai per una seconda volta. Chiusi la conversazione e rimasi per qualche minuto a pensare a lui, alle cose che ci eravamo detti, e soprattutto a quel tornado di emozioni scaturitosi dalla presenza di Michael nella mia vita.

    Chiusi gli occhi.

    Assaporai le conseguenze che quel sentimento aveva su di me e mi irrigidii per non far scoppiare il cuore, accompagnata dal lontano rumore delle onde sulla sabbia e sugli scogli.

    Il Sole se ne era ormai andato. Era il momento del crepuscolo.

    *

    «Zia, guarda che brava che sono!», esclamò la piccola Paris.

    Nuotò sotto acqua, venendomi incontro, per poi risbucare al di fuori della superficie con il fiatone. Lasciò cadere il capo all’indietro, scuotendo le due treccine che le reggevano i capelli. Si resse sulle mie ginocchia con le manine, mentre io me stavo seduta comodamente sul bordo piscina con le gambe a mollo.

    Sorrise luminosa. «Sono una sirena, hai visto?»

    «Sei bellissima, Paris!»

    Percepii lo sguardo di Michael su di me e sulla figlia; se ne stava seduto su uno sdraio alle mie spalle, coperto totalmente da un ombrellone verde acqua. La mia attenzione si rivolse immediatamente su Prince, il quale correva verso il bordo piscina con un sorriso che gli partiva da un orecchio all’altro.

    «E vai con il tuffo della morteee

    E splash! Un tonfo e acqua ogni dove.

    Me la risi di gusto. Invano era stato il mio tentativo di non bagnarmi coprendomi il corpo con le braccia e ruotando la testa dalla parte opposta alla sua, finendo così per incrociare lo sguardo sereno di Michael. Era vestito con pantaloni neri e leggeri e una canottiera bianca con collo a V. Indossava i suoi immancabili occhiali da sole, ma ero sicura che da sotto quelle lenti scure si stesse divertendo un mondo.

    Quel giorno ero stata invitata al Neverland Ranch; era molto più sicuro per i bambini fare il bagno in piscina lì, piuttosto che nella casa a Beverly Hills, soggetta agli elicotteri dei paparazzi più e più volte al giorno. Michael desiderava la completa tutela per suoi bimbi, e loro non vedevano l’ora di ritornare nella loro vecchia casa.

    Le dita bagnate di Prince si posarono assieme a quelle della sorella sulla mia coscia, sfiorandomi gli shorts in jeans chiaro. Faceva un caldo tremendo quel giorno, era un miracolo che non mi fossi messa in costume.

    «Dai zia, vieni dentro con noi!»

    «Non sapete quanto vorrei...», sogghignai, «ma purtroppo non posso».

    Paris si crucciò. «Non ti senti bene?»

    «Purtroppo no…», dissi dispiaciuta. Tentai di abbassare i toni per non farmi sentire da Michael, ma lo conoscevo abbastanza da affermare che in quel momento avesse le orecchie grandi come quelle di Dumbo, per ascoltarmi. «Ho dei dolori allo stomaco e non voglio rischiare di stare male in acqua…»

    I due ci rimasero più male di quanto immaginassi. Mi morsi le labbra.

    Non potevo certo dir loro che avevo il ciclo. Chi poteva sapere se Michael lo aveva già fatto presente a Paris? Dio solo sapeva quanto avrei voluto vederlo spiegare cosa fossero le mestruazioni ai suoi figli. Già mi immaginavo la faccia schifata di Prince.

    «Facciamo la prossima volta, ok? Abbiamo tre mesi di vacanza per organizzarci e fare tutti i bagni in piscina che vogliamo, no?», proruppi allegramente.

    I bambini annuirono accennando due sorrisi sollevati. Paris si immerse di nuovo e finse di essere una sirena che nuota nell’Oceano Pacifico; Prince uscì di nuovo dalla piscina e andò a prendere la rincorsa per fare un secondo tuffo, quello che lui definì “Il tuffo a elefante”… il nome era tutto un programma.

    Mi alzai dal bordo asciugandomi la fronte madida di sudore a causa del Sole cocente. Avevo sete e non volevo bagnarmi completamente. Inoltre cominciavo ad avere mal di testa – non sapevo se a causa del caldo o del ciclo. Poco distante dalla piscina, nascosta dalle rigogliose chiome degli alberi, vi era una casetta in legno, uno spazio per snack e bevande nel caso in cui i bambini avrebbero voluto fare una pausa. Ebbi una fitta al basso ventre e un leggero senso di nausea, ma evitai di fare smorfie di dolore.

    «Papà guarda! Guarda, sono Ariel!»

    Vidi Michael sorriderle e sistemarsi gli occhiali sul naso con un rapido gesto dell’indice. «Sei meravigliosa».

    Mi incamminai verso la casetta di legno, guardando imperterrita davanti a me. Quando gli passai di fianco venni richiamata da uno strano rumore, una sorta di fischio basso e sottile. Mi voltai e notai Michael con la testa inclinata dalla mia parte, il mento un po’ piegato verso il basso. Era ovvio cosa stesse ammirando. Arrossii emettendo un risolino imbarazzato e alzando un sopracciglio con finto stupore.

    Si abbassò gli occhiali da sole fino alla punta del naso.

    «Si vede che non vedi l’ora di immergerti», disse piano, ispezionandomi. «È un peccato che tu stia poco bene».

    Non capivo se stesse flirtando o se mi stesse facendo intendere che aveva sentito i miei discorsi con i suoi figli. Storsi la bocca in un sorriso bambinesco e alzai le mani, facendo spallucce.

    «Per stavolta resisterò!», gli detti le spalle e ripresi a camminare.

    Arrivata nei pressi del piccolo gazebo in legno andai alla ricerca di qualcosa da bere. Il bancone era nascosto dagli alberi e perciò non si poteva scorgere la piscina, ma potei udire gli schiamazzi eccitati di Prince e Paris in lontananza. Presi una bottiglia di succo d’arancia dal frigobar e un bicchiere in plastica dalla lunga tavolata in legno.

    Mentre mi versavo il succo, un paio di braccia mi presero da dietro e si allacciarono sotto il mio seno, rialzandolo leggermente. Trattenni il fiato per l’emozione.

    «Ne verseresti anche a me, per favore?», un debole sussurro raggiunse il mio orecchio sinistro.

    Rilassai i muscoli.

    «Certo».

    Feci per prendere un bicchiere pulito, ma nel tentativo di allungarmi Michael mi tenne stretta impedendomi il movimento. Mi scoccò un bacio sulla guancia.

    «Posso bere dal tuo?» chiese. Lo guardai in viso e arrossii per la sua occhiata fin troppo amorevole. Era così vicino che avrei potuto baciarlo da un momento all’altro. Aveva tolto gli occhiali da sole; i suoi occhi erano intensi come al solito, mentre i lineamenti ben marcati del suo viso erano contratti in un’espressione ridente. «Se non ti schifa, ovviamente».

    «Michael, ho mangiato un tuo chewing-gum una volta» puntualizzai alzando un sopracciglio e un angolo delle labbra. Bevvi un sorso di succo ed egli mi guardò divertito, ponendo particolare attenzione alla mia bocca. «Secondo te mi dà fastidio?»

    «Non si sa mai», ridacchiò.

    Finii il bicchiere di succo e ne versai un altro po’. Dovetti obbligarlo a alleviare quella piacevole stretta per riuscire a compiere quell’atto. In seguito glielo passai, cambiando posizione e mettendomi di fronte al suo corpo, petto contro petto; bevve lentamente e io lo fissai come lui aveva fatto con me.

    «Rinfrescante», si bagnò le labbra corrugando la fronte. Poi sorrise furbino, osservandomi le labbra e in seguito gli occhi. «Ma sono sicuro che su di te ha un sapore migliore».

    Si chinò sulla mia bocca e vi posò un bacio intenso, umido e fresco; il respiro morì per un lungo fievole istante e la sua lingua lambì dolcemente il mio sapore. Ebbi la tentazione di aprire gli occhi per vedere se qualcuno ci stesse osservando, ma non ne fui capace: le mie azioni vitali si concentrarono solamente su quel bacio da mozzare il fiato.

    Quando si allontanò sorrise, pur rimanendo a pochi millimetri dal mio volto. «Non è che non fai un bagno in piscina solo per non mostrarmi il tuo corpo, vero?».

    Scoccai un’occhiata alla mia destra – giusto per controllare che i suoi figli non ci stessero raggiungendo – e ritornai ad osservarlo come se nulla fosse.

    «Purtroppo no... non è per quello», arrossii e allacciai le braccia attorno al suo collo.

    Mi tenne per la vita e io chinai lo sguardo per non sentirmi nuda davvero.

    «E allora qual è il motivo?».

    Mi baciò ancora.

    Gli sorrisi e lo guardai divertita. «Non lo vuoi sapere sul serio».

    «Perché mai?», corrugò la fronte. «Non capisco...»

    Tornò sulle mie labbra, stavolta più passionale ed energico, ed io piegai il capo all’indietro. Affondai le dita nella sua chioma nera, sfiorando quei capelli più riccioluti del solito. Mi sentii vittima del suo profumo, della sua dolce richiesta di possesso, ed una debole fitta mi contrasse il ventre – non sicuramente dovuta al ciclo. Feci sfuggire un gemito.

    Michael si ritrasse leggermente. Gli sguardi di entrambi erano ovattati dal desiderio.

    «Moony...», le dita scivolarono in basso, verso i glutei. Bisbigliò raucamente, «Se continuiamo così, impazzisco»

    Sentii le urla felici di Prince e Paris come echi lontani. Le calde mani di lui risalirono la schiena, s’infilarono sotto la canottiera, mentre io esalavo l’ultimo soffio di aria risedente nei polmoni. Il bacio aumentò l’intensità, mi diede alla testa, e lasciai che quella bocca bramosa di me si posizionasse sul collo. Ancora quei polpastrelli scesero verso i fianchi... fino alle cosce...

    «Michael...», boccheggiai.

    Pregai affinché smettesse e al tempo stesso desiderai che continuasse fino a portarmi al delirio assoluto. Non potevamo permetterci di farlo, non in quel momento, ma ero abbastanza masochista da portare avanti quella tortura.

    Arrossii quando all’improvviso si fermò sulle mie natiche.

    «Michael…?»

    «Aspetta...». Mi staccai dal suo petto per poterlo vedere meglio: aveva uno sguardo serio, concentrato... «c’è qualcosa di strano...»

    Rimasi in attesa. Quei grandi palmi mi afferrarono con energia, spingendo il mio bacino incondizionatamente verso il suo. Sentii quel formicolio nell’intimità farsi sempre più intenso e crudele. Esplosi di rossore e desiderio.

    «Michael!», esclamai sconcertata e rallegrata assieme.

    «Sì...», mi puntò con una scintilla di divertimento negli occhi. «Tu sei dimagrita sul serio».

    Risi forte. Affondai il viso in una mano.

    «Davvero?», chiesi poco più tardi, accigliata.

    «Sicuramente».

    «Be’», borbottai. «Grazie». Mi lanciai un’occhiata alle gambe. «Onestamente non sto facendo molta attività fisica, ma magari le passeggiata lungo la spiaggia aiutano a – »

    Lo guardai. Sorrideva maliziosamente. Capii dove volesse arrivare a parare.

    «Oh, no!», sbottai. Sorrisi e mi ritrassi. La sua presa si sciolse. Scossi il capo fingendomi un po’ arrabbiata. «No, no e ancora NO!», gli puntai il dito indietreggiando. «Non cercare di addolcirmi la pillola così, Jackson!»

    Scoppiò a ridere e quando ebbe finito si passò la lingua sulle labbra.

    «Pensavo che questo genere di pillola potesse ridurre i tempi di attesa», emise velatamente.

    La mandibola scese da sola. Era un sottile riferimento al fatto che, da un mese ormai, prendevo la pillola come contraccettivo?

    Scorsi Paris avvicinarsi di corsa da oltre un albero. Le treccine bagnate scendevano lungo le spalle. Mi sorrise.

    «Papà, zia, venite!», si arrestò e ci osservò. «Vogliamo farvi vedere una cosa!»

    «Arriviamo subito», disse Michael con un sorriso gioioso. «State attenti a non correre troppo, soprattutto se bagnato. Potreste scivolare e farvi male».

    L’altra annuì, ci intimò di fare in fretta e scomparve una seconda volta dalla nostra vista.

    Squadrai Michael per un tempo incalcolabile. Lui ricambiò inarcando le sopracciglia con sfrontata ed irritabile maliziosità. Evitai di sorridere di rimando.

    Appoggiai il bicchiere vuoto sul bancone e il cartone del succo nel frigobar. Quando gli passai accanto mi prese per un polso. Non feci tempo a chinare il mento verso il basso che la sua mano si infilò velocemente tra le mie dita; non appena i nostri occhi si incatenarono teneri sussulti mi attraversarono la nuca e l’intimità.

    Avvicinò le labbra al mio orecchio. «Non hai ancora risposto...».

    Il tentativo di ingoiare la saliva fu vano.

    «Eh?»

    Quel respiro mi sfiorò il collo e l’orecchio con un sussulto. Il fiato s’annodò in gola.

    «Lo sai...», la voce era terribilmente bassa.

    La mano libera scivolò sul fianco e non aspettai altro che accostarmi al suo corpo. Non lottai. Inclinai la nuca verso sinistra mentre Michael con sguardo assente studiava il mio seno scontrarsi col suo torace.

    «Al momento non credo che sia il caso...» risi sofficemente.

    Mi guardò di soppiatto mentre la stretta si trasformava in affettuose carezze. «Non qui, certo...» mi baciò vicino le labbra.

    «Michael, non intendevo quello...».

    Corrugò a malapena la fronte. «E allora cosa?»

    Silenzio imbarazzante per me, silenzio meditativo per lui.

    «Non ti senti ancora pronta?»

    Il suo tono mi fece assumere una smorfia a dir poco contrariata. Lo guardai con l’espressione di chi ha sentito la cosa più ridicola al mondo.

    «Pensavo lo capissi da solo...», ridacchiai. Mi lasciò andare senza dire nulla e io posai le mani sui fianchi. «Ho il ciclo, Michael» sentenziai con buffo disappunto.

    Il suo sguardo si trasformò. Mi osservò allibito mentre io mi mordevo le labbra per non spanciarmi dalle risate. Un tenue color scarlatto gli invase timidamente il viso.

    «Oh.»

    Sorrisi divertita. «Già».

    Scoppiò a ridere imbarazzato. «Oh, God...»

    Feci spallucce. «Vedi che mi dai ragione? C’è un motivo più che valido!».

    Udimmo un richiamo da parte di Prince e Paris. Senza esitare mi diressi verso la piscina. Pochi metri più in là un fischio mi richiamò. Mi voltai. Michael sorrideva con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, immobile dov’era.

    «Ehi, Moony...».

    Diventai rossa in viso. Lanciò una premurosa squadrata lungo tutto il mio corpo. Gli occhi erano splendenti.

    «Sei stupenda».

    Ridacchiai e scossi la testa.

    «Che c’è? È vero!», assunse una faccia da schiaffi assurdamente incantevole.

    «Sì, lo so, lo so!», gesticolai alzando gli occhi al cielo. «Non c’è niente da fare: quando una è bella, è bella e basta», sbattei le palpebre e assunsi un’espressione da finta altezzosa.

    Rise teneramente. Feci dietrofront e scomparvi per un momento dalla sua vista.

    *

    Squillò il telefono.

    Lanciai uno sguardo allo schermo illuminato di bianco. Questo vibrò appena sopra il tavolino in cui era appoggiato, poco distante dal divano in cui ero comodamente distesa. Mi issai con un sorriso stranito in volto. Afferrai il telecomando e interruppi la visione del cartone Le follie dell’imperatore. Risposi subito, con il cuore che rimbombava per l’entusiasmo e la curiosità.

    «Michael?»

    «Scusa, ti disturbo?»

    Mi aveva chiamato soltanto un’ora prima. Era un atteggiamento strano, ma non inusuale: qualche volta mi chiamava anche solo per sentire la mia voce o per raccontarmi piccole sciocchezze. E io cercavo di fare lo stesso con Michael.

    «No, dimmi», sorrisi.

    Lo sentii ridacchiare piano. «Dimmi, uhm, sei occupata ‘sta sera?»

    Mi alzai di scatto in posizione seduta.

