The Wish

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    Capitolo Ventisei: La Gelosia

    Sbuffando, posai il telefono sul comodino.

    Michael, il quale se ne stava comodamente seduto sul mio letto a gambe incrociate, mi scrutava curioso. Dondolava avanti e indietro col busto. La sua faccia era lo specchio dell’indifferenza… in apparenza.

    «Dalla voce la tua amica Margaret sembra una persona simpatica».

    Lo guardai storto, anche se divertita dal suo atteggiamento. Sapevo benissimo dove voleva arrivare a parare.

    Con lo scorrere delle settimane era tornato tutto alla normalità. La scuola procedeva più che bene per i bambini. Mi dedicavo alla loro educazione con tutta me stessa. Nel frattempo, Michael passava il tempo tra un impegno di lavoro e l’altro – si dedicava soprattutto alla raccolta di canzoni che di lì a qualche mese avrebbe pubblicato, The Ultimate Collection. Avevamo ridotto l'orario dei nostri incontri serali di qualche mezz'ora, finendo di chiacchierare massimo per le 23.00, esclusi i weekend.

    Era una sera di metà marzo 2004. Margaret mi aveva chiamato per sapere come stessi… ma, soprattutto, per sapere se quel David mi avesse cercato. Michael era rimasto con me tutto il tempo, tirando l’orecchio, e quando aveva udito quella particolare domanda mi aveva guardato sorpreso. Ma lo stupore era presto scemato in perplessità, e la perplessità si era trasformata in freddezza.

    «Che cosa c’è, Michael?»

    Storse un po’ il naso, proprio come avevo previsto.

    «Non mi avevi detto di aver incontrato un uomo, quel weekend a Los Angeles», mormorò con distacco, lanciandomi uno sguardo che avrebbe potuto inchiodarmi al muro.

    Socchiusi le labbra, sorridendo. «Ma… è un tizio qualsiasi!», risi, dandogli un buffetto sulla spalla, «Se fosse stato qualcuno di importante te lo avrei detto certamente. Sei il mio migliore amico, è ovvio che ti dico tutto».

    «Sei perfida, ragazza» mormorò a voce bassa. Si era un po’ offeso. «E soprattutto sei ingiusta».

    Inizialmente pensai che fosse semplicemente arrabbiato con me perché non gli avevo raccontato niente. Perciò, con un “Mmh” spazientito, feci roteare gli occhi verso l’alto. Mi sedetti di fronte a lui e Michael non fece una piega, pur non smettendo di osservarmi.

    «Ti racconterò tutto, allora». Battei le mani sulle cosce e gli rivolsi un sorriso tranquillo. «La prima e ultima volta che “questo David” mi ha chiamato è stata una settimana fa, per assicurarsi che fossi viva, a detta sua». Emisi un risolino divertito. Michael invece no. «L’ho incontrato in un bar con Margaret e ha insistito affinché ci scambiassimo i numeri».

    «E che tipo è?»

    Feci uno sforzo per ricordarmi come fosse. «Se non ricordo male è un tipo alto. Occhi azzurri, capelli castani. Magro, ma non troppo. Onestamente non rispecchia il mio tipo di uomo ideale. Ha un aspetto un po’ troppo infantile, nonostante abbia trent’anni».

    «Caratterialmente, intendo…», sussurrò con voce grave.

    «Mmh…». Feci spallucce. «Non ne ho la più pallida idea».

    Arcuò un sopracciglio.

    Stetti un attimo in silenzio, indecisa se proseguire con il discorso o meno. Non sembrava molto felice. Probabilmente mi pensava una sprovveduta, ma in quel caso non c’era da preoccuparsi. Di sicuro non avrei fatto il passo più lungo della gamba con uno sconosciuto. Non così su due piedi.

    «Perché quella faccia?», mi chinai in avanti, perplessa. Poi gli mostrai un sorriso, quello di chi la sa lunga. «Potrei quasi dire che tu sia geloso di me…».

    Evitò di rispondere.

    «Stai attenta», disse con tono serio. «Potresti avere incontrato un maniaco e non essertene neanche resa conto. Sii cauta, mi raccomando».

    Fui io a sollevare un sopracciglio, udendo quella frase. La sua espressione non cambiò di una virgola.

    «Mi stai dicendo che sono una stupida?»

    Scrollò le spalle.

    Spalancai la bocca. «Ma, Michael… non sono mica così incosciente!», esclamai basita. «E poi figurati se mi butto fra le braccia del primo che passa per strada! Non ci ho manco fatto una conversazione come si deve! Mi ha chiamato un mese dopo esserci “conosciuti”», feci il segno delle virgolette con le dita. «E se fosse un maniaco, mi avrebbe già tartassato di chiamate e domande fin da subito, no? Sono sicura che non mi pensa più!»

    Michael si umettò le labbra, incrociando le braccia al petto, e mi guardò di soppiatto.

    Gli poggiai una mano sul ginocchio. «Stai tranquillo. Non credo di interessargli. E neanche a me interessa, onestamente».

    Fece scoccare la lingua al palato. «Io non sono molto convinto, ma mi fido del tuo giudizio».

    Qualcosa in quella sua frase non mi convinceva. Anzi, diciamo che non mi piaceva proprio per niente. Era il suo atteggiamento nel complesso che mi irritava. Era geloso e non me lo voleva dire in faccia. Mi pensava una bambina di due anni e intanto diceva “Mi fido del tuo giudizio”, anche se in realtà non credeva manco ad una parola che avevo detto.

    Tolsi la mano, offesa.

    «Bene» dissi piano. Scostai gli occhi dai suoi – i quali improvvisamente mostrarono preoccupazione – e mi alzai in piedi. «Forse è meglio che ora io vada a dormire».

    Mi avviai verso il bagno.

    «Aspetta...», allungò un braccio.

    «Aspetta un corno! Si vede che me lo dici tanto per dire. Buonanotte!» sbottai dispiaciuta e irritata assieme, camminando veloce. Si era alzato in piedi, ma non mi impedì di andarmene.

    Con foga mi diressi verso la porta del bagno, intenzionata a nascondermi all'interno, in attesa che lui se ne andasse: non avevo più intenzione di parlarci, a meno che non si fosse deciso a dirmi quel che doveva dire – o almeno ci speravo. Volevo sentirmi dire che era geloso.

    Mi chiusi dentro e girai la chiave, rumorosamente, sbuffando. Rimasi appoggiata alla porta con le orecchie ben aperte, attenta a qualsiasi suono, per sentire cosa avrebbe fatto.

    Non ci fu nessun rumore per parecchio tempo. Qualche minuto dopo la porta della mia camera si aprì con uno schiocco, e il rumore della maniglia che si abbassava mi fece comprendere che se ne stava andando. La richiuse piano.

    Non udii più un passo.

    Michael se n’era andato.

    Indietreggiai e mi allontanai dalla porta. Mi sorressi al lavabo per guardare la mia immagine allo specchio: la mia espressione era un mix di delusione e risentimento. Mi pentii subito per ciò che avevo fatto.

    Mi lavai i denti e il viso ed uscii dal bagno. Pregai che Michael fosse lì ad aspettarmi, nascosto da qualche parte, o seduto sul letto... solo la debole luce del comodino mi faceva compagnia.

    Mi aveva lasciato lì come un’idiota.

    Lui era l'idiota.

    E solo perché era testardo.

    Presi il pigiama adagiato sulla sedia, quella accanto alla scrivania. Mi spogliai di jeans, maglia e pure reggiseno – mi dava un enorme fastidio dormire con quell'indumento – e mi coricai a letto pensierosa... pensierosa e ferita da Michael che stupidamente non si era curato di restare o parlare con me, come una persona adulta.

    Non che io però, fuggendo, fossi stata più matura di lui…

    Chiusi la luce e mi coricai a letto. Ero agitata come non mai, tanto da non sapere in che posizione stare. M’allungai per bere un sorso d'acqua dal bicchiere sul comodino. Prima che potessi raggiungerlo, due mani mi cinsero i fianchi, facendomi più o meno cadere dal letto. Emisi un urlo stridulo. Rimasi attaccata al pavimento con le mani, evitando un frontale diretto con il parquet, mentre il resto del corpo rimase ben saldo al materasso.

    Mi tirai su con un'espressione sconvolta e i capelli scompigliati... e quell'idiota di Michael che se la rideva al mio fianco a causa dei suoi scherzi cretini!

    Riaccesi la luce.

    Lo fulminai con un’occhiata, ma Michael se ne fregò completamente: lo scemo continuò a ridere a crepapelle. Aveva il capo nascosto fra le braccia, le quasi se ne stavano appoggiate alla sponda opposta del letto. Le spalle sobbalzavano per via degli spasmi di ridarella acuta. I vestiti erano quelli di prima. Michael non se ne era mai andato da quella stramaledetta stanza.

    «Da dove spunti fuori?!» stridetti con un'ottava più alta rispetto al solito, quasi fastidiosa da udire, sbarrando le palpebre.

    Alzò la testa con le lacrime agli occhi. «Mi sono nascosto sotto il letto» esclamò fra le risate sommesse. «Non... non immagini la tua faccia!».

    «Be’, sinceramente preferisco non vedermi» sbottai dalla rabbia. Tornò a ridere di me. Presi il mio cuscino e glielo gettai in faccia. «Tu e i tuoi scherzi stupidi!»

    Mostrò un ghigno malizioso. Lo afferrò con la velocità di una gazza ladra, prima che riuscissi a colpire il bersaglio.

    «Michael...» aggrottai la fronte. «Ridammelo subito! Devo dormire. Ho sonno. E in più dovresti essere lontano da qui, in camera tua!»

    Non andartene...

    Sorrise furbescamente. «Chi ti dice che io voglia andarmene?»

    «Lo dico io» arrossii. «Non abbiamo niente da dirci».

    «Lo dici tu...» Adagiò il cuscino e vi si sedette sopra. «Ma se lo rivuoi indietro hai due possibilità: o parliamo di quello che è accaduto prima, o...» M'allungai per prendere l'altro, quello in parte, ma Michael fu più veloce... «o mi salti addosso cercando di strapparmelo con la forza, cosa che non ti riuscirà facile», e lo gettò dall'altra parte della stanza.

    Fissai il punto dove era atterrato.

    Mi imbronciai.

    «Sei perfido».

    «Voglio solo risolvere questa cosa con te...». Fu disarmante. Mi squadrò dall’alto in basso con due occhi dolcissimi. «E tu mi ascolterai con calma, non è vero?»

    Assunsi un’espressione infastidita. «Questo tuo modo di fare mi alza così tanto il livello di glicemia nel sangue che tra poco vado in coma diabetico».

    Rise a voce bassa. «Non scherzare, sono serio!»

    Sorrisi piano e scrollai le spalle. Michael abbassò lo sguardo sulle sue dita, le quali ticchettavano sul materasso seguendo una melodia conosciuta a lui soltanto. Si bagnò le labbra per ben due volte.

    «Scusa»

    Lo guardai in silenzio.

    «Ma ho paura per te. Non voglio che ti cacci nei guai» sussurrò. Mi scrutò con dispiacere. «So che sei una donna responsabile e intelligente. Ma al contempo sono molto protettivo e non voglio che tu soffra inutilmente».

    Silenzio...

    Gli angoli della bocca si incurvarono all’insù.

    «Ho capito, non ti preoccupare. Scusami tu, per essermene andata così di botto…».

    Ricordai solo allora che non indossavo il reggiseno.

    Dannazione.

    Fingendo indifferenza mi tirai su le coperte fino al collo.

    «Ora ti devo lasciare dormire, credo... è fin troppo tardi per te, piccola» mi scoccò un'occhiata furbesca, osservando la delusione nei miei occhi. Distese la fronte. «O preferisci che resto...?»

    Gli indirizzai un sorriso a trentadue denti.

    Sogghignò deliziosamente, scuotendo il capo. «Ok, però devi dormire...»

    Con uno scatto si distese sul lato vuoto del letto, ponendosi sul fianco giusto per potermi guardare accuratamente. Michael si tirò via i mocassini dai piedi per potersi infilare sotto con me: ero distesa e con le lenzuola che mi coprivano fino al naso. I miei occhi ridevano.

    «Credo che se fossi un cagnolino, ora scodinzoleresti...», sorrise.

    Feci una smorfia stranita e indecifrabile, alzando un sopracciglio con una certa espressività. Iniziò a sghignazzare per l'ennesima volta. Si infilò sotto le coperte. Lentamente si lasciò cadere sul materasso, emanando con un debole sospiro.

    Ci guardammo in silenzio, scrutando l’uno il viso dell'altro.

    Era incredibile quanto non vedessi difetti in lui. Gli volevo un bene dell'anima, un affetto profondo che andava ben oltre l'aspetto, che s’insediava nella parte più intima della mia essenza. Questo sentimento lo avrebbe reso magnifico ai miei occhi anche se, col passare del tempo, la vecchiaia avrebbe fatto il suo corso. L'unica occasione in cui più mi faceva male vederlo era l'attimo in cui il suo sguardo s'intristiva. Se avessi potuto cancellargli dagli occhi quella spessa nebbia di sofferenza, quel dolore che talvolta gli accecava la vista, lo avrei fatto sicuramente.

    «A cosa pensi?» domandò Michael con un fremito. Mi guardò le labbra con occhi assorti. La sua mascella scolpita risaltò grazie ad un lieve sorriso. «Sembri pensierosa...»

    Espirai profondamente.

    «In realtà non pensavo a nulla» mentii.

    Lui mi sfiorò una guancia con un dito. Non rispose, rimase semplicemente a studiarmi... distante – forse neanche tanto – di venti centimetri.

    «E il cuscino non lo prendi?»

    «Uh?»

    «Il cuscino laggiù» indicai la parete alle mie spalle, in direzione del terrazzo. «Il cuscino che hai gettato...»

    «Ti dispiace se ne condividiamo uno in due?»

    Scossi il capo. «No, affatto».

    «Dai, avvicinati...» ridacchiò.

    Avanzò lentamente e io gli feci spazio. Michael distese il braccio sotto la mia testa, abbracciandomi la spalla; mi rannicchiai raggomitolandomi contro il suo petto. Vi adagiai la testa sopra e ascoltai il suo battito cardiaco: andava veloce. Al contatto con la sua maglia, quel suo profumo di uomo e di pulito mi mandò in estasi.

    «Sei comoda?»

    «Mmh-mmh...» annuii debolmente.

    Abbassò il capo. «Hai freddo?»

    «No...»

    Strofinò una mano sul braccio che lo cingeva e l'altra sulla nuca. Prese una ciocca di capelli e lo strofinò con cura tra i polpastrelli; ci giocò distrattamente. Rabbrividii. Michael mi cinse ancora più forte.

    Chiusi gli occhi, rilassata. Mi sentivo assonnata, avvolta in un mantello di pace totale... ma li riaprii nell'istante in cui lo udii, con un soffio carezzevole, cantare sottovoce al mio orecchio. Alzai lo sguardo.

    «Hold me, like the river Jordan, and I will then say to thee... you are my friend... carry me, like you are my brother... love me like a mother... will you be there?»

    Lo studiai tentando di capire quale canzone fosse. L'avevo già udita – ne ero certa – ma la dolcezza della sua voce mandò in tilt la mente e i suoi ragionamenti. Non capivo più niente quando mi sussurrava o cantava all’orecchio, cosa che avveniva spesso in quell’ultimo periodo. La sua attenzione puntava dritto al soffitto.

    «When weary, tell me will you hold me... when wrong, will you mold me... when lost will you find me?»

    Le iridi indugiarono su di me con un accenno di malinconia. Sorrise piano, forse imbarazzato, senza smettere di canticchiare quelle amabili parole d'affetto. Ero incollata al suo corpo, appesa al suono della voce, esattamente come una calamita è attratta dal suo magnete... e Michael sapeva di farmi quell'effetto.

    «But they told me... a man should be faithful... and walk when not able... and fight till the end, but I'm only human...»

    Venni percorsa dai brividi.

    Michael s'interruppe. Mi strofinò il braccio per scaldarmi, ma era ovvio anche a lui che non avevo freddo. Mi scoccò un bacio sulla fronte sfiorandomi i capelli; come reazione a questo gesto strofinai piano le tempie sulla sua maglia. Emise uno spasmo di risata.

    «Mi sbagliavo. Sembri più un gattino che un cane...» rise lievemente, con un tono decisamente più caldo del solito. Lo puntai proprio nel momento in cui si mordicchiava il labbro. Il fiato parve bloccarsi in gola. «Mi stai facendo le fusa?».

    «Ti piacerebbe», gli mostrai la lingua.

    Lo sguardo cambiò. Il sorriso non era più dolce e gentile. Era vagamente malizioso.

    «Non provocarmi...».

    «Provocarti io? E perché mai?», mostrai un sorriso e una faccia di bronzo senza precedenti.

    Mi prese il volto infossandomi due dita – pollice e indice – nelle guance. Avvicinò la mia bocca alla sua. Una nuova luce guizzò nelle sue iridi, illuminandole tanto quanto la più bella costellazione dell’universo.

    «Perché sei molto, molto pericolosa», sussurrò a fior di labbra. Le sue iridi scure studiarono ogni mio lineamento. «E non vorrei che ti cacciassi in brutti guai...»

    Non connettevo più.

    Credetti che parlasse così per scherzare... o almeno, volevo illudermi che così fosse.

    Cacciai fuori la lingua una seconda volta, socchiudendo gli occhi in assenza di parole. Michael sogghignò e mollò la presa; miagolai un «Ahia...» e m’imbronciai. Mi dette della «Esagerata». Ci mancò poco che lo incenerissi con gli occhi, ma la finta ostilità del mio sguardo era solo un modo per difendermi dalla situazione e dalle parole che mi avevano visibilmente scombussolata. Mi disse che era meglio che dormissi e che lui non se ne sarebbe andato... ragion per cui mi appoggiai di nuovo al suo torace e osservai con attenzione le mani che teneva sulla pancia, da sopra le coperte.

    Non sarebbe stato facile capire perché il mio cuore batteva quasi quanto il suo.

    *

    Ehi ciao, sono David.
    Sei sparita dall’ultima volta che ti ho chiamato, tutto bene?

    Meditai su cosa fosse più opportuno rispondergli. Scrissi un messaggio, ma lo cancellai. Lo riscrissi.

    Ciao! Scusami, sono stata molto presa dal mio lavoro.
    Chiedo scusa se sono sembrata scortese. Come stai?

    Inviai e attesi la risposta.

    Chiusi momentaneamente la chat e visitai il suo profilo MySpace con il computer.

    Mi ero iscritta al sito due settimane prima, solo perché Margaret aveva insistito tanto. In realtà non amavo quel tipo di social network. Non l’avevo utilizzato fino a quel giorno, quando per la prima volta mi ero messa a curiosare tra i profili della gente. Lì avevo visto che David, il ragazzo del bar, mi aveva inviato un messaggio in chat privata. Anche lui aveva insistito affinché creassi il profilo – durante la nostra prima chiamata. Così, a detta sua, avremmo potuto chiacchierare di più.

    Andai a vedere se – tra gli utenti iscritti – ci fossero anche alcuni dei ragazzi o delle ragazze conosciute molti anni prima, durante la mia carriera universitaria. Con mia grande sorpresa c’erano tutti. Evitai di inviare loro richieste di “amicizia”.

    Arrivò un nuovo messaggio.

    Io sto bene, e tu? Se non sono scortese, posso chiederti che lavoro fai?
    Qui al bar il lavoro non manca mai. Dovresti passare di qua, un giorno.

    Nel momento stesso in cui cominciai a rispondere David, Michael entrò in mia camera con passo silenzioso, avanzando piano verso la scrivania.

    Sono un’insegnante, grazie per averlo chiesto.
    Al momento non prometto nulla, ma ci farò un pensiero, lo giuro.

    «Che stai facendo?»

    Sobbalzai, emettendo un sottile grido spaventato. Mi voltai e vidi Michael appoggiato sullo schienale della poltrona con le mani. Aveva la testa qualche centimetro sopra la mia. Scrutava il monitor con aria curiosa ma impassibile.

    «Ah...» dissi incerta. Chiusi la chat e immediatamente apparve il profilo di David. «Sono in chat con il ragazzo di cui ti ho parlato tempo fa, quel David... ti ricordi?»

    Mi puntò interessato. «Ah sì? Come sta andando?»

    Dall’ultima volta in cui avevamo tirato fuori l’argomento sembrava più rilassato.

    «Mah, troppo presto per dirlo. È questo qui… vedi? Non ho idea di chi siano gli altri ragazzi in foto con lui… probabilmente colleghi di lavoro. Comunque mi ha scritto non appena mi ha visto online. Ora vediamo come va e come si comporta».

    Strinse gli occhi e si allontanò dal monitor per vederci meglio. «David Myers?»

    «Già» dissi. «Per ora l’educazione non gli manca».

    «Di che parlate?»

    Michael si inginocchiò – in mancanza di una sedia dove sedersi – e rimase lì a rompermi le scatole per un po’, continuando a fissare me e il computer con una faccia da schiaffi. Da quando gli avevo comunicato che mi ero fatta MySpace solo per Margaret – praticamente per caso e qualche giorno prima – mi stava continuamente addosso. Lui lo definiva “farmi compagnia”, io invece “invadere la mia privacy”.

    Ricevetti un altro messaggio in chat e Michael drizzò subito le orecchie.

    Quando vuoi. Sarebbe una buona occasione per conoscersi meglio.
    Al telefono mi hai detto che hai studiato alla Harvard di Boston, ricordo male?

    «Ecco di cosa parliamo» ridacchiai aprendo il messaggio.

    Lo sguardo di Michael era incollato al computer. Mostrò un’espressione indefinibile e io lo ignorai.

    «Conta che la prima volta che abbiamo parlato al telefono ci siamo detti due parole in croce. Quindi sicuramente ci vorrà del tempo per capirsi e conoscersi. Stai tranquillo, per il momento sembra andare tutto bene».

    «Certo...» bisbigliò impercettibilmente.

    «Uh?»

    Non rispose. Nei suoi occhi si rifletteva il bagliore azzurrino dello schermo.

    Scrissi un messaggio a David come se niente fosse, scrollando le spalle. Credetti che Michael stesse male per paura che mi scordassi di lui e dei suoi figli... ma soprattutto di lui. Cosa che era assolutamente impossibile.

    «Michael», lo fissai, attirando il suo sguardo. Se ne stava a braccia conserte, esaminandomi in maniera imperturbabile. «Perché non ti fai anche tu un profilo MySpace? Magari ti inventi un’identità!»

    S’accigliò. «Inventare un’identità?»

    «Sì! Sarebbe divertente, no? Poi diventiamo “amici”».

    Gli proposi questa idea soltanto per farlo sentire meno solo.

    «Mmh...», sfoggiò una smorfia pensosa. Rimase in silenzio e io ne approfittai per rispondere ad un messaggio di David. «Ci penserò...»

    Gli sorrisi. «Sì, pensaci... mi farebbe piacere».

    Per dieci minuti nessuno dei due disse una parola. Io continuai a chattare con David dimenticandomi, non volontariamente, della presenza di Michael. Quest’ultimo si alzava e si chinava continuamente; tentò di attirare la mia attenzione mettendo mano sulla tastiera e premendo tasti a caso, o addirittura “spogliandomi” della t-shirt che indossavo, o tirando gli elastici del reggiseno... tutto questo con lo scopo di farmi arrabbiare. Ad un certo punto – quando comprese che avevo capito la sua tattica e mi mostravo indifferente ad ogni tipo tortura – sospirò.

    «Sai che al processo forse testimonierà Lisa Marie?»

    Aggrottai le sopracciglia. Lo guardai. «Chi?»

    «La mia ex moglie, Lisa Marie Presley», rimase impassibile.

    Schiusi le labbra, meravigliata.

    «La figlia di Elvis Presley. Sì... non fare quella faccia, ero davvero sposato con lei!», ridacchiò. «Siamo stati insieme per quasi due anni, ma non è andata», si umettò le labbra e fissò lo schermo.

    «Ohhh...», mormorai sbalordita. «E che tipo era?», mi feci più seria. «Che provi all’idea di rivederla?»

    La mia curiosità gli fece abbassare lo sguardo.

    «Well, uhm...». Era pensieroso e nostalgico. «Era dolce. A primo impatto non sembrerebbe, ma è una donna molto gentile. Ad ogni modo è una storia conclusa e non credo che accetterà assolutamente. Ha la lingua un po' avvelenata quando di parla di me, da un paio di anni a questa parte...», si accigliò appena. «Tuttavia mi è sempre rimasta vicina quando…».

    Si ammutolì per qualche istante.

    «Quando...?» pigolai curiosamente.

    Emise un respiro meditabondo, allacciando le dita delle mani in una forte stretta. Si umettò le labbra con fare nervoso, non proprio felice di dovermi spiegare quella storia. Prima di parlare si mise una mano dietro il collo, massaggiandoselo piano.

    «Quando venni accusato di pedofilia nel ‘93».

    Lo puntai senza enunciare una parola. Mi gettò un’occhiata penetrante.

    «E», proseguii, «perché non è andata?»

    «Non è facile starmi accanto». Era serio, non tentennava. «Con il senno di adesso, capisco che non potevamo andare d'accordo. Avevamo un carattere tosto, entrambi a fare i capricci per cose futili. Lei c'è sempre stata per me, ma non eravamo compatibili. Forse pretendeva troppo e io non ho saputo apprezzarla abbastanza, ma Lisa non mi comprendeva del tutto e mi fece promesse che poi non mantenne...», gesticolò.

    «Ad esempio?»

    Inspirò. «Io... io volevo dei figli. Da morire. Volevo diventare padre. Lei mi promise che lo sarei diventato, che mi avrebbe dato dei bambini tutti per me, per noi. Ma così non successe. La cosa mi ferì profondamente. Lei ne aveva già due. Allora perché fare promesse che non poteva mantenere? Lisa non è mai stata una cattiva persona. Era particolare, con un carattere un po’ difficile, così come lo è il mio. I media pensavano che fosse tutta una facciata, ma io l’amavo. È stata speciale, nel bene e nel male».

    Michael curvò la schiena e poggiò le mani sulle ginocchia. La sua mente vagava nel vuoto, l'espressione era assente. Assunsi un’aria dispiaciuta, mentre l’animo si appesantiva con amare sensazioni che non seppi riconoscere immediatamente.

    «Scusa», dissi. «Non avrei dovuto farti raccontare questa storia...»

    Sentii che mi osservava, ma non disse nulla.

    Io neppure.

    Michael dette uno spasmo di risata improvviso e sollevai la testa per incrociare i suoi occhi; scuoteva il capo e mi fissava con un'espressione che nemmeno io, or ora, sarei capace di definire. Sbattei le ciglia con stupore.

    «Tu, piccola ragazza ingenua», mi si avvicinò al viso. Era stranamente incupito. «Non devi chiedermi scusa, hai capito? È un avvenimento che non si può cancellare. Il passato è passato, sono andato avanti da un pezzo. Era giusto che ti parlassi di lei... o che almeno te ne accennassi... ma se sei curiosa, presto ti racconterò di me e di Lisa nei dettagli, lo giuro».

    Stirai un sorriso pregante. «Non me ne puoi parlare subito?»

    «Mmh-mmh...» dissentì sorridendo.

    Sbuffai.

    Un trillo. Era arrivato un nuovo messaggio da parte di David. Riportai la mia attenzione sul computer e congedai Michael con un frettoloso «Aspetta, eh...». Quest'ultimo non emise parola, finché non si alzò in piedi. Gli gettai una rapida occhiata dubbiosa. Sembrava tranquillo.

    «Se vuoi puoi anche cercare qualcosa su Internet – riguardo me e Lisa, intendo. Ma non credere a tutto ciò che leggerai» disse. «Internet non è sempre affidabile...» e con questo fulminò lo schermo.

    «Dove vai?» chiesi.

    «Vado a leggere la favola della buonanotte ai miei bambini» spiegò frattanto che si avviava alla porta della mia camera, dandomi le spalle. «Ci vediamo fra poco, se vuoi...»

    E prima che gli potessi rispondere uscì fuori; la reazione a quel suo atteggiamento fu palesemente eloquente: non credevo possibile che fosse geloso di me e del computer!

    O di me e David...

    Quando Michael era geloso – e il signorino lo era – aveva due modi per farlo capire: o si mostrava smielato, pieno d'attenzioni verso colei per cui era geloso, affinché lui ritornasse il centro del mondo, oppure semplicemente ignorava; qualche volta spariva per delle ore, si mostrava spensierato sebbene ribollisse di rabbia. Sapeva di essere un tipo geloso, protettivo nei confronti di chi amava, ma lo nascondeva grazie a una impalpabile coltre di orgoglio; gli piaceva ricevere attenzioni, farsi pregare, e in casi peggiori utilizzava anche un metodo spietato per restituire la sofferenza incassata: la vendetta. Michael era sottilmente vendicativo: ti dava tutto l’amore del mondo e un attimo dopo te lo toglieva come se nulla fosse, per fartela pagare: era un vero e proprio stronzo se si metteva.

    Ritornai al PC.

    Parlai con David a lungo, chiedendogli scusa per le mie assenze improvvise, ma lui disse che non dovevo preoccuparmi; più passava il tempo, più quel ragazzo continuava a farmi complimenti sulla mia persona... e io non mi fidavo di chi me ne faceva troppi, soprattutto senza neanche conoscermi bene. Parlammo di una delle nostre serie Tv preferite, The Fresh Prince of Bel Air, e nel bel mezzo della conversazione il PC si spense. Tutte le luci divennero ben presto prigioniere del buio, mentre la sottoscritta si guardava intorno con esitazione.

    Un blackout...

    Michael.

    Un grugnito seccato mi scappò di bocca. Ero consapevole che fosse stato lui la causa del misfatto.

    Non che ne avessi le prove, ma… un blackout alle 23 di sera? Incrociai una gamba sopra l'altra e attesi, impaziente per il suo arrivo – perché ero sicura che sarebbe arrivato, prima o poi – e anche decisamente contrariata.

    Se c’era una cosa che non sopportavo erano quegli scherzi idioti, fatti solo per una sorta vendetta personale.

    Attesi qualche minuto.

    Quando i miei occhi si abituarono al buio – e la mia pazienza si ridusse al minimo – mi alzai dalla sedia. A tentoni e piccoli passi avanzai nel buio, fino a quando la porta d'entrata non venne aperta. Mi immobilizzai di colpo.

    «Sarah?»

    «Sì...?»

    «Stai bene?»

    «Una meraviglia», dissi con una sottile vena di sarcasmo. «Tu, Michael? E i bambini?»

    «Stanno già dormendo, grazie a Dio» mormorò. Di già? Ma che velocità straordinaria, mi dissi con una certa ironia. La sua voce si fece più vicina, così come il rumore dei piedi che echeggiavano a contatto col pavimento. «Io sto bene. C’è stato un blackout»

    «Eh» dissi. «Chissà quale spiritello lo ha causato».

    Lo percepii a qualche centimetro da me.

    «Cosa intendi?»

    Andai dritta al punto. «Sei stato tu?»

    Mi trattenni dal ridergli in faccia. Quella situazione – per quanto irritante che fosse – era anche comica.

    «Io?»

    «A-ha»

    «Non ho fatto nulla!».

    «Ti conviene dire la verità. Non ti mangio se così fosse...» borbottai, «anche se a dir il vero ti ucciderei volentieri, solo per aver interrotto la mia conversazione con David!».

    Glielo dissi apposta.

    Michael espirò pesantemente.

    «Scusa» chiese in tono inflessibile, «ma ci scriverai ancora? Tutta la sera?»

    Era allibito. Potevo immaginare la sua mascella irrigidirsi, le sopracciglia aggrottarsi impercettibilmente e i suoi occhi formare una fessura di finta perplessità. Ormai prevedevo le sue reazioni.

    «Sì, e pensavo di continuare fino a domani mattina. Sempre che questo blackout non mi rovini i piani...»

    «Già» disse seriamente. «Immagino».

    D'improvviso fui colta da un moto di schiettezza assurda. Posi le mani sui fianchi e m'avvicinai.

    «Perché sei geloso?» chiesi. «Insomma, di cosa lo sei? Lui non è te. Nessuno è come te… non capisco cosa temi!»

    Michael non rispose.

    Il mio seno sfiorò il suo torace.

    Battei un piede a terra. «Michael?»

    «Sei mia amica» rispose a bassa voce, molto lentamente. «E queste conoscenze online non mi piacciono. Non mi piace il modo con cui ti scrive, ti fa troppi complimenti...»

    «Solo questo?»

    Secondo silenzio.

    «Sì».

    «Ne sei sicuro?»

    Terzo silenzio.

    «Sì...»

    Sospirai.

    «Ok».

    Feci dietrofront. Tastando il vuoto, osai fare un passo verso la scrivania, ma Michael mi prese per le braccia e mi tenne ferma. Tremai, ma non fece segno di accorgersene. La presa era energica, più di quanto potessi immaginare.

    «Aspetta...» bisbigliò trattenendo una risata soffusa, «non si vede nulla, potresti andare a sbattere».

    Michael aveva compreso, col passare dei mesi, che ero un pericolo ambulante. Nonostante sembrassi una ragazza posata e raffinata, in realtà ero molto goffa: andavo a sbattere sugli spigoli, sulle porte, o inciampavo sui miei stessi piedi come minimo una volta al giorno, soprattutto in sua presenza, e questa mia goffaggine lo faceva sempre sganasciare. Non mi meravigliai che si stesse trattenendo.

    «Mi prendi anche in giro?».

    «Capitan Ovvio, mi preoccupo solo per la tua incolumità. Con la tua sbadataggine potresti ammazzarti!», sogghignò.

    Risi, abbandonato il capo all’indietro. Mi accarezzò le braccia affettuosamente.

    «Come sei spiritoso!».

    Cercai di scampargli ma non ci riuscii.

    «Non far lo scemo, dai...!», ridacchiai nervosamente.

    «Chi ha detto che sto facendo lo scemo?», La sua meravigliosa voce rauca mi dette alla testa. Sentii il suo petto riempirsi di ossigeno. Smisi di sorridere. «E se il sottoscritto non volesse lasciarti andare?»

    Il cuore mi batté forte.

    «Perché mai?», abbassai la voce. «Io non ho intenzione di fuggire...»

    Feci un passo verso di lui. Il petto di uno si scontrò con quello dell’altro, stavolta più forte di prima. Michael mollò la presa. Il respiro si era trasformato in un nodo in gola, ma feci finta di nulla. Tenni lo sguardo alzato, pur non vedendo nulla, e nessuno ebbe il coraggio di muoversi; la sua mano destra si sollevò piano, si bloccò a mezz’aria e poi si ridistese sul fianco.

    «D’accordo», disse Michael, serio. «Allora vado a cercare qualcuno che possa sistemare questo blackout. Magari trovo qualcuno in grado di...». Pausa. «Di aiutarci...»

    Annuii anche se lui non poteva vedermi. «Ok».

    Quando si separò dal mio corpo mi parve di essere in grado di respirare di nuovo. Il rumore dei suoi passi mi dette modo di capire che si stava allontanando. Al debole cigolio della porta quasi sussultai.

    «Arrivo subito, non ti preoccupare», mormorò. «Vedi di non ammazzarti».

    Sorrisi con l’inquietudine negli occhi. «Farò del mio meglio».

    Immaginai che stesse facendo lo stesso anche lui.

    «A fra poco, principessa».

    La porta non si chiuse.

    A piccoli passi mi accostai al letto. Mi sedetti e inspirai a fondo, per non pensare all’emozione che poco prima mi aveva sopraffatto. Forse avevo solo paura di riconoscere l’effetto che Michael aveva su di me. Eppure c’era un perché se, poco prima, gli avevo detto “Non ho intenzione di fuggire”.

    Entrambi, in fondo, sapevamo.

    Sapevamo tutto.

    Dieci minuti più tardi tutte le luci ritornarono a funzionare normalmente.

    *

    Qualche settimana più tardi partii con Michael a Washington, assieme ai suoi bambini e ad un entourage di parecchie persone, quali cuochi, tate, ecc., sotto suo insistente invito. Doveva ricevere un Elefante d’Oro dall’AASA, simbolo di riconoscimento per il suo lavoro compiuto in Africa con lo scopo di sconfiggere l’AIDS.

    Per una settimana rimanemmo ad alloggiare in casa di una famiglia ben disposta ad ospitarci e a mantenere segreta la presenza di Michael, proteggendolo così da paparazzi e tabloid: Michael cercava insistentemente un posto dove rifugiarsi dalla cattiveria di chi voleva distruggerlo, un luogo sicuro dove potesse non pensare alla sua sofferenza.

    In realtà sapevo bene perché mi aveva chiesto di andare con lui, e il motivo non era solo l’affetto che provava per me o il mio ruolo di insegnante. Il motivo principale era, in effetti, la sua gelosia.

    Geloso per quale motivo?

    Pressoché in quel periodo la mia “amicizia” con David divenne un po’ più intensa; a lui interessava conoscermi di persona. Costantemente mi chiedeva quando fossi disponibile per uscire con lui. Si mostrava sempre più affabile nei miei confronti. E siccome la sottoscritta era fin troppo trasparente e sincera con Michael – finendo addirittura per dirgli che quel ragazzo mi aveva chiesto un appuntamento proprio la settimana del primo aprile – approfittò per portarmi a Washington assieme a lui.

    Non ci arrivai subito. L’ultima cosa a cui pensavo era che Michael potesse provare certi sentimenti per me; era bravo – fin troppo, probabilmente – a nascondermi queste cose. O forse io troppo stupida per riconoscerle.

    Al nostro ritorno il clima era pacifico, esattamente come lo avevamo lasciato. Le preoccupazioni di Michael riguardo la presenza di David nella mia vita vennero meno, forse perché il ragazzo non mi aveva più chiesto di uscire; io e Michael stringevamo un’amicizia sempre più intima e fra noi c’era serenità, ci divertivamo e delle volte – comprensibilmente – lo aiutavo ad uscire dalla sofferenza che talvolta lo possedeva. Non era tutto rose e fiori per lui e, sebbene il mio affetto lo allontanasse un po’ dal dolore, qualche volta crollava lo stesso. Ogni tanto cercava solo un abbraccio, altre volte desiderava le mie parole, affinché potessi aiutarlo ad uscire dal torpore delle accuse. Era un essere umano come tutti, aveva le sue paure e i suoi momenti di smarrimento. Nonostante tutto, era una roccia.

    Il 22 aprile detti a Michael la notizia che David mi aveva chiesto un altro appuntamento.

    Era un giovedì e quella settimana si era deciso di tornare a Neverland il mercoledì, invece che il sabato mattina. A volte ai bambini mancava la loro vecchia casa e – in particolare – tutti gli svaghi che questa possedeva. Michael non se la sentì di dir loro di no, a patto che non si saltassero le lezioni.

    Eravamo nella sua libreria privata ed era un pomeriggio inoltrato. Il giorno di scuola era terminato da un pezzo e tutti e tre i bambini erano usciti con Grace.

    «Un appuntamento, uh?»

    Alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo con fare serioso. Mi analizzò, attento e inflessibile, mentre i lineamenti del suo viso si indurivano. Le dita che tenevano strette la copertina del volume si contrassero leggermente.

    «Sì, ma non ho ancora dato conferma. Per questo volevo avvisarti che venerdì sera potrei non essere a casa», gli rivolsi un mezzo sorriso.

    Alzò impercettibilmente un sopracciglio. «David?»

    Annuii piano.

    «Oh, ok», e tornò tranquillamente alla lettura del suo libro.

    Aspettai qualche istante, perplessa. Mi strinsi nelle spalle e, nel momento in cui finii di studiare il suo volto e ripresi a leggere un altro paragrafo de Il Cavaliere d’Inverno, Michael sospirò. Lo fissai curiosamente. I suoi occhi ammiravano le grandi vetrate della libreria.

    «Io ti consiglierei di non andare», disse con una voce più cupa del previsto. Si bagnò le labbra con insistenza. «È troppo strano. Ti scrive spesso ed è decisamente smielato. Non mi convince».

    Michael mi squadrò in silenzio. Lo puntai sconvolta, sorridendo, evitando di mostrare un’espressione irritata.

    «Uh?».

    «Voglio dire che non mi piace quel tipo», disse alzando un po’ il tono, fissando la parete. Posò il libro sulle ginocchia. Era innervosito. «Non mi piace che tu decida di uscire con gente che non hai conosciuto di persona. Non sai nemmeno se sono raccomandabili o meno. E se ti sta usando?»

    Aggrottai la fronte. Ero veramente troppo sbigottita per formulare una risposta pronta, tant’è che incrociai le braccia al petto e rimasi a riflettere sulle sue parole per un paio di minuti. Cercai di comprendere il perché della sua inquietudine senza arrabbiarmi per la maniera in cui si stava comportando.

    «Michael, ascolta... io con questo ragazzo ci ho anche parlato, in webcam, e non una volta soltanto. Quindi–»

    «Cosa?».

    «Sì, ci ho parlato in webcam giorni fa» arrossii, annuendo e alzando le mani al cielo. Non avevo fatto nulla di male dopotutto. «Ne abbiamo fatte tre ormai!»

    Michael era sconcertato.

    Si umettò la bocca e scostò lo sguardo dalla mia figura, scuotendo la testa. Continuò a dissentire frattanto che i suoi occhi emettevano scintille di disapprovazione misto a timore. Credevo che neppure lui sapesse più cosa provare. Era dispiaciuto? Era arrabbiato perché non gli avevo detto delle videochiamate? Era geloso?

    Era quel tipo di gelosia che riservava a un amico qualunque?

    «Io... non ho parole, davvero», bisbigliò.

    Contrassi il viso in un’espressione dura. «Neanche io».

    «E se ti vuole conoscere perché desidera far sesso? Ci hai pensato?». Mi scrutò arrabbiato e deluso. «Penso che dovresti pensarci un po’ su, prima di fare errori del genere...»

    Boccheggiai, sorridendo dalla collera. Lasciai cadere la schiena sulla poltrona sbattendo le mani sui poggioli. Guardai in qualsiasi direzione che non fosse quella di Michael, solo per non incenerirlo con gli occhi.

    Mi alzai improvvisamente, senza finezza o garbo.

    Lo linciai.

    «Ti ricordo che io non ti ho mai fatto tutte ‘ste scenate, quando stavi con la tua ragazza, Joanna», esclamai con voce arrabbiata e tremante. Mi osservava con un misto di riguardo e irritazione. Così mi faceva arrabbiare ancora di più. «Sai una cosa? Non vedo perché tu debba comportarti in questo modo. Tu puoi farti tutte le ragazze che vuoi, ma io non posso uscire con un uomo?».

    «Joanna non era una qualunque».

    Era teso come una corda di violino, ma io non ero da meno. Quella frase riuscì a colpire un qualcosa che mi fece salire ancora più rabbia in corpo. Non era delusione… neanche permalosità… era gelosia?

    «E allora potevi anche restarci insieme!»

    Feci retrofronte e mi avviai verso la porta della libreria.

    Prima di lasciarlo definitivamente, mi arrestai sullo stipite. Gettai un’occhiata torva alle mie spalle.

    «Se hai qualcosa da dire, dilla e basta. Altrimenti lasciami vivere la mia vita. Non sono una bambina, e tu non sei mio padre!», proruppi velenosamente, mentre il mio respiro perdeva il suo ritmo regolare e gli occhi si bagnavano di lacrime.

    La faccia di Michael fu incomprensibile.

    «E ora vado a farmi un giro per conto mio, da qualche parte. A presto», e uscii dalla stanza senza dargli attenzioni, con la consapevolezza di essermi rovinata il resto della giornata.


    Edited by fallagain - 5/4/2020, 14:49
     
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    Capitolo Ventisette: I Primi Sintomi

    Dopo la nostra discussione rifiutai di rimanere a Neverland. Uscii e passai la serata fuori, cenando da sola in un ristorante a Santa Barbara.

    Reggere le sue silenziose accuse nei miei confronti non mi avrebbe fatto bene, ma sostenere la sua indifferenza sarebbe stato ancora peggio. Sentivo che rimanere intrappolati ognuno nel proprio silenzio non era la soluzione più giusta, ma non ero in grado di reggere il suo sguardo o un rifiuto.

    Mi sentivo in colpa.

    Se hai qualcosa da dire, dilla e basta”.

    Glielo avevo detto con un tono quasi spregevole, un atteggiamento con il quale non mi ero mai rivolta a Michael. Sicuramente lo avevo ferito. Ne ero certa.

    Tu puoi farti tutte le ragazze che vuoi, ma io non posso uscire con un uomo?

    Era proprio questo il punto: volevo la verità. Volevo sentirmi dire qualcosa che entrambi sapevamo bene e lui si rifiutava di dirmi. Quello che io stessa mi negavo di riconoscere ed accettare, perché avevo troppa paura delle conseguenze che questo avrebbe portato.

    Non sarei mai uscita con uno come David.

    Nella mia mente e nel mio cuore c’era solo spazio per Michael.

    Ma questo io non glielo avevo detto.

    Mai.

    Il senso di colpa è infido. È come strisciare a una decina di metri sotto terra. È come essere rinchiusi in una prigione... solo che, per quanto tu possa provare a scappare, è solo attraverso il perdono altrui che potrai essere scagionato. È un peso sulle spalle. È la paura di perdere per sempre la persona che ami.

    Quando tornai a casa era tardi e i bambini erano già andati a dormire. Non volevo incrociare Michael neanche per caso, passeggiando tranquillamente per il corridoio, non quel giorno. Dovevo ragionare a mente fredda e da sola. Perciò, per tutta la mia camminata dal corridoio alla mia camera, ebbi il cuore in gola.

    Non era giusto. Michael non doveva essere così geloso di me e delle persone che decidevo di frequentare. Lui era stato quasi due settimane con Joanna, la sua ragazza, ignorandomi completamente. Michael non si era mai fatto scrupoli e non aveva rinunciato alla compagnia di quella donna, se non quando aveva capito che mi stavo distaccando sempre di più. Era stato egoista e si era meritato quel rimprovero da parte mia, quel pomeriggio. Eppure… eppure mi sentivo un’idiota.

    Rimasi sveglia fino a tarda notte, a girarmi e a voltarmi sul materasso fino a disfare le coperte. Non riuscivo a rimanere ferma né tanto meno a chiudere gli occhi ed obbligare me stessa a prendere sonno. Nemmeno l’assurda convinzione che il giorno dopo avrei potuto parlare con Michael – sperando che magari sarebbe stato più disposto a comunicare con la sottoscritta – fu sufficiente a tranquillizzarmi. Perciò mi alzai, indossai le ciabatte e uscii dalla porta della mia stanza; mi avviai verso la camera di Michael con il cuore che pulsava nelle tempie e lo stomaco che mi faceva un male terribile per l’ansia che provavo.