    «Ehm, no...», mi illuminai, «come mai?»

    «Pensavo di organizzare una serata assieme. All’inizio volevo farti una sorpresa, ma poi ho pensato che avresti preferito essere avvisata per tempo».

    Mi morsi le labbra, i quali angoli si inclinarono all’insù all’istante.

    «Sono libera». Presi fiato. «E mi farebbe molto piacere. Comunque sì, hai ragione. Devo preparare una cena decente. Non posso darti la prima cosa che ho in frigo. Devo anche... mmh… ma sei sicuro di poter venire?»

    «Ne sono certo», disse allegro. «Altrimenti non te lo avrei chiesto, principessa. Non credi anche tu?»

    Arrossii. «Mmh…».

    Mi dava talmente fastidio sentirmi come una ragazzina alle prese con il suo primo amore. Per quanto lottassi per spegnere quel fuoco, il mio cuore pulsava d’affetto per Michael. Lo sentivo (o lo vedevo) e di conseguenza brillavo a causa di quell’emozione sconsideratamente intensa. Pulsavo della stessa luce d’amore che mi donava, che cercavo di restituirgli con lo stesso vigore.

    «Allora ci vediamo fra un’ora, che ne dici?»

    Guardai l’orologio: erano le 17:03.

    «Mi sa che è troppo presto. Dammi due ore».

    Rise. «Principessa, non devi prepararti per una gara culinaria o una sfilata di moda. Va bene qualsiasi cosa indossi adesso, qualsiasi cosa le tue mani mi possano preparare...», mormorò con voce carezzevole.

    Del primo punto dubitavo più che del secondo. Più che altro perché non sarebbe stato contento se avesse avuto a che fare con un grizzly.

    «Fidati, due ore è meglio. Lo giuro... non te ne pentirai!»

    «D’accordo», lo sentii sorridere. «Per una sera i bambini staranno nelle mani di Grace, ho detto loro una scusa... ossia che sono ad una importante cena di lavoro e che tornerò domani», annunciò con un tono di finta pomposità.

    «Oh, ok». Alzai le spalle, sollevata. «Allora alle 19:00 in punto»

    «Ci sarò. Ti amo, Sarah». Aspettò qualche istante. «Non vedo l’ora...»

    Credetti di essere la donna più felice al mondo.

    «Anche io, Michael».

    La telefonata si concluse e sfoggiai quello che potei definire un enorme sorriso da ebete. Mi alzai dal divano saltellando, chiusi la TV, mi diressi verso la cucina: era meglio darmi da fare con la cena, piuttosto che lavarmi e cambiarmi subito. A quello ci avrei pensato più tardi.

    Mentre tiravo fuori dal freezer delle vongole congelate, realizzai il senso di alcune sue frasi.

    Sono ad una importante cena di lavoro e tornerò domani.

    Con un piacevole dolore al basso ventre – immobile sul posto come uno stoccafisso e lo sguardo perso al di fuori dalla finestra – capii che quella sarebbe stata la sera. Desideravo Michael come non avevo mai desiderato un uomo prima di allora.




  13. .
    Capitolo Trentacinque: Le Condizioni


    Riuscii a dormire quella notte.

    Entrata in casa mi ero asciugata gli occhi e avevo respirato a fondo. Non ero andata a salutare i bambini, temendo stupidamente che Michael potesse raggiungermi.

    Mi ero chiusa in camera e mi ero distesa su un fianco del letto con sguardo diretto al cielo nero al di fuori della finestra. Tutto sembrava continuare a respirare senza di me. Ero ferma in uno stato di trans. Michael era svanito dalla mia vista e tutto sembrava ovattato. I miei occhi erano colmi di lacrime che però non riuscivo a versare. Appariva ancora tutto troppo incredibile da credere reale.

    Allontanandomi da Michael, il mio cervello si era resettato, probabilmente per autodifesa; rimembravo quello che era accaduto ma nella mia testa era come vedere un film muto: solo gesti, grida lontane messe a tacere dal mio rapido battito cardiaco. E poi tutto diventava nero.

    Mi ero illusa.

    E in un certo non era colpa di Michael. Era colpa mia, perché avevo costruito castelli di carta e questi erano stati spazzati via da una folata di vento che mi aspettavo benissimo.

    Ma Michael non avrebbe dovuto alimentare le mie fantasie. Sapeva benissimo a cosa sarebbe andato incontro. Aveva preferito tentare – e quanto eravamo durati? Qualche settimana? Un record.

    Non mi sarei mai immaginata che mi avrebbe allontanato così presto.

    Non credevo che potesse fare così male.

    Non sarei mai dovuta venire a Neverland.

    Pochi istanti più tardi il sonno mi avvolse senza accorgermene.

    *

    Mi svegliai verso le dieci di mattina a causa dei primi sintomi della fame.

    Indossai un paio di shorts in jeans, una canottiera nera e il solito paio di infradito. Andai in bagno per sciacquarmi il viso e osservare in che stato fossi: lo specchio rifletteva una giovane donna stanca... e un po’ in carne, ma non esageratamente. Occhi apparentemente assenti e cipiglio imperscrutabile. Labbra né serrate né sorridenti.

    I miei capelli castano rossiccio erano annodati e scompigliati, in particolar modo dietro la nuca. Sbuffando tentai di pettinarli, ma dopo neanche due minuti mi arresi e mi feci una coda alta come al solito. Lasciai il bagno con un altro sospiro, stavolta decisamente più afflitto.

    Mi comportavo come se niente fosse. Come se quello avvenuto la sera prima non fosse accaduto veramente. Non riuscivo neanche a pensarci.

    Presi un libro dal comodino dove dormivo e mi avviai verso la porta a passo trascinato. La aprii e il mio sguardo venne rapito da qualcosa di indefinito appoggiato a terra, proprio sotto i miei piedi.

    Era un fiore.

    Un fiore arancione con sfumature giallastre. Aveva tantissimi e sottilissimi petali, decisamente più grandi di una margherita e con un lungo e spesso gambo. Sotto di esso vi stava un foglietto bianco piegato in due.

    Il mio cuore s’arrestò per un attimo.

    Mi guardai attorno, a destra e a sinistra, con fare confuso. Vedendo che non c'era nessuno mi chinai a terra, afferrai il fiore con una mano e il biglietto con l'altra. Non avevo dubbi su chi fosse il mittente. Le dita tremavano.

    Inspirai il profumo del fiore: odorava leggermente di limone, un’essenza gradevole e, in fin dei conti, anche molto delicata. Non sapevo cosa aspettarmi, ma avevo una gran paura di leggere.

    Espirai con labbra leggermente sussultanti.

    Mi appoggiai al stipite con una spalla. Attesi qualche istante per metabolizzare la sorpresa e di seguito lessi il biglietto.

    Dolore.

    Una sola parola a caratteri maiuscoli. La sua calligrafia particolarmente disordinata, talvolta incomprensibile, tinta di inchiostro nero come il petrolio, esattamente come il colore dei suoi capelli. Esattamente come me la ricordavo, esattamente come l’amavo.

    Quella scritta sosteneva tutto e niente.

    Gli occhi si bagnarono di lacrime.

    Mi mancò il respiro e arrancai per ritrovarlo.

    Rientrai in camera chiudendo frettolosamente la porta; adagiai il fiore, il libro e il biglietto sul cuscino. Andai alla ricerca del mio quaderno con tutti i significati dei fiori, sezionando ogni cassetto presente in stanza. Michael insisteva per farsene fare una copia, adorava il modo in cui io li amavo.

    Quando aprii l’ultimo cassetto mi paralizzai.

    Non era neppure lì.

    Non era da nessuna parte.

    Non poteva essere in valigia, era impossibile. Michael lo sfogliava spesso.

    Inspirai profondamente.

    Mi sentivo stordita, arrabbiata e angosciata assieme. Di certo quel regalo mi faceva piacere, ma Michael non sarebbe riuscito a lenire il dolore con un fiore. Era stato chiarissimo. Voleva mettere un punto alla nostra storia. Mi volevo autoconvincere che non avrebbe cambiato idea tanto facilmente.

    Così faceva solo peggio.

    Che senso aveva?

    E soprattutto... quand’è che era entrato in camera e mi aveva “rubato” il quaderno? Mentre dormivo? Oppure quando ero uscita nel pomeriggio, il giorno prima? Non poteva, avevo io la chiave… a meno che non ne avesse usata una di riserva, ma era impossibile. Non avrebbe avuto senso. Doveva essere stato quando dormivo…

    Tutta quella serie di domande mi affollò dandomi alla testa. Mi sentivo assente. Svuotata.

    Gettai un’ultima serie di occhiate al fiore e al biglietto.

    Espirai.

    Con quell’immagine impressa nella mente, mi avviai una seconda volta in direzione della porta. Non tornai indietro per riprendere il libro che avevo dimenticato sul materasso, né tantomeno per il fiore o il biglietto. Uscii e m’incamminai lungo il corridoio, impaurita all'idea di poter incontrare Michael da un momento all’altro.

    Non avrei saputo cosa dirgli. Le mie idee si distruggevano e si riformavano su basi inconsistenti. Non credevo di capirci più nulla. Non capivo cosa volesse da me.

    Non ero io a camminare, ma un guscio vuoto.

    Arrivata alla rampa di scale che mi avrebbe portato al piano terra, a circa due metri di distanza da questa, mi arrestai. Sentii il mio cuore fermarsi un’altra dolorosa volta: sul parapetto in legno scuro vi era un altro fiore. E anche un altro bigliettino.

    Non mi guardai intorno come avevo fatto poco prima.

    Un passo e poi un altro. Sempre più veloce. Cercando Michael con lo sguardo, per poi appoggiarmi al parapetto e buttare occhiate esitanti al piano inferiore. Non c’era nessuno. Non c’era ombra di anima vivente... eppure ero convinta che lui ci fosse. Che si stesse nascondendo da me.

    Puntai quel fiorellino scarlatto e lo strinsi fra le dita.

    Lo riconoscevo, era un garofano. Un garofano rosso vivo, dai petali sottili e un gambo finissimo. Il pistillo si intravedeva appena. Era delicatissimo al tatto e odorava di un dolce profumo, forse un po’ meno buono dell’altro. Aprii il biglietto con eccitata titubanza e lessi ciò che vi era scritto.

    Il mio cuore si spezza.

    Sentii un fioco crack al cuore.

    Perché mi faceva questo?

    Amava giocare con i miei sentimenti? Tentava di fare il mago, tirando ad indovinare il mio stato d’animo seguendo il significato dei fiori? Perché cominciai a credere lo stesse facendo apposta per farmi male.

    Non avevo dimenticato il modo in cui mi aveva trattato. E soprattutto non avevo scordato quello sguardo. Quella voce. Mi aveva praticamente fatto intendere che non potevamo stare assieme. Mi aveva fatto capire che si stava arrendendo già prima di aver lottato.

    Ma non potevo non riconoscere che quel suo gesto mi stesse donando un briciolo di speranza, un barlume di gioia che mi portava a credere che – forse – quella che stava sbagliando ero io. Avrei detto la bugia più grande di tutte, se avessi ammesso che di Michael non mi importava più nulla. Io lo amavo con tutta me stessa, anche con tutto quel rancore nell’anima. Anche se immaginavo che mi stesse dicendo addio.

    Mi strofinai gli occhi per non piangere e mi tenni salda al parapetto, per non permettere alle gambe di cedere e, perciò, di lasciarmi cadere a terra. Il petto s’alzava e s’abbassava furiosamente.

    Avanti, Michael, vieni fuori, volevo urlare, ma non ebbi il coraggio di farlo. Le parole sembravano essersi bloccate in gola da quando, la sera prima, io e Michael ci eravamo lasciati in quel modo tanto brusco.

    Presi fiore e biglietto e mi diressi verso la cucina, pronta a ricevere un’ulteriore sorpresa. Eppure, quando vi entrai, non scorsi nulla.

    Mi bloccai sullo stipite della porta.

    Tutte le mie aspettative crollarono nel giro di qualche secondo.

    Rassegnata, mi incamminai verso la credenza e poggiai fiore e biglietto sul bancone dove di solito facevo colazione. Attesi che Michael comparisse come per magia davanti al mio sguardo pregante, ma neanche quel desiderio fu esaudito. Presi un bicchiere vuoto e aprii il frigorifero alla ricerca del latte; dopo un attimo di perplessità cambiai idea, preferendo un po’ di succo di frutta.

    Aprendo l’anta del ripiano dove vi erano i biscotti mi congelai sul posto.

    Una cascata di sollievo e inquietudine fuoriuscì attraverso i miei occhi.

    Il cuore batteva all’impazzata: vicino al sacchetto di biscotti con il quale facevo sempre colazione, vi erano un terzo fiore e un terzo biglietto.

    Michael era la persona più sorprendente e imprevedibile che avessi mai conosciuto, in ogni senso.

    Lasciai i biscotti nel ripiano, prendendo quel tesoro nascosto e sedendomi su uno sgabello accanto al bancone. Aprii il fogliettino di carta bianca emettendo un sospiro pesante.

    La tua assenza mi addolora.

    Scossi il capo, accennando ad una risata sarcastica.

    Mi morsi il labbro e fissai i petali color porpora, piccoli ed estremamente morbidi al tatto. Li accarezzai con dolcezza, sfiorai la consistenza del gambo verde scuro, cercai il suo profumo ma la sua particolarità era proprio quella: non odorava. Quel fiore era la zinnia.

    Anche la tua assenza mi addolora…

    Mi sedetti sullo sgabello e bevvi il mio succo di frutta ammirando i fiori. Rileggessi più e più volte i bigliettini, fino a imprimerli forte nella memoria. La sua scrittura sembrava la cosa più bella che avessi mai visto. In sua assenza mi stringevo alla sua calligrafia e così facendo mi pareva di sentirlo a fianco, come se fosse fisicamente lì con me.

    Una musica soffusa e la dolce voce di Michael invasero l’ambiente circostante come per magia.

    Alzai la testa di scatto.

    Quel candido volteggiare di suoni richiamò la mia attenzione quasi brutalmente. Era una melodia delicata e armoniosa, quasi celestiale. La voce di Michael era celestiale. Così amabile che, in un qualsiasi altro contesto, mi sarei immediatamente sciolta.

    Con l’orecchio cercai di capire da dove provenisse e dedussi che non fosse troppo distante.

    Ascoltai le parole.

    La canzone parlava di una ragazza bellissima. La sua personalità era abbagliante e candida come la luce della Luna: per quell’uomo, lei era l’unica persona che gli potesse rendergli la vita migliore. Il suo cuore stava cadendo a pezzi, tormentato dalle mille chiacchiere e dalle accuse del mondo; su di lui era calata la notte, ma c’era quella ragazza, l’amore di una vita, a ricordargli come sorridere ancora.

    Non era una canzone suonata al pianoforte. Era registrata.

    Mollai tutto sul tavolo e corsi verso la sala, con uno scatto così veloce che ci misi due secondi per raggiungerla. Il mio sguardo vagò per tutta la stanza alla ricerca di Michael o di un altro indizio “floreale”. Il respiro sembrava far male ogni qualvolta questo fuoriuscisse dalle labbra.

    In salotto non c’era nessuno.

    Il grande impianto stereo era acceso e dalle casse rimbombava la melodia che avevo udito dalla cucina.

    Era come se Michael circondasse ogni cosa.

    Arrossii violentemente. Percepivo il suo abbraccio attraverso la sua voce, eppure mi sentii in imbarazzo. Non perché non volevo che mi pensasse in quella maniera, ma perché tutto quel suo sentimento mi mandava in crisi. Ogni residuo di collera veniva momentaneamente annientato, nonostante il dispiacere inglobasse ancora il cuore e lo stomaco.

    Sopra il pianoforte nero e lucido vi era un altro fiore.

    Questa volta era di un colore viola intenso, quasi lavanda, e lo riconobbi subito a distanza: era un giacinto. Quando mi avvicinai – con le gambe che tremavano considerevolmente – lo presi emettendo un gemito emozionato: il gambo era lungo e alcune foglie verde acceso spiccavano dal colore quasi incandescente dei germogli tubolari.

    Mi sentii scoppiare di gioia.

    Era lì, lo sentivo.

    Odorai il fiore dall’incomprensibile essenza.

    Afferrai l’ennesimo pezzo di carta che Michael mi aveva consegnato, nonostante conoscessi perfettamente il suo significato. Il naso mi pizzicò per la commozione.