    Nell’istante in cui mi arrestai dinanzi alla porta, divenni una statua di ghiaccio. Il terrore di sentirmi rifiutata mi gridava di scappare lontano. Alzai la mano per bussare, ma la tenni a lungo sospesa in aria, senza decidere che fare: da una parte potevo fuggire, dall’altra potevo rimanere e sfidare i miei dubbi. Di sicuro non avrei chiuso occhio fino alla mattina seguente, non se non ci avessi provato.

    Mi decisi e bussai.

    Nessuna risposta.

    Bussai con più energia.

    Silenzio.

    E ancora silenzio.

    Sentii una fitta ancora più dolorosa allo stomaco. Mi invitai a non trarre conclusioni affrettate – mi imposi di non lasciarmi andare al pessimismo – ma non ce la feci. Mi sentii piombare in una tristezza incredibile. Ero triste, ma ero anche arrabbiata.

    Tentai di inspirare ed espirare con calma, ma il fiato si mozzò in gola.

    E così me ne andai.

    *

    La mattina dopo mi svegliai alle cinque.

    Con il passo pesante ero tornata in camera ed ero riuscita a dormire dall’una di notte in poi. Mi ero svegliata spesso. Alle cinque in punto, difatti, mi arresi: smisi di obbligarmi a dormire. Non ce la facevo e basta. Perciò andai in bagno, mi cambiai e decisi di fare colazione prima del previsto. Non aveva senso restare a guardare il soffitto fino a ricordare le rifiniture del legno a memoria.

    Scesi le scale senza fare troppo rumore. Bevvi un bicchiere di latte e mangiai una fetta di pane con la marmellata. Dopo aver guardato il buio al di fuori dalla finestra della cucina, ticchettando le dita sulla tazza in ceramica, pensai di andare a leggere qualcosa nella mia stanza. Non aveva senso rimanere là, nell’illusione di incontrare Michael da un momento all’altro.

    Poi la sorpresa. Notai che l’enorme veranda del salotto – quella che portava in giardino – era aperta. Un dettaglio che scendendo non avevo notato.

    Istintivamente temetti l’entrata in scena dei ladri, ma poco dopo scossi la testa ridacchiando tra me e me. Un pensiero stupido, effettivamente, considerando che il Ranch era controllato 24 ore su 24. Non pensavo che Michael fosse sveglio e che avesse deciso di farsi una passeggiata, ma magari qualcuno l’aveva dimenticata aperta la sera prima.

    Invece che serrarla e basta, andai a prendere una giacca e uscii a fare una passeggiata. Appoggiai la porta a scorrimento sullo stipite, lasciando entrare uno spiffero di aria in casa... onde evitare di rimanere chiusa fuori fino alle otto di mattina.

    Presi un bel respiro.

    Faceva freddo ma non troppo. Maggio stava arrivando e con lui anche le giornate più calde, così come le mattine più tiepide. La notte riempiva ancora il cielo con la sua oscurità, ma un sottile chiarore ad est indicava che presto sarebbe giunta l’alba. Gli uccellini non cantavano ancora. Tutto era coperto dal silenzio.

    Camminai. Camminai a lungo, senza una meta precisa, e pensai.

    Pensai anche troppo.

    Ciò nonostante – probabilmente a causa della stanchezza – non riuscivo a provare rabbia o tristezza come la sera precedente. Mi sentivo svuotata. Mi sentivo fisicamente spossata, ma il cervello non mollava la presa e mi stritolava le meningi con le sue riflessioni cupe e profonde.

    Aumentai il passo fino a quando, immersa nel buio, non sentii qualcuno chiamarmi.

    Mi paralizzai di colpo, spaventata. Mi guardai in giro senza scoprire nessuno. Per un attimo ebbi il terrore di venire assalita da qualcuno di temibile come...

    «Che ci fai qui?» chiese la voce in lontananza, curiosa.

    … come Michael.

    Il sangue riprese a scorrere nelle vene e il cuore a battere in petto. Rimasi immobile, non capendo da dove diavolo mi stesse parlando. Per non fare figuracce – più di quante non ne avessi già fatte in sua presenza – rimasi zitta.

    «Sono qui, Sarah» lo udii sopra di me. «Sono sopra questo albero, alla tua sinistra».

    Mi parve di sentirlo ridacchiare, ma la convinzione di saperlo arrabbiato con me m’impedii di udire la sua risata con chiarezza.

    Alzai il capo nella direzione che mi aveva indicato e finalmente lo vidi. Michael era seduto su un albero, più rilassato di quanto immaginassi, nascosto nella semioscurità dei grandi rami. Strinsi un po’ gli occhi per distinguerlo. Quando lo vidi ebbi un fremito.

    «Ciao» sussurrai.

    Inarcò le sopracciglia. «Ciao».

    Volli parlare, ma non ci riuscii. Un incontrastato silenzio gravò su di noi e sulla distanza che ci divideva, facendola apparire più insopportabile di quanto non fosse già.

    «Ti va di salire?» chiese Michael.

    Lo guardai umettarsi le labbra. La sua serietà mi dava uno straordinario senso di inquietudine. Lo sguardo mi penetrava la pelle.

    «Mi dispiace» sorrisi rammaricata. «Ma io non salgo sugli alberi».

    Spalancò le palpebre. «Non sei mai salita su un albero?».

    Fece per scendere.

    «No, non proprio...» mi avvicinai piano, fissando il tronco. «Qualche volta ci ho provato, ma non arrivavo... non arrivavo dove sei tu... se ci provassi ne uscirei terrorizzata!» sogghignai nervosamente.

    Michael roteò gli occhi al cielo accennando un sorriso. Scese scattante come un ragazzino, fin troppo agile per un quarantacinquenne comune. Lo osservai toccare il suolo con un saltello e mi venne incontro con le mani nelle tasche; indossava pantaloni di velluto e una camicia verde scuro, quasi del tutto coperta da una giacca di tuta larga e rossa: amavo la sua stravaganza nel vestirsi, molto più di quanto dessi a vedere.

    Si arresto al mio fianco e si dondolò avanti e indietro col busto, umettandosi le labbra. Tutt’e due ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Il silenzio non ci era mai pesato, ma in quell’occasione sì.

    Mi indicò l’albero con un cenno della testa. «Avanti, prova».

    «A fare cosa?».

    «A salire sull'albero».

    Impallidii. Scossi il capo, sorridendo.

    «No, no, grazie... è troppo alto, ho paura...»

    «Non ti succederà niente, ti reggo io» disse comprensivo. Michael indossò un’improvvisa maschera di rassegnazione mista ad amarezza e cordialità. Sospirò. «Prova almeno a fidarti di me...»

    Volli controbattere ma qualcosa – forse il suo sguardo terribilmente profondo, forse la mia voce bloccatasi in gola per codardia – mi impedì di farlo. Schiusi le labbra ma non emisi un fiato. Guardai la folta chioma dell’albero e mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

    Arrossii. «Non credo di potercela fare...» m’appoggiai al tronco.

    «Ce la farai, ti sono dietro» mormorò l’altro alle mie spalle.

    Quando mi girai a tre quarti, per guardarlo negli occhi, tremai impercettibilmente: sfiorai il suo petto con una spalla e quel contatto mi smarrì nel modo più totale. L’incontro con i suoi due oceani scuri mi portò a fronteggiare nuovamente l’albero, da brava codarda qual ero. Non riuscii a comprendere cosa mi volessero comunicare.

    «Metti un piede qui, così...».

    «Qui?»

    «Sì... forse un po’ più a destra, ecco, brava. Issati e butta l’altro piede qua. Non rischi di scivolare se ti togli le ciabatte»

    Feci come mi consigliò.

    «Quest’albero sembra che abbia degli scalini!» sbottai meravigliata. «È figo!»

    Ridacchiò leggermente. «Sì, hai ragione...»

    Un dubbio mi penetrò la mente nel momento in cui mi sollevai ad un metro da terra. Scrutai Michael, evitando di concentrarmi sull’incombente senso di vertigine. Gli scoccai un’occhiata perplessa che comprensibilmente non fu capace di comprendere. Dopo tutto quel tempo in cui ci conoscevamo, per la prima volta mi sentii in soggezione all’idea che mi guardasse il fondoschiena.

    Non che fosse un sedere straordinario, però...

    «Hai paura?» chiese Michael preoccupato.

    La sua mano destra scivolò sulla parte più bassa della schiena, sulla curva formata dalla colonna vertebrale, come se stesse tentando di reggermi da un’imminente caduta. Le dita premevano sulla giacca. La stretta era forte e sicura, ma non aggressiva.

    «No» sussurrai. «Va tutto bene...»

    «Sei sicura?»

    Desiderai scuotere la testa.

    «Sì, tranquillo».

    Ma Michael non mi mollò. Con un bel respiro, ancora scombussolata, borbottai un «Ok, ora salgo» per niente convinto. Proseguii nella mia scalata diretta a un ramo che pareva avere la forma di una sedia, seguita da un Michael piuttosto premuroso.

    «E se perdo l’equilibrio?» balbettai ad un certo livello d’altezza, quasi arrivata a destinazione. «Se mi lascio andare e mi spacco la testa?»

    Sogghignò. «Credo che moriremo tutt’e due. Sono proprio sotto di te, quindi se cadi travolgi anche me».

    «Oh, che gioia...» bofonchiai sarcasticamente, quasi piagnucolando. La voce mi tremava quanto le gambe. «Stranamente la cosa non mi consola. Preferisco saperti vivo piuttosto che morto».

    Michael non rispose. Quando mi resi conto di ciò che avevo appena detto, arrossii vistosamente.

    Con una leggera spinta mi permise di issarmi e sedermi su quel ramo a forma di sedia. Non mi toccò il fondoschiena, da vero gentleman che era, ma mi tenne per una gamba afferrandomi il polpaccio. Sudai sette camicie per sedermi comodamente e Michael rise della mia goffaggine. Non appena mi fu accanto, gli afferrai il braccio con una mano e con l’altra mi tenni stretta al ramo. Guardai in basso e lui mi osservò senza dire una parola.

    Tremai dalla paura.

    «Mi sa che da qui non scendo più... vivrò sopra quest'albero fino alla fine dei miei giorni...» balbettai.

    Michael mi afferrò la mano con la quale mi reggevo a lui.

    «Sei stata eccezionale» sussurrò sorridendo. «Sono fiero di te. Vedrai che, ora che sei salita, scendere sarà una passeggiata!»

    Scossi la testa, inspirando ed espirando lentamente.

    «Non credo proprio...»

    Affondai il viso nella sua felpa.

    Sentivo il calore di Michael. Lo percepivo respirare.

    Curiosamente scrutai un raggio di sole che faceva capolino oltre l’orizzonte. Anche Michael rimase a fissare il lieve bagliore che si stava innalzando in cielo, dando inizio a quel magnifico fenomeno chiamato “giorno”.

    «Ti piace l’alba, Sarah?»

    «Uhm... abbastanza» mormorai. Mi guardò osservare il cielo. «Purtroppo non sono una persona mattiniera, ma mi piace. Le tenebre danno spazio alla luce... la vita riprende il suo corso...»

    «Anche di notte la vita continua», puntualizzò.

    «Sì, questo è vero...»

    «Basta che vedi noi due, che spendiamo notti intere a parlare e ridere invece che dormire. Guarda me, che nella notte trovo una compagna fedele». Sorrise. «Io e te siamo due animaletti notturni».

    «Un gufo e una civetta, insomma...»

    Michael rise di gusto e pregai affinché stesse fermo il più possibile, visto che era il mio porto sicuro.

    «Un gufo e una civetta?» mi fissò stupito, a bocca aperta.

    Annuii.

    Inarcò un sopracciglio. «Lo sai che gufo e civetta sono simboli della chiaroveggenza?»

    «Davvero?»

    «A quanto pare sì... lo lessi una volta in un libro, era davvero interessante. Spesso vengono associati alla magia e a coloro che la sanno usare. Simboleggiano l’illuminazione che permette la risoluzione di un problema. La civetta, avendo uno sguardo che perfora le tenebre, la si accomuna alla luce. Al gufo invece spetta una connotazione negativa... è detto “uccello del malaugurio”, annunciatore di morte. Anche per gli egizi era simbolo di morte», ridacchiò.

    «Ah no, allora niente gufo», scossi il capo. «C’è bisogno di un altro animale notturno... uhm...».

    «Che ne dici del barbagianni?», sbottò Michael in tono da finto intellettuale.

    Mi sbellicai. Egli mi scrutò con preoccupazione vedendo che non riuscivo a fermarmi... l’immagine di lui associata a quella del barbagianni, aggiunto alla simpatia insita nel nome di quel rapace, mi fece venire le lacrime agli occhi.

    «Che c’è?», esclamò Michael emettendo uno spasmo di risata.

    «Scusa, mi immaginavo te col barbagianni sulla spalla...», sogghignai con una mano sulla bocca. La sventolai sul viso per farmi aria e, sempre sorridendo, dissi: «Non ti starebbe neanche male, avete gli stessi occhi profondi e scuri!»

    Sorrise. «Se per quello anche a te la civetta dona...»

    «Sì, perché abbiamo lo stesso sguardo da pazze psicopatiche», risi abbandonando il capo all’indietro.

    «No, sciocca...» sogghignò Michael. Mi dette un buffetto sulla guancia. «Avete gli stessi occhi grandi... e in più la civetta è l’animale di Harry Potter»

    «Edvige...».

    «Sì, Edvige...», sorrise.

    Sospirai e lo fissai in silenzio. «Comunque il barbagianni ti sta bene. Ti dà un’aria più autoritaria... più matura... e ti rende più sexy!», sentenziai battendogli una mano sul ginocchio.

    Michael se la rise per un paio di minuti, imbarazzato ma segretamente rallegrato da quella constatazione. Per un po’ di tempo eravamo riusciti a comportarci come se non avessimo litigato.

    Decisi di farmi coraggio e parlare.

    «Michael...» pigolai con un filo di voce. Notai che mi stava esaminando da parecchio. Arrossii. «Sei arrabbiato con me?».

    Non fece una piega.

    Abbassai lo sguardo.

    «Scusa...»

    La totale assenza di rumori non mi aiutava affatto a concentrarmi. Mi pettinai i capelli con una mano, mentre imponevo a me stessa di non fare scena muta.

    «Non volevo attaccarti sul personale, tantomeno infierire sulla tua storia con Joanna. Non sono affari miei. E in più ho usato un tono molto scortese. Inoltre… non ho mai avuto intenzione di uscire con quel ragazzo, David. Quando ti ho comunicato che forse ci sarei uscita, avevo già le idee chiare da un pezzo. Non sento il minimo interesse per lui e non voglio illudere nessuno, perciò no, non andrò all’appuntamento.

    Quello che mi hai detto è giusto e io stessa non mi fido di quel tizio. Tuttavia non ho trovato corretto che tu mi trattassi in quel modo, come se fossi una bambina». Presi fiato. Non volevo intrecciarmi con i suoi occhi. «Il modo in cui mi hai guardato mi ha stizzito e così ho detto la prima cosa che mi passava per la testa. Mi rendo conto di essere stata un po’ velenosa. Per quello ti chiedo scusa».

    Mi persi nel colore verde scuro dell’erba mattutina, non ancora illuminata dal sole. Per un attimo desiderai scendere e camminarvi sopra scalza, per sentire una delle sensazioni che più amavo al mondo e mi facevano sentire viva.

    La grande mano di Michael accarezzò la mia. Lanciai un’occhiata alle sue dita – che amavo profondamente – le quali teneramente mi sfioravano il dorso dell’arto. Sussultavo e non per il freddo.

    Lo adocchiai.

    Sembrava rammaricato quasi quanto me. Rammaricato, sì, ma anche sollevato.

    «Dispiace anche a me. Non volevo farti sentire una stupida. Ho sbagliato anche io, non dandoti fiducia». Si bagnò le labbra. «Ricordati che ti voglio bene, ok? Solo questo… sempre».

    Annuii con energia.

    «Bene», gli angoli delle labbra s’incurvarono all’insù. «Siamo migliori amici, no?».

    Mi dette una leggera carezza sotto il mento.

    Di colpo m’incupii.

    «Michael...» mormorai. «Hai mai pensato – da quando mi conosci – di non volere avere più a che fare con me?». Sospirai. «Non so come spiegarmi...»

    Mi strinse la mano. Gli gettai un’occhiata di sottecchi e notai che non la smetteva di fissarmi. Era perplesso, pensoso e silenzioso, ma poco dopo il suo sguardo si indurì.

    «No, Sarah. Perché dovrei?», disse aggrottando le sopracciglia.

    Arrossii. «Mi sento male quando mi allontani. Io ti... be’, forse te lo dicono tutte le persone che hai attorno… e non tutti quelli che dicono di tenerci sono – »

    Michael mi interruppe, prendendomi il viso fra entrambe le mani. Si avvicinò notevolmente ad esso e i suoi occhi parvero accendersi. Sentii la stessa scintilla impossessarsi del mio sguardo.

    «Sarah, tu cosa?» domandò attraversandomi con lo sguardo.

    Sembrava speranzoso, ma anche agitato.

    Fui incapace di rispondere.

    Mi sentivo in trappola.

    Allentò la presa sulle mie guance senza scostarsi e, con un grande sospiro, spense quel bagliore di impazienza negli occhi.

    «Non credi al fatto che io ci tenga veramente a te? Pensi che potrei abbandonarti e dimenticarti facilmente?», bisbigliò con voce bassa e roca.

    Mi si contrasse lo stomaco.

    Sputai la verità. «Qualche volta».

    Rimase serio, impassibile, mentre io lo puntavo con visibile timore. Dopodiché fece un gesto che non avrebbe dovuto compiere: si umettò le labbra. A quel punto il mio sguardo scivolò su di esse e il cuore eseguì un triplo salto mortale in petto.

    Michael scosse il capo e sorrise piano, ironicamente.

    «Sei proprio ingenua».

    Mi offesi.

    «Perché?», increspai la fronte.

    Sorrise ancora, ma evitò di rispondere. Rimane zitto a pensare. Tolse le mani dal mio viso e studiò a lungo l’orizzonte. I suoi occhi erano accesi da un’emozione che non capivo. Aveva un sorrisetto stirato... nervoso...

    «Io non ti lascerei mai...», sussurrò con un fremito.

    «Non hai mai dubitato di questo?».

    «Mai», mi uccise con la sua amorevolezza. Guardava il sorgere del Sole. «Mai una volta in cui avrei voluto smettere di abbracciarti. Mai una volta in cui avrei voluto dimenticarti... tu sei stata e sei ancora l’unica eccezione».

    Feci una faccia stranita.

    Ridacchiò senza divertimento. «Un giorno capirai...».

    «Capirò cosa?»

    Non ci fu risposta.

    «Michael...», lo presi per il braccio con un’adrenalina nel corpo che, ingenuamente, definii curiosità. «Che cosa capirò?»

    Insiste a starsene zitto!

    Lo tirai per la felpa. Finse di non sentirmi.

    Decisi di fare la ruffiana, tirando fuori la piccola e ammaliante volpina che c’era in me.

    «Non me lo puoi dire …?», dissi quelle parole in modo bambinesco e carezzevole.

    Gli accarezzai il braccio e Michael sembrò reagire alla provocazione; inclinò il capo in mia direzione, scoccandomi un’occhiata interessata e allarmata al contempo stesso. Spalancai gli occhi sorridendo furbescamente, aggrappandomi al suo arto.

    «Daiii... Michael...» lasciai cadere la testa da un lato. Lui arrossì e cercò di evitarmi. «Me lo dici…?»

    Provò a separarsi da me, ridacchiando, rispondendo con un moto di timidezza improvvisa. Sogghignando alzava le spalle e cercava di coprirsi la bocca con le mani; anche se trovavo il suo gesto estremamente adorabile, volevo soltanto che mi rivelasse i suoi più oscuri segreti.

    «No, non ci provare!» mi ammonì puntandomi un dito contro, ritirandosi in se stesso e gettandomi un rapido susseguirsi di sguardi carezzevoli. «Non provare a fare questo a me!»

    «Allora dimmi tutto!», lo cercai senza darmi per vinta. Poggiai il mento sul suo braccio ed egli smise di dimenarsi; m’osservò con un'espressione indefinibile. «Mi hai stuzzicato e ora voglio sapere!»

    Silenzio.

    «Mi dispiace», scosse il capo.

    Odiavo quando una persona faceva la vaga dopo aver aizzato così tanto la mia curiosità… perciò mi arrabbiai. Sollevai un sopracciglio con fare molto significativo, dopodiché – non appena capì di avermi irritato – portai lo sguardo sul terreno. Decisi di scendere dall’albero.

    «Dove vai?» domandò stupito.

    «Scendo».

    «Ti farai male, Sarah...» disse espirando rumorosamente.

    Lo ignorai e goffamente mi aggrappai al tronco, coi piedi ben piantati su due rami dell’albero. Fissai il basso alla ricerca del coraggio.

    «Non fare la bambina testarda, me lo hai detto tu che soffri di vertigini! E se ti cadi e ti fai male?»

    «Amen!» esclamai seccata. «Vorrà dire che è giunta la mia ora».

    Pian pianino trovai il modo di scendere senza fissare il vuoto sotto di me: il metodo migliore per uscire viva da quella situazione era utilizzare tutti i sensi esclusa la vista. Era un procedimento lungo, considerando che mi tremavano le gambe dalla paura, ma ero disposta a fare quel sacrificio.

    «Non sei spiritosa, per nulla...» mormorò incupito.

    Lo linciai con un’occhiataccia: era indeciso se ridere o arrabbiarsi per quel mio gesto insensato. Non me ne fregava assolutamente nulla.

    «Come farai a scendere senza il mio aiuto?» domandò inarcando le sopracciglia.

    «Per tua informazione, come vedi, sto già scendendo!» sbottai. «E ora lasciami concentrare, altrimenti cado veramente e muoio!»

    Michael roteò gli occhi al cielo e si bagnò le labbra. «A volte io non ti capisco...» scosse la testa sbalordito. La sua espressione si fece seria e stizzita. «Anzi, penso proprio che non mi capirai mai»

    Questa l’ha detta grossa.

    «Bene», sibilai.

    «Bene».

    «Bene», concludemmo fulminandoci a vicenda.

    Sebbene mi stessi concentrando su come scendere, la mia mente era posseduta dal pensiero di Michael; sentivo le sue iridi luccicanti su di me – o almeno speravo che così fosse. Pensava che non lo avrei mai compreso? Ottimo. Si divertiva a fare il vago? Perfetto. A maggior ragione avevo deciso di non parlargli più.

    Eravamo come due bambini dell’asilo.

    Finalmente scesi dall’albero e tirai un sospiro di sollievo. In silenzio mandai Michael a quel paese e senza salutare feci dietrofront, in direzione del residence. Tornai indietro quando mi ricordai di aver dimenticato le ciabatte vicino al tronco dell’albero. Le indossai e feci dietrofront una seconda volta, dirigendomi impettita verso casa.

    Non avevo più voglia di stare con lui.

    «Sarah, fermati un secondo...»

    Michael era tornato a terra in un battibaleno.

    «Oh, già qua?», domandai con sarcasmo. «Che è successo? Hai subito una trasformazione? Da gufo sei diventato un camoscio ora?»

    I miei passi erano lunghi e veloci nella speranza di seminarlo. Lo sentii soffocare una risata nel vano tentativo di rimanere serio e concentrato nel discorso.

    «Non fare la stupida, e fermati... ascoltami almeno!»

    Arrivò a prendermi per le braccia e a bloccarmi sul posto. Si pose davanti a me come se niente fosse, aspettando che lo guardassi... invece puntai il Sole che sorgeva. Deglutii a fatica, ansimante.

    «Mi guardi un attimo negli occhi, per favore?», mormorò dolcemente.

    Il suo tono non poté far altro che catturarmi. Non ero più risentita ma avevo paura di lui, del modo in cui mi guardava. Era troppo concentrato su di me... troppo... e questo mi avrebbe fatto morire, prima o poi.

    La sua fronte si rilassò e con essa tutti i lineamenti del suo viso. Si mordicchiò un labbro.

    «Mi dispiace averti detto che non mi capirai mai, ma talvolta lo penso. Anche la mia bocca ogni tanto fa uscire cose che non dovrebbe dire...».

    La stretta sulle mie braccia si allentò e in automatico anche le nostre espressioni si rasserenarono. Il corpo vibrò ad energie così intense che mi sentii improvvisamente spossata, stanca, desiderosa di andare a dormire e non svegliarmi per un bel paio d’ore. Michael risucchiava ogni particella d’amore che c’era in me e la rendeva sua, pur sempre donando una quantità d’affetto inebriante.

    Chiuse gli occhi. «Ora non me la sento di parlarne, ma prometto che un giorno lo farò. Presto, molto presto... sii paziente...». Prese un bel respiro, mi squadrò. «Promettimi che aspetterai, e che ti ricorderai delle mie parole».

    La sua preghiera mi rese priva di forza.

    Annuii debolmente.

    Michael sorrise e mi abbracciò piano.

    Mi strinsi nella sua giacca rossa.

    Per un attimo desiderai fondermi con lui. Non nel senso fisico del termine, ma proprio a livello emotivo e spirituale. Sentivo la spina dorsale pervasa da dolci sussulti.

    «Ti avevo detto di non dimenticare mai che ti voglio bene...» mi rimproverò, «devo ripeterti quanto sei importante per me ogni giorno?»

    Scossi la testa. «No, non pretendo così tanto...» bofonchiai, con il viso infossato fra i suoi capelli e l’incavo del collo. «Delle volte ho solo... paura...»

    «È normale, Moony» mormorò piano.

    Sentì il mio tremore.

    «Preferisci tornare in casa? Hai freddo?», lo percepii sorridere.

    Allontanai il viso e Michael continuò a stringermi; le mani mi cingevano la schiena e non mi lasciavano andare. Guardai il cielo nel vano tentativo di ignorare le sue attenzioni, determinata a non arrossire più di quanto non stessi già facendo.

    Una sua mano risalì la schiena, mentre con l’altra mi sfiorò una guancia. Illuminato dalla pallida luce del giorno ormai iniziato, Michael era ancora più affascinante di quanto già non fosse. Se io ero la Luna del suo cuore, allora Michael doveva essere per forza il Sole.

    «Hai veramente uno dei visi più belli e particolari che io abbia mai visto in vita mia» puntualizzò seriamente.

    Ridacchiai. «È la quarta volta che me lo dici in un mese».

    «Due, non esagerare».

    «Ok, due...» roteai le iridi verso l’alto. Feci una smorfia significativa. «Ma ti piaccio davvero così tanto?».

    Michael emise un “Mmh” pensoso, storcendo la bocca in un’espressione fintamente meditabonda.

    «Non è che mi piaci...».

    Mi legò a sé con vigore. Percepii il suo capo appoggiarsi sulla mia spalla, mentre abbandonavo la testa all’indietro. Michael mi sfiorò l’incavo del collo con le labbra e io non ci capii più nulla; il cuore si era fermato in gola.

    «È che mi fai impazzire…» confessò con voce rauca.

    Istintivamente chiusi gli occhi. Trattenni un gemito soffocato mentre invocavo tutti i Santi che conoscevo e che inventai sul momento affinché mi salvassero dall’imminente catastrofe.

    Sorrisi e ironizzai. «L’ho sempre saputo che ti facevo questo effetto...».

    «Mi hai scoperto, razza di piccola adulatrice».

    E di colpo mi accorsi che qualcosa stava cambiando.

    Era qualcosa che non avevo previsto.

    Michael soffocò il suo stesso respiro e sciolse l’abbraccio.

    Avevo la tipica espressione di una a cui è stata data una botta in testa. Fissavo il vuoto senza parlare. Nessuno dei due ebbe il coraggio di cercarsi per tre secondi di seguito, ma almeno Michael era decisamente più bravo a fingere serenità... a parte per le mascelle serrate, il sorriso teso e il volto arrossato. Se questi si possono chiamare indici di serenità...

    Quello tsunami di emozioni mi impediva di muovere un passo verso di lui o lontano da lui: in un modo alquanto incredibile e inconcepibile, ero incollata alla presenza di Michael. Legata da una catena invisibile, da un filo rosso, da un sentimento troppo grande per poter essere sostenuto senza barcollare.

    Mi venne da piangere.

    «Torniamo dentro, che ne dici?», si bagnò le labbra e mirò alla mia collana con la mezza Luna.

    Annuii.

    Mi prese per mano. Gli unici rumori che ci accompagnavano erano il debole cinguettio degli uccellini e lo scrosciare dell’acqua di una fontana in lontananza. L’aria che si respirava era fresca e gentile. Eppure dentro la mia testa c’era il caos più totale.

    Che mi sta succedendo?

    «Sai, a volte prego Dio affinché possa aiutarmi a sostenere il bene che ti voglio, ma neppure lui sa quanto ti amo», mormorò guardando avanti, scuotendo impercettibilmente la testa e arrossendo. «Non credo che riuscirà a salvarmi da te».


    Edited by fallagain - 6/4/2020, 13:38
     
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    «Wow, sei bravo a fare le bolle con il chewing-gum!», mi complimentai con Michael, piacevolmente stupita. Lui sorrise soddisfatto e questa scoppiò producendo un piccolo schiocco.

    Era notte inoltrata. Era passata una settimana da quando avevamo fatto pace. Eravamo in camera sua, seduti sul letto, e avevamo appena finito di guardare un documentario sulla natura e sugli animali tipici dell’Africa. Nutriva un profondo affetto per quel Paese.

    «Visto? Io sono un mago!».

    «Ne hai un altro? Di chewing-gum, intendo»

    Alzò un sopracciglio. «Perché? Vuoi sfidare il Maestro?»

    «E anche se fosse?» sorrisi maliziosamente. «Ricordati che spesso l’allievo supera l’insegnante».

    Emise uno spasmo di risata ironica.

    «Perciò», si umettò il labbro inferiore, scoccandomi un’occhiata penetrante, «io sarei il Maestro e tu la mia Allieva?»

    Feci spallucce. «Direi di sì».

    Prese le mie dita e le tenne al caldo. In realtà ero io ad averle bollenti e lui tiepide.

    «Purtroppo no, le ho finite...»

    Mollò la presa e con due dita si diresse all’interno della bocca. Estrasse il chewing-gum masticato e sogghignando – vedendo la mia espressione esterrefatta – me lo porse.

    «Tieni, se vuoi ho questo a disposizione!», ridacchiò.

    Adocchiai l’oggetto che teneva fra i polpastrelli e la sua ridente occhiata di scherno. Non feci nemmeno una smorfia schifata, anzi, sorrisi di rimando. Allungai la mano verso la sua e glielo presi: non mi feci nessun riguardo. Nell’istante in cui portai la gomma alla bocca, Michael sbarrò gli occhi. Schiuse le labbra dall'incredulità vedendo come, con una naturalezza innata, incominciavo a masticarla senza fare una piega.

    Iniziò a ridere così tanto che se non l’avessi tenuto per i piedi sarebbe letteralmente caduto all’indietro, cascando dal letto per poi sbattere la testa sul pavimento.

    «Oh. Mio. Dio!», esclamò fra gli spasmi, unendo i palmi delle mani. Mi fissava allibito.

    «Che c’è?», sorrisi masticando la gomma. «Me l’hai offerto tu, credevi che non avrei accettato? Oh, dai... la vuoi smettere?».

    «Scusa, ma sei troppo buffa!». Si portò una mano davanti alle labbra. «Ti solito quando faccio questi scherzi tutte le persone reagiscono male, facendo una faccia tipo...», assunse un’espressione al limite dell’orrore. «E tu non lo hai fatto!»

    Alzai spalle e mani al cielo. «Be’, che c’è di male?»

    «Di solito i comuni mortali dovrebbero rifiutare», puntualizzò sollevando un sopracciglio. «E di solito chiunque mi pensa un pazzo, quando faccio certe cose... anche se mi domando quando mai pensano che io sia una persona normale...», fece scemare la frase con un sospiro. Abbassò lo sguardo.

    Gli presi la mano.

    «Dovresti saperlo che io non sono una comune mortale». Lo guardai e lo scorsi studiarmi intensamente. «E dovresti sapere che a me piacciono i pazzi come te... da morire. Non sarei tua amica se così non fosse, non credi?», inclinai il capo verso destra.

    Il telefono di Michael suonò. Puntammo il comodino sul quale vi era appoggiato. Egli mi scoccò un’ultima occhiata e sollevò gli angoli della bocca, scuotendo leggermente il capo mentre si allungava verso il comò. Pigiò il tasto d’avvio chiamata e pronunciò un leggero «Hello». Mi venne da ridere per la sofficità con cui lo disse, molto più lieve rispetto al tono che utilizzava con me, molto più basso e maschile.

    La fronte si distese. «Oh, ciao Dunk».

    M’illuminai: era Janet Jackson.

    Dalla visita a sorpresa a Neverland non avevo avuto più notizie di lei. Alla fine, tra un impegno e l’altro, non era più venuta a trovare i suoi nipoti.

    «Mmh... quindi ci stai?», Michael si umettò la bocca con fare pensoso.

    Fra qualche giorno ci sarebbe stato il suo compleanno. Michael e tutta la famiglia avevano organizzato un rimpatrio a Neverland, usufruendo della sua immensa ampiezza e della possibilità di svago che questa poteva concedere; la sua famiglia non era solita organizzare compleanni – non tutti per lo meno – e perciò avevano approfittato del compleanno della sorellina più piccola per riunirsi. Da come mi fece intendere Michael, ci sarebbero state forse più di una quarantina di persone (era una famiglia molto numerosa, nonostante avessi capito che sarebbe mancata parecchia gente).

    Mi alzai per lasciare a Michael un po’ di privacy – credendo che avrebbe preferito chiacchierare indisturbato – ma egli mi indicò con la mano di rimanere seduta, scuotendo la testa debolmente. Mimai un “Ok” un po’ perplesso con le labbra. Mi risedetti.

    «Uhm...» mugugnò Michael. Dall’altro capo del telefono sentivo appena la voce di Janet. «A-ha... perciò nessun problema...», mi sorrise. «Be’, ci sono quasi tutti. Randy è ancora in forse. Sigmund e Brandi sicuramente non verranno, da quel che ho capito». Poi sogghignò per una battuta della sorella.

    Frattanto che Michael s’occupava di discutere con Janet, io mi misi d’impegno a fare le bolle col chewing-gum. Volevo sfidare il Maestro, perciò tentai e tentai di farne una più grande delle sue; Michael, infatti, nonostante parlasse con la sorella, mi fissò per tutto il tempo con un sorrisetto canzonatorio stampato in viso.

    Dopo una decina di prove tecniche riuscii a farne una grandissima. Richiamai l’attenzione di Michael colpendolo piano ma nervosamente sulla gamba, emettendo mormorii soddisfatti. Proprio come una bambina piccola.

    «Ehi, Dunk, aspetta un secondo...», disse il fratello. «Resta lì...»

    Michael si inclinò in avanti e rimase a contemplare la bolla che si ingrandiva, sempre più velocemente, emettendo degli “Uhhh” incuriositi… fino a quando fu preso dall’istinto di scoppiarmela in faccia. La punta dell’indice schioccò rapida, e la materia gommosa s’incollò alla mia pelle.

    Egli se la rise come un matto, dondolandosi avanti e indietro col busto, frattanto che la sottoscritta si toglieva la gomma dal naso e dalle guance con un’espressione infastidita.

    Lo linciai – occhi socchiusi e ghigno sarcastico – e immediatamente mi alzai per andare in bagno, per ripulirmi per bene. Rideva così tanto che pensai si fosse dimenticato del cellulare adagiato sul letto. Prima che compissi qualche passo verso il bagno, mi lanciò una debole pacca sul fondoschiena. Lo vidi mordersi il labbro inferiore, maliziosamente, e io lo fissai di rimando con labbra storte in un sorrisino vendicativo. Mormorai un “Ahia” per niente sincero.

    «Ahia? Ma se non ti ho fatto nulla!» esclamò con espressione fintamente meravigliata.

    «Mph!».

    Ormai io e Michael avevamo un rapporto così intimo da sembrare irreale; qualche volta capitava che mi desse dei buffetti sui fianchi o dei colpetti molto leggeri sul sedere. Lo faceva per due motivi: il primo era perché si divertiva a darmeli; il secondo perché desiderava attirare la mia attenzione. Non mi arrabbiavo mai, anzi, mi divertivo. Quando eravamo insieme tutto ciò a cui ambiva era la mia esclusiva attenzione.

    Me ne andai in bagno. Michael riprese a conversare con Janet, continuando a sogghignare. Socchiusi la porta e mi lavai il viso. Lo sentii pronunciare il mio nome e drizzai immediatamente le orecchie. Quando uscii mi risedetti sul materasso nel giro di pochi secondi.

    Fulminai Michael.

    «Sì... è tornata, Dunk, te la devo passare?» disse sorridendomi con gli occhi. Rimasi spaesata. Gli dissi di no scuotendo veemente il capo, ma non mi badò nemmeno. «Ok... ok, te la passo subito... si tiene in bagno per delle ore, non hai nemmeno idea di quanto ci mette per...»

    Avvampai. «Ma Michael!».

    Esplose in un’altra risata senza togliermi gli occhi di dosso e gli detti uno schiaffetto sul braccio. Gli saltai addosso per rubargli il telefono dalle mani. Lui allontanò l’aggeggio elettronico dall’orecchio e lo alzò in aria. Arrancai nel tentativo di afferrarlo.

    «Aspetta un secondo, Dunk, la leonessa si è irritata!» urlò Michael per farsi sentire. «Non ama che queste cose vengano fatte sapere!»

    «Dammi quel maledetto telefono, scemo!» risi e urlai al tempo stesso. «Per favore, non lo ascolti! È lui che ci mette anni quando è in bagno!»

    Gli calò la mascella; esibì un ghigno che non prometteva nulla di buono. Quando riuscii a sfiorare il cellulare mi prese per il polso e con un rapido scatto gli saltai sopra, a cavalcioni, facendolo automaticamente stendere sotto di me. Mi allungai verso la sua mano con uno slancio, gli afferrai il telefono e mi risollevai sulle ginocchia. Lui tossicchiò per aver masticato involontariamente un ciuffo dei miei capelli.

    «Buonasera…», dissi ansimante.

    Dovevo chiamarla Miss Jackson? O Janet? No, Janet era troppo informale.

    Michael mi lanciò un’occhiata imbronciata. Sorrisi soddisfatta, pur sapendo che quella sua arresa era volontaria: più di una volta negli scorsi mesi avevamo fatto quel tipo di lotte (soprattutto perché lui mi provocava con piccole spinte e con il solletico) e non era solito perdere. Vinceva sempre, o perché mi arrendevo o perché era decisamente più forte di me.

    «Ciao Sarah, tutto bene lì?» chiese divertita e preoccupata assieme. La voce era bassa e soave come quella del fratello. «Avete fatto così tanto casino che pensavo al peggio».

    Pensai immediatamente al doppio senso nascosto.

    «No, io…», adocchiai colui che se ne stava tranquillo sotto di me. «Suo fratello non sa farsi un esame di coscienza... e spara balle!»

    Janet rise. «Ah sì, è sempre stato un tipo così».

    «Non è vero!» arrossì il fratello aggrappandosi ai miei fianchi.

    Per un attimo persi il lume della ragione. Percepii un acuto e fastidioso dolore al ventre. Ero seduta sopra di lui, sopra il suo ventre, poco distante dalla sua intimità; sentivo la mia carne toccargli la pancia ogni qualvolta questa si alzasse, a seconda del suo respiro.

    Michael si bagnò la bocca. Gli occhi erano stranamente fiammeggianti.

    Un’altra fitta al ventre, ma stavolta molto più in basso...

    «Sarah?»

    «Sì?» mi scossi. «Sì, mi scusi...»

    «Volevo chiederti se sabato sarai a Neverland con Michael e i bambini. Probabilmente passerò a controllare l’allestimento della festa. Sono sicura che mio fratello te ne ha parlato. Mi piacerebbe scambiare qualche parola con te, se non è un disturbo. Vorrei conoscerti meglio», disse dolcemente.

    Un attimo di silenzio imbarazzante.

    Janet Jackson stava chiedendo di me. Voleva parlare con me. Voleva vedere me.

    «Oh…», dissi piano. «Sì, sabato ci sarò, sì. Sarebbe un onore…»

    Michael inclinò la testa di lato e non lo badai. Pensavo solo a Janet e mi imponevo – con difficoltà – di non balbettare. Michael fece scivolare una mano sulla mia coscia destra, lentamente, dandole un leggero schiaffetto nel momento in cui si fermò. Gli mostrai la lingua.

    «Ne sono felice», la sentii sorridere. «Allora ci si vede sabato. Passerò verso le quattro, più o meno».

    Mi morsi la lingua per non scoppiare a piangere di gioia.

    «D’accordo... ora le ripasso suo fratello… buonanotte… e grazie. Dico davvero».

    Ridacchiò. «Non serve ringraziare. Buonanotte anche a te».

    Riconsegnai il telefono nelle mani di Michael. Si scambiarono qualche ultima parola e, prima di congedarsi, le disse uno dei suoi tipici “I love you more”. La sorella, dall’altra parte della cornetta, sembrò sbuffare intenerita. Si salutarono e terminarono la conversazione.

    «Cosa ti ha detto mia sorella?» domandò Michael in un sussurro.

    Teneva le mani dietro la testa e le caviglie incrociate. Era disteso e dondolava un piede su e giù. Il modo in cui guardò mi fece venire la pelle d’oca.

    Ero ancora sopra di lui.

    «Janet mi ha chiesto se sabato sono a Neverland con te e i bambini». Lo scrutai attentamente. «Ha detto che verrà a controllare i preparativi per la festa e che le farebbe piacere parlare con me».

    «Mmh…», ammiccò con fare furbetto.

    Si alzò a sedere e io indietreggiai, giusto per potermi sciogliere da quella posizione molto stuzzicante quanto innaturale. Michael mi guardò a lungo, alzò l’angolo sinistro delle labbra in un cenno per niente rassicurante.

    Il mio sguardo fu attratto dalla TV accesa, la quale mandava in onda un programma musicale in cui venivano trasmessi i videoclip dei cantanti più famosi del momento. C’era Beyoncè. Afferrai il telecomando e alzai il volume immediatamente.

    Il video che stavano mandando in onda era Naughty Girl: vi era una Beyoncè super gnocca che ballava per il cantante Usher; gambe sode e toniche, neanche un filo di pancia, muovendo i fianchi e sculettando a più non posso; il suo fisico era perfetto. L’ammiravo. La trovavo una delle donne più belle che avessi mai visto nello show business... e Michael era d’accordo con me.

    Dovreste aver visto la sua faccia.

    La fissava con occhi attenti. Quasi non respirava. Non distoglieva nemmeno un secondo lo sguardo da quel fisico scultoreo. Per tutta la durata del video avevo tentato di non osservarlo nonostante fossi curiosa di indovinare quando, prima o poi, si sarebbe messo a sbavare. Se non ci fossi stato io l’avrebbe fatto... o meglio, si sarebbe visibilmente eccitato. Giustamente era un uomo... ma con me, credo, si tratteneva. Per quanto difficile potesse essere.

    Seh, Sarah, mi dissi, quando troverai un uomo che ti guarda come Michael fa con Beyoncé, sarai già bella che morta.

    «Mmh. È un gran bel pesciolino...», sussurrò con voce roca, analizzando la cantante in maniera accurata.

    Gli gettai un’occhiata divertita.

    «Uh? Intendi Beyoncé?»

    Lui annuì impercettibilmente, inarcando le sopracciglia.

    «Be’, sì. È un gran pezzo di donna, ne sono convinta» esclamai con finto avvilimento. Percepii i suoi occhi su di me e sospirai. «Anche se il termine “pesciolino” è riduttivo...».

    Spostai maliziosamente gli occhi su Michael.

    «Moolto riduttivo...», bisbigliò.

    Più di una volta mi guardai le gambe e le misi in confronto a quelle della cantante, cercando ovviamente di non farmi scoprire da Michael. Erano quasi uguali; le mie erano leggermente più grosse, ma non minimamente paragonabili alle sue. Lei era tutto muscolo. Non so perché lo feci, ma mi venne naturale.

    Tornai a fissare il video e vedere come la scena si sviluppava: Beyoncè e Usher avevano tanto di quell’erotismo in corpo che, uniti alla musica, erano capaci di donarmi un bel po’ di sana adrenalina. Il modo in cui la toccava e si adocchiavano mi fece assumere una smorfia buffa. Ad una loro mossa piuttosto “lussuriosa” parlai.

    «Quei due lì non me la contano giusta...». Buttai uno sguardo veloce a Michael. «Secondo te c’è del feeling tra di loro, al di fuori del set?»

    Lui sogghignò. Entrambi guardavamo la Tv come stregati.

    Tentò di rimanere serio. «Per me sì, assolutamente».

    Ero divertita. «Buona affermazione!». Gli battei una mano sulla spalla. «Gli istinti primordiali maschili non mentono mai!»

    Ridacchiò fra sé e sé. Mi scoccò occhiate cariche di malizia. Lentamente si afferrò il labbro inferiore con i denti, poi lo bagnò con la lingua.

    «Vorresti dire che tu non li hai, questi istinti?».

    «Mai detto questo».

    S’allungò verso di me. «Perché tu, mio piccolo esserino curioso, sei più informato in questo campo di quanto potrei immaginare... non è vero?», mi dette un buffetto sulla guancia.

    Ridacchiai e assunsi l’espressione di chi la sa lunga. «Non lo nego: sono una donna e amo l’unione fisica – chiamalo sesso o fare l’amore, è indifferente. È una delle cose più belle al mondo. L’argomento non mi spaventa affatto, mi incuriosisce», dichiarai scrollando le spalle.

    Mi studiò a lungo. «Le tue frecciatine lo dimostrano...».

    Incurvai gli estremi delle labbra in un sorriso furbesco.

    «E tu le comprendi perfettamente, vero?»

    «Sono un uomo. Mi pare giusto», puntualizzò. «E sono decisamente più preparato di te su questo argomento… sia in pratica che in teoria. Ricordati che sono il tuo Maestro».

    Lo conoscevo abbastanza da capire che mi stesse provocando apposta.

    Stetti al gioco.

    «Stai insinuando che io non sono esperta quanto te?». Lo fissai con scetticismo velato. Michael ricambiò con due occhi che esibivano tutto il suo acceso interesse. Poi ridacchiai. «Nessuno dei miei ex ha mai fatto una sola critica riguardo a come lo facevo. Mai una lamentela, solo elogi su elogi. Lo so perché lo venivo a sapere per vie indirette. E sai perché? Perché sono sempre stata una tipa instancabile».

    Michael si incupì improvvisamente. Risi sotto i baffi.

    Per qualche minuto abbondante nessuno dei due disse nulla. Rimanemmo a guardarci negli occhi come due stoccafissi, uno serio e l’altra spudoratamente sorridente, soddisfatta per averlo fatto rimanere di stucco.

    «Instancabile?».

    «A-ha», annuii gravemente.

    Altro silenzio. Attesi una sua reazione stupefatta ed invece no: roteò le iridi verso l’alto, assunse una smorfia pensierosa e scoccò la lingua al palato.