    Perdonami, ti prego.

    No, non dovevo perdonargli nulla. Nulla di tutto questo. L’unica cosa che dovevo perdonargli era la sua malefica capacità di farmi innamorare di lui, di farmi impazzire per lui, di non essere mai in grado di farmi smettere di amarlo.

    Mi sedetti sullo sgabello accanto al pianoforte.

    Alzai gli occhi verso lo stereo e ascoltai attentamente ogni parola di quella canzone. La voce di Michael dapprima angelica diventava sofferente, e l’attimo dopo ancora si graffiava di un sentimento che non era rabbia, bensì una passione di sconsiderata bellezza.

    Non potevo crederci. Era tutto troppo assurdo.

    Sentivo che c’era.

    I miei occhi si diressero verso lo stipite della porta.

    E così era.

    La vista si bagnò di uno strato così spesso di lacrime che fu capace di accecarmi temporaneamente. Quello che riuscii a scorgere fu un Michael in jeans scuri, camicia nera e mocassini ai piedi. In mano teneva qualcosa, probabilmente un altro fiore.

    Mi asciugai con rapidità una lacrima scesa sulla guancia e abbassai lo sguardo sulle mie mani.

    Stavo per scoppiare a causa del batticuore. L’idea di avere i suoi occhi addosso per la milionesima volta mi dava una fitta alla stomaco. Non doveva chiedere scusa per qualcosa che, di colpo, non aveva più bisogno di essere perdonato.

    Mi fu accanto più velocemente di quanto potessi prevedere. Si chinò a terra con movimenti impercettibili e mi sfiorò una mano. Le sue dita arsero la mia pelle. Accarezzò il dorso febbrilmente.

    Lo guardai.

    Il suo viso era contratto in una morsa di dispiacere profondo. Aveva due solchi profondi al posto delle occhiaie, segno che non doveva aver dormito tutta la notte. Quegli occhi scuri e grandi richiedevano la mia totale attenzione, decisamente sull’orlo del pianto; sembravano abbracciarmi al posto delle sue braccia. Le labbra erano serrate e la mascella era irrigidita per l’emozione.

    Osservai cosa tenesse in mano e contemporaneamente mi asciugò le guance bagnate con quella libera.

    Sospirò tremando.

    Il mio destino è nelle tue mani.1

    Allontanai lo sguardo volgendo la testa a destra. Boccheggiai un attimo, cercando di riprendere fiato e di non scoppiare a piangere per l’improvvisa ondata di amore che avevo appena sentito scagliarsi su di me. Non era solo l’amore di Michael nei miei confronti, ma anche quello che io provavo per lui.

    Lo amavo immensamente, in una maniera spaventosa e devastante, tanto da perdere l’autocontrollo.

    Una camelia bianca...

    Pollice e indice s'adagiarono sul mio mento e lo attrassero a sé. Non feci alcuna resistenza, ma abbassai le palpebre per evitare di perdermi di nuovo. Mi prese il viso fra le mani e adagiò la fronte sulla mia.

    «Mi dispiace... mi dispiace tanto», mormorò con voce spezzata.

    Lo guardai. Una lacrima gli era scivolata sulla guancia sinistra e istintivamente gliela cancellai con due dita. Trattenne il fiato, serrando le palpebre per godere di quel contatto, e sapevo che stava resistendo al desiderio di baciarmi.

    «Non voglio che tu te ne vada... mai».

    Lo fissai.

    «Sei un’idiota», tirai su appena con il naso.

    Non riuscii a esaminare la sua espressione sollevata, poiché fu subito sulle mie labbra.

    Un gemito di arresa scivolò al di fuori della mia gola. Inspirai di lui, del suo profumo, dell’odore del giacinto e della camelia vicino a noi. Lasciai che i miei sensi memorizzassero le dita di Michael sul mio viso. Il dolore si lasciò sottomettere da un sentimento d’amore indicibile, un flusso di elettricità che dalla spina dorsale dirompeva nel resto del corpo.

    Mi aggrappai alle sue mani.

    Allontanandosi, sorrise debolmente. Gli occhi erano ancora lucidi, esattamente come i miei.

    «You know, she’s the Moon of my heart», cantò a voce bassa. «She brought light into my darkest nights».2

    Rabbrividii.

    Gli afferrai la camicia con entrambe le mani. «Promettimelo... promettimi che non lo stai dicendo tanto per dire, che lo pensi davvero. Promettimi che credi ad ogni cosa che mi hai scritto o detto».

    Le sue iridi di velarono di una contentezza abbagliante.

    «Te lo prometto», mi baciò ancora.

    Lo abbracciai e chiusi gli occhi.

    Mi accarezzò la nuca freneticamente. «Non abbandonarmi ora... I need you...»

    Mi strinsi nelle sue spalle.

    Tremai per l’ennesima volta. «Ti amo davvero».

    *

    «Credo che quella di settembre sarà l’ultima data prima dell’inizio del processo vero e proprio...», sospirò.

    Passeggiavamo tranquilli per il vialetto che costeggiava il lago, uno vicino all'altro, con le dita intrecciate in una stretta affettuosa. Il rumore di fontane lontane e di insetti canterini danzavano nell'aria assieme al vento fra le chiome degli alberi.

    Lo osservai preoccupata e addolcita al tempo stesso. L’ombrello che teneva nell'altra mano lo copriva dalla ferocia dei raggi solari.

    «Hai paura perché non puoi impedire che questo avvenga, giusto?».

    I suoi occhi erano persi sul sentiero ciottolato. Serrò le palpebre inspirando a pieni polmoni.

    «Ho paura che questo mi devasti per sempre...» ingoiò la saliva con una certa difficoltà, «e lentamente è quello che sta succedendo».

    Chinai il capo e pensai alla cosa più giusta da dire. Ma in realtà non c'era nulla che fosse capace di aiutarlo, neanche le parole. Mi sentivo inutile, ma speravo che Michael non lo comprendesse fino in fondo, per non farlo stare peggio di come stava. Il mio cervello continuava a lavorare freneticamente, alla ricerca di un qualsiasi tentativo per tirarlo su di morale. Gira e rigira mi ritrovavo sempre dinanzi ad un punto cieco.

    «Scusa...».

    Gli lanciai un’occhiata stranita. Michael strinse le labbra colto da un istantaneo senso di colpa. I suoi occhi divennero tristi e la sua espressione cupa.

    «Mi dispiace ferirti quando dico certe cose».

    Gli sorrisi dolcemente. «Non ti preoccupare. Non sei un peso per me. Anzi, scusa se non dico nulla, io – »

    Smise di camminare. «No, io mi preoccupo invece».

    Le sue iridi scure mi studiavano cariche di serietà e attenzione. Sapevo che per Michael cadere nello sconforto era normale, come era normale sentirsi sopraffatto dalla sofferenza. Ma forse non voleva che sprofondassi con lui…

    «Michael, ti capisco, sta tranquillo. So che...»

    «Che sono un idiota quando dico certe cose?»

    Assunsi un’aria buffamente pensosa. «Anche!», ridacchiai piano. «Ma non è con me che ti devi scusare...».

    Feci un passo verso di lui e gli strinsi la mano con più forza.

    Si accigliò con visibile scetticismo e si bagnò le labbra, ammirando distrattamente il lago in lontananza. Si smarrì nelle sue sfumature verde smeraldo e negli scintillii cristallini creati dal riflesso del Sole. Era arrabbiato con se stesso.

    «Qualche volta vorrei che non mi dicessi “Non ti preoccupare”. Qualche volta vorrei che ti infuriassi con me, che mi prendessi a pugni e mi dicessi che mi odi». Mi gettò un’occhiata indecifrabile. «Vorrei sentirmi dire cosa ti fa soffrire».

    Rimasi ad osservarlo per lungo tempo senza dire una parola.

    Abbassai gli occhi sulle nostre due mani che impercettibilmente dondolavano a destra e sinistra.

    «Mi dispiace...», mi morsi il labbro inferiore. «Io voglio soltanto esserti d’aiuto e non so come fare. Tutte le parole sembrano inutili…».

    «Non hai risposto»

    Alzai lo sguardo, confusa.

    «Uhm?»

    Quei suoi occhi mi fissavano costantemente.

    «Voglio che mi dici cosa provi, Sarah. Voglio che mi dici chiaro e tondo perché sei delusa da me, e lo so che lo sei».

    «Michael...»

    Mi mollò la mano e mi afferrò per le braccia.

    «Dimmelo. Dimmi sinceramente che ti sto facendo soffrire. Dimmi che non sono l’uomo che ti aspettavi fossi. Io non voglio più segreti».

    L’austerità di quel suo atteggiamento paranoico mi colpì in pieno petto. Le sue mani tremavano appena. I lineamenti del suo viso si erano induriti, ma gli occhi tradivano una sfumatura di sofferenza impressionante.

    Mi allontanai di qualche centimetro. «Mi fai soffrire quando dici questo...» bisbigliai. «E mi fai star male quando ti allontani da me. Perché capisco che non posso aiutarti, o che comunque continuerai a soffrire, non importa quanto amore cercherò di darti. Non faccio e non sono abbastanza».

    La voce tremò emanando quelle parole, ma riuscii a dirle senza abbassare lo sguardo.

    Michael ed io stemmo in silenzio per un po’, occhi negli occhi. Da tristi le sue iridi si fecero sempre più vuote. In seguito trasse un profondo respiro, chinò il capo un istante e lo ripuntò nuovamente sulla sottoscritta. Si umettò le labbra per una seconda volta.

    «Ti sbagli. Il tuo amore non è mai troppo poco per me. Se tu non ci fossi, non starei meglio di ora».

    «Dimostramelo», enunciai in un fiato. Il mio petto s'alzò e s'abbassò per l'ansia di quel discorso mai veramente intrapreso prima d'allora. «Non allontanarti. Lasciami rimanere al tuo fianco. Anche se non sarò sempre in grado di dire le cose giuste. Anche se non sarò in grado di comprendere cosa stai passando. Non lasciarmi fuori. Dimostrami che il mio amore è abbastanza dandomi la possibilità di starti vicino e di farti felice come posso».

    La vista mi si ovattò. Cominciavo ad odiarmi.

    Mentre i miei occhi si chinavano al terreno, le due mani di Michael si posarono sulle mie guance. Mi attirò al suo viso e mi scrutò con un’espressione provata.

    «Io ti amo, Sarah Anne Morris» disse con due stelle lucenti al posto dei suoi cieli oscuri. La sua voce era carica di sincerità. «E ti amo come non sarò mai in grado di fartelo capire. Ti chiedo perdono, perché non sono in grado di starti accanto come meriti. Ma non ti lascerò fuori. Farò di tutto per dimostrartelo».

    Michael mi regalò un sorriso luminoso, non appena captò una mia smorfia di divertito imbarazzo. Poggiai la fronte contro il suo petto colta da un improvviso moto d’affetto e timidezza.

    «Piccola...», mi richiamò affettuosamente.

    Le sue mani mi accarezzavano la schiena dandomi alla testa. Avevo la pelle d'oca mentre lui mi bisbigliava all’orecchio. Quando si comportava così, sapeva benissimo l’effetto che mi faceva.

    Infossai il viso nell'incavo del suo collo.

    «Alza quel viso, Moony...» mi scoccò un bacio sulla tempia «voglio vederti felice... desidero osservare la luce dei tuoi occhi quando ti dico che ti amo...»

    «Ma io mi imbarazzo, e lo sai».

    «Shhh...» mi zittì cercandomi la guancia con le labbra. «Ti prego... fallo per me».

    Avvampai. Alzai il capo tenendo gli occhi sul colletto della sua camicia un po’ sbottonata. Mi morsi le labbra per non ridergli in faccia: quando mi imbarazzavo, ridevo come una scema e per niente.

    «Non sarò mai capace di dirti quanto sei speciale per me...»

    «La vuoi smettere?» esclamai con gli fuori dalle orbite, mostrando un sorriso paralizzato dalla vergogna. Michael sorrideva fin troppo beatamente.

    Inclinò il capo da una parte con fare furbetto. Si morse un labbro e osservò il mutare del colore sulle mie gote. Dita affettuose vagarono dal mio collo alle labbra. Mi sistemò un ciuffo di capelli dalla fronte e infine mi baciò.

    Separò la sua bocca dalla mia con un sospiro, come se mi avesse dato una dolce carezza.

    «Sei bellissima quando ti imbarazzi...»

    Lo linciai divertita. «Ancora?».

    Mi ignorò bonariamente, bagnandosi l’angolo destro del labbro inferiore. «Sei proprio la Luna de – »

    Fece per finire la frase, ma gli misi una mano davanti alla bocca. Soffocai una risata e scossi il capo in segno di diniego. Rideva con lo sguardo, trionfante come un bambino che vince una medaglia d’oro per la prima volta nella vita. Lo faceva apposta e se la godeva.

    «Smettila» lo ammonii severamente. «Perché se continui così penso solo che ti diverti a prendermi in giro».

    Quando gli tolsi la mano dal viso si umettò la bocca ancora una volta e sorrise apertamente. Mi faceva andare fuori di testa. Ero sicura si divertisse un mondo, ma al contempo i suoi occhi scintillavano di sentimenti che mai avrei creduto che potesse provare per me.

    «Ti è piaciuta la canzone che ti ho dedicato?» domandò mentre mi avvolgeva il fianco destro con una mano. Non lo guardai. «Non mi hai detto nulla al riguardo».

    «Perché non saprei che risponderti» ammisi facendo spallucce e ridacchiando intenerita. Sospirai e chiusi gli occhi, appoggiando il mento sulla sua scapola. Il cuore era sul punto di esplodere. «Ti ringrazio. Non so descrivere cosa provo. Solo… grazie. È stupenda».

    «Vuol dire che possiedo le carte giuste per conquistarti» sussurrò piano, sorridente. «Ne sono davvero molto felice...».

    «Tu non hai mai avuto bisogno di conquistarmi. Non ne avrai mai la necessità».

    «Oh, sì invece...»

    Alzai gli occhi e notai uno sguardo improvvisamente triste. Corrugai la fronte e mi staccai dal suo petto per poterlo osservare meglio. Mi tenne stretto a sé, serio in volto.

    «Ho una grande paura di perderti» mormorò. Le sue iridi si bagnarono. «E allo stesso tempo desidero che questo mondo non ti faccia del male... che il mio mondo non ti faccia male».

    Schiusi la bocca per contestare, ma pose il pollice sulle mie labbra. Le accarezzò con devozione e occhi assenti.

    «Il mondo del business è una lotta continua. Qui si gioca al gatto e al topo, cercano in ogni modo di ucciderti... la stampa e non solo». Trattenne il respiro. «E io non ho intenzione che tu venga ferita, non per colpa mia». Mi prese una mano e ne baciò il dorso. Rabbrividii e lui lo percepì. Sorrise mestamente. «Ti meriti una vita decisamente migliore».

    «No», esclamai senza esitazione. «E non devi allontanarmi per forza»

    «Qualche volta penso sia la cosa più giusta da fare…», espirò debolmente.

    Mi scoccò un bacio sulla fronte e poi un altro ancora, e un altro di seguito. Il canto di migliaia di cicale riempì il silenzio per alcuni istanti.

    «La purezza che vedo in te non deve essere contaminata. E spesso penso di essere io la persona che ti può rovinare più di qualsiasi altro. Tenerti distante mi rincuora, ma poi impazzisco».

    «Forse è questo il punto», borbottai. «La mia apparente “purezza”», sorrisi senza divertimento.

    Aggrottò la fronte. «Che vuoi dire?»

    Scossi il capo, tentando di sfuggire alla sua stretta. «Forse è proprio questo che ami di me, la purezza. Quella che onestamente io non vedo, eh» risposi con enfasi, alzando le sopracciglia e le spalle.

    «Amo anche quella, sì», sentenziò duramente. «Ma il mio istinto di protezione nei tuoi confronti non nasce solo dalla voglia di difendere una qualità meravigliosa, ma anche una persona meravigliosa...». Era pacato e gentile, anche troppo. «Lo dovresti sapere molto bene...»

    Mi sfiorò una guancia e abbandonai la testa sul palmo della sua mano, per poi allacciare le mie dita all’altra che teneva libera lungo il mio fianco. Un misto di dolcezza e rammarico pitturò il suo viso scolpito. Quella volta fu lui ad evitare di guardarmi negli occhi.