    «Mi dispiace, non ti credo».

    «Ah…», esclamai offesa, chinandomi su di lui. «Vorresti dire che tu sei più instancabile di me?»

    I suoi occhi saettarono veloci nei miei, luminosi e attenti.

    «Un giorno te lo dirò...»

    Lo incenerii con un'espressione. Espirai, incrociando le braccia al petto. Puntai la televisione davanti a me. Michael ridacchiò e tentò di avvinghiarmi la schiena con un braccio. Lo allontanai, dichiarandomi profondamente oltraggiata.

    «Dai, Moony, un giorno te lo dirò...», sorrise. «Mi credi?»

    «No!»

    «Avanti...»

    «No! Questa è la seconda volta in due settimane che mi fai una cosa del genere, ossia stuzzicare e poi evitare di rispondere! Lo sai che non lo sopporto!»

    Ero irritata sul serio e Michael se ne preoccupò.

    «Sarah...»

    Non detti segno di voler continuare la conversazione. Mi masticai nervosamente le pellicine attorno alle unghie.

    «Sarah...»

    «Stammi lontano...», bofonchiai.

    «Non posso credere che tu sia instancabile...», mormorò ridacchiando. «Non ti immaginavo così – »

    «Be’, a me piace il sesso», sentenziai senza arrossire. Lo squadrai severamente. «E se per quello neanche io credo alla tua immagine di “troppo esperto”. Vedo che il sesso ti piace – basta vedere come ti mangi con gli occhi Beyoncè – ma non ti vedo così... “troppo esperto”, ecco...», gesticolai.

    Issò un sopracciglio, chinando il mento. «Te lo dico un’altra volta: ricordati che sono un uomo».

    «Non ho detto il contrario, perciò rimango della mia idea».

    «Mmh...», si prolungò verso di me, sorridente come non mai. Sembrava un pesce lesso. «Sappi che mi piaci quando sei arrabbiata, e in particolar modo quando sei così schietta su questo argomento...»

    Arrossii.

    Guardai la televisione fingendomi offesa; sapeva che lo facevo apposta, che mi divertivo a comportarmi da bambina permalosa. Difatti cominciò a fare il ruffiano accarezzandomi il braccio e la nuca con le dita di una sola mano, avvicinando le labbra al mio viso. Lo rifiutai fino a quando, bofonchiando divertita, non mi lasciai baciare.

    La sensazione che mi provocò quel gioco di provocazioni fu indescrivibile. Lo stomaco si era annodato su se stesso nel momento in cui la sua bocca era scivolate su di me. Il cuore fremeva in gola, nelle tempie, ovunque. Batteva veloce – troppo veloce – ma poco importava.

    Mi abbracciò e mi sciolsi totalmente.

    «Con pochi sono arrivato a parlare di questi argomenti, e per di più sei una donna... mi sembra di parlare con un ragazzo...».

    Sorrisi aspramente. Inclinai il capo verso Michael e lo puntai con l’indice.

    «Prenderò la tua frase come un complimento, ignorando il fatto che tu mi abbia dato del ragazzo».

    Emise una risata bassa e roca. Il modo in cui si mordicchiò le labbra mi mandò nel pallone… eppure finsi indifferenza.

    «Sto peggiorando in tua compagnia. Mi stai facendo diventare matto...», arrossì debolmente.

    Mormorai sorniona. «Ti eccito troppo, per quello ti si sballa il cervello, ammettilo».

    Ridevo. Non lo pensavo sul serio.

    Ma Michael si mostrò impassibile.

    «Sì, lo ammetto. Mi ecciti»

    Accostai un ciuffo di capelli dietro l’orecchio destro, guardando la televisione. Mi morsi le labbra per evitare di esplodere in uno sghignazzo irrequieto.

    Poco dopo lo osservai, per vedere se mi fissasse ancora: analizzava ogni mio lineamento con un cipiglio ambiguo... e fu allora che, spinta dal profondo desiderio di provocarlo, mi bagnai le labbra esattamente come faceva lui. Solo che lo feci più lentamente, con uno sguardo da gattina provocatrice.

    «Smettila!» avvampò sbigottito, indietreggiando. Mi dette una spintarella sul braccio vedendomi esplodere in una pazza risata. «Altrimenti mi ecciti davvero!».

    «Uhhh». Ridussi le palpebre in due minuscole fessure. «Allora sto ferma e non dico nulla! Anzi, non ti guardo proprio, così è ancora meglio», alzai le mani in segno di arresa.

    Michael scosse la testa, improvvisamente intimidito.

    Ad un certo punto piegai il capo da un lato, sul punto di fare una domanda.

    «Che c’è?», mi anticipò.

    «Come ti vedi nelle relazioni amorose? Non parlo in generale, parlo di esperienze personali… quando ripensi a te e ai rapporti avuti con altre donne, che conclusione ne trai?».

    Incrociai lo sguardo di Michael e vidi che era serio. Rifletté sulla mia domanda a lungo. Gli ci vollero un paio di minuti prima che mi rispondesse.

    «Sarah, sarò sincero», mi puntò intensamente. «Non è facile, per me più che per altri, avere una relazione fissa, sincera e duratura. L’ho cercata per tanto, tanto tempo... e non l'ho mai trovata. Ancora ci spero e non abbandono la speranza di trovare quella relazione, ma è dura. Sarei il più felice del pianeta se ciò accadesse. L’amore e le relazioni derivanti da questo sentimento sono complicate, tu lo sai... e sai come sono io.

    Inoltre, per quanto possa avere istinti di quel tipo e brevi relazioni, non farei mai del male a nessuno volontariamente... se devo fare quel passo, ossia avere un rapporto serio con qualcuno, non lo faccio con la prima che capita. Se amo davvero una persona, è molto probabile che non la porti subito a letto. Preferirei fare le cose con calma», puntualizzò.

    Marcò le ultime parole come un ferro caldo sulla carne.

    Abbassai le iridi chiare sull’unica mano libera che teneva appoggiata alla gamba. Non riuscii a controllarmi, gliela presi e accarezzai ogni dito; Michael lasciò che ci giocherellassi tranquillamente: lanciò continue occhiate curiose a me e alla mia mano. L'afferrò.

    «Parteciperai alla festa di Janet?» mormorò. Accarezzò il dorso dell’arto con un pollice. «Ci sarà tutta la mia famiglia... potresti fare amicizia...».

    Strinsi le labbra. «Tutta?»

    «Sì» assentì. «Saremo circa una quarantina... o una cinquantina… alcuni membri della famiglia non festeggiano i compleanni e altri non potranno proprio esserci. Ma è un’ottima occasione per riunirci».

    «E tu come ti senti all’idea di incontrarli?».

    «Se ci sarai tu, potrei sentirmi meno solo...» mi fissò sfiorandomi il polso. «Probabilmente mi guarderanno con timore, o riguardo, aspettandosi di vedere un me terrorizzato e angosciato».

    «Pensi che ti chiederanno del processo?».

    Evitò di guardarmi. Sospirò.

    «Non ne ho idea. Non vedo la mia famiglia al completo da tempo...»

    «Ma non sarai solo, ci saranno i tuoi fratelli... Janet... tua madre...». Cercai di tirarmi fuori dall’impegno di partecipare. «I tuoi nipoti... i tuoi figli!».

    Sorrise abbassando le palpebre. Infossò il capo sull’incavo del mio collo ed inspiro a fondo. L’aria tiepida che rilasciò mandò a far benedire la mia frequenza cardiaca. La nuca pulsava.

    «Mi stai dicendo questo perché non vuoi venire, vero?», sbiascicò raucamente.

    Detti ordine al petto di smetterla di sobbalzare per l’emozione.

    «No... be’...».

    La mia capacità di mentire faceva schifo.

    «Non è che non voglio venire...»

    Alzò il viso e mi fissò eloquentemente. Storse la bocca con visibile scetticismo. Non mi credeva affatto, non era così stupido: l’intelligenza era una qualità che non gli si poteva negare di avere.

    Sospirai.

    «Sei sicuro che io c’entri qualcosa con la tua famiglia?»

    Come previdi, Michael roteò gli occhi al cielo.

    «Grace parteciperà?».

    S’incupì capendo dove volessi andare a parare.

    «No...»

    «Allora non vengo nemmeno io! Mi prendo un giorno libero!», sorrisi e mi sfregai le mani soddisfatta.

    Di rimando mi scagliò un’occhiataccia.

    «E se te lo impedissi?»

    Mi zittii. Sussurrò quelle parole in modo sensuale, utilizzando la voce più profonda e ammaliante che aveva. Mi lanciò uno sguardo terribilmente malizioso e affabile.

    Mi accigliai. «Vuoi obbligarmi a partecipare?»

    «Mettila pure come vuoi...» sorrise abbandonando il capo sulle mie cosce. Si rannicchiò portando le ginocchia al petto come un bambino, ma non per questo il suo atto fu innocente. «Ho bisogno della tua presenza nella mia vita, tutto qui...»

    «“Tutti qui”?» esclamai sbalordita.

    Avvampai quando alzò la testa per analizzare meglio la mia faccia. Scostai gli occhi in direzione della televisione. R. Kelly stava cantando una delle mie canzoni preferite, Home Alone. Sia io che Michael stavamo seguendo il ritmo coi piedi, inconsapevolmente.

    «Vorresti di più?» sussurrò alzandosi a sedere.

    Feci finta di non capire a cosa si riferisse.

    «Che?»

    Michael sorrise amabile e mi si accostò al viso. In automatico mi ritrassi all’indietro, anche se di poco, voltando la testa verso il muro. Arrossii e inarcai le sopracciglia, meravigliata per l’atteggiamento con cui flirtava.

    «Che stai facendo...?» chiesi imbarazzata e sbalordita al tempo stesso.

    Il cuore smise di battere quando Michael mi baciò la guancia. Vi rimase per qualche secondo, poi si avviò un pochino più in basso, in direzione del mento. Il suo respiro sottile mi dette le vertigini.

    Ridacchiò timidamente.

    «Parteciperai, vero?» domandò senza scostarsi. «Non mi lascerei da solo, alla festa… in mezzo a tutta quella gente?»

    «Mmh...»

    «Avanti, ci sarò io con te...» mi adocchiò con un’espressione ridente e inebetita. «Non ti lascerò sola, te lo prometto... nessuno avrà niente da ridire...»

    Mi passai una mano fra i capelli e presi fiato.

    «Va bene» esclamai. «Va bene… basta che non mi costringi a presentarmi a tutti – oddio, se lo chiedono sì, purtroppo… ma preferirei essere il più invisibile possibile. Voglio starmene nel mio angoletto. Non mi piace...»

    «...essere al centro dell’attenzione. Sì, lo so» sorrise.

    «Contento ora?».

    «Molto, principessa». Mi abbracciò teneramente. «Molto più di quanto immagini...», ed infine mi dette un bacio sulla tempia. «Grazie dal profondo del cuore. Ti amo...».

    Qualcosa mi si bloccò in gola.

    «Ti amo... sei un’amica grandiosa».

    E improvvisamente quelle due parole, quel devoto “amica grandiosa”, mi lasciarono l’amaro in bocca. Una sensazione di apparente tranquillità soffocata dal desiderio di non vedere la realtà dei fatti, una realtà che comunque non poteva essere repressa o ignorata.

    Quel termine non era più sufficiente per me.

    *

    «Che ne dici se mettessimo qui gli stuzzichini salati? Magari dei tramezzini o della pizza», disse Janet, indicando il tavolo a destra della piazzola in cemento.

    «Secondo me è perfetto», dissi seriamente. «O magari dividere le portate, posizionandole agli angoli estremi del mobile, e al centro mettere solo le bevande.».

    Sorrise e annuì.

    Era sabato 15 maggio, il giorno prima della grande festa a casa Jackson. Come promesso Janet era venuta a Neverland e stava discutendo – con alcuni inservienti – su come organizzare e posizionare le cose per il giorno dopo. Michael le aveva dato carta bianca, soprattutto perché era il suo compleanno. Quest’ultimo non era presente a causa di impegni lavorativi che non mi spiegò. I bambini erano con Grace, la quale aveva lasciato del tempo a me e a Janet per parlare da sole.

    «Da lunedì dovrò ricominciare palestra volente o nolente, per smaltire tutto il ben di Dio di domani» borbottò Janet. «Non immagini che voglia...»

    «Qualche volta ci sta sgarrare», proruppi gentilmente. «Posso chiederti una cosa? Segui una dieta particolare?»

    «Sì, in effetti sì» mi guardò dolcemente. Aveva lo stesso sorriso di Michael. «Un personaggio dello show business deve stare attento a cosa mangia. E deve fare sempre ginnastica per tenersi in forma. Io ho un metabolismo lento, perciò sono sempre sotto controllo». Currugò le labbra in un’espressione amareggiata. «È dura, soprattutto perché sono una persona che ama mangiare».

    «Come ti capisco» mormorai. Alcuni uomini stavano sistemando i tendoni bianchi per il giorno dopo in giro per il giardino. «Anche io devo stare molto attenta. Ho il tuo stesso problema. L’alimentazione non è un problema, ma la ginnastica…», arrossii.

    Sorrise ancor più gentilmente. «Anch’io sono pigra. Però credimi, è essenziale. I risultati si vedono eccome se sei costante. Pian piano diventa un’abitudine».

    «Ci credo» annuii. «Un tempo amavo correre. Peccato che da un paio di mesi non pratico più nulla».

    Janet era una donna veramente cordiale. Non mi faceva pesare il fatto di essere l’insegnante dei figli di Michael. Mi parlava come se fossi una persona qualunque. All’inizio sembrava fredda e osservatrice, ma appena le si dava il via per parlare, lo faceva con una scioltezza incredibile. Lei stessa tirava fuori gli argomenti su cui discutere. A volte sembrava che stesse parlando con un’amica di vecchia data.

    Era decisamente meno timida di Michael, ma la sua cordialità e la sua compostezza erano uguali a quelle del fratello.

    «Se vuoi possiamo fare qualcosa assieme. Ti posso consigliare un luogo perfetto, in cui ti terranno sotto controllo per tutta la pratica. Io frequento una palestra privata, qui a LA. A me tocca andare ogni giorno, ma tu potresti cominciare con tre volte a settimana».

    M’illuminai immediatamente, ma mi sforzai di placare la gioia. «Non vorrei dare fastidio…»

    Scosse il capo. «Figurati! Se te lo offro è perché lo voglio davvero. Abbiamo tante cose in comune e ti aiuterei volentieri» Mi sorrise. «L’idea ti piace?»

    La sua dolcezza era straordinaria.

    «Mi piacerebbe tantissimo, sì» arrossii e chinai il capo in segno di rispetto.

    Si diresse verso l’interno della casa. Anche là molti inservienti stavano sistemando e pulendo per il giorno seguente. Io la seguii.

    «E poi non hai bisogno di lavorarci molto, sei già bellissima così come sei. Hai una bellissima forma a clessidra» disse piano, dandomi le spalle. La ringraziai. «E se migliori ancora di più, mio fratello Mike lo noterà eccome».

    Mi fermai sul posto e increspai la fronte.

    Lei fece lo stesso e mi puntò con uno sguardo serio e impenetrabile.

    Che cosa aveva detto?

    Dopo qualche istante di silenzio si umettò le labbra. Sentivo che qualcosa era cambiato. Era gentile, sì, ma i suoi occhi erano attenti come non mai; sembravano entrarmi nel cuore per mettere a soqquadro tutto quanto. Ogni certezza, ogni sentimento, ogni dubbio. Sembrava alla ricerca di un qualcosa che immediatamente non riuscii a capire. Mi stava mettendo alla prova, forse?

    «Che cos’è Michael per te?»

    Fu diretta. Senza esitazione alcuna.

    Mi voleva fare quella domanda dal principio, fin dal giorno in cui mi aveva incontrato.

    Affrontare quel quesito fu come avanzare alla cieca verso un burrone, un buco nero formato da contrastanti emozioni, e caderci dentro senza aver prima pensato alle conseguenze, ai “se” e ai “ma”. Ma non mi ero buttata di mia iniziativa. Qualcuno mi ci aveva spinto con la forza, lasciandomi completamente esterrefatta.

    Riflettei.

    Riflettei pur capendo il significato preciso di quella frase fin dal principio.

    «Tu e mio fratello avete uno strano rapporto» continuò imperterrita. «Chiedo scusa se questa mia domanda ti ha lasciato perplessa o ti ha causato disagio. Non volevo sembrare maleducata. Ma non ho potuto fare a meno di chiedermelo, a causa degli sguardi che vi date».

    Sbattei le palpebre e un'espressione perplessa mi si dipinse in faccia.

    Janet si passò la lingua sulle labbra. Portò la massa di folti capelli su una spalla. Poggiò il peso del corpo sulla gamba destra e abbozzò un sorriso stirato.

    «Voi due vi guardate in modo diverso. L’ho notato il primo giorno in cui ti ho conosciuto... ti ricordi la mia visita a Neverland? Ancora uno o due mesi fa?»

    «Sì, ricordo...»

    Non smise di fissarmi. «Il modo in cui ti guardava era incredibile. E i tuoi occhi brillavano ogni volta incrociassi i suoi. E si illuminano anche ora che lo nominiamo».

    Mi pietrificai.

    Non detti il minimo cenno di aver recepito il messaggio. Figuriamoci se fossi in grado di formulare una risposta concreta.

    Venni sommersa dalla sensazione di un vuoto indissolubile. Il silenzio mi invase la mente. Ogni pensiero si congelò. Era un argomento che non mai avevo affrontato con nessuno prima d’allora. Con Michael potevo parlare di tutto, tranne dei sentimenti che provavo per lui. E già per me non era semplice rendermi conto di cosa sentissi veramente.

    Il cuore tumultuò, ma non indietreggiai.

    «Suo fratello è una persona meravigliosa». Raddrizzai le spalle senza abbassare la testa. Tremai, ma cercai di nasconderlo. «Un grande amico. Il mio migliore amico, quello che cercavo da una vita intera. A volte è anche una sorta di fratello. Ed è un padre eccezionale. È un uomo forte, ma anche fragile. È un uomo che sa quello che vuole, testardo come un mulo, ma sa anche essere comprensivo e generoso. Le persone possono facilmente approfittare di lui perché sa cosa significa non avere niente, per questo dona ogni parte di sé. È la persona più bella che abbia mai incontrato, fuori e dentro».

    Janet rimase a studiarmi senza dire nulla. Il silenzio calò di nuovo, ma durò poco: le sue labbra si stesero in un sorriso indefinibile. Mirò un punto sconosciuto alla sua destra.

    «Capisco».

    Feci per dire qualcosa, ma Janet me lo impedì.

    «Che genere di musica ascolti? Vorrei stilare una lista di canzoni e darla al disk jockey, così da poterle far suonare domani sera. Più musica c’è, meglio è. Possibilmente niente che abbia a che fare con la mia famiglia, non voglio che i miei fratelli competano tra loro come al solito. Magari un misto di musiche lente e movimentate, così anche i bambini possono divertirsi… dai, seguimi».

    E io lo feci.

    Anche se tutto era diventato improvvisamente buio e confuso.

    *

    Quando Janet se ne andò da Neverland, salii le scale e me ne stetti in camera mia per ore. Dissi a Grace che non stavo molto bene e che probabilmente non sarei scesa per cena. Michael sarebbe tornato e probabilmente sarebbe venuto a cercarmi preoccupato, ma speravo di stare meglio, una volta fatta chiarezza con la mia testa. Dovevo stare da sola. Pensare da sola. Riflettere da sola. Affrontare tutta quella confusione da sola.

    Per una volta desiderai non vederlo fino al giorno dopo.

    Ricordo che non mi cambiai neanche. Mi distesi a letto e basta. Non mi nascosi sotto le coperte, nonostante tremassi come una foglia.

    Per tutta la sera mi sentii avvolta in una bolla che mi divideva dal resto del mondo – soprattutto da Michael. Il cuore annaspava e la mente lanciava segnali d’allarme che non riuscivano a fermare. Ero solo me, me stessa ed io a fronteggiare due sentimenti tanto opposti quanto devastanti: amore contro paura. Se uno veniva zittito, l’altro ruggiva forte in petto e mi rendeva vulnerabile – troppo vulnerabile. Se invece li lasciavo parlare entrambi, la testa mi scoppiava. Era un vero e proprio scontro fra titani.

    I primi pensieri furono rivolti a Janet e a quel discorso che da ore non faceva che importunarmi. Credevo che l’avesse fatto apposta per capire se fossi una persona sincera; dopotutto Michael era circondato da avvoltoi da tempo e, in un momento tanto critico come quello, dove il fratello doveva affrontare un processo non da poco, non era saggio che si circondasse di gente che lo facesse stare peggio o lo mettesse ancora di più nei guai. Eppure mi aveva sorriso, quando le avevo detto cosa Michael fosse per me. Un sorriso dolceamaro, il suo.

    Tentai invano di non pensare a Michael.

    Non volevo averlo in testa, né davanti agli occhi, né tantomeno nel cuore.

    Mi domandai se veramente mi brillassero gli occhi quando lo vedevo, se davvero la mia fosse soltanto amicizia, se veramente Michael potesse provare attrazione per una come me – figuriamoci amore vero. Ma non riuscii a rispondermi in alcun modo. Tutto non faceva che scomparire di fronte al quesito più importante a cui dovevo dare responso: lo amavo?

    Perché se lo amavo... ero in trappola.

    Alla fine lo vidi. Lo immaginai. Vidi Michael come mi se fosse realmente dinanzi. Vidi tutto ciò che avevo passato con lui. Il nostro primo incontro a novembre, la mia figura di merda, gli sguardi che mi aveva lanciato... e le telefonate, i suoi sfoghi e il suo pianto, la sua apertura di fronte all’estranea che ero; ricordai la nostra discussione in ufficio, quando mi aveva chiesto di Dio e poi lo avevo abbracciato. Ricordai la visita al ranch, il desiderio e la piuma. Ricordai il modo in cui abbracciava i bambini, il modo in cui il suo cuore volava quando giocavano assieme. Ricordai quel pranzo a base di peperoncino e le pulizie di casa, che a Michael piaceva fare per sentirsi come tutte le persone normali. Nella mia mente riapparve il cinema, i film che avevamo guardato, le chiacchierate nella notte, le risate che gli avevo fatto fare con la mia assurda espressività, la fuga da Neverland alla ricerca dei regali per i suoi figli e la scogliera, il posto in cui mi ero liberata di tutto il dolore che non avevo mai pianto. Il suo abbraccio e la sua voce che mi diceva di lasciarmi andare, che non dovevo avere paura. Ricordai Natale, ricordai Capodanno, i compleanni, così come ricordai il periodo in cui mi ammalai e mi stette accanto. Ricordai quando mi chiamò per la prima volta “Moon of my Heart”; la famiglia Cascio, Joanna; la rabbia verso i tabloid, verso tutti. Da un lato della medaglia vedevo il suo candore e la bellezza d’animo che possedeva; dall’altro lato, invece, la tristezza del suo cuore, nascosta tra i sorrisi e gli abbracci donati. Ricordai ogni cosa, ogni stretta, ogni bacio, ogni doppio senso, ogni sorriso, ogni occhiata d’intesa, e la sensazione che il mio cuore provava non appena lo vedevo.

    Sono in trappola.

    Chiusi gli occhi mentre mi portavo le mani sulla faccia, per impedirmi di piangere.

    Io lo amo.

    Lo amavo davvero.