    «Faccio di tutto per conquistarti. L’ho sempre fatto da quando mi sono reso conto di amarti. Ogni piccolo gesto è rivolto a te, per attirare la tua attenzione. Eppure l’amore non è mai stato il mio forte. Poche storie serie, diversi rapporti occasionali, non una relazione che duri in eterno. Anche a me l’amore vero fa paura, perché temo di non essere in grado di gestirlo».

    In un primo momento non ci credetti, devo essere sincera.

    «È strano», ridacchiai accigliandomi, mentre Michael guidava le mie mani sulle sue scapole. «In fondo siamo accomunati dalle stesse fisime...».

    «Tu le mostri di più», proferì lambendosi le labbra.

    Feci una strana smorfia.

    «E tu invece non lo mostri come faccio io...».

    «Solo perché non lo espongo non significa che non abbia questi complessi». Sorrise. «Io lo nascondo per essere forte per te».

    «Be’, qualche volta non esserlo» borbottai arrossendo. Lo fissai un po’ immusonita. «Dammi qualche ragione per credere che io faccia lo stesso effetto a te».

    Sorrise a trentadue denti. «D’accordo».

    Mi afferrò i fianchi. Dita esperte massaggiarono la mia carne dopo essersi intrufolate sotto la canottiera. Tutto ciò mi donò un brivido di piacere ed entusiasmo che dal basso ventre si diresse lungo la spina dorsale e infine sostò sulle tempie; lì il sangue bollì per quella gradevole agonia, mentre le sue mani salivano e scendevano costantemente e mi accarezzavano con lentezza. Gli scoccai un dolce bacio sulla guancia e lo percepii rabbrividire.

    «Ho deciso che non rimarrò qua».

    Si irrigidì.

    Si allontanò per guardarmi dritto negli occhi. «In che senso?»

    Mi staccai dal suo petto e mi incamminai verso un albero poco distante. Distante pressoché trenta centimetri dalle sue radici, mi sedetti sull’erba asciutta. Ricambiai l’occhiata di Michael – che non si era minimamente mosso dal posto – e fui colpita in pieno viso da un raggio di sole e da un lieve e tiepido venticello.

    Ero convinta. Quell’estate non sarei rimasta nella stessa casa con Michael e i bambini.

    L’inconscio mi diceva che avevo preso la scelta giusta.

    Era dura allontanarmi da loro. Che stessero a Beverly Hills o a Neverland non cambiava niente. Il solo pensiero mi intimoriva, ma... era la cosa più sensata da fare. Non avrei rischiato di dare sospetti con la mia presenza e avrei mantenuto quel poco di libertà che l’esperienza mi aveva consigliato di custodire preziosamente.

    «Penso di aver trovato “un’ipotetica casa” in cui stare per l’estate. I pro sono che è una dimora economica, vicinissima a Los Angeles». Strinsi le labbra in una smorfia rammaricata. «Il solo e unico “contro” è che non potremo organizzare incontri segreti».

    Michael non fece una piega. Era dove lo avevo lasciato.

    «Non ti andrebbe di rimanere in un residence per ospiti qua a Neverland?»

    Scossi il capo.

    «No, mi dispiace» dissi piano. «Non voglio essere segregata come una prigioniera, sapendo che tu e i tuoi figli sarete lontano per la maggior parte del tempo».

    Non ero scema e sapevo bene che Michael viaggiava per lavoro e spesso, nei mesi scorsi, lo avevo seguito. Ma questo solo perché ero la maestra di Prince e Paris. I bambini non potevano rinunciare all’istruzione; quell’estate non avevo più scuse per seguirli.

    «Non sarai segregata...», mormorò.

    Mi venne vicino, a passo lento e pesante, e si sedette accanto a me senza far rumore.

    Dissentii con la nuca e gli scoccai un’occhiata eloquente e un po’ addolorata.

    «Credo che sia meglio così».

    Egli mi studiò senza un minimo di gioia. Lanciò un’occhiata vacua al lago e un sopracciglio gli si inarcò appena.

    «Se lo dici tu...».

    «Sì, lo dico io». Il mio tono di non ammetteva repliche. «E non hai ragione di offenderti».

    Mi squadrò a fondo. «Mi offendo perché la mia intenzione non è renderti prigioniera», sottolineò. Inclinò busto e capo in mia direzione. «Io ti amo».

    Sorrisi appena e gli diedi un bacio sulla gota. Non chiuse gli occhi, ma lo percepii addolcirsi per quel mio gesto inaspettato.

    «Lo so, Michael. Ma rispetta le mie decisioni...», mormorai teneramente. «Solo perché mi ami non significa che voglio dipendere da te per sempre. Non è nel mio carattere. E non trovo l’utilità di rimanere a Neverland o a Beverly Hills, se non servo come maestra».

    Storse le labbra e il naso con lieve disapprovazione, ma non ribatté.

    Sospirai e passai le dita tra i fili d’erba del prato. Quel contatto mi riportò al 25 gennaio, il giorno del mio compleanno, quando io e Michael avevamo giocato tutta la notte fingendo di essere due bambini mai cresciuti.

    «Tanto non staremo lontani per molto, no?», lo guardai speranzosa, esibendo un sorriso stirato. «Non ci perderemo di vista... una breve separazione non può far altro che aiutarci... spero...».

    Michael rimase a fissare il vuoto. Voleva quello che voleva a tutti i costi.

    «Spiegami il senso», esclamò con rammarico. «Spiegami come farò a raggiungerti tranquillamente, senza timore d’essere scoperto».

    Chinai lo sguardo. «Non ne ho idea...»

    Adagiai il capo sulle ginocchia che tenevo strette al petto.

    Passò un po’ prima che uno dei due parlasse.

    «Ti trovo io una casa».

    Mi volsi. «Cosa?»

    Michael era sereno. Mi guardava intensamente, ma ogni traccia di turbamento era svanito.

    «Te lo trovo io un posto dove stare, non importa quanto costerà. La troverò e potrò venire a trovarti quando voglio, anche tutte le notti e i giorni, se vorrai».

    Arcuai un sopracciglio.

    «Non voglio che mi paghi niente».

    Mostrò una faccia da poker.

    «Non me lo hai chiesto infatti, mi sto offrendo io», scrollò le spalle.

    Tentai di ribattere, ma mi bloccò posandomi indice e medio sulle labbra, di nuovo. Mi accarezzò con i polpastrelli e la mia voglia di ribattere si affievolì subito, per mutare nella struggente voglia di baciarlo.

    «Lasciami pagare almeno metà delle spese» bisbigliò sorridente. Mi guardò la bocca e il mento a lungo. «Sarà come se io e te fossimo sposati, come se di giorno io andassi a lavoro e alla sera tornassi a casa da mia moglie...». Mi osservò con fare furbino e mi sistemò la spallina della canotta. «Le coppie fanno così, di solito...»

    Arrossii. «Non potrai mai venirmi a trovare tutte le sere».

    In tutta risposta sorrise.

    Che paraculo.

    «E se tu mi trovassi una casa e poi pagassi tutto io? Ti ricordo che non sono messa male con i soldi… ho accumulato abbastanza in questi anni. Ho sempre conservato la maggior parte dei miei risparmi per le emergenze».

    «Assolutamente no».

    Espirai, esausta.

    «Metà allora. Prendere o lasciare».

    Ci fissammo a lungo. Nessuno dei due abbandonò il contatto visivo. Ad un certo punto, però, si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore e mi fissò la bocca. Non capivo se fosse intenzionato a saltarmi addosso o a ponderare seriamente riguardo la mia proposta.

    Si lasciò andare ad un sospiro rassegnato e scosse la testa, sorridendo.

    «D’accordo...».

    Mi scoccò un’occhiata che non mi convinceva per niente; non c’era solo amore in quello sguardo, ma anche malizia. C’era divertimento, ansia, ma soprattutto desiderio. Entrambi sapevamo che avere una casa tutta mia significava avere l’occasione giusta per...

    «Farò il possibile per non lasciarti fuggire da me».

    Reclinando il capo in avanti, mi si avvicinò e mi baciò sulle labbra.

    «Anche se fai la testarda…» bisbigliò ridente. «Anche se sei talmente insopportabile quando sei così cocciuta…». Mi allontanai a causa del fischio causato da un suo bacio al mio orecchio. Mi grattai per il fastidio e lo allontanai ridendo, dandogli una lieve spinta sul braccio. Rise anche lui. «Ma mi hai stregato anche per questo».

    «Ceeerto, le sfide ti piacciono», sorrisi accigliandomi.

    Gettò un’occhiata ammirata all’evidente scollatura sul seno.

    «Penso che tu abbia ragione...».

    Non aveva minimamente ascoltato quello che gli avevo detto.

    Rotolò una ciocca dei miei capelli attorno al suo indice e mi scoccò un altro bacio a fior di labbra.

    «L’angelo non si lasciò sfuggire la principessa Selenite. Vegliò sempre su di lei. E io farò lo stesso con te… la mia bellissima principessa...». La sua bocca scese piano e mi lambì il collo con dolci carezze. «La mia regina...»

    Stava decisamente vaneggiando. E io ero sulla buona strada per seguirlo.

    «E tu...» emanai con respiro strozzato, sorridendo maliziosamente. «Tu saresti l’Arcangelo?»

    Alzai la gamba sinistra e, torcendo il busto in sua direzione, l’allacciai sopra la sua coscia. Inclinai il torace in avanti, appoggiando il seno sul braccio con cui si reggeva col peso. Michael abbassò una spallina della canotta e del reggiseno e vi avvicinò la bocca, respirando sopra la pelle nuda. Tremai. Il ventre si contrasse, mentre il seno veniva scosso da alti e bassi continui durante l’incauta ispezione che le sue dita stavano compiendo.

    «Ovviamente».

    La mano con cui mi aveva abbassato le spalline afferrò la mia coscia e la strinse dolcemente. Inarcai la schiena e infilai le dita fra i suoi capelli, sorridendo con aria sorpresa.

    «Ma quanto siamo sicuri oggi...», mormorai velatamente, fissandolo umettarsi le labbra, «il re in cui quell’angelo si è incarnato era molto umile, modesto, sensibile, leale, buono, e anche sincero...».

    Mi baciò. «Perché? Io non lo sono?».

    Sorrise e quegli occhi grandi mi assaporarono con una sola occhiata. Accennai ad una smorfia non convinta. Gli sfiorai appena la fossetta del mento con le labbra e Michael mi afferrò la coscia con più forza.

    «Non sono forse tutto questo per te...?».

    Lo percepii sorridere frattanto che affondavo il viso nell’incavo del suo collo.

    «Assolutamente».

    Mollò la presa della coscia e avanzò lungo la spina dorsale. Con un solo dito tracciò una linea dritta dal basso verso l’alto. Uno stuzzicante formicolio invase la mia femminilità. Inarcai il corpo e trattenni un gemito eccitato, chiudendo gli occhi.

    «Bene... molto bene...».

    Due polpastrelli si posarono sulle guance della sottoscritta e dolcemente le diressero verso la bocca di Michael. Il fiato s’interruppe con un roco mugolio d’arresa, mentre le nostre lingue s’univano in gentili carezze, uno scorrere di vibrazioni che dal cuore prorompevano in tutto ciò che eravamo, estraniandoci dal resto del mondo.

    Si separò con un sorriso sbarazzino, lasciandomi scombussolata. Mi baciò sul naso.

    «Tu la mia principessa, e io...»

    «Il mio re?»

    «Se vuoi che sia il tuo re, per me va bene. Sarò tutto quello che vuoi... un re...», affondò sulle mie labbra sorreggendomi il collo con una mano. Quando si allontanò entrambi lasciammo uscire un sospiro eccitato. Mi fissò. «O lo schiavo del tuo cuore...».

    «Non mi piace l’idea che tu sia uno schiavo...», arrossii.

    «Preferisci esserlo tu...?», agguantò la mia coscia destra nel giro di un secondo. «Vuoi essere sotto il mio potere?», scoprì i denti in un sorriso sghembo.

    Quello straordinario dolore all’intimità si fece più forte.

    «Si può sapere a che gioco di ruolo erotico stai giocando?», risi. Tentai di scampargli scostando il volto dal suo. «Lo fai apposta!», lo rimproverai con un pigolio imbarazzato.

    Rise.

    «Ti amo, Sarah».

    Quello sguardo distrusse ogni domanda, ogni lacrima, ogni paranoia, ogni utopia, ogni preconcetto, ogni turbamento, ogni maledetta insicurezza riguardante il mio amore per lui.

    «E io invece no!», gli mostrai la lingua.

    Assunse un’espressione scioccata e cominciò a torturarmi con il solletico e un sorriso spietato. Il respiro scemò e risate elettrizzate scoppiettarono nella quiete circostante. E infine labbra contro labbra, un abbraccio, e un altro incontro di sospiri.

    Quando arrivò il giorno della mia partenza, fortunatamente me ne andai senza troppo dolore nell’animo.








    1 Tutte le definizioni dei fiori sono tratte da un libro chiamato “Il Linguaggio Segreto Dei Fiori"
    2. La canzone non esiste. È stata creata dalla sottoscritta di proprio pugno – “testo” compreso.
  14. .
    Capitolo Trentaquattro: L'Oblio


    «È inutile che continui» esclamai ridendo. «Tanto non mi convinci!»

    Entrai dentro in casa seguita da Michael alle mie spalle.

    «Sei davvero antipatica», ridacchiò. Chiuse la porta d'entrata. «Io guido magnificamente!»

    «Ha!».

    Mi avviai rapidamente verso lo sgabuzzino sotto le scale, in cui avrei riposto la giacchetta che mi ero portata dietro quel pomeriggio. Non che facesse freddo – anzi – ma il mio era un gesto incondizionato. Eravamo tornati a Neverland, visto che era sabato. I bambini avevano passato tutto il pomeriggio con alcuni dei loro cuginetti – alcuni di questi presenti anche alla festa di compleanno di Janet.

    Gli lanciai un'occhiata furbetta, ricambiata dall’espressione rapita di Michael che osservava accuratamente il mio...

    «Come no!»

    Misi mano alla maniglia della stanzina isolata, spalancando la porta per fare entrare un po’ di luce. Mi avviai verso il primo appendiabiti libero.

    Avevo appena fatto fare una guida a Michael. Il risultato non era stato dei migliori. Mi aveva convinto con quegl'occhi grandi e preganti e io non avevo avuto il coraggio di rifiutare, finendo così per pentirmene amaramente. Era un pericolo come guidatore; pigiava l’acceleratore al massimo, incurante delle curve o dei possibili ostacoli in mezzo alla strada, frenava e cambiava marcia di botto. Era uno sconsiderato.

    L’unica cosa che potei fare – se non a dire inutilmente “Michael, rallenta” o “Michael, la mia macchina non è un trattore” – fu quella di appigliarmi alla maniglia sopra il sedile. Quando arrivammo ad un certo traguardo e fermò la macchina, scesi e m’inchinai a terra gridando “Sono viva!”. Aveva riso come un matto.

    «Tu non credi nelle mie capacità di guidatore».

    «Già!», mi voltai e gli presi la giacca che teneva in un braccio. Me la porse senza smettere di fissarmi. «E sinceramente faccio bene! Sei una minaccia per la mia incolumità!»

    Appesi la sua giacca nera e lucida sopra la mia. Non ci badai molto, ma Michael stette in silenzio tutto il tempo. Non rispose. Nel momento in cui mi girai per uscire dallo sgabuzzino lui aveva fatto qualche passo in mia direzione, tenendo una mano sulla maniglia della porta.

    Gli occhi di Michael incrociarono i miei con un enigmatico bagliore.

    «Sul serio?»

    «Sì», annuii convinta.

    Sorrise volgendo in basso lo sguardo. Si bagnò le labbra frettolosamente, poi mi porse una mano e attese che gliela prendessi. Con il cuore che batteva dall’emozione mi avvicinai. Michael si morse un labbro, respirando a fondo non appena mi percepì accanto.

    La mano che mi aveva attirato a sé scivolò verso il mio fianco. Mi fece avvicinare al suo bacino con un solo passo. Sbattei il seno contro il suo torace.

    «Mi piace molto…»

    Chinò il capo verso l’incavo del mio collo, vi affondò il viso e lo baciò; la mano avanzò lungo la mia natica. Buono, delicato... un bacio lungo e saporito. Tutto questo come la scena di un film: a rallentatore.