    Lo amavo e questo mi faceva paura, una fottuta paura. Paura di soffrire per quella sconsiderata emozione che poco a poco sentivo liberarsi in petto. Lo amavo e non volevo riconoscerlo, ma lo amavo a tal punto che il cuore sarebbe scoppiato per lui, se non lo avessi affrontato di petto.

    Quell’amore era una gioia agrodolce. Quello che provavo, nonostante credessi fermamente il contrario, era Amore – non importava che tipo fosse o quanto riuscissi a percepirlo. Era un fuoco che bruciava e divampava ovunque; era il più puro dei sentimenti, e come tale non aveva termini adatti per potersi definire. Si sentiva e basta, e quando era così non potevi far altro se non lasciarlo uscire.

    Ero bloccata nella paura. Era qualcosa di profondo – un amore che non avevo mai provato prima di allora – e avrei preferito che non fosse niente di così intenso: semplicemente non ero abituata a un tipo di emozione così devastante. Io non sapevo gestire i sentimenti.

    Per anni mi ero detta che non avrei mai trovato l’amore che cercavo. Eppure, nel momento in cui ero resa conto di averlo finalmente trovato, negli angoli più sconosciuti della Terra, avevo deciso di ritirarmi in me stessa. Ero terrorizzata dall’amore senza riserve, nonostante lo desiderassi da tutta una vita.

    Se le cose fra noi non sarebbero funzionate, non sarei riuscita a sopravvivere.

    Ma io amavo ogni dettaglio del suo aspetto, interiore ed esteriore. Amavo la sua risata, la sua voce e quel maledetto e profondo sguardo con cui mi penetrava l’anima. Amavo la marcata fossetta sul mento, le guance ben delineate, il naso sbarazzino e i suoi capelli sempre disordinati. Amavo la sua dolcezza, la sua eccentricità, la sua bontà, la sua testardaggine, il suo altruismo infinito, il suo orgoglio, la sua incessante voglia di amare ed essere amato e la sua gelosia sempre così protettiva, sempre così tanto intimorita all’idea che potessi sfuggirgli dalle mani. Amavo ogni cosa che faceva e come la faceva, amavo quando sbagliava e quando ragionava. Amavo come si arrabbiava e come mi faceva arrabbiare. Amavo come toccava la mia fragilità e la trasformava in forza. Lo amavo perché se io piangevo, lui mi abbracciava e mi baciava le guance come un vecchio e intimo amico. Lo amavo perché se uno dei due soffriva, all’altro si spezzava il cuore. Lo amavo perché, con i suoi pregi e con i suoi difetti, era quello che era e nessun’altro, tutto ciò che avevo sempre sognato e tutto l’amore che avevo sempre cercato.

    Lo amavo e non riuscivo a quantificare quanto.

    Lo compresi senza riuscire a smettere di piangere, senza riuscire a smettere di tremare, in un periodo di tempo che non mi sembrò passare mai... fino a quando il mio Sole non apparse, bussando alla porta.

    Sobbalzai.

    La porta si schiuse con un rumore di serratura che si apriva.

    La sua voce fu come uno squarcio di luce fra le nubi in tempesta.

    «Sarah?».

    Non tentai neppure di rispondere o asciugare il viso. Ferma, incapace di muovere un muscolo, l’unica cosa che mi rimaneva da fare era aspettare. Aspettare una sua mossa, una sua parola, qualunque cosa.

    Alzò il tono di voce per la preoccupazione. «Sarah...?».

    Sentii i suoi passi e la porta che si chiudeva. Lo stomaco si contrasse dal dolore.

    «Sarah, che succede?».

    Percepii il peso del suo corpo adagiarsi sul bordo del letto, vicino alla mia figura che non smetteva di tremare, raggomitolata su se stessa. Affondai il viso nel cuscino.

    «Moony... ehi...», s’avvicinò e mi accarezzò la nuca.

    La sua voce era incrinata dall’emozione.

    Fu come temere di essere bruciata dal fuoco.

    «Non piangere...». Si abbassò sulla mia nuca e mi scoccò un bacio affettuoso fra i capelli. «Dimmi che è successo... non avere paura di me...», mormorò pregante. «Non temere, ci sono io... stai poco bene?»

    Venni scossa dai singhiozzi.

    Michael non badò al mio silenzio e mi si distese in parte. Mi avvolse e mi accarezzò dolcemente con un braccio.

    Sospirai tremando. Il suo profumo s’insinuò nell’anima, attraversò ogni piccola cellula di me stabilendosi nel sangue, nella carne e nelle ossa, e tutto fu di nuovo più doloroso.

    Un altro bacio sulla nuca.

    Un’altra carezza.

    Volevo soltanto scomparire. Tornare indietro nel tempo e rifare tutto da capo.

    «Michael...».

    Le dita che scivolavano fra i miei capelli si contrassero al richiamo.

    Mi asciugai le guance e gli occhi. Trovai la forza per girarmi verso lui. Lo feci con gli occhi chiusi e mi strinsi al suo petto afferrandogli la camicia. Mi aggrappai forte e piansi ancora. I suoi polpastrelli delicati scivolarono con esitazione sul mio volto. Poggiò le labbra sulla fronte.

    «Ho paura...».

    «Non devi... non devi...» Michael inspirò piano. «Io non ti lascio».

    Mi tenne la testa premuta sull’incavo del collo con una mano. Con l'altra mi prese le gambe e le adagiò sopra le sue cosce.

    Come avrebbe potuto liberarmi da un problema di cui non sapeva di esserne la causa?

    Cuore e cervello lottavano in una guerra senza risparmio di colpi, e chissà come era sempre l’ultimo ad avere la meglio sul primo: il cuore, infatti, continuava a sanguinare amore, implacabile, mentre l’altro gridava ciò che non faceva che ripetere da ore: non puoi amarlo, hai rovinato tutto adesso.

    Mi allontanai dal suo petto.

    Michael mi asciugò le lacrime e io lo guardai negli occhi. Lo guardai a lungo. La luce della Luna, al di fuori della finestra che mi dava le spalle, gli colpiva in pieno alcuni dettagli del viso. Era bellissimo.

    «Non avere paura, piccola. Non averne. Io non ti lascio da sola. Ci sono sempre», sorrise appena.

    Mi carezzò la guancia destra. Gli occhi erano profondamente dispiaciuti.

    Rabbrividii.

    Il suo sorriso scemò quando posai due dita sulle sue labbra... permisi al cuore di scalpitare e permisi a Michael di entrare, di abbattere quel muro che desideravo buttar giù da tempo. Lo feci a discapito delle conseguenze.

    Lo fissai mentre adagiavo la fronte alla sua, tremando piano. Schiusi le labbra, respirando a fatica, come se l’anima stesse soffocando per gli stessi sentimenti che provava.

    Capivo fin dove mi stessi spingendo, ma lo desideravo. Lo desideravo da morire.

    I suoi occhi si fecero languidi nel giro di un istante.

    «Mich…».

    Il suo respiro si spense sulla mia bocca con roco mugolio. Mi lasciai sfuggire un gemito sopraffatto, sentendo qualcosa - probabilmente il mio cuore - scoppiare in petto. Mi lambì le labbra, ricercando ogni centimetro di pelle che non aveva ancora toccato o sfiorato.

    Immediatamente mi ressi sulle sue spalle, lasciandomi guidare in una danza lenta e senza fine apparente; mi sembrava di cadere, ma era quel tipo di caduta che avrei fatto e rifatto un milione di volte ancora.

    Avevo le vertigini.

    Percepii ogni pressione che mi dava, ogni sospiro che si univa al mio, ogni basso piagnucolio di piacere che usciva dalle nostre gole. Nessun bacio che avevo dato o ricevuto, comparato a quello, appariva tanto intenso e destabilizzante quanto il suo.

    Abbandonai la schiena sul letto, guidata da Michael. Le dita di una mano scivolarono sul suo collo, per poi scavare delicatamente tra i suoi capelli corvini, espirando un lamento di lascivia mentre la lingua entrava nella mia bocca, smaniosa di assaporarmi. Si pose sopra di me e mi legai al suo bacino con una gamba.

    Mi sentivo ubriaca, esaltata dalla vibrazione dei nostri due corpi uniti in un bacio che non dava via di fuga. Ero completamente sua, prima ancora di essermi concessa. Erano le sue labbra – dolci ma passionali, sensuali ma delicate – quelle che avrei voluto sentire sulle mie per il resto della vita.

    Michael emise un gemito basso e roco, portandomi alla disperata voglia di togliermi i vestiti e lasciarlo entrare in me – così, senza nessuna inibizione o senso di colpa – pur non avendo la forza e il coraggio di farlo. Accostai il bacino verso il suo, liberando un debole sospiro, e lo percepii alla ricerca della mia femminilità, eccitato e scosso forse quanto me.

    Portò la mano sul mio collo, scosso dalla libido, facendomi inclinare il capo a suo piacimento, donando gentili carezze anche a quella parte del corpo.

    Assaporai, coccolai, rabbrividii di lui ogni istante in cui Michael fu su di me. Tutto quello che mi circondava non aveva più senso.


    Edited by fallagain - 6/4/2020, 13:54
     
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    Capitolo Ventinove: L'Eclisse

    Fu un raggio di sole, la mattina dopo, a destarmi.

    Era avanzato timidamente nella stanza, dritto verso il mio viso, e aveva bussato alle porte di quella zona che divide la veglia dal sonno.

    Ancora mezza addormentata, voltai il capo dalla parte della finestra.

    Sul momento non ricordai niente del giorno precedente. Tenni gli occhi chiusi fino a quando i ricordi avanzarono nella profondità della mente, risvegliandomi dalla fase REM. Le guance erano increspate dai residui delle lacrime.

    Aprii le palpebre sbattendole piano.

    Una serie di immagini riaffiorarono dinanzi al mio sguardo assente; i ricordi vennero scatenati dal delicato profumo di Michael, rimastomi sulla pelle per tutta la notte. La sensazione del bacio, quel meraviglioso contatto con le sue labbra... i sospiri, l’eccitazione e in seguito il modo in cui mi ero rannicchiata su di lui, mentre Michael ricambiava stringendomi fortissimo. Il suo sapore, il bagliore dei suoi occhi angustiati e bramosi, le vertigini che avevo provato nonostante fossi distesa e immobile.

    Il cuore batté forte ed io m’irrigidì di rimando.

    Mi accarezzai le labbra con la lingua, sperando di sentire ancora il gusto del suo bacio. Trattenni il fiato, immaginando di poter tornare indietro nel tempo, nell’attimo in cui tempo e spazio si erano annullati.

    Non riuscivo a comprendere se Michael stesse dormendo vicino a me o meno.

    Quale sarebbe stata la cosa migliore da fare? Affrontarlo? Scappare? Avrei dovuto chiedere scusa per aver agito d’istinto? O avrei dovuto confessare cosa provavo, paura compresa? Non ero sicura di aver agito bene. Non lo ero per niente.

    Lo amavo, di questo ero certa, ma il timore di non sapere a cosa andassi incontro mi faceva rabbrividire: volevo illudermi di provare amicizia e basta; ero spaventata, perché tentavo di trattenere un sentimento più grande del mio stesso corpo; cercavo con tutte le forze di reprimerlo, di cancellare quello che era accaduto, nonostante non riuscissi a sbiadire nemmeno un dettaglio dal cuore.

    Dopotutto cosa aveva spinto Michael a ricambiare il bacio? Perché eccitarsi fino a quel punto? Semplicemente perché era un uomo e come tale sarebbe stato scemo a rifiutare una simile occasione?

    Riconobbi che il problema di fondo ero io, io che non riuscivo a capire perché dovesse amare me con tutte le altre persone presenti in questo mondo; il problema ero io, che non credevo di meritarmi quell’ondata di energia così intensa e pura. Che non ero in grado di gestirla. Ero così cieca da non vedere quello che, chiaro e limpido come l’acqua, avevo avuto di fronte per mesi. Se tutto fosse stato un’illusione – se Michael mi avesse baciato solo per compassione o qualsiasi altro motivo che non fosse amore – era troppo tardi per rimediare.

    Difficilmente le cose sarebbero ritornate come prima.

    Ricordai la sensazione del bacio, umido e caldo, e percepii uno strano dolore allo stomaco e al basso ventre.

    Girai impercettibilmente il collo verso il lato vuoto del letto. Respirai a fondo nell’istante in cui vidi che non c’era. Angoscia e lieve sollievo allagarono me e l’ambiente circostante.

    Perché non ci sei?. Me lo chiedevo in continuazione.

    Mi voltai verso il mio comodino per vedere se avesse lasciato un messaggio – un foglio di block notes, una lettera, qualsiasi cosa. Non vidi nulla, ma per sicurezza mi alzai a sedere.

    La stanza era illuminata dallo spuntare del Sole mattutino. Tutto sembrava intoccato, pietrificato nel tempo e nello spazio: il letto, l’armadio, i quadri, perfino la polvere che volteggiava in aria se la si guardava controluce.

    Se ne era andato.

    Michael era svanito completamente.

    Le coperte non erano state toccate né tanto meno disfatte. Ciò nonostante, la sensazione di devastante benessere – scatenatasi dal momento in cui lo avevo baciato, in cui le braccia di uno si erano avvinghiate sul corpo dell’altro – riuscii a farmi sentire un piccolo soffio al cuore. L’impronta delle sue labbra e delle sue dita bruciavano ancora la pelle.

    Se ne era andato senza aspettare il mio risveglio. Era scomparso e nemmeno lo avevo udito alzarsi. Non sapevo neanche a che ora avesse abbandonato la stanza, e il perché ancora meno.

    Vergogna? Pentimento? Dolore?

    La consapevolezza di aver fatto uno dei più grandi errori della mia vita non era niente in confronto all’opinione che Michael poteva avere di me. Temevo così tanto di aver rovinato il mio rapporto e il mio futuro con lui che mi venne da piangere: i migliori amici non si baciavano sulle labbra, così come non dovevano eccitarsi a vicenda.

    Mi misi le mani fra i capelli e portai le ginocchia verso il torace. Fissai le lenzuola, attonita… svuotata.

    In seguito serrai le palpebre, aggrottando le sopracciglia.

    Stavo così male che non avevo fame.

    Nascosi la faccia tra il petto e le ginocchia. Respirai a fondo. Mi feci cullare da quella interminabile assenza di rumori, pungente ma allo stesso tempo rassicurante, forse l’unica cosa che mi potesse far compagnia in un momento del genere.

    Ero nella merda, di questo ne ero assolutamente certa.

    Mi sentivo fragile come un castello di carte: un solo alito di vento avrebbe potuto farmi crollare a terra. Un solo sguardo di Michael avrebbe potuto mandare la mia anima in fiamme o sotto terra, a seconda della sua ipotetica reazione.

    Che cosa provi per me?

    *

    «Sarah, senti la nuova canzone che abbiamo imparato!»

    Paris mi trascinò per mano verso il muretto in mattoni, quello vicino ad un grande albero, a pochi passi dal villino. Eravamo uscite dall’enorme terrazza in corridoio, in direzione del giardino che fronteggiava il ruscello. Prince ci aspettava.

    «L’abbiamo preparata per te!».

    «Oh, davvero?», li guardai amabilmente, sorridendo.

    Paris mi strinse la mano. «Sì! Te la dedichiamo!».

    I piccoli mi fecero sedere. Mi osservarono emozionati mentre io cercavo con tutte le mie forze di rimanere concentrata su loro e basta. Non era facile fingere serenità.

    Michael non si era presentato né durante la colazione né durante il pranzo. Per reazione alla sua assenza, non avevo mangiato niente se non un piccolo pezzo di pane. Neppure nei corridoi lo avevo visto passare. Nessuno sapeva dov’era, o almeno così sembrava; Grace mi aveva evitato per tutta la giornata.

    I due fratelli bisticciarono un po’ per decidere le postazioni da prendere e io li ripresi gentilmente. Così Prince si sistemò a destra e Paris a sinistra; il primo sorrise e si mostrò abbastanza sicuro di sé, la seconda invece si dondolò a destra e sinistra, dolcemente entusiasmata ma imbarazzata; la gioia traspariva dai loro occhi.

    «Pronta?».

    Sorrisi e annuii. «Pronta!»

    Prince raddrizzò la schiena. Paris si schiarì la voce e, dondolandosi più velocemente, puntò lo sguardo sulla chioma dell’albero alla sua destra.

    Tra poche ore sarebbero iniziati i festeggiamenti a casa Jackson.

    «Somewhere... out there... beneath the pale moonlight... someone’s thinking of me... and loving me tonight...»

    Mi sciolsi letteralmente, senza esitazione, non appena riconobbi la canzone che i due mi stavano dedicando. Si chiamava Somewhere Out There, dal film Fievel Sbarca in America.

    Soltanto qualche tempo prima avevo guardato il seguito di quel cartone con Michael... e quella stramaledetta coincidenza non poté far altro che – a dispetto della commozione – farmi male al petto. Il mio sguardo – anche se costantemente rivolto ai bimbi – fu colto da una scintilla di cupa malinconia.

    Aveva iniziato Prince a cantare. Quando venne il turno della piccola Paris, questa mi studiò eloquentemente. Le feci l’occhiolino per infonderle più coraggio.

    «Somewhere... out there... someone’s saying a prayer... that we’ll find one another... in that big somewhere out there...»

    Vedendomi canticchiare silenziosamente e osservando la mia immensa felicità – temporaneo sollievo alle mie preoccupazioni – Prince e Paris partirono in un susseguirsi di note alte – a volte intonate, a volte più gracchianti. Ma non mi importava se stonassero o meno. Continuai a incoraggiarli, senza fare una piega per le piccole stonature, notevolmente messe da parte dall’allegria e dalla dolcezza dei loro sguardi.

    «Somewhere... out there... if love can see us through... then... we’ll be together... somewhere out there... out there... dreams come true...»

    La canzone terminò con un delizioso finale e un piccolo applauso partì dalle mie mani. Paris arrossì gongolante e Prince si riempì d’orgoglio: entrambi mi corsero incontro per essere abbracciati. Li strinsi forte scoccando loro due grandi baci, lasciandomi andare a quell’ondata d’affetto che solo i bambini sapevano regalare.

    Tuttavia, sebbene io avessi smesso di battere le mani, qualcuno continuò a farlo al posto mio.

    Ci voltammo tutti e tre di scatto.

    Impallidii.

    Osservai Paris sorridere e sia lei che il fratello corsero incontro a lui, il loro papà... Michael. Cominciai a sentirmi sempre e sempre più pesante, sola...

    «Papà!» la piccola gli saltò in braccio.

    Michael si chinò a terra, ridacchiando teneramente, e accolse fra le braccia prima uno e poi l’altro. Li cinse con un sorriso straordinariamente caloroso. Mi parve di percepire quell’amore dentro le membra, anche a distanza di qualche metro, sebbene non fosse rivolto alla sottoscritta.

    «Bravissimi! Avete cantato davvero bene!», mormorò felice. Prince e Paris furono così presi dall’emozione che cominciarono a parlare a raffica, incuranti del rumoroso caos che stavano creando.

    Non feci tempo a deviare lo sguardo che, nel giro di un secondo, quegli occhi scuri mi stavano già squadrando intensamente.

    Il tempo si annullò.

    Le voci dei due bambini diventarono offuscate, incomprensibili. Ricordai il suo sguardo nello scintillare timido ed amabile della Luna, nell’attimo prima di baciarmi. Niente a che vedere con l’occhiata seria che, in quel momento, mi stava lanciando.

    Rimasi immobile ed incapace di agire.

    Inspirai a fondo, ma non ebbi il coraggio di buttare fuori il fiato.

    M’osservava in modo talmente profondo che mi sembrò tremare. Ebbi paura – così tanta che tutto sembrò perdere colore... tutto tranne Michael. Mi irrigidii in un’espressione tesa, sgomenta, dura. Ero smarrita di fronte alla sua presenza. I miei occhi gli urlarono tutte le domande che volevo fargli, ma a cui non avevano trovato risposta.

    Michael puntò i bambini senza fare una piega. Li allontanò da sé e li guardò sorridente, continuando ad ascoltarli.

    Fece come se nulla fosse accaduto.

    Come se tutto fosse normale, pacifico e tranquillo, come se non ci fosse nessun problema.

    Mi ignorò totalmente, senza mostrare alcun segno di interesse. Non mostrò odio, non mostrò rabbia, non mostrò disprezzo e soprattutto non mostrò affetto. Non mi fece intendere nulla.

    Si sedette a terra, accolse i piccoli fra le braccia e li fece sedere sulle proprie cosce. Continuò ad accarezzare loro il capo con un sorriso felice, seguendo con lo sguardo prima uno e poi l’altro.

    Per quanto quella scena fosse incredibilmente dolce, mi sentii sprofondare in un sentimento diverso, peggiore.

    «L’abbiamo dedicata a zia Sarah! Le è piaciuta tantissimo!», esclamò Paris, voltandosi verso di me e indicandomi. Anche Prince si girò sorridendo.

    Cercai con tutta me stessa di ricambiare il sorriso, ma il mio sguardo era fisso sul sentiero grigio fumo.

    «Ah sì?», domandò Michael fingendo contentezza. Non mi guardò. «Ne sono felice».

    «Daddy...», sussurrò Prince confuso. La manina scivolò sulla spalla del papà in cerca di risposte. «Dove sei stato oggi?»

    «Avevi promesso che avresti giocato», bisbigliò una Paris rammaricata.

    Lo osservai.

    Per un attimo mi parve vedere i suoi occhi scivolare lontano dai suoi bambini, verso terra, e uno sprazzo di pentimento tradire la sua espressione impenetrabile e apparentemente sereno.

    Ero talmente fastidiosa quando mi arrabbiavo, perché il mio sguardo diventava penetrante e insistente. Ero peggio di un martello pneumatico, scrutavo a lungo per mettere sotto pressione, incessantemente.

    Michael se ne accorse. Si umettò nervosamente le labbra.

    Mi venne da ridere in maniera sarcastica.

    «Mi dispiace non aver mantenuto la promessa», mormorò. Le labbra si contrassero in una smorfia di felicità stirata. «Ho avuto degli importanti impegni di lavoro»

    Alzai un sopracciglio, scostando lo sguardo in direzione completamente opposta alla sua. Mi veniva da sputargli in un occhio, da quanto ero nervosa, tant’è che cominciai a ondeggiare spasmodicamente le gambe nel tentativo di non emettere un suono.

    «Ma ora puoi giocare con noi?»

    Vidi Grace avvicinarsi con Blanket in braccio, la quale se n’era stata per tutto il tempo dentro in casa. Ero così assorta nei miei pensieri, quel giorno, che mi ero totalmente dimenticata di lei. A breve se ne sarebbe andata per lasciar festeggiare la famiglia Jackson in santa pace. Forse era meglio che me ne andassi anch’io.

    Sorrise. «Giocheremo quanto vorrete. E ci prepareremo insieme per la festa»

    Paris s’avvinghiò al petto di Michael. «Possiamo giocare a nascondino, papà?»

    Le baciò la nuca. Il suo sguardo scivolò a qualche passo di distanza da dove mi trovavo, pensieroso e cupo. Lo percepii e rabbrividii come se un’ombra stesse tentando di avvolgermi e risucchiarmi nelle sue tenebre senza che io avessi la possibilità di salvarmi.

    «Possiamo giocare a tutto quello che vorrete».

    Un moto di rabbia stritolò la parte più alta della pancia e decisi di alzarmi in piedi.

    Non era così che doveva trattarmi.

    Non ero quella che doveva baciare e il giorno dopo ignorare.

    «Dove vai, zia?», domandò Prince con sguardo interrogativo.