    Tremai socchiudendo gli occhi.

    «Cosa...», annaspai piano, ingoiando la saliva. «Cosa ti piace...?»

    Sorrise. «Mi piace farti impazzire».

    Gettai un’occhiata alla porta che si chiudeva. Non riuscii a dire niente per impedire che questo non avvenisse: non parlai, non mi mossi, lasciai che quei baci assaggiassero ogni parte del collo, salendo e scendendo, non risparmiando nemmeno un centimetro di pelle.

    «Michael...», gemetti sentendo una contrazione al basso ventre.

    Un rumore di porta che si chiude improvvisamente, il buio che scende su tutto, uno scatto di serratura. Capii tutto. Cercai febbrilmente le sue labbra, misi una mano sul suo collo e una fra i suoi capelli neri. Inarcai la schiena. Un gemito fuoriuscì dalla gola nel momento in cui percepii la sua lingua nella mia bocca, navigando in me. Quella stanza sembrava improvvisamente troppo piccola, ancora più piccola di quanto non lo fosse prima che perdessi la ragione.

    Michael mi strinse i fianchi con le dita. Sospirò pesantemente.

    «Parlami...», disse con voce roca. «Parlami ancora... voglio sentirti...»

    Ebbi le vertigini. Feci un passo indietro e Michael mi seguì. Mi appoggiai al muro in mattoni rossi.

    «Mio Dio...». Il petto si alzava e si abbassava. Avevo paura che il cuore scoppiasse. «Non riesco...».

    Le mani di Michael avanzarono lungo la zip dei pantaloncini e l’abbassarono, infilando le dita di una mano al di sotto della stoffa, rimanendo comunque sopra la biancheria. La mia gamba destra si alzò e puntai il piede contro il muro. Michael l’afferrò con energica affettuosità e l’accarezzò a lungo. La pelle di entrambi scottava. Le nostre labbra si separarono solo per prendere il fiato necessario.

    «Ti prego...», gemetti.

    Inclinai la testa all’indietro e Michael riprese a lambirmi il collo. Con una mano si diresse verso la schiena intimandomi silenziosamente di appoggiarmi al suo petto. Lo feci emettendo un altro mugolio disperato.

    «Ti voglio...», disse in un sospiro spezzato dal desiderio. Lo immaginavo ad occhi chiusi, e fantasticavo su cosa mai i suoi istinti gli stessero urlando in testa. «Ti voglio mia...»

    Tentò di slacciarmi il reggiseno e io lo aiutai. Quando sentii di avercela fatta mi rilassai, Michael lo intese e scivolò piano verso i due seni. Sentivo il suo gonfiore a contatto con la mia intimità.

    «Michael...»

    Dire il suo nome era l’unica cosa che mi riuscisse bene. Mi sentivo straordinariamente vulnerabile.

    Prese il seno sinistro con il palmo di una mano. Lo massaggiò, lo alzò, ne sfiorò il capezzolo e lo inturgidì più di quanto già non fosse. Lo premette contro il mio petto, lasciò un po’ la presa, e poi ricominciò da capo.

    «Parlami...», gemette. «Dimmi cosa vuoi che ti faccia...». Michael si piegò in basso e io gli lasciai la presa del suo fianco, drizzando la gamba. «Eccitami»

    Volevo che mi facesse impazzire. Volevo impazzire.

    «Per favore...». Mi sostenni alle sue spalle. «Ti amo...»

    «Non è abbastanza...», annaspò.

    Lo percepii chinarsi un po’ verso terra. Le dita avevano ancora il mio seno in possesso.

    «Ti prego», piagnucolai. Le mie dita tremarono cercando le sue guance. «Fammi quello che vuoi – fai tutto, Michael –, non importa... basta che... ti voglio...»

    Non sapevo più dov'ero, nemmeno che ore fossero. Stavo delirando. Stavo delirando e non sembravo io, ma non mi interessava. Non interessava nemmeno a Michael. Anche se immerso nel buio, potevo immaginarlo sorridere compiaciuto.

    Finalmente, dopo aver sollevato la maglietta e il reggiseno, la bocca si posò sul mio seno sinistro; gli diede piccoli baci e lo frizionò con la lingua; nel frattempo l’altra mano si apprestava a slacciarmi i jeans. In pochi istanti mi parve di svenire. Gemetti.

    Le dita si addentrarono al di sotto delle mutandine e fui scossa da un prolungato fremito. Lasciai andare un sospiro pesante. Fu dentro me in pochi secondi, senza esitare. Massaggiò, mi tormentò, affondò in me e si allontanò, entrò e uscì piano, continuamente. I muscoli si contraevano mentre scivolava nei segreti e umidi meandri del mio corpo. La voce della sottoscritta, incrinata dal piacere, si alzava lenta nell’atmosfera – a volte più acuta, altre volte più bassa e straziata, altre ancora più passionale e sensuale.

    Mi abbassò anche la biancheria.

    Di colpo emisi un piagnucolio di gioia, percependo la lingua di Michael in quel luogo. Mi aggrappai a due appendiabiti vicini, mugolando di piacere. S’infilò dentro di me e assaggiò i miei umori, cercò il mio punto debole e lo coccolò. In seguito si aiutò anche con due dita.

    Mi aveva in pugno.

    Le mie sottili urla lo facevano diventare pazzo.

    «Michael...», mugolai senza fiato. I ritmi erano sempre più frenetici, le pressioni erano aumentate ed ero quasi al culmine. Tutto troppo presto. «Michael... ti voglio ora...»

    ... e poi si fermò.

    In silenzio, pur sapendo che non mi avrebbe visto, spalancai gli occhi dalla sorpresa.

    Chinai il capo, ansimando. Un debole bagliore di luce proveniva dall’impercettibile fessura fra il pavimento e la porta. In un attimo avevo ripreso quasi tutta la lucidità. Il volto si era allontanato dal mio sesso. Michael si era alzato impercettibilmente, ma non aveva atteso che riprendessi fiato per baciarmi. Tutto più passionale, tutto più velocizzato. Le mie mani s’inserirono sotto la sua maglietta. Con un mugolio si avvicinò al mio ventre – la sua eccitazione così palese e concreta contro il mio corpo. Si abbassò i pantaloni fino a metà coscia.

    «Toglimeli, ti prego...».

    Obbedii. Le mani erano smaniose, ma il mio cervello era totalmente andato; glieli abbassai fino alle caviglie, obbligandomi a sedermi a terra come anch’egli aveva fatto poco prima, puntando le ginocchia al pavimento.

    Mordendomi un labbro cercai anche di abbassare la sua biancheria molto lentamente. Michael mi lasciò fare senza protesta e sentii un rauco respiro fuoriuscire dalle sue labbra. Si appoggiò alla parete a cui io stessa davo le spalle, tenendosi sugli appendiabiti.

    Le mie mani arrancarono da sole alla ricerca della sua eccitazione. Quando lo sentii, era eccitato – rigido e scalpitante come non mai. Cercai di concentrarmi solo sul gioco che dovevo apprestarmi a compiere. Michael cominciò a rantolare, mi tenne il capo con una mano e affondò le dita nei capelli mentre io affondavo in lui.

    Dapprima piano e dolce. Le sue preghiere di sottofondo, che mi inducevano a continuare. Poi divenni più sensuale, più sicura e più curiosa. I miei deboli respiri colpivano la sua pelle. Mi lasciai guidare dalla presa che energica ma non arrogante mi teneva stretta a lui.

    «Oh Dio...», si appoggiò di nuovo alla parete. I suoi piagnucolii mi davano lo stimolo giusto per torturarlo. «Sarah...»

    I gemiti di Michael e i miei riempivano il silenzio. Non pensai a cosa avrei fatto se i bambini – che erano con Grace – sarebbero tornati a casa di punto in bianco. Ma in quel caso li avremmo sentiti subito.

    «Sarah...», lo sentii biascicare. Lo percepivo tremare. Emise un sottile grido estasiato. «Sto per...»

    Compresi.

    Lo lasciai venire.

    Poco dopo respirai a fondo, ridando finalmente un po’ di ossigeno ai polmoni. Egli arrivò al picco sussurrando un flebile mormorio di assenso. Dentro di me pensai stesse sorridendo appagato.

    Mi dette cenno di alzarmi accarezzandomi una guancia. Nel mentre, lui si rivestì in silenzio, senza il benché minimo imbarazzo. Il suo petto era ancora scosso dai tremori quando posai le mani sulle sue spalle, baciandolo sulla guancia.

    «Sapevo che prima o poi... questo sgabuzzino sarebbe stato utile...»

    «Non ti era utile già da prima?», domandai in un sussurro, sorridendo.

    «No...», sentenziò piano, sorridendo a sua volta. Mi dette un bacio sul naso e io ridacchiai. «Ci ho pensato solo la prima volta in cui ti ho portato qui dentro con me...».

    Lo baciai. «Pensavi a me in questo modo già allora?»

    Trattenne il fiato, emise uno spasmo di risata sorda e sensuale. «Non sai quante volte ti ho pensato così...», i polpastrelli scivolarono sui miei glutei. «Solo per me...», inspirò il mio profumo, «la tua pelle... così morbida come la immaginavo... il tuo sapore...»

    «Michael, ti prego...», esclamai a voce incrinata, «fammi venire...»

    Percepii il suo tenebroso silenzio e in seguito si chinò a terra per la seconda volta. Non se lo fece ripetere due volte. Due dita avanzarono verso la mia femminilità e si addentrarono in me nel giro di qualche secondo. Gemetti quando lo sentii avvicinarsi con il capo, ritornando in quel oblio senza fine apparente.

    *

    «Biancaneve non ci pensò ulteriormente: prese scopa e strofinaccio e di buona lena ripulì ogni cosa» enunciai in tono affabile e dolce. «Poi salì al piano superiore e vi trovò sette lettini in legno. Su ciascuno era inciso un nome: Dotto, Gongolo, Eolo, Cucciolo, Brontolo, Mammolo e Pisolo. “Che strani nomi!” pensò Biancaneve.»

    «Sì» ridacchiò Prince stringendosi al mio petto, adocchiando la sorella anch'ella rannicchiata su di me. «Mooolto strani».

    Sorrisi. Sciolsi le gambe dalla posizione a farfalla e adagiai i piedi sul tappeto, tenendo il libro obliquamente sulle cosce. Mi sistemai meglio sul morbido schienale del divano.

    Una goccia di sudore mi imperlò la fronte. Una lieve e calda brezza pomeridiana accarezzò i capelli. Le finestre del terrazzo del salotto erano aperte, i raggi solari battevano scottanti sul terreno attraversando le folte chiome degli alberi in giardino.

    Eravamo solo ad inizio giugno e sembrava che fossimo in pieno agosto.

    «Poi, siccome era molto stanca, si distese sui lettini e si addormentò. Gli abitanti di quella casa erano sette nanetti, i quali lavoravano in una miniera di diamanti molto vicina. Rientrando, trovarono Biancaneve e decisero di ospitarla, raccomandandole di essere estremamente prudente per via della regina cattiva».

    I bambini seguivano assiduamente la lettura, esaminando le immagini che riempivano quasi completamente ogni pagina del libro. Eravamo solo noi tre. Blanket dormiva nella sua cameretta tenuto d'occhio da Grace. Michael, invece, aveva un impegno di lavoro importante a cui non poteva rinunciare.

    In quei giorni le cose fra noi erano... vaghe. Non ci ignoravamo ma neppure passavamo molto tempo assieme. Gli attimi di tenerezza si erano ridotti notevolmente. Dapprima dolce e affettuoso, poi sempre più impegnato e notevolmente più distaccato. Michael mi sorrideva, mi lanciava tenere occhiate, ma era strano. Assente. I suoi baci erano flebili, veloci.

    Non sapevo neppure io cosa pensare. Sapevo che dovevo parlargli, ma non mi lasciava l’occasione per farlo.

    «Un brutto giorno la regina cattiva chiese di nuovo allo specchio chi fosse la più bella del reame. E lo specchio magico le rispose:Al di là dei sette monti, al di là delle sette valli, c'è la casa dei sette nani, in cui vive Biancaneve che è ancora assai più bella di te”»

    Paris sghignazzò teneramente. «Sei buffa quando imiti la voce dello specchio!»

    Mi accigliai.

    «Ahhh», sorrisi divertita. «Io sarei buffa?»

    «Tanto!» sbottò Prince scaturendo la risata della sorella. Si morse le labbra e mi lanciò un'occhiata curiosa e allegra, tipica dei bimbi che avevano appena fatto un malanno.

    «Bene, bene...» mormorai. Finsi di essermi offesa, chiudendo il libro. «Vediamo se dopo questo mi pensate ancora che io sia buffa...!»

    Le mie mani scivolarono lunghi i fianchi delle due povere vittime innocenti. Dalle labbra di entrambi s'innalzarono subito schiamazzi e risate acute; cercarono di reagire ricambiando il solletico, ma io fui abile, ossia finsi che il loro tentativo di farmi ridere fosse estremamente vano.

    Mentre mi voltavo verso Paris, vidi la figura di Michael apparire dal corridoio. Il mio sguardo si bloccò su di lui, incantato, e così anche il resto del corpo.

    La sua entrata in scena fu capace di far volteggiare il cuore su se stesso. Ma percepivo qualcosa di diverso... anzi, lo vidi chiaro e tondo nel suo viso un po’ incupito e nelle mascelle serrate... per quanto eccitante fosse, vestito in smoking nero e camicia verde scuro, qualcosa non andava per niente.

    «Daddy!»

    Prince saltò in piedi sul divano.

    Il padre sorrise, avanzando veloce verso di noi. Indossava occhiali da sole spessi e scuri che lo rendevano ancora più freddo. Non seppi dire se mi guardò, se quel sorriso fosse in parte rivolto anche alla sottoscritta.

    Prince e Paris si alzarono andando incontro al loro papà. Michael si chinò a terra per poterli tenere fra le braccia.

    «Lo sai» cominciò il più grande «Sarah ci stava leggendo di Biancaneve!», mi puntò sorridente. «Ma non l'abbiamo finita perché ci siamo fatti il solletico!»

    Michael rimase imperturbabile, strinse le labbra in un sorriso di cortesia. C'è qualcosa che non va davvero, pensai.

    «Lo vedo».

    Tentai di non crucciarmi più del dovuto. Ripresi il libro fra le mani, ma i miei occhi non si distolsero dall’immagine seria e composta di Michael.

    «Zia Sarah rimarrà con noi come Biancaneve è rimasta con i nani, vero?» domandò Paris, inclinò il capo verso quello del papà. «Nessuna strega verrà a prenderla?»

    Michael fece per togliersi gli occhiali e li infilò nella camicia sbottonata; nel mentre, apparendo totalmente indifferente al quesito posto, rispose: «No, probabilmente se ne andrà molto presto. La scuola è finita».

    Di colpo qualcosa nel petto venne infranto come uno specchio che viene gettato a terra con violenza. Non respirai neanche per il trambusto che provavo dentro. I bambini mi osservarono dispiaciuti.

    «Perché vai via, Sarah?»

    «Non puoi rimanere qua a Neverland con noi, zia?»

    Ma le loro domande furono parole dette al muro. Il mio sguardo vacillò. Li guardai per cercare di capire se quello che avessi udito fosse vero. Che io sapessi di dovermene andare era ovvio. Non era quello che – diciamo – “mi aveva ferito”. Era il più totale menefreghismo, l'aria di sfacciata indifferenza nei miei confronti.

    Non avevamo nemmeno avuto il tempo di parlare del mio trasferimento. Mi ero arrangiata da sola in quei giorni, cercando una bella sistemazione nelle vicinanze, preferibilmente isolata da altre ville, così che Michael e i bambini sarebbero potuti venire a trovarmi senza dare il minimo sospetto o preoccuparsi di essere visti. Lo avevo fatto perché pensavo che Michael fosse convinto di non volermi allontanare completamente.

    Mi sentivo stupida.

    Michael prendeva l'iniziativa senza di me. Non chiedeva nulla, faceva tutto lui. E aveva comunicato quella notizia senza il benché minimo accenno di gentilezza o cordialità.

    Mi gettò un'occhiata che intercettai subito. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. La mia reazione a quel suo cipiglio investigatore ed indifferente fu uno sguardo di celata delusione.

    Ripose l’attenzione sui suoi bambini.

    Prince e Paris continuarono a parlare a vuoto per un paio di minuti. Né io né Michael eravamo disposti a parlare. Quest'ultimo osservava i suoi figli distrattamente. Non dava segno di vero e proprio coinvolgimento emotivo.

    «Papà, perché oggi sei così serio?» mormorò Paris avvicinandosi mestamente. «Stai poco bene?»

    Michael sbatté le palpebre e si scosse dai suoi pensieri.

    «Scusa principessa» accennò un sorriso dispiaciuto, «Non è niente. Stavo pensando a cosa potremo fare tra poco... che ne dite di andare a fare una passeggiata fuori?»

    «Ma fa caldo!», Prince corrugò la fronte.

    «Allora potremo fare un bagno in piscina, assieme a vostro fratello Blanket. È da un po’ che non usiamo la piscina di Neverland» batté le mani sulle proprie ginocchia. Respirò a fondo, sorridendo lieve. «Che ne dite?»

    Stava cercando in tutti i modi di convincerli a uscire da quella casa. E allo stesso modo non dava attenzioni alla sottoscritta neanche per sbaglio.

    Perché?

    Prince e Paris accettarono la proposta e Michael si alzò per salire al primo piano e andare a prendere Blanket. Se ne andò senza salutare. Anche i bambini fecero per alzarsi e seguirlo ma si bloccarono subito, osservandomi. Non avevo il coraggio di affrontare quei loro grandi occhi dolci e preoccupati.

    «Vieni con noi, zia?»

    Scossi il capo, sorridendo. «No, grazie piccoli».

    Paris mi venne incontro e fece per prendermi la mano.

    «Ma ti divertirai! Fa caldo!»

    La guardai con un’occhiata rammaricata. Non ebbi la forza per rispondere subito, lasciai scorrere qualche secondo e mi schiarii la gola.

    «No, io – »

    «Sei triste perché non rimarrai con noi?», domandò Prince. «Per quello non vuoi venire?»

    La vista s’offuscò malgrado lo sbigottimento per quella frase.

    «Sì, anche per questo» sospirai. «Ma principalmente voglio approfittarne per andare in biblioteca. Devo restituire qualche libro»

    Una scusa come un’altra. Una maniera come un’altra per proteggermi dalla sofferenza e scappare lontano. Una balla come un’altra creata per non rivelare apertamente quello che provavo.

    I bimbi non insistettero. Mi sorrisero mestamente e mi dettero un bacio sulla guancia. Poi se ne andarono.

    Guardai il libro che stringevo fra le mani pensando e ripensando all'espressione di Michael, a come mi aveva ignorato e all'atteggiamento che aveva rivolto non solo a me ma ai suoi bambini. Rimasi lì per quasi cinque minuti, senza muovermi di un passo. Alla fine emisi un sospiro strozzato e le mie mani si strinsero sulla copertina quasi spasmodicamente. Decisi di appoggiare il libro sul tavolino per evitare di romperlo.

    Quel moto di rabbia repentina mi fece tremare il respiro. I miei piedi si mossero colti dallo sciocco desiderio di andare da Michael e chiedergli che cosa avesse.

    Mi issai dal divano con un colpo improvviso. Quando fui su per le scale, le mie orecchie udirono il vociare allegro di Prince e Paris che mi venivano incontro. Erano in costume, con boccaglio e occhialini e un asciugamano ciascuno. Mi salutarono. Da sotto le scale li sentii chiamare il loro papà a gran voce.

    Quando ritornai a guardare dritto davanti di me incrociai lui: pantaloni di una tuta leggerissima, maglia bianca, occhiali da sole e cappello nero, e Blanket in braccio che emetteva paroline confuse e frasi senza senso logico.

    Era serio.

    Lo stomaco si attorcigliò su se stesso nel giro di due rapidi istanti. Un moto di profondo rancore mi aiutò ad aumentare la velocità della camminata.

    Guardai sempre avanti, fissando un punto vacuo.

    Lui si avvicinava, io mi avvicinavo.

    Quando mi fermai sul posto, trattenni silenziosamente il fiato. Schiusi le bocca per dire qualcosa.

    Una folata di vento e basta.

    Michael che mi passava di fianco senza esitazioni.

    Non uno sfiorarsi di braccia. Non un cenno d'intesa o affetto. Mi superò come se uno non potesse percepire la presenza dell'altro.

    Sentendo i suoi passi avviarsi alla rampa di scale, il mio cuore si strinse in petto. Mi voltai appena, per vedere se avesse rallentato il passo o avesse avuto un attimo di esitazione. Se si stesse guardando indietro e se mi avesse rivolto un sorriso dispiaciuto.

    Niente.

    Gli occhi si riempirono di lacrime.

    Non aveva esitato.

    Quando scese le scale, mi incamminai verso la mia stanza. Vi entrai e sbattei la porta, cercando furiosamente le chiavi della macchina. Rovistai a destra e sinistra lasciando alcuni cassetti aperti. In seguito li chiusi per evitare che Michael potesse entrare e darci un'occhiata.

    «Brutto...», ne chiusi uno con violenza, «stronzo!», e mi sedetti sul letto per indossare un paio di scarpe comode.

    Afferrai la borsetta sul tavolino in legno e uscii, non prima di essermi data un’occhiata allo specchio: non mi importava se ero vestita con dei pantaloncini corti e neri stropicciati. Come non mi importava indossare una canottiera viola che mi andava fin troppo larga.

    Quando uscii, girai la chiave che avevo volontariamente preso dalla serratura all'interno della stanza, anche se non ero così scema da pensare che Michael non ne avesse una seconda di riserva. Non so perché lo feci – probabilmente per evitare che invadesse la mia privacy o che curiosasse tra le mie robe senza avermelo chiesto. Anche se non era casa mia, e ne ero consapevole, l’idea di farlo innervosire per ripicca mi fece star meglio.

    Misi la chiave in borsa e poi me ne andai da Neverland.

    *

    Non riuscii a stare lontano dal residence fino a tardi. Ci provai, ma non ci riuscii.

    Qualcosa dentro me diceva di starmene lontana solo per far impazzire Michael; qualcos’altro, invece, mi chiedeva di ritornarci il più presto possibile. Rabbia, pensai. Voglia di chiarire con la persona che amavo e che si stava comportando come un bambino infantile. Oppure semplice sofferenza nel sapere che non mi aveva cercato, neppure per telefono.

    Versai anche qualche lacrima. Non perché fossi vittima della tristezza, ma del rancore.

    Mangiai presso un ristorante di Santa Barbara dopo aver fatto una passeggiata sulla spiaggia. Mi limitai a fare un giro per negozi vagando senza meta e perdendomi tra gli scaffali della biblioteca. Non trovando niente che mi interessasse, andai in libreria e comprai un libro. Un po’ ero riuscita a calmarmi e ritornare in me stessa, ma nel momento in cui mi apprestai a varcare l’enorme cancello di Neverland il cuore riprese a tumultuare.

    L'idea di vedere Michael non mi faceva piacere. Mi veniva l’ansia solo immaginandomelo di fronte.

    Tutto era buio. Erano le 21.50 di sera e la fioca luce bianca dei lampioni sparsi qua e là illuminavano i vari sentieri del ranch. Da fuori i finestrini dell’auto si sentivano i grilli cantare rumorosamente.

    Il respiro si velocizzò quando parcheggiai. Mi guardai intorno e sospirai con evidente esasperazione. Ero di nuovo sul punto di una crisi di nervi. Battendo un piede a terra, presi il cellulare dalla mia borsa. Ero lì, congelata nel sedile della mia auto, a pregare che avvenisse l’impossibile.

    Devo imparare a essere più menefreghista, a prenderlo quando viene e mollarlo quando va, diceva la mente. Ma prima di incominciare a farlo, voglio dare un'ultima controllata..., sussurrava il cuore speranzoso.

    Povera illusa.

    Nessuna chiamata. Nessun messaggio. Niente.

    Riposi il cellulare nella borsa e scesi dalla macchina.

    Mi sentivo arresa.

    Quante seghe mentali per nulla.

    Che razza di idiota.

    Camminai per il viale in ghiaia finissima a piccoli passi, con la testa leggermente chinata sui miei piedi. Prima di entrare in casa decisi di prendere la chiave della mia stanza; nel caso in cui avessi potuto vedere Michael, sarei potuta fuggire a gambe levate e rinchiudermi in camera in fretta e furia.

    Mi fermai sul posto e rovistai nella borsa. Quando ricominciai a camminare alzai lo sguardo e mi arrestai di botto. Il tempo si fermò.

    Vidi un Michael teso, a braccia conserte, appoggiato sulla porta di casa che mi fissava in modo cupo e misterioso. Tutto era buio, se non per il quieto tepore delle luci all'interno della dimora. Qualcosa nel suo sguardo mi inquietava.

    Niente pigiama. Pantaloni in velluto nero e camicia a maniche lunghe e leggera, color rosso acceso. Postura apparentemente rigida. Niente occhiali da sole. Niente capello. Soliti lucidi mocassini. Niente trucco, zigomi ben contratti e quella fossetta marcata che lo distingueva a distanza di chilometri. Occhi grandi e capelli disordinati.

    Non seppi se il cuore tremava per i sentimenti di collera o per il desiderio di corrergli incontro e baciarlo. Era così affascinante, così uomo, e mi destabilizzava completamente.

    Puntai i piedi nel luogo dov’ero per un tempo che non seppi definire. Ero irritata ma anche soddisfatta nel vederlo tanto arrabbiato nei miei confronti... molto soddisfatta.

    Poco dopo mi sistemai meglio la borsa sulla spalla e avanzai. Tenni lo sguardo in direzione dei suoi piedi: uno lo muoveva convulsamente, l'altro gli serviva come appoggio per il peso del corpo. Mi sentivo studiata e, in un certo senso, anche giudicata. Non c'era più indifferenza da parte sua, ma un forte e visibile disappunto.

    Ignorai la dolorosa fitta allo stomaco.

    Quando gli fui a un metro di distanza si staccò dalla porta d'entrata.

    «Potevi anche avvisare che te ne saresti andata per tutto il pomeriggio», mise le mani nelle tasche, parlando con tono ironico e infastidito. «Sono due ore che ti cerco».

    Gli lanciai un'occhiata torva.

    «Si vede», sibilai fra i denti.

    Mi misi al suo fianco e tentai di metter mano alla maniglia della porta. Michael l'afferrò in silenzio. I suoi occhi mi analizzavano carichi di rabbia. I miei non erano da meno.

    «Ho dovuto aspettare che fossero i miei figli a dirmelo. Se fosse per te mi lasceresti qua come uno sciocco!» sentenziò velenosamente. Scosse il capo e assunse una smorfia di sarcasmo. «Perché hai chiuso la camera?» mi sorrise sprezzante. «Sono curioso».

    La vista si offuscò per l'avanzare di un pianto incombente.

    «Tu un povero sciocco?!» quasi urlai. Spalancai le palpebre mentre sentivo che ogni particella di me lo stava odiando profondamente. «Oh, be’, certo! Povera miserabile vittima che sei!»

    Feci marcia indietro e mi incamminai di nuovo verso il sentiero che portava al lago. Ero sul punto di mettermi a correre. Se lo avessi avuto di fronte per un altro secondo gli avrei tirato due ceffoni che non si sarebbe scordato per il resto della sua vita.

    «Un miserabile, io?» gridò. Sentii i suoi passi inseguire i miei. «E, dimmi, da quando lo pensi? È questa la ragione per cui te ne sei andata oggi?»

    Mi voltai di scatto. Si fermò a due metri da me. Avanzai verso di lui che, immobile e accecato d'ira, mi aspettava.

    «Come puoi dare a me giudizi, quando sei il primo che deve farsi un esame di coscienza?» urlai con tutta la collera che percepivo. Seguì una mia fiera e pomposa rappresentazione di lui. «“Oh, piccola, io ti amo, dimmi perché stai male...!”, “Siamo tutto, dobbiamo parlare!”. Ma ti senti quando parli? E poi ti allontani e ti comporti freddamente, come se non te ne fregasse nulla!»

    Spalancai le palpebre e la bocca aspettandomi una sua reazione a parole. Lui strinse labbra e pugni. I suoi occhi sbarrati facevano paura.

    Scoccai la lingua al palato e risi sarcasticamente, scuotendo il capo.

    «Mi vieni a far critiche e morali inutili... e sei il primo che dovrebbe pensare ai suoi comportamenti e meditare!».

    «Tu non sai niente, hai capito?!», mi puntò il dito contro. Aveva gli occhi lucidi. «Non puoi capire!»

    «Capire cosa?!» indietreggiai sentendo una stretta al cuore. «Smettila, ok? Vuoi tenerti le cose per te? Vuoi allontanarti? Fai pure! Arrangiati! Io di sicuro non ti cerco più se devi trattarmi come una merda!»

    Sputai le ultime parole con amarezza e illimitato disprezzo.

    Gli gettai un'ultima occhiata, stavolta delusa: Michael ricambiò inspirando forte mentre le mie parole distruggevano le sue barriere di rancore. Fu come se si fosse svegliato da un sonno profondo, come se gli avessi dato davvero una sberla in faccia. Strinse le labbra con smorfia angosciata.

    Mi asciugai una timida lacrima che timidamente era spuntata dagli occhi e lo superai. Mi strinsi alla borsa, tenendola ben salda sulla spalla.

    «Vuoi sapere cosa è successo? Va bene!», esclamò stizzito.

    Lo ignorai.

    «Sarah, cazzo...!»

    Al suo irritante richiamo seguì il tentativo di prendermi un braccio. Appena sentii le sue dita su di me lo spinsi lontano. La mia aggressività lo fece indietreggiare impercettibilmente.

    «Non toccarmi!».

    «Ascoltami...».

    Il tono era più pacato. Teso, ma più pacato.

    «No, col cazzo!» aumentai l'andatura della camminata. Mi girai di scatto. «Adesso vuoi che ti ascolti? Cosa devo sentirmi dire, “Sei l'origine dei miei mali”?»

    Strinse i denti. «Smettila di sparare stronzate, Sarah!».

    Riuscì a prendermi il polso. Sebbene non mi stesse facendo male mi stringeva forte. Gli lanciai un'occhiata disgustata e tormentata assieme, occhi appannati dalle lacrime, e con un ultimo strattone riuscii a liberarmi. Rimase sconvolto dalle emozioni che il mio volto lasciava trapelare e non ebbe la forza di trattenermi.

    Sobbalzai indietro per l'energia che ci avevo messo. Ripresi a camminare senza più enunciare parola.

    «Ci sarà un’altra udienza il 13 settembre, probabilmente l'ultima. Il processo inizierà a breve».

    Il fiato mi morì in gola.

    «Ecco cosa dovresti sapere...»

    Non riuscii più a camminare.

    Lo guardai in faccia. Aveva le lacrime.

    Non era più arrabbiato… era sconfitto e angosciato.

    «Qualche mese e tutto finirà...» mormorò debolmente. Una luce cristallina scese lungo la sua guancia destra, per poi scomparire con la stessa velocità con cui era nata. «E io non voglio continuare a vivere in un sogno che prima o poi avrà una fine...»

    Ci fissammo a lungo.

    Quell’ultima frase tuonò nel petto furiosamente. Tutto aveva un senso.

    Chinai lo sguardo.

    «Perciò è meglio finirla qui, subito, per non soffrire dopo, non è così...?» dissi con un bisbiglio strozzato.

    Silenzio.

    Trattenni il fiato e il pianto. Non vidi più nulla di quello che mi stava attorno.

    Ed eccola. Ecco l’incudine che aspettavo.

    Mi aveva illuso. Mi aveva detto che non mi voleva perdere. Eppure i ripensamenti li aveva avuti eccome, perché pensava che con l’avvicinarsi del processo sarebbe stata meglio chiuderla lì.

    Come potevo dargli torto.

    Non potevo sapere quanto dolore gli stessero provocando quelle accuse.

    Tuttavia non era giusto. Non avrebbe mai dovuto illudermi con vane promesse di felicità.

    I suoi piedi si mossero verso me creando un rumore sordo al contatto col suolo; non ebbi capacità di reagire. Attesi che Michael mi fosse vicino per chiudere gli occhi. Mi sfiorò le guance con le dita scosse da tremori.

    «Mi dispiace...», mormorò piangendo. «Mi dispiace così tanto, perdonami ti prego...»