    Solo allora Michael mi guardò. Puntai i bambini ignorando completamente il padre. Mostrai un sorriso di cortesia. Con la coda dell’occhio riuscì a captare l’agitazione che quello stronzo (non c’era altro termine per descriverlo) stava trasmettendo attraverso lo sguardo.

    «Penso che andrò a comporre qualcosa al pianoforte. Mi è venuta l’ispirazione per qualcosa di nuovo».

    Feci un passo in avanti e mi bloccai.

    «Dopo ce la farai sentire?», chiese Paris.

    Per un secondo mi addolcii.

    «Ovviamente».

    Drizzai il capo e le spalle e m’incamminai verso quei pochi scalini che mi avrebbero portato dentro la dependance. Grace teneva lo sguardo basso e Blanket – come se percepisse la mia tensione – non mi chiese di venire in braccio. Mi parve di avere le gambe pesanti nonostante fossi sul punto di correre. Il filo sottile che mi legava a Michael era teso, come un elastico che mi invitava a tornare indietro. Le iridi si offuscarono a causa di una leggera patina di lacrime.

    Mi diressi verso il salotto, aumentando la velocità dei passi.

    Salii le scale e mi chiusi in camera mia.

    Mi sedetti sul bordo del letto e fui colta dall’improvvisa tentazione di spaccare qualcosa. Inspirai ed espirai rabbiosamente. Strinsi le mani a pugno. Fui colta dalle vertigini.

    Tutto ciò che avevo nella mente si annebbiò.

    Sarei scoppiata nel giro di breve tempo.

    Perché ogni cosa, con Michael, assumeva dimensioni maggiori. Non solo l’amore, ma anche la rabbia, la tristezza, la delusione, la gioia, i rimpianti... tutto diventava più grande, più immenso, e ci voleva un miracolo per riuscire a contenere tutte quelle emozioni. O le ignoravo e tentavo di reprimerle, o ne venivo sommersa. Michael non era normale, era qualcosa di fottutamente straordinario. Era troppo per un comune essere umano come me.

    Una lacrima punse i miei occhi e scese lungo la gota sinistra.

    Ho sbagliato tutto.

    Mi sentivo sola.

    Guardai il soffitto, sbattendo le palpebre per trattenere il pianto, e invece quello si lasciò andare senza riguardo.

    Quando mi distesi a pancia in su rimasi in quella posizione per ore, ad occhi chiusi o con i palmi a coprirmi il viso, fino a quando la luce del giorno non calò definitivamente e io non fui obbligata a muovermi per accendere la luce.

    *

    Avevo perso il conto del tempo passato.

    Ad un certo punto, un lieve vociare raggiunse le mie orecchie come una piccola onda del mare sulla spiaggia, spazzando via i residui di cupi pensieri per un attimo.

    Drizzai le orecchie nel tentativo di distinguere bene cosa stessero dicendo quelle voci in giardino. Percepii risate di donne, scalpiccii vivaci di bambini e borbottii bassi e rochi di uomini: la festa per Janet stava per iniziare.

    Mi tirai su dal letto, in posizione seduta, e chiusi il libretto sul quale stavo scrivendo alcune bozze di storie senza trama e senza senso. Lo appoggiai sul comodino e colsi l’occasione per vedere che ora fosse.

    18:38, così diceva la sveglia elettronica.

    Sospirando fissai la porta.

    Avevo riflettuto tanto – non sapevo neanche quanto – per decidermi se sarebbe stato giusto presentarmi o meno alla festa. Non volevo avere a che fare con nessuno. Non volevo vedere Michael nemmeno per sbaglio.

    Non mi aveva cercato eppure sapeva dove trovarmi; non aveva bussato alla mia porta, non mi aveva sorriso, non mi aveva neppure cercato per chiarire... non aveva fatto niente. Anche se, in realtà, mi era bastato il suo atteggiamento di qualche ora prima per farmi passare la voglia di parlarci.

    Continuai a scrutare la porta per cinque minuti, con uno sguardo teso ed indefinito.

    Mi passai una mano fra i capelli e ad occhi chiusi mi massaggiai la tempia sinistra. Mi sentivo debole. D’altra parte, era dal pranzo del giorno prima che non facevo un pasto come si deve.

    Gli invitati erano arrivati da un’ora, più o meno, ma non avevo sentito le loro voci così nitidamente fino a quell'istante. Probabilmente dovevano cenare. Mi domandai se avrebbero mangiato nella sala da pranzo di Neverland – che forse era troppo piccola per una cinquantina di persone – oppure fuori, nell’enorme giardino di casa, in piedi e nei pressi della cucina all’aperto, sotto il gazebo in legno.

    Mi alzai e m’incamminai lentamente verso la finestra. Da lì potei scorgere, nascosta fra le bianche tende di seta, il gran capolavoro che era divenuto il giardino.

    Ai lati estremi dell’enorme piazzola in cemento era state poste due tavolate bianche. Erano lunghissime, piene di stuzzichini e bevande di ogni genere (tranne alcolici, vino escluso); a parte queste, la piattaforma cementata era completamente svuotata, e notando le casse e l’elaborato amplificatore, dedussi che quello fosse lo spazio adibito al ballo, per chi volesse ovviamente danzare. C’erano diverse panchine bianche sull’erba accuratamente tagliata. Alcune lanterne galleggiavano in aria, seguendo i diversi sentierini che portavano al lago o alla piscina, appese sui rami degli alberi circostanti grazie a lunghi fili trasparenti. Dal giardino sul retro fino alla piscina, dall’immenso lago adornato di fontane fino alla cucina all’aperto, si poteva scorgere un intenso via vai di persone, tra cui moltissimi camerieri. Alcuni bambini giocavano a rincorrersi urlando a squarciagola (tra essi vi erano anche Prince e Paris). Una donna urlò di stare attenti e di non farsi male.

    Qualcuno bussò piano alla porta, impercettibilmente.

    Il cuore smise di battere.

    Non ero psicologicamente pronta per affrontare Michael, ma sperai con tutto il cuore che fosse lui.

    Il corpo si trasformò in una statua di marmo non appena vidi la porta aprirsi, ma un secondo dopo tirai un sospiro di sollievo e delusione assieme.

    Era Janet.

    Mi sorrise timidamente.

    Provai a manifestare allegria, invano. Rimasi immobile sul posto.

    «Ciao Sarah».

    «Salve...», inarcai gli angoli della bocca all’insù.

    «Posso entrare?», domandò osservandomi da capo a piedi. Probabilmente si chiedeva perché fossi vestita con jeans e canottiera bianca, abbigliamento che sicuramente non era adatto ad una festa.

    «Certo».

    Non appena entrò, chiuse la porta dietro di sé cercando di fare meno rumore possibile. Mi venne vicino a piccoli passi e rimasi senza parole per quanto fosse bella. Indossava un tubino stretto, indaco, che sottolineava la sue forme curvilinee in modo assolutamente perfetto. Il vestito aveva una sola spallina, la sinistra. I capelli erano perfettamente raccolti in un chignon alto sopra la nuca.

    «Sei bellissima con questo colore», sorrisi sinceramente, fissando il vestito come se fossi incantata dalla sua bellezza.

    «Grazie». Janet ridacchiò e si lisciò il tessuto sulla pancia. «Sono felice che ti piaccia».

    Sentire la sua voce fu come sentire, per un attimo, quella di Michael. Mi si strinse lo stomaco.

    Ci fu un attimo di silenzio e colsi immediatamente la domanda a seguire. Mi studiava attentamente.

    «Perché non sei vestita? Pensavo che avresti partecipato al party...»

    Il mio sguardo passò dal suo viso alla finestra. Percepii i miei occhi perdere la lucentezza di prima, quando l’avevo complimentata per l’abito che indossava. Una parte di me desiderò parlare e confessarle ogni cosa, dato che non avevo nessuno accanto che potesse ascoltarmi. Ero sola, e avevo bisogno di aiuto. Eppure rimasi zitta.

    «Non faccio parte di questa famiglia...», scossi il capo lentamente. «In più sono una persona estremamente introversa. Credo che mi sentirei a disagio, se avessi troppi occhi puntati addosso». La guardai e le sorrisi imponendomi di non piangere. «Io sono solo un’insegnante».

    Rimase in silenzio, impassibile. Ticchettava le unghie della mano destra sulla coscia.

    Inaspettatamente, sorrise.

    «Mio fratello ha richiesto espressamente che tu fossi presente». Quando la esaminai allarmata, Janet sorrise ancora di più. «Penso che dovresti farti coraggio e scendere».

    Ero rigida come un palo.

    Rise della mia espressione crucciata e dubbiosa e cambiò discorso.

    «Ti voglio far conoscere tre miei nipoti. Hanno più o meno la tua stessa età, sono figli di mio fratello Tito», fece scattare le sopracciglia verso l’altro e mi lanciò un’occhiata maliziosa.

    «No, io non...».

    Mi bloccò con la mano. «Lo so, non ti interessano in quel senso... ma non rinunciare al divertimento».

    Non ti interessano in quel senso...

    Lei sapeva?

    «Intanto vedi di parlarci… con quei ragazzi, dico. Magari potresti diventare loro amica». Fece spallucce. «Sono simpatici e carini, credi a me. Se non provi non puoi saperlo. E in più avresti qualcuno della tua età con cui ridere e scherzare. Ti avrei fatto conoscere anche tutti gli altri miei nipoti, ma non tutti i figli o le figlie dei miei fratelli sono potuti venire, questa sera».

    Inspirai ed espirai lentamente, mirando un punto vago alla mia sinistra.

    Storsi le labbra.

    «Nessuno ti farà sentire un’estranea».

    Le scoccai un’occhiata intimidita. Non sorrideva, ma il suo viso mostrava un cipiglio comprensivo.

    «Magari all’inizio sì, perché sarai la novità della serata. Tuttavia non sei obbligata per forza a stare con i miei fratelli e con le loro mogli. Prendila come un’occasione per vivere qualcosa di nuovo. E se ti senti a disagio, allora sì, potrai andartene… ma senza il rimorso di non aver tentato».

    Sciolsi le spalle. Mi ci volle un’immensa forza d’animo per dirle sì.

    «D’accordo...»

    «Perfetto», sorrise. Indirizzò uno sguardo interessato al mio armadio. «Hai già pensato a cosa metterti?»

    Con un attimo di incertezza, le mostrai la mia scelta. Janet emise un basso fischio di ammirazione. Era una tuta elegante – una jumpsuit – nera e con le spalline senza maniche. La stoffa era di seta pura, morbida e leggera, perfetta per quella serata di inizio estate. Presentava una scollatura abbastanza ampia sul seno, interrotta qualche centimetro più in giù da una fine cintura argentata, proprio sul punto stretto della vita. Quel tipo di abito mi avrebbe risaltato le spalle e i fianchi larghi, compreso il mio seno abbondante. Essendo una jumpsuit, non mi evidenziava troppo la pancia. I pantaloni si allargavano scendendo ampi verso le caviglie, in modo da sembrare quasi una gonna. Non me la sentivo di indossare un vestito, perciò avevo puntato su qualcosa di comodo, ma comunque elegante e sensuale al punto giusto.

    «Ti devo fare i complimenti», ammise Janet con uno certo stupore. «Hai dei gusti eccezionali».

    Mi chiese come volessi truccarmi e pettinarmi, ma sul più bello venne richiamata da una squillante voce di donna. Era ora di cenare e tutti la stavano cercando. Janet mi sorrise dispiaciuta.

    «Penso sia meglio che io vada, prima che ti scoprano». Fece una piccola pausa. «Ti va di scendere per cena?»

    Scossi il capo. «No, grazie. Non ho fame al momento. Mi preparo e scendo più tardi».

    «Ok, allora ti vengo a prendere quando finisco e scendiamo assieme, ok?».

    La sua gentilezza e la sua cordialità improvvisa mi fecero temere che Michael le avesse raccontato qualcosa. Ad ogni modo, lo pensai molto improbabile. Era più logico che avesse capito i miei sentimenti più intimi e si fosse intenerita per il mio stato d’animo.

    Sorrisi con altrettanta dolcezza. «Grazie... per tutto».

    Mi venne incontro e mi abbracciò. Il mio sguardo si fece vacuo, ma solo e unicamente perché lei non mi poteva vedere. La sua stretta era delicata quasi quanto quella di Michael, ma non la stessa; lui mi stringeva con un calore che Janet non metteva... un affetto il cui ricordo mi velò le iridi di acqua salata.

    Sentii le farfalle nello stomaco ripensando al suo abbraccio, ma mi imposi di mantenere la maschera della freddezza. Era tutta una vita che mi comportavo così. Potevo tenere duro per qualche altra ora.

    «A dopo allora», mormorò allontanandosi, facendomi l’occhiolino. «Andrà bene, vedrai».

    Annuii soltanto, con un sorriso per niente convinto.

    Janet se ne andò immediatamente, così come era apparsa.

    «Sì, come no...» mormorai demoralizzata, una volta che si chiuse la porta alle spalle. «Non andrà bene niente...».

    Come un fiume in piena, il silenzio inondò nuovamente la stanza e la sottoscritta. Mi mancò il respiro, improvvisamente pentita di ciò che avevo detto e fatto, ma tentai di scuotermi dandomi due schiaffetti in faccia con le mani. Andai in bagno per fare una doccia veloce e per lavarmi i capelli.

    Non avevo molto tempo per prepararmi.

    *

    «Miss Janet, aspetti...», la fermai per un braccio.

    Quest’ultima era già in procinto di raggiungere le scale e fare un passo verso il primo gradino e io – al contrario – mi nascondevo. Si voltò al mio bisbiglio e la scrutai intimorita. Tutta la mia sicurezza venne meno.

    «Penso di aver cambiato idea»

    Mi rivolse una smorfia di rimprovero. «Adesso non si può tornare indietro. Insomma… guardati!». S’avvicinò prendendomi il polso. «E chiamami Janet, Sarah. Non servono formalità».

    Sospirai.

    «Ok... ok...» mi arresi.

    Janet Jackson fece retrofronte con un sorriso compiaciuto. Scendendo verso il piano inferiore udii il vociare di alcuni uomini di famiglia trasformarsi in esclamazioni di sollievo. Tutti avevano pensato che fosse scomparsa per chissà quale preoccupante ragione, quando invece era solo venuta a prendermi di peso e portarmi via con lei.

    Mi ero truccata con eyeliner nero e mascara, affinché i miei grandi occhi verdi fossero messi in risalto. Una lieve spennellata di fondotinta in polvere e correttore ed ero apposto. Niente contouring, non mi piaceva. Però avevo puntato a un bellissimo rossetto color rosso acceso, Ruby Woo di Mac, uno dei migliori in circolazione. Adoravo i rossetti e questi – soprattutto se rossi – risaltavano il colore chiaro e rosato della mia pelle. In più avevo raccolto l’enorme massa di capelli in un chignon sopra la nuca, incorniciando il viso con un paio di orecchini lunghi e argentati, esattamente come la cintura dell’abito che indossavo.

    Non appena Janet mi aveva visto, aveva spalancato gli occhi dallo stupore e mi aveva detto che ero mozzafiato. Mai quanto lei, comunque.

    Mossi qualche passo verso la scalinata in legno. Janet era ormai verso la fine e stava parlando tranquillamente con tutta quella gente che non conoscevo.

    Non avevo paura di chi avrei incontrato, ma di cosa avrebbero pensato vedendomi sbucare dal nulla. Non era nemmeno il fatto che fossi l’unica con la pelle chiara presente – che sicuramente faceva il suo colpo nell’occhio… la mia preoccupazione principale era che mi avrebbero osservato e avrebbero domandato continuamente chi fossi, fino al momento in cui avrebbero abbassato lo sguardo e avrebbero capito che con loro non c’entravo nulla.

    Michael avrebbe evitato di rispondere, così come aveva tentato di ignorarmi per tutto il giorno. O magari, invece, avrebbe avuto la faccia tosta di dire che ero solo la dipendente più scema che avesse mai avuto.

    Presi coraggio e mi feci avanti.

    Mi appoggiai al corrimano dando un’occhiata a chi vi era in basso. Vi erano tre giovani parecchio simili fra loro, più o meno della stessa età, e un uomo che di sicuro aveva passato i cinquanta. Immaginai che fossero i nipoti di cui mi aveva parlato Janet poco prima, e che l’uomo accanto fosse un loro parente: quest’ultimo aveva un corpo massiccio, un viso tondeggiante, nonostante le mascelle fossero ben marcate; gli occhi erano marrone chiaro, le sopracciglia spesse e il naso abbastanza grosso. I tre ragazzi erano veramente molto belli; due avevano un viso molto simile, il terzo invece aveva un’espressione più bambinesca rispetto agli altri. Probabilmente erano sulla trentina o giù di lì.

    Ma quegli uomini passarono in secondo piano quando vidi lui.

    Michael.

    Unico, bellissimo e sensazionale nel suo elegante abito bianco; le braccia allacciate dietro la schiena, i capelli lisci e composti fino alle spalle, ed una posizione da Re, dritta e sicura. Lo sguardo da immancabile osservatore era concentrato sui visi delle persone con cui parlava, mostrando un lieve sorriso di circostanza.

    «Prima mi hai chiesto se ti pensassi affascinante…».
    La luce nei suoi occhi si riaccese e drizzò le spalle.
    Sorrisi maliziosamente. «Sì, ti pensavo affascinante. E lo penso anche ora. Credo che con uno smoking bianco lo saresti ancora di più» 1

    Il cuore batté all'impazzata non appena lo vidi e capii che nonostante l’odio, il dolore e la rabbia che provavo, Michael restava sempre e comunque il centro del mondo. Era lui quel meccanismo che dava forza al mio cuore di fare le capriole in petto; poteva togliermi un battito in un secondo e restituirmelo l’istante successivo.

    Un attimo e il suo sguardo si rivolse a me.

    Un attimo e il tempo interruppe il suo corso per la milionesima volta.

    Fu come se lo avessi richiamato silenziosamente. Sembrava che Michael provasse la stessa sensazione di rinascita che percepivo io sotto la pelle. Voltò il capo e le spalle in mia direzione, mentre la forma del viso si distendeva in un’espressione di meraviglia e candore innato. Gli occhi parvero infuocarsi. Il suo petto s’alzò e capii che stava trattenendo il respiro... esattamente come la sottoscritta, che non aveva ancora mosso un piede per scendere le scale.

    Quegli occhi... quei dannati fottutissimi occhi mi puntarono, mi avvolsero e mi imprigionarono nella loro profonda oscurità. Mi sorrisero. Mi abbracciarono e, dentro me, sperai che provassero il desiderio di baciarmi ancora, così come lo desideravo anch’io. Quei cieli d’infinito ignoto contrassero il mio ventre, il mio petto, e fui presa dall’irrefrenabile smaniosità di averli su di me per tutto il resto della vita, fino a morirci dentro.

    Le labbra di Michael si schiusero appena. Non riuscii a decifrare bene il senso di quella reazione. Scostai lo sguardo arrossendo, mi sistemai una piccolissima ciocca di capelli ribelli dietro l’orecchio e mi bagnai nervosamente le labbra.

    Non solo Michael m’osservò, ma anche il resto del gruppetto con cui Janet aveva iniziato a chiacchierare. Tutti loro furono attratti dalla mia persona, chi meravigliato chi curioso chi dubbioso... e mi pentii di aver dato retta a lei. Odiavo essere l’inaspettato invitato alla festa.

    Drizzai la schiena nel tentativo di mostrarmi più sicura di me, ma ero troppo stordita da quel lungo e inebriante sguardo avuto con Michael per sentirmi tranquilla. In più, quelle curiose e insistenti attenzioni che ricevevo dai presenti erano come migliaia di spilli nella pelle.

    Cominciai a scendere i gradini lentamente – e i tacchi non mi aiutavano certo a velocizzare il passo. Non mi resi neanche conto, una volta arrivata al piano terra, di essere uscita sana e salva da quella scalinata. Ricordo soltanto di essermi detta: “Non cadere, non fare figuracce, non cadere, ignorali, non cadere, non fare figuracce”.

    «Eccoti!»

    Janet mi venne incontro e mi sfiorò il braccio. La guardai con un sorriso imbarazzato, lievemente irrigidita per tutti gli interrogativi sul mio conto. Percepii Michael pungere il mio interesse per tutto il tempo: distavamo solo qualche passo e la cosa mi innervosiva.

    Evitai di dargli retta. Non perché non volessi, ma per un istinto di auto-difesa.

    «Chi sarebbe questa giovane?» disse l’uomo più anziano del gruppo, quello massiccio e con un neo vicino al naso. Era vestito con uno smoking grigio fumo.

    «La presento io, Mike?» domandò Janet.

    Gli scoccai una rapida squadrata. Mi osservava profondamente e qualche istante dopo il richiamo di Janet si scosse. Michael puntò la sorella inarcando le sopracciglia e spalancando le palpebre.

    «Oh, sì. Certamente», sussurrò e abbassò lo sguardo, bagnandosi le labbra.

    La sua voce era vellutata come il miele. Mi sembrò di non averla udita da anni.

    «Lei è Sarah Morris, Tito» sorrise Janet. «È l’istruttrice dei bambini di Michael e mia amica. L’ho invitata io a partecipare», mentì.

    Studiai ogni presente, escluso Michael.

    «Oh! Piacere di conoscerti» disse l’uomo.

    «Sarah, loro sono mio fratello Tito e i suoi figli, TJ, Taryll e Taj...»

    «Piacere mio» sorrisi.

    Strinsi le loro mani e analizzai la forza con cui si legavano alle mie dita; sembravano tutti interessati di conoscermi... forse anche troppo, visto il modo in cui si comportavano.

    Il mio sguardo si immobilizzò su uno dei tre nipoti di Michael e Janet, TJ. Aveva dei bei occhi scuri e un gran sorriso, i capelli corti e riccioluti, decisamente alto. Lui e Taryll si assomigliavano un sacco: non solo per l’abbigliamento (pantaloni neri e camicia bianca), ma anche per l’acconciatura. Taj indossava pantaloni e camicia nera, teneva i capelli più lunghi ed era il più basso dei tre, anche se di poco.

    TJ pareva un tipo silenzioso, ma non per questo infelice di essere di là. Era un osservatore gentile.

    «Mike, non capisco perché non ce l’hai presentata prima!» esclamò Tito Jackson. «Sei arrivata ora?»

    «No, io – »

    «Sarah vive qui con me».

    Sentire Michael pronunciare il mio nome, in quell’istante, fu come se glielo avessi sentito dire per la prima volta. Guardai quest’ultimo sbalordita. Il tono con cui aveva parlato non ammetteva repliche, era serio e leggermente autoritario – anche se visto da fuori poteva dare l’idea di uno sereno e per nulla innervosito. Ma non era da lui rispondere così. Il suo sguardo era impenetrabile, quasi strafottente, come la posa delle sue spalle.

    Janet rideva con gli occhi. Anche i tre nipoti abbassarono lo sguardo, nel tentativo di trattenersi.

    Cercai di rimediare al silenzio imbarazzante intervenendo nel discorso.

    «Non avevo molto appetito e perciò sono rimasta di sopra» indicai il piano superiore con un cenno della testa. «Sono scesa adesso perché Janet ha insistito tanto per la mia presenza».

    Le sorrisi e lei ricambiò. Percepii Michael irrigidirsi sul posto.

    Incrociai lo sguardo di TJ. Ridacchiava e io ricambiai con un sorriso altrettanto complice. Aveva un'espressione dolce e, vista l’intensità con cui ci guardammo, ebbi la pazza idea che io e lui condividessimo un certo feeling.

    «A proposito di cena» esclamò Janet sofficemente. Mi prese per mano. Osservai solo allora che il nostro gruppetto non era l’unico presente in corridoio e che altre persone erano state attirate dalla mia presenza. «Vieni Sarah, ti porto a mangiare qualcosa...»