    Mi ritirai in me stessa girando la testa dall'altra parte, dandogli le spalle, assumendo un’aria sofferente. Volevo che un muro ci dividesse. Non volevo che mi si avvicinasse. Se dovevo sprofondare, volevo farlo da sola. Perché Michael non ci sarebbe stato per me. Michael voleva chiudere quella sottospecie di relazione che avevamo.

    Sospirò dolorante. «Sarah...»

    Mi afferrò una mano distesa lungo il fianco. Cercai di allontanarmi, di mollare la presa, ma era tutto inutile. Michael avvertì la mia debolezza e mi abbracciò da dietro. Affossò il viso tra i miei capelli e io non feci nulla.

    Non desiderai sapere quali pensieri lo avessero portato a quella brusca decisione, tantomeno volevo sapere se desiderasse dirmi quelle cose da giorni oppure da qualche ora. Non pensai che ciò che lo spingeva a parlare così era una terribile e accecante paura per il futuro.

    Volevo andarmene.

    Mi scoccò un flebile bacio sulla nuca. «Dio mio, Sarah...» Poi me ne dette un altro ancora. «Non avrei mai voluto – »

    «No».

    Mi allontanai con un gesto freddo del capo. Feci qualche passo in avanti e Michael non mi trattenne. Voltai il busto a tre quarti. Mi guardò con la bocca schiusa e il viso bagnato. I suoi occhi erano un caleidoscopio di mille emozioni diverse: paura, tormento, confusione, panico.

    «Non voglio sentire... non voglio che tu dica nulla...», emisi in un soffio, scoccandogli un’occhiata straordinariamente dura e fredda.

    «Sarah, non...».

    «Ti prego». Lo supplicai, serrando le palpebre e aggrottando la fronte. «Non mi interessa».

    Senza guardarlo gli diedi le spalle e mi diressi verso la porta di casa. Come un automa la aprii e vi entrai in silenzio. Il dolore mi attorcigliava le viscere. Le tempie pulsavano e non sapevo più per cosa, se per uno scriteriato rancore per Michael o per un soffocante tormento.

    Era finita così come era iniziata: velocemente e senza controllo.




  15. .
    Capitolo Trentatre: Gli Spiriti Affini


    «Che razza di... coglione!» sbottai contrariata, spalancando gli occhi dallo spavento e dalla rabbia.

    Misi piede al freno e lo premetti. Una macchina mi aveva appena superato. Velocemente - troppo velocemente - e arrivò quasi a sfiorarmi il fianco sinistro dell’auto. Il contraccolpo dovuto al mio improvviso rallentamento portò il mio collo e quello di Michael in avanti. Fu una scossa breve, ma la paura fu grande, soprattutto per me: ricordo che misi una mano davanti al petto di Michael, tenendolo appoggiato al sedile, sopraffatta da un istinto di protezione.

    Quando il guidatore della meravigliosa Porsche nero lucido si allontanò con la stessa velocità di come mi aveva superato, tolsi la mano dal torace di Michael.

    «Ma sì, stronzo, corri!» alzai la voce. «Dai, che magari ti rivedo sul telegiornale di stasera!».

    Mi passai una mano fra i capelli. Guardai Michael per vedere se stesse bene. Quello che ricevetti - in cambio delle mie sincere preoccupazioni - fu un’espressione di sottile divertimento. Mi scrutava con le sopracciglia sollevate.

    «Sarah» mormorò sorridendo. «Non è successo nulla!»

    «Non direi, porca puttana!».

    Fece una smorfia come a dire “Eccolo là! È tornato il mio scaricatore di porto preferito!”. Gli veniva da ridere, ma poneva lo sguardo di fronte a sé per non farmi arrabbiare ancora di più.

    «Se non avessi rallentato saremmo potuti finire fuori strada! O ci saremo catapultati in direzione della scogliera, direttamente in mare!»

    «Come nei film, vero?» domandò sorridente.

    Lo linciai con un’occhiata torva.

    Quest'ultimo mi rise in faccia con strafottente nonchalance. «Dai piccola, non è successo nulla! È andato tutto bene, ora si è allontanato».

    Guardai dinanzi a me e m’imbronciai, inarcando pure un sopracciglio.

    «Certo, parli così perché non saresti stato tu quello con il morto sulla coscienza!» scrollai le spalle.

    Ridacchiò.

    «Sai che ho la patente?»

    «Seh...»

    «No, sul serio!», sorrise. «Ce l'ho davvero!»

    Lo adocchiai con scetticismo.

    Indossava larghi pantaloni neri - il doppio della sua taglia - e una camicia a maniche corte (strano da parte sua) di colore rosso, giallo e verde. In più aveva, con mio stupore, ciabatte da spiaggia - con calzini arancioni e blu compresi. Indossava anche un largo cappello di paglia, una mascherina nera davanti alla bocca (che in quel momento teneva abbassata) e gli immancabili occhiali da sole.

    L'abbigliamento adeguato per non dare nell'occhio, no? Non lo si poteva prendere sul serio.

    Al contrario io avevo puntato su vestiti decisamente più normali dei suoi: shorts in jeans, maglietta senza maniche color arancione e sandali bianchi.

    «Davvero? Hai la patente?» domandai incredula, fissando la strada.

    Annuì convinto.

    Pensai mi stesse prendendo per i fondelli. «E da quando?»

    «Dai lontani anni ‘80. Ma non la uso mai. La utilizzavo, ma non ho più la possibilità di farlo».

    «Per la fama?»

    «Anche».

    Quel “Anche” mi preoccupò.

    «Wow...» inarcai le sopracciglia e assunsi una smorfia contrariata. «Be’, questo comunque non c’entra nulla! Potevi morire

    Alzò le braccia al cielo. «Va bene, testardo di un maschiaccio, hai ragione tu, okay?», gli angoli delle labbra si sollevarono in un sorriso canzonatorio.

    Maledissi i suoi occhiali da sole e la visione che celavano. Gli feci la linguaccia e tornai a guardare dinanzi, ignorandolo del tutto. Sorrisi anch’io.

    Alla radio partì una canzone meravigliosa. Era Ordinary Day di Vanessa Cartlon. Qualche volta capitava che ascoltassi la sua musica. In realtà ascoltavo un po’ di tutto e mi piaceva ascoltare ogni genere musicale; inoltre, grazie a Michael, la mia cultura musicale si ampliava sempre di più.

    «Posso alzare?»

    «Diamine, sì!» disse Michael in tono buffamente ridicolo. Se ne veniva fuori con quei termini apposta per divertirmi. «È la tua macchina!», sorrise.

    Ringraziai e gli chiese se potesse farlo al posto mio. Michael alzò il volume quasi al massimo, spronato dai miei continui incitamenti e rimproveri per i suoi giochetti alza e abbassa volume, giusto per farmi irritare. Era peggio di un bambino.

    «Penso che te la dedicherò...», bisbigliai.

    Michael piegò il capo in mia direzione. Teneva la testa sul dorso della mano destra, appoggiata proprio accanto al finestrino.

    «Uhm?»

    Arrossii.

    «Ho detto», lo guardai sorridente, «che ti dedico questa canzone. Ti rispecchia... almeno, rispecchia l'idea che ho di te…»

    Guardai la strada con le guance accaldate. Michael non emetteva parola. Essere impacciata quanto una ragazzina alle sue prime esperienze amorose mi confondeva.

    Non era la prima canzone che gli “dedicavo”, anzi. Gliene avevo donate tantissime, tutte quelle che in un certo senso me lo ricordavano. Ma dal giorno in cui avevamo confessato i nostri sentimenti non gli avevo più esplicitamente dedicato qualcosa. Le trovavo ma le conservavo segretamente, mentre in passato ogni occasione era buona per fargliele conoscere.

    Non riuscivo a esprimere con candida gioia e serenità quello che sentivo. Avevo un blocco causato dalla paura di fare passi più lunghi della gamba. Dicevo “Ti amo”, ma desideravo donargli ancora di più. Non credevo che ciò che provassi fosse abbastanza.

    Nell'attimo in cui feci guizzare lo sguardo verso Michael, lo scorsi togliersi gli occhiali da sole. I suoi occhi sorridevano dolcemente. Le sue iridi brillavano di luce propria. Dopodiché lanciò un’occhiata alla mia mano, quella posata sulla leva del cambio. Le sue dita scivolarono su di essa, tremanti d'emozione.

    Rabbrividii anch’io.

    «Ha una melodia e delle parole molto dolci», sussurrò intenerito. «La devo aver sentita una volta».

    Mi sollevò la mano e ne baciò il dorso. Quelle labbra si posarono su di me come il Sole si distende sulla terra. Scaldavano e accarezzavano la morbida pelle ispirandone l'odore di pulito. Le palpebre erano abbassate per l'attenzione che poneva alla canzone.

    Ripose la mano sulla leva del cambio e continuò a stringerla debolmente. Il suo sguardo vagò su di essa, sul cielo, sul mare, sul mio viso, e di nuovo sulle nostre mani.

    Michael era così straordinario da far perdere il fiato a chiunque. Era l'uomo che sapeva come prendermi più di tutti. Mi rendeva sua con un solo gesto o uno sguardo, sciogliendomi la spina dorsale soltanto con l’utilizzo della voce.

    Sapevo il perché non mi lasciassi andare veramente, me ne rendevo conto non appena lo guardavo negli occhi. Qualsiasi cosa lui mi facesse, le mille farfalle che avevo nello stomaco svolazzavano furiose, si dimenavano disperate nel tentativo di fuggire; le loro non erano piccole fragili alette, erano lame affilate che squarciavano il mio organo vitale impedendomi di respirare, di sopportare il risultato di un amore che desiderava solo avvolgere il mondo intero. Perciò preferivo ammutolire quell'imponente sentimento che mi avrebbe portato alla morte, piuttosto che morirne davvero. Preferivo contenerlo, placare quella sensazione di immensità e al contempo agonia, quell’emozione che faceva volare la mia anima e mi avvinghiava spietatamente le viscere.

    Era una giornata meravigliosa, quella del 29 maggio 2004. Niente nuvole in cielo. Il Sole cominciava a sfiorare l'orizzonte e illuminava il tutto di arancione, giallo e viola. Il mare rifletteva i raggi solari, mentre le onde sbattevano sulle rocce dell’infinita Pacific Coast. I finestrini erano leggermente abbassati, la brezza salmastra scuoteva i nostri capelli come chiome degli alberi nel bel mezzo di una tempesta. Le temperature erano tornate ad essere più o meno sopportabili. Il calore che aveva fatto bollire il cemento e l’intera area di Los Angeles sembravano essersi placati. Ma faceva ancora abbastanza caldo.

    Era un tardo pomeriggio. Un giorno d'estate, di inizio estate. Una gita solo tra me e Michael, in auto, come non accadeva da mesi e mesi.

    Ci piaceva quel modo di stare insieme. Cercavo in ogni maniera di "estraniarlo" da quel clima di tensione quale era il processo. Non era ancora iniziato, ma Michael era già impaurito. Era un po’ paranoico, ad ogni udienza preliminare gli veniva un magone che non lo faceva nemmeno mangiare. Qualche giorno prima, in tribunale, non gli avevano concesso la riduzione di pena.

    «È proprio una canzone dolce. Degna di te, direi».

    Lo puntai. La sua pelle era abbagliante. Sotto la debole luce solare che attraversava il finestrino dalla sua parte, colpendogli alcuni lembi di maglietta, sembrava ancora più etereo.

    «Mi piace tantissimo. L'adoro» sottolineò quelle parole con vivida estasi. Sospirò appena e sfilò gli occhiali dalla maglietta per rimetterli su. «Hai davvero un opinione così dolce e delicata di me... così pura...»

    Mi accarezzò la guancia destra con i polpastrelli. Svolsi subito gli occhi alla strada e non risposi. Accennai ad un debole sorriso di gratitudine e imbarazzo. Benedii le lenti degli occhiali da sole che, nonostante la sensazione di essere nuda sotto il suo sguardo, non gli permettevano di vedere la mia commozione.

    «Te ne ho dedicate tante in questo periodo, sai?», disse.

    «Davvero?»

    «Mmh-mmh...». Trattenne il fiato. Guardò il mare e arrossì di poco. «La maggior parte però te le ho scritte di mio pugno. Anche ai tempi in cui eri ancora la mia piccola incosciente scrivevo di te...»

    Lo scrutai incuriosita. Conoscevo a memoria le canzoni che mi aveva dedicato, ma era una novità sapere che lui stesso ne avesse scritta qualcuna per me. Il cuore fece le capriole dall'emozione.

    «Non l'avevi mai detto...», mormorai.

    Sotto quegli occhiali scuri ero sicura che mi stesse fissando. Inspirò ed espirò, poi emise un soffio di risata intimidita. Scosse leggermente il capo.

    «Ti sembrerà ridicolo sentirtelo dire, ma avevo previsto questo momento. Avevo previsto questa esatta situazione. Ma prima di dirtelo volevo aspettare che fossi mia definitivamente».

    Ridacchiai, superando una macchina con cautela. «Be’... in realtà non sono ancora tua...» alzai un sopracciglio, «o sbaglio?»

    «Sbagli, invece».

    Assunsi un'aria dubbiosa.

    Sorrise. «Ci apparteniamo, principessa, te lo sei dimenticata?»

    E fu in quel istante che un moto di tristezza avvinghiò il mio animo senza che potessi prevederlo. Un'ondata di profonda rassegnazione. Il soffio della poca fiducia in me stessa. Un fottuto colpo di scena da parte del mio carattere lunatico, che sapeva arrivare al picco della felicità in un istante e il secondo dopo cadere in uno stato di tristezza completa. Così, senza ragione.

    Guardai la strada, rimasi zitta e non sorrisi.

    «Sarah?»

    «Uhm?»

    «Che succede?»

    «Nulla» scossi il capo. «Me ne ero dimenticata, tutto qui».

    «No, invece...» affermò stringendo la presa della mia mano.

    Mi aggrappai alla leva. Strinsi le labbra e sbattei le palpebre per non lasciarmi prendere dallo sconforto. Che diavolo sto facendo?

    «Sarah, mi vuoi dire che succede?»

    «Non ti preoccupare, davvero, Michael...» sussurrai con un pigolio addolcito. «Scusa… sono io che sono fatta male, non badarmi... a volte capita...»

    Silenzio.

    Troppo lungo come silenzio.

    «Ferma la macchina».

    Aggrottai la fronte e spalancai gli occhi. Lo guardai scioccata. «Cosa?».

    Non sorrideva più. Quegli occhiali mi incutevano timore, perché non potevo intravedere le sue emozioni.

    «Ferma la macchina, per favore», disse. «Ho bisogno di scendere».

    *

    Parcheggiai lì vicino, in un luogo sicuro e distante da bagnanti e guidatori curiosi. L'auto aveva il motore spento; la radio, invece, era rimasta accesa. Era un punto della Pacific Coast molto isolato, parecchio lontano dall'autostrada e da spiagge varie. Nessuno passava di là, e per raggiungere il punto in cui Michael ed io ci eravamo fermati dovevano attraversare una stradina di sassi ben nascosta a occhi distratti. Mi pareva di esserci già stata.

    Michael scese per primo - mani in tasca e sguardo perso nell'orizzonte, senza cappello o occhiali ma con la mascherina nera per proteggersi dal sole - ed aspettò che avanzassi titubante e lo superassi di qualche passo per posizionarsi al mio fianco.

    «Siamo nello stesso luogo...», mormorai stupita.

    «Sì. Siamo dove ci fermammo quella sera, tanti mesi fa, quando andammo a prendere i regali per i miei figli. Stesso punto della stessa scogliera. Per questo ti ho detto di fermare».

    «Ah...»

    Mi guardò.

    «E per un’altra cosa, anche...».

    Mi tolsi gli occhiali da sole.

    «Dimmi...»

    Lo aveva fatto apposta. Aveva chiesto di fermarsi affinché potesse guardarmi negli occhi e potesse parlarmi, senza che potessi sviare inutilmente il discorso. Ero indecisa se fingere un malessere o meno, con la scusa di salire in macchina e tornare a quella che oramai chiamavo casa.

    «Voglio sapere che ti è preso all'improvviso» disse con voce fioca ma decisa. La sua espressione era seria e concentrata. Una mano scivolò nella mia senza che me accorgessi. «Mi fai arrabbiare quando dici che sei fatta male, perché non lo sei. Sei umana e hai i tuoi momenti no. Ma io ti amo, e voglio sapere cosa ti angoscia».

    Non lo guardai. In silenzio si lisciò i capelli davanti al viso e strinse gli occhi per ripararsi dalla luce solare. Mi spinse appena verso di lui, in modo tale che potessi sfiorargli il petto con un braccio.

    «È una stupidaggine...»

    La mano scivolò dalle mie dita al mio fianco. Con il capo inclinato a destra e uno sguardo intenso da farmi cedere le gambe, fece voltare impercettibilmente il mio bacino verso di lui.

    «Io la voglio sapere» sussurrò in tono carezzevole.

    Si umettò un labbro, terribilmente dolce e gentile in quel gesto ricolmo di charme.

    Mi pettinai i capelli all’indietro. Michael mi avvicinò ancora di più. La spina dorsale si stava sciogliendo sotto le vibrazioni di quelle dita.

    «Allora?», domandò cortese.

    Osai incrociare i suoi occhi. Mi sentii annegare in un profondo oceano di affetto.

    «Non lo so...», mi venne da ridere per non disperarmi. Alzai le sopracciglia e le spalle. «Delle volte mi dico che è successo tutto troppo in fretta... sono passata dall'amicizia all'amore senza accorgermene». Avvampai. «Non era così che me lo sarei immaginata...»

    Si fermò a riflettere. Si passò la lingua sulle labbra e mi stregò con un cipiglio di profondo interesse.

    «L'amore non lo si può immaginare, lo si vive», emise in un fiato. I nostri bacini si sfiorarono. La mia gamba destra s'incastrò perfettamente fra le sue. «Ma non è solo questo...» disse in tono basso, «dimmi tutto».

    «So che è una follia…», mormorai fissandogli il colletto della maglietta, tentando di mantenere la lucidità. «Ma non riesco a credere di provare un sentimento così incomprensibile per te, ecco. È un qualcosa talmente forte che mi mette in subbuglio. E se quello che dono non è abbastanza? Se non sono in grado di ricambiare quello che tu provi per me con la tua stessa intensità?».

    I miei mormorii lo fecero trattenere il fiato. Lo adocchiai di soppiatto e vidi che gli sorridevano gli occhi. Le labbra erano sempre coperte dalla mascherina.

    «Tu hai molte idee sull'amore», scosse il capo, ridacchiando. Mi agganciò a sé con maggior energia. «Idee che non sono sempre fondate sulla razionalità, mentre altre invece sì. Il fatto di non esserti innamorata di me fin dal primo momento in cui mi hai visto, per te significa che non mi ami davvero».

    Centrò il punto in pieno.

    «Be’, forse» sbottai contrariata. «Ma...»

    Michael mi mise un dito sulle labbra prima che potessi dir altro. «Non hai mai pensato che la nostra amicizia non è mai stata normale?»

    Avrei tanto voluto togliergli quella assurda mascherina dal volto e baciarlo. Volevo sentire il suo gusto per una milionesima volta e perdermi in un girotondo senza fine. Avrei voluto che quel tramonto lo facesse risplendere senza che il Sole potesse fargli del male. Quei due pozzi neri senza fondo non la smettevano di farmi impazzire.

    «Ci siamo spinti oltre fin dal principio, Sarah» spiegò provocandomi adorabili brividi sulla nuca. «La nostra intimità era tanta, molta più di quanto tu non riesca a ricordare in questo momento. Ma io ricordo perfettamente il tuo battito cardiaco… è lo stesso di quando tu mi baci tutt’ora».

    Le mie iridi si posarono sulla mascherina, le dita s’avvicinarono al viso e la abbassarono fino al collo. Mi scoccò un bacio lieve, dolce e rassicurante sulle labbra. Il petto fu percosso da sensazioni forti quanto scariche di elettricità pura.

    «Ma allora», mi allontanai, «perché hai dubitato dei miei sentimenti? Se sapevi che ti amavo da tempo, perché non hai pensato di dirmelo subito?»

    «Non era compito mio farti comprendere cosa provavi», ammise. Si strinse nelle spalle, guardando in alto con fare sbarazzino. «E poi, anche io sono umano. Forse strano, ma lo sono. Mi sono sempre obbligato a non instaurare relazioni amorose con i miei dipendenti. Non è nella mia indole e non è nella mia morale, onestamente. Quando ho cominciato a capire cosa provavo per te, inizialmente l’ho rifiutato anch’io. Non volevo accettarlo e per questo cercavo di tenerti distante…».

    «Tu cosa?» spalancai le labbra e le palpebre. «Non ci credo».

    «Ti dico la verità», accennò una risatina imbarazzata. Si mordicchiò un labbro scrutando a lungo la mia collana con la mezza luna. «Ero confuso quanto lo sei tu ora. Ero combattuto fra l'amore e l'amicizia» Mi osservò intensamente. «Pensavo che tu fossi soltanto un’amica, ma poi ho cominciato a farmi delle domande. Dopo aver scritto canzoni e canzoni per te, dopo i momenti sempre più dolci e affettuosi che vivevamo, ho passato periodi terribili. Ho creduto di impazzire. Te l’ho dissi già alcune settimane fa, quando ti espressi i miei sentimenti per te...»

    «Oddio no, non ricordarmi quel giorno...» affondai il volto nell'incavo del suo collo, ridendo.

    «Perché mai?».

    Scossi il capo spasmodicamente. «Ho detto cose che mi fanno vergognare da morire... Dio...»

    «Durante il litigio?»

    «No, no...» mormorai. Rosso vivo comparve sulle mie guance rosee. Sembrava che le orecchie mi stessero fischiando. «La confessione...»

    Se ne stette qualche secondo in meditazione. Mi preoccupò. Temetti di averlo fatto rimanere male, come se stessi chiaramente negando quei sentimenti per lui.

    «Sciocca che sei...» ridacchiò dandomi un bacio fra i capelli.

    Alzai il viso.

    «Mi ricordo ogni parola. Ogni lacrima che versasti...», le sue dita toccarono la morbida pelle del viso, «ogni espressione... ogni mormorio…».

    Che faccia da pesce lesso.

    «E, soprattutto...», socchiuse gli occhi e mi alzò il mento con due dita. Un sorriso vittorioso sollevò i lembi della sua bocca. «Ricordo il tuo primo “Ti amo”».

    «Michael...»

    «“Non voglio che questo mi ucc...”»

    «NOOO! Ti prego!», stridetti. Gli chiusi la bocca con una mano mentre ridevo dall’imbarazzo. «Quella cosa... è stata la cosa più ridicola che io abbia detto!»

    Michael respirò a fondo e lo sguardo cambiò. Fece una smorfia infastidita e severa. Scostai la mano dalla sua faccia, chinai il capo e mi pettinai una ciocca di capelli.

    «Perché te ne vergogni così tanto?» sussurrò. «Io non capisco. L'amore è una delle cose più belle al mondo, perché non lo lasci andare?»

    Sospirai senza guardarlo. «Non amo dire certe cose… mi sento esagerata, come se stessi facendo una sceneggiata… cioè, sì, mi piace essere romantica, ma non troppo…»

    «Non con me...»

    Lo guardai confusa. «Che intendi dire?»

    I suoi occhi erano severi. «Tu sei romantica. Sottolinei le parti più dolci dei tuoi romanzi preferiti. Ti sciogli durante il momento del bacio nei film. E ti devo ricordare il discorso che facemmo su Arwen e Aragorn? Sarah, tu sei innamorata dell'amore», s'incupì. «Ma con me è diverso».

    Abbassai gli occhi.

    «Io ti amo. E non me ne vergogno. Ma se a volte mi freno, è perché temo di abituarmi troppo a queste emozioni e poi ricevere una qualche delusione... come se avessi sempre il presentimento che un’incudine possa piombarmi sulla testa da un momento all’altro. Quindi mi sento di reprimere questo sentimento. Ho davvero paura di morire dell'amore che provo per te. Questo sentimento mi fa bene e mi fa male, perché non riesco a controllarlo e a volte sembra farmi esplodere il corpo, non solo l’anima…». Le mie iridi si bagnarono di commozione. «Non devi pensare che non ti amo... sono fatta così, ci provo in tutte le maniere a lasciarmi andare... tutto quello che ho sentito con te è diverso dal normale...»

    «Sarah…».

    Avevo le lacrime agli occhi quando ammirai il suo sorriso dolce e comprensivo. Non era arrabbiato, né deluso né rattristato. Era felice. Le sue iridi sembravano rispecchiare tanti fuochi d’artificio splendenti. Le guardai più attentamente e vidi che erano offuscate da un velo di lacrime.

    «Non ho bisogno che mi spieghi» affermò con amore. Sorrise. «Ti sei risposta da sola».

    «Non penso di capire...»

    «Hai appena ripetuto quello che dicesti quel giorno, quando hai ammesso di amarmi. Moriresti di questo amore», scosse il capo a mo’ di affettuoso rimprovero. Si morse un labbro e s'accigliò. «Tutto ciò che hai detto… non ti sembra una delle confessioni più romantiche del mondo?»

    Schiusi le labbra provando a dire qualcosa di sensato.

    «Io non...». Arrossii. «Ah...».

    Mi guardai intorno. Michael rise.

    «Ho passato notte insonni domandandomi cosa stesse accadendo al mio cuore, tanto tempo fa» continuò accostandomi al suo petto. «Delle volte desideravo starti lontano per riflettere. Occupavi il mio tempo, il mio cuore e la mia mente. Non era normale quello che stavo vivendo. Tu eri tutto. Eri mia amica ed eri la mia complice. Quando l’ho realizzato sono rimasto sconvolto... non lo volevo accettare. È stato complicato dire a me stesso che ero follemente perso per te. Era tutto... tutto troppo veloce, non aveva senso logico. E io avevo paura...».

    Inclinai il capo da un lato. «Amica e amante insieme... una confidente, ma anche un qualcosa di più, un’amica con cui però condividevi un “rapporto” molto stretto...»

    «Più o meno», sorrise. «Noi siamo ed eravamo tutt’e due le cose. Siamo tutto».

    Ponderai a lungo. Era strano, troppo bello per essere metabolizzato in così poco tempo.

    Lo guardai di soppiatto. «Quando hai realizzato di...».

    «Di essere innamorato di te?»

    «No, dico... qual è stato il momento in cui che hai concretizzato che stava accadendo qualcosa... l’istante in cui il tuo amore è iniziato a fiorire, ecco», farfugliai imbarazzata. «Io purtroppo me ne sono accorta troppo tardi… ero un’ingenua completa», ridacchiai.

    Si bagnò le labbra. Il suo sguardo si posò sul mio collo e sulle sue dita che delicatamente lo sfioravano. «Be’, a dire il vero... molto presto, molto più di quanto tu possa immaginare...»

    «Davvero?»

    «Mmh-mmh», mi fissò. «Ti ricordi la prima volta che ti feci visitare Neverland?»

    Annuii sorpresa.

    «Ti ricorderai il carosello, il gelato, la nostra chiacchierata solitaria… Dio, quando ho fatto quella mia riflessione sul tramonto, il tuo sguardo era di una bellezza indescrivibile. E poco dopo hai visto una piuma tra i petali di un fiore. Ci conoscevano da così poco tempo...» Prese un respiro e sorrise. Due lacrime spuntarono dai suoi occhi lucidi e scuri. «Eppure quel desiderio era per te».

    Rimasi senza parole.

    Le sue mani avanzarono verso le mie guance, le afferrò con dolcezza e portò la mia fronte sulla sua. Piangere di gioia era l’unica cosa che avrei voluto fare in quel momento.

    «Tu eri il mio desiderio, Sarah. Alzando quella piuma verso l’alto, soffiandola in vento, io pregavo per il vero Amore. Quello che salva la vita, quello che rigenera e benedice ogni singolo istante dell’esistenza umana. Senza saperlo, volevo te. Il mio unico sogno era trovarti, non uscire vivo dalle accuse e dal processo», asciugò una mia lacrima. Mi baciò. «Tutto l’amore che sei... è sempre stato il mio unico desiderio... è la ragione per cui mi sono reso conto di essermi innamorato di te».

    Ridacchiai fra le lacrime. Tutto ciò che sentivo era il suo profumo e l’aria salmastra che ci avvolgeva. Mi aggrappai con le mani dietro al suo collo e ricambiai il suo amore con un altro bacio. Destabilizzante, rinvigorente. Molto più passionale del solito, non meno soffice di tutti quelli che gli avevo già donato.

    Avrei tanto voluto che Michael capisse che lo amavo davvero. Desideravo che comprendesse quando la sua presenza fosse di vitale importanza per me. Una doccia di acqua fresca e pura che disseta un torrido deserto. Era quella rara nevicata che cadeva su un terreno solitario, dimenticato da tutti. Non ero in grado di esprimermi a parole ma – forse con uno sguardo, un bacio, un gemito – potevo augurarmi di offrirgli tutto quello che cercava.

    Il silenzio che si genera dall’amore vale molto più di un normale scorrere di parole. È l’essenza del vero vivere, e altro non si può fare che goderselo. È la forma più pura del sentimento. Nel silenzio, una moltitudini di colori si scontrano e si proiettano verso l’alto, sotto forma di scintillanti arcobaleni. È un genuino rinascere dalle ceneri dopo anni e anni di cupa desolazione. Due cuori si uniscono e si fondono in uno, emergendo da un mondo colmo di oscurità e paure. Il silenzio dell’amore avvolge tutto, non dice nulla ma descrive ogni cosa. È un’esplosione che nessuno avverte. È il desiderio su una piuma.

    Labbra contro labbra, umide e inarrestabili, mentre i sospiri si tramutavano in soffi d'aria calda inebrianti. Baci languidi, occhi chiusi in una scoperta senza sosta. Le mie dita che si posavano sulle sue guance marcate e le sue dita, invece, che mi tenevano i miei fianchi.

    In quel totale senso di estasi, una canzone che conoscevo abbastanza bene passò alla radio.

    «Questa...», allentai il frenetico ritmo dei baci.

    Michael si scosse. «Cosa?»

    Ci guardammo negli occhi. Di certo non si sarebbe aspettato un’interruzione così brusca. Io sorrisi arrossendo e lanciai una fulminea occhiata alla macchina. Mi ero completamente dimenticata che la radio, seppur a basso volume, funzionava ancora.

    «We stand alone, warmed by the light that reflects in your eyes.
    I feel inside an emotional storm and a heart like a sky
    »

    «La canzone?»

    «A-ha...» bisbigliai. «Sono gli Spandau Ballet
    1... Dio, amavo questa canzone. Era la mia preferita».

    Adoravo quel gruppo: ero praticamente cresciuta con loro. Michael lo sapeva bene e li conosceva anch’egli (come poteva essere altrimenti?). Respirai a pieni polmoni e ascoltai devotamente. Anche Michael fece lo stesso, abbracciandomi forte.

    Abbandonai la fronte sulla sua scapola e osservai distrattamente la mascherina abbassata.

    «I’ve found the gold deep in my soul and I want to hang on
    Just one look of encouragement and I what I have here is heaven sent
    and hit from above
    ».

    Quella era la felicità? Quella era la sensazione di essere innamorati? Sentirsi completi, con la mente svuotata da ogni pensiero? Era quello il più grande sentimento al mondo? Sì. Era quello che avevo cercato per anni. Era la ragione per cui mi sentivo in grado di respirare a pieni polmoni. Era l'immenso, formato da silenzi e sussulti del cuore.

    Osservai Michael, commossa.

    «Ti posso dedicare anche questa?»

    Piegò lo sguardo in basso.

    «Certo...», sorrise.

    Mi dondolò piano fra le sue braccia e mi baciò la fronte. Fino a quando la canzone finì e anche più tardi, quando alla radio ne passò un’altra completamente diversa, Michael non disse nulla. Ad un certo punto mi prese il viso fra le mani e mi costrinse a fissarlo. E io, intimidita, lo feci: due lacrime spuntavano curiose dai suoi oceani lucenti. Un brivido risalì la mia spina dorsale dal basso.

    «Ti ringrazio, principessa», sorrise. Mi scoccò un altro bacio sulle labbra. Lungo, dolce, emozionante. «Per ogni cosa che riesci a donarmi».






    1 La canzone citata si chiama Crashed into Love (www.youtube.com/watch?v=84H02gdWAf0) degli Spandau Ballet. Consiglio di ascoltarla e leggere le parole, perché descrivono perfettamente il tipo di amore che pervade Michael e Sarah e la relazione in sé.

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