    «Non ne ho bisogno Janet, davvero!»

    «No, no, tu vieni!» insistette. Mi tirò leggermente. «Arrivo subito, ragazzi».

    E ci congedammo. Salutai i quattro membri della famiglia che avevo appena conosciuto con una smorfia imbarazzata. TJ assunse un’aria decisamente più affettuosa della precedente – quel ragazzo mi piaceva già di primo acchito.

    Con la coda dell’occhio esaminai la reazione di Michael. Mi studiava cupamente, battendo un piede a terra e tenendo le mani nelle tasche.

    Gli detti le spalle e feci finta che non esistesse.

    *

    Non riuscii a mangiare nulla.

    Janet mi aveva portato controvoglia in giardino, vicino ai tavoli degli stuzzichini salati. Le avevo detto che non me la sentivo di fare una cena completa, perciò mi obbligò a mangiare almeno qualche tramezzino. Dopodiché mi aveva lasciato lì, da sola, perché il suo fidanzato era appena arrivato. Giustamente.

    Tutta la casa pullulava di membri della famiglia Jackson e la cosa mi metteva ansia. Ce ne erano troppi. Troppi Jackson nello stesso posto.

    Nonostante mi fossi isolata in un’estremità del piazzale dedicato alla danza, mi sentivo al centro dell’attenzione. Non che tutti guardassero me, dovevo ammetterlo... probabilmente non mi guardava proprio nessuno. Quindi la mia doveva essere proprio un’angoscia insensata.

    Feci di tutto per essere invisibile come l’aria.

    Fu quando addentai una pizzetta – non volentieri – che percepii una presenza alle mie spalle. Mi voltai lentamente – tesa come una corda di violino – e scoprii che era una donna anziana, con lo sguardo dolce, che mi si era messa accanto per prendere un bicchiere di vetro. Era robusta, bassina, con due occhi piccoli e scuri ma luminosi. Mi sorrise ed io ricambiai di riflesso.

    Gentilmente le passai un calice vuoto, quello che non riusciva a raggiungere.

    «Tenga», sussurrai con cordialità.

    «Grazie mille, cara».

    L’anziana signora mi guardò affettuosamente. La sua voce mi metteva i brividi. Era soffice, bassa e rincuorante.

    «Sei l’istruttrice di Paris e Prince, vero?».

    Cosa?

    La fissai visibilmente stupita. Mi ci volle un po’ per capire che stava parlando proprio con me.

    «Sì, sono io».

    La donna mi scrutava sbattendo le palpebre molto lentamente. Ad un certo punto si umettò il labbro inferiore, annuendo appena, nello stesso modo di…

    «Piacere di conoscerti. Io sono la madre di Michael, nonché la nonna dei tre piccoli…».

    Arrossii, cercando di non sbarrare le palpebre più del dovuto. Irrigidii le spalle e pregai affinché nessuno (e con nessuno intendo Michael) mi stesse guardando.

    «Oh… il piacere è mio. Mi chiamo Sarah Morris»

    Una lampadina si accese nel cervello: se sapeva chi fossi, Michael doveva averle assolutamente parlato di me. Nessuno mi aveva chiesto – fino ad allora – se fossi l’insegnante dei bambini di Michael, proprio perché nessuno se l’aspettava.

    Le porsi la mano e la signora Jackson mi guardò distendendo la fronte, incredula, per poi accennare un timido sorriso. Le venne da ridere, ma si trattenne per educazione, ammirando la mia mano sinistra stretta al calice di analcolico appena riempito. Non capii cosa ci fosse di buffo in quel mio gesto, ma ritrassi l’arto avvampando sempre più. Mi sentivo imbarazzatissima.

    «Noi non porgiamo la mano a qualcuno, tra famigliari...» sussurrò in tono carezzevole. Mi gettò un’occhiata comprensiva. «Piuttosto ci abbracciamo, ma capisco che ti possa sembrare strano ora come ora».

    Quella frase mi fece sobbalzare il cuore.

    Sembrava una persona tanto buona. Quelle parole mi fecero intendere che mi considerava parte della sua famiglia, nonostante non ci avessi nulla a che fare. Non comprendevo come e perché, ma non chiesi nulla. Sorrisi e basta.

    La signora Jackson si versò dell’acqua.

    «Io mi chiamo Katherine. Puoi chiamarmi come desideri, ma lo preferisco a “Signora”...».

    Annuii ringraziando e la osservai bere con la coda dell’occhio.

    Non potei fare a meno di notare la classe con cui era vestita: indossava un bel tailleur blu notte, elegantissimo, e al collo portava gioielli in perle bianche. Anche il suo profumo era raffinato. Quand'ebbe sorseggiato tutta l’acqua poggiò il bicchiere sul tavolo, accanto a tutti quelli già usati. Talvolta un cameriere passava a ritirarli e a cambiarli con altri puliti.

    «Che ne pensi dei miei nipotini?», mi sorrise. «Ti fanno diventare matta?»

    Negai con il capo. «Assolutamente no. Sono degli angeli. Sono i bambini più educati con cui abbia mai avuto a che fare. Suo figlio li ha educati benissimo, lo dico con il cuore».

    Nominare indirettamente Michael, in quel caso, non mi fece tentennare. La mia ammirazione per lui non se ne andava mai, a discapito di tutto, nonostante stessi male. Sotto quell’aspetto riuscivo a separare l’emotività dalla professionalità.

    Se ne stette in silenzio per qualche secondo, soppesando le mie parole, e poi mi sorrise maggiormente.

    «Ne sono felice», si bagnò le labbra. «Mio figlio mi ha parlato molto bene di te. Dice che hai una grazia e una passione innata con i bambini. Grazie a Dio esistono donne come te».

    Ebbi una fitta al cuore.

    Non seppi se mi mancò il respiro per il fatto che Michael avesse parlato di me con la madre – e bene, tra l’altro – o se fossi felice per il complimento di una donna tanto gentile ed educata come lei. Arrossii un po’, chinando gli occhi sui miei piedi, in segno di timidezza e rispetto.

    «È stato un piacere conoscerti» disse all’improvviso. «Spero di poter avere l’opportunità, in futuro, di poter scambiare qualche altra parola con te. Magari in un’altra occasione».

    «Lo spero anch’io, signora Jack...» mi bloccai e ridacchiai per l’imbarazzo. «Katherine...»

    E la donna fece qualcosa che non mi sarei mai aspettata. Sempre col sorriso sulle labbra mi accarezzò il braccio nudo; una pressione amorevole, ma decisa. Come a sostenermi e a confortarmi: sembrava aver capito tutto quello che provavo. La morbidezza di quelle dita era molto simile a quella del figlio, tant’è che mi fece venire la pelle d’oca.

    Se ne andò salutandomi con un cenno che io ricambiai.

    La guardai allontanarsi con una sensazione di dolceamara soddisfazione e lo sguardo perso nel vuoto, sconvolta per la sua disarmante amabilità. Ero in uno stato di shock.

    I miei occhi vagarono alla ricerca di una panchina vicina; ne trovai una libera, non molto lontana dalla piazzola dove mi trovavo; la musica si stava alzando e diventava sempre più fastidiosa all’orecchio, soprattutto perché mi trovavo proprio sotto le casse. Quella panchina era poco illuminata, nascosta tra gli alberi e la notte, abbastanza isolata da potermi permettere di guardare tutto senza destare attenzioni. Era il posto perfetto per me.

    Bevi tutto il cocktail analcolico e consegnai il bicchiere vuoto ad un cameriere che passava di lì, al quale rivolsi un “Grazie” a fior di labbra. Mi incamminai velocemente verso la panchina e decisi di starmene là per un po’, sola soletta.

    Quando mi sedetti, tirai un sospiro di sollievo e rimasi ad osservare la gente parlottare e scherzare fra loro, in compagnia del lieve scrosciare dell’acqua del ruscello e della musica black in lontananza.

    Le persone che mi circondavano provenivano più o meno tutte dallo spettacolo – gente che non poteva condividere assolutamente nulla con una come me. Dopotutto la famiglia Jackson era una delle più conosciute al mondo… una di quelle che più faceva parlare di sé.

    Non facevo parte di quel mondo tutto riflettori e business, con gente che è a conoscenza di vita, morte e miracoli di ognuno, per filo e per segno. Non avevo la benché minima intenzione di farne parte. Non ne ero minimamente interessata. Entrare nelle loro conversazioni di punto in bianco significava impicciarmi degli affari altrui senza il loro permesso. Non conoscevo nulla delle loro vite, e io non volevo che facessero parte della mia.

    Ero una misantropa, ma una misantropa fiera.

    Il mio carattere solitario e piuttosto diffidente amava starsene per i cavoli suoi, senza che nessuno le facesse compagnia mal volentieri; non disprezzavo l’idea di starmene per conto mio e osservare tutti senza avvicinarmi... no, anzi, l’idea mi piaceva parecchio. Se non avevo nulla da condividere, non aveva senso parlare.

    Pensai a Michael, focalizzandomi sui miei piedi che vagavano a destra e a sinistra a ritmo di musica.

    Se lui fosse stato con me, forse non avrei esitato a entrare nella massa. Sarei stata sicura, sarei stata protetta perché avrei avuto un paio di occhi sicuri e buoni che mi proteggevano dolcemente. Anche se non avessi detto nulla, sarei stata tranquilla, perché Michael non se ne sarebbe mai andato. Avrei potuto trovare un appiglio in lui, il quale si sarebbe delicatamente accostato a me e mi avrebbe fatto sentire al sicuro, anche solo con la sua vicinanza silenziosa...

    Sì, come no.

    Lanciai uno sguardo in direzione della pista da ballo.

    Sperai di vederlo.

    Incrociare i suoi occhi non sarebbe stata la più meravigliosa delle esperienze – non in un’occasione come la nostra, in cui la tensione era alle stelle. Eppure lo volevo.

    Michael non c’era.

    Sospirai.

    Puntai il terreno. Avevo così tanti pensieri in testa che sentivo il desiderio di esplodere.

    «Sapevo che ti saresti nascosta da tutto e da tutti...»

    Piegai la testa alla mia destra, con uno scatto fin troppo rapido.

    Rabbrividii.

    Avanzò piano, con le mani nelle tasche, esattamente come lo avevo lasciato al di sotto della scalinata, prima di scomparire con Janet.

    «Ti conosco troppo bene...», sussurrò piano.

    Gli angoli delle labbra di Michael si alzarono in un’espressione di indefinita bellezza. Arcuò leggermente le sopracciglia. Le sue iridi, tanto oscure quanto la notte, brillavano ed emanavano una sensazione di apparente tranquillità. I suoi passi emettevano un suono delicato a contatto con l’erba appena tagliata.

    «Potrei dire che siamo uguali anche su questo».

    E in quel momento mi fu chiaro perché, nonostante tutti i nodi alla gola e il cuore in fiamme, Michael fosse l’unico che mi permettesse di respirare ancora. Come se nulla fosse accaduto.



    1 Riferimento al capitolo 18, “Lo scambio”. Chi è riuscito a ricordarselo senza la mia citazione è bravo/a!


    Edited by fallagain - 6/4/2020, 14:10
     
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    Capitolo Trenta: Lo Yin e lo Yang

    Il suo sorriso illuminò ogni ombra del mio cuore e, al contempo, riaccese la stizza che provavo nei suoi confronti. Era come un soffio d’aria fresca che di colpo si trasformava in un tifone.

    Non potevo essere felice.

    Continuavo ad essere sospesa in un vuoto di risposte che non si affrettavano ad arrivare, tesa come una corda di violino.

    Non riuscii a capire se il petto mi stesse per esplodere per rabbia repressa oppure per un sentimento molto più intenso e piacevolmente devastante. Man mano che i secondi passavano, comprendevo che la sua presenza non era un miraggio, ma la pura realtà dei fatti. Le lancette del tempo ripresero a scorrere rumorosamente nella testa, arrugginite da quel lasso di secondi in cui ero rimasta ad ammirarlo in tutta la sua bellezza.

    Lo fissai senza dire una parola e senza muovermi di un millimetro dalla posizione in cui ero.

    Volevo emettere un sospiro pesante… invece lo trattenni in gola, fino a soffocare.

    Michael poggiò gli occhi sui suoi piedi, bagnandosi un labbro. Li batteva impercettibilmente a ritmo di musica. Inclinò il capo verso sinistra e si grattò la guancia destra con l’indice, forse un po’ imbarazzato per la durata e per l’intensità del mio sguardo. Dopodiché fece un altro passo in avanti e si massaggiò le mani.

    Mirai lo spazio vuoto della panchina sulla quale ero seduta. Mi persi nelle rifiniture sottili e disordinate del legno verniciato di bianco. Mi sembrò di percepire l’odore pungente della pittura, ma la mia era solo un’invenzione dei sensi per aiutarmi a sfuggire da quella situazione. Dovevo fingere indifferenza.

    «Posso sedermi con te?».

    Lo adocchiai e notai che mi stava studiando attentamente. Era esitante, ma le spalle erano alte e le mani legate tra loro. Per un attimo la vista si offuscò al ricordo della sera prima e delle sue labbra sulle mie. Assunsi una smorfia contratta e feci spallucce. Voltai il capo in direzione della piazzola.

    Incrociai le braccia al petto e mi lasciai andare sullo schienale della panchina.

    I passi erano soffici, delicati come sempre. Quando mi si sedette accanto, impercettibilmente, venni pervasa da un’ondata di emozioni: sollievo, rancore, eccitazione e angoscia primeggiarono su tutte.

    «Alla fine sei scesa...».

    Tremai sentendo la sua voce così vicina al mio corpo.

    Lo puntai con un’espressione un po’ spaesata.

    Sospirò e mi analizzò timidamente, bagnandosi le labbra con evidente nervosismo.

    «Non ci speravo quasi più...»

    Adesso ci speravi?

    Alzai un sopracciglio. Michael non fece una piega di fronte al mio scetticismo. Tornai a guardare con aria assente tutti coloro che danzavano in pista.

    Aveva un cipiglio così intenso e indecifrabile che mi destabilizzava. Era serio, ma le sue iridi tradivano una scintilla di preoccupazione. I lineamenti del viso erano rilassati, ma la schiena era più dritta e ferma di un palo.

    «Ho visto che hai incontrato mia madre» disse piano. «Ci hai scambiato anche qualche parola... come ti sembra?»

    Non mi chiedeva come stavo, ma le impressioni su sua madre sì? Lo scusai soltanto perché capivo che tirare fuori il discorso del bacio non era facile, non così e all’improvviso.

    «È molto dolce», inconsciamente i miei occhi cercarono la signora Jackson. Non riuscii a trattenere un sorriso addolcito. «Mi piace. Mi ha trattato gentilmente. Sembra una donna buona...»

    «Lo è» ammise Michael.

    Lo puntai.

    Era pensoso. Ammirava un punto vacuo davanti a sé.

    «Delle volte lo è anche troppo...».

    Abbassai gli occhi. Accavallai la gamba destra su quella sinistra facendo dondolare il piede nervosamente; mi fissai su esso e sul movimento circolare che compiva. Il mio volto era lo specchio della neutralità, ne ero certa pur non vedendomi. Eppure in petto mi ribolliva un fuoco che non si decideva a lasciarmi in pace.

    Michael si chinò sulle sue ginocchia. Adagiò i gomiti sulle cosce e abbandonò il viso fra le mani, unendole a coppa e nascondendo labbra e naso. Di soppiatto, lo vidi serrare le palpebre e inspirare a fondo.

    Capii che era venuto il momento della verità.

    Il mio petto cominciò ad alzarsi e abbassarsi per l’agitazione. Lo stomaco si intrecciò su se stesso.

    Michael raddrizzò la schiena dopo aver riflettuto in silenzio. Non ebbe il coraggio di osservare nulla se non le sue mani appoggiate alle gambe.

    «Sarah...».

    Mi veniva da vomitare.

    Lo guardai con timore, ma Michael non fece altrettanto.

    «Sono veramente dispiaciuto» disse cupamente e a voce bassa. «Ieri sera non avremmo dovuto fare nulla. Quel bacio non... non doveva esserci» Alzò di poco le sopracciglia, scuotendo piano il capo, senza ricambiare le mie attenzioni. «Non dovevamo farlo...».

    L’inizio della fine...

    Fissò il terreno con l’aria di chi è appena stato bastonato in testa. Avvampò sulle guance ed emanò un soffio tremante dalle labbra schiuse. La voce gli si affievolì ancor più di prima.

    «E io... non dovevo emozionarmi... in quel modo...»

    Michael s’interruppe e si umettò le labbra più e più volte. Sembrava non essere in grado di starsene seduto e fermo. Le dita gli tremavano e dondolava le gambe in maniera spasmodica. Io, al contrario, mi ero congelata sul posto.

    «Non so come dirti che mi dispiace... è... imbarazzante per me, ma sicuramente per te è... è stata una cosa orribile...» balbettò impacciato.

    Fece un’altra pausa.

    Tentennò e, infine, respirò a fondo.

    «Mi dispiace averti causato dolore». Ammirò le sue dita legate tra loro. «Voglio che tu sappia che ti considero ancora mia amica. Spero che quello che è successo possa essere cancellato. Non voglio perdere il legame che ci unisce per uno stupido errore...».

    Mi afferrò la mano senza che riuscissi a ritirarla per tempo. Al contatto sobbalzai. Osservai la sua come se temessi che, da un momento all’altro, potesse ferirmi fisicamente. Gli occhi mi si gonfiarono di lacrime. Il petto era scosso da sussulti.

    Michael notò il mio ritirarmi in me stessa e mi riservò un’occhiata preoccupata.

    Puntai le mie dita avvolte nelle sue e, fissandomi su queste, tentai inutilmente di liberarle. Mi cinse più forte ma io, come una bambina traumatizzata, cercai di sfuggirgli. Ero quasi in stato di shock… e la cosa mi infastidiva. Terribilmente.

    Quello che avevo udito non era ciò che volevo sentirmi dire... non era quello che pensavo che mi avrebbe detto. Non era amore.

    «Sarah» disse piano e in tono supplicante. «Ti prego, guardami... te lo giuro, non avrei mai voluto incrinare la nostra amicizia. Tu sei una grande amica, un’amica fedele e rispettosa... è stata colpa mia, ho sbagliato tutto io! Ma ho bisogno di sapere… dimmi se è per te è possibile ricominciare come se nulla fosse accaduto. Ho bisogno di saperlo, perché non voglio buttare all’aria questo rapporto. Non voglio perderti...».

    Mi hai perso

    Ero così confusa che non saprei spiegare come mi sentivo. Sapevo soltanto che ogni mia funzione vitale si era inceppata, a causa di un totale black-out che partiva dal cervello fino al resto del corpo. Quella rivelazione – di un amore non corrisposto – mi aveva procurato un buco enorme nel petto: inizialmente era avanzato lento e indolore, poi mi aveva catturato completamente e aveva eliminato ogni traccia di lucidità. Mi sentivo stordita.

    Decisi di alzarmi e andarmene.

    Non avrei retto un minuto di più.

    Le mie gambe tremarono ma riuscii a tenermi in piedi. Non volli dar retta al modo in cui Michael mi stava osservando, sempre più atterrito; mi tenne per mano e mi tenne stretta per non lasciarmi andare.

    Lo ignorai facendo un passo in avanti.

    Provai di liberarmi con un gesto rapido del polso, ma non mi mollò.

    Lo guardai.

    Avevo le lacrime agli occhi e gli stavo urlando di lasciarmi andare.

    Michael si pietrificò. Spalancò le palpebre e la bocca. Non si mosse di un millimetro, ma il volto si contrasse in un’espressione di sconcerto. Notai che gli mancò il fiato per qualche secondo.

    Nelle mie grida silenziose c’era tutto. Rabbia, perché non ricambiava i miei sentimenti. Dolore, perché quell’amore per lui era insopportabile da reggere. Vuoto, perché senza Michael al mio fianco non sapevo come andare avanti - e sapevo che non sarei riuscita a stargli accanto, se non ricambiava i miei sentimenti.

    Il suo sguardo smarrito assunse una nota di terrore e, sebbene la mia visuale fosse offuscata, anche i suoi occhi si riempirono di lacrime... lacrime che nascondevano segreti che ancora non mi erano stati svelati. Quelle due infinità nero lucido esprimevano un sentimento che nella mia completa cecità non ero in grado di riconoscere; un'espressione indefinita che – se fossi stata più perspicace – avrei potuto decifrare facilmente.

    «Sarah...».

    Tentò di alzarsi per venirmi incontro, ma lo rifiutai indietreggiando. Guardai le nostre mani unite con una sorta di delusione e sdegno. Quella stretta bruciava.

    Bastò stare zitta per qualche minuto per fargli capire la mia risposta. Ero certa che sarebbe potuto arrivarci da solo, al punto della faccenda, perché le parole non erano sufficienti. Non sarebbero servite a nulla.

    E di punto e in bianco si arrese.

    Michael mi lasciò.

    Allo scioglimento di quel legame tutto divenne più buio. L’ambiente si riempì di ombre e di spettri.

    Come un automa gli detti le spalle. Mi incamminai verso il terrazzo, sguardo basso e mani che, con la scusa di sistemarmi un ciuffo ribelle, andarono ad asciugare la guancia umida. Lanciai uno sguardo veloce per vedere se ci fosse qualcuno che mi stesse osservando - non desideravo che tutti assistessero a quello spettacolo.

    Janet era in pista e mi studiava.

    Tirai avanti senza fermarmi.

    Continuai a pensare alla sua faccia, alle sue parole, e al dolore che non faceva rumore in petto: il cuore non urlava, non disperava, non sussultava... continuava a battere, esattamente come le campane di una chiesa che suonano nel pieno della notte silenziosa per ricordare lo scoccare dell’ora. Le immagini di ciò che era appena accaduto apparivano continuamente dinanzi agli occhi, inducendomi a camminare senza fermarmi e senza sapere dove stessi andando. Non udivo la sua voce in sottofondo, tanto meno la musica o il vociare degli ospiti. Era una scena muta.

    Ricordo che salii le scale con sguardo vacuo e mi diressi verso il corridoio che portava al bagno. Poi, d’improvviso, sbattei contro quella che mi parve una persona, solo molto più piccola del normale; la mia attenzione si scosse in cerca di colui o colei con cui mi ero scontrata.

    Era un bambino. Era piccolino e abbastanza mingherlino. Aveva i capelli corti, neri come la pece. Non doveva avere molti anni. Di sicuro era più piccolo di Prince e Paris.

    «Scusa» mormorai. «Ti ho fatto male?»

    Lui scosse la testa. Gli occhi erano grandi e luminosi color marrone scuro. Mi fissava eloquentemente, con un pizzico di curiosità e confusione.

    Era agitato, perciò mi badò per poco più di tre secondi. Si voltò cercando qualcosa che non avevo la minima idea di cosa fosse. Dopo qualche attimo di riflessione, puntò una porta poco distante. Corse rapidamente verso questa, la aprì e vi si chiuse dentro.

    Rimasi a guardare la porta con un’espressione allibita.

    Sbattei le palpebre, inarcando le sopracciglia.

    Il bambino aprì di nuovo la porta. Sporse il capo guardando a sinistra e a destra. Mi esaminò con prudenza. Mi invitò con un energico gesto della mano ad avvicinarmi. Drizzai le spalle ed eseguii gli ordini; una volta che gli fui vicino, mi studiò seriamente.

    «Non dire a nessuno che sono qui!» disse con la serietà di un bambino di cinque anni. Corrugò la fronte. «Se mi cercano, io non esisto!»

    «Oh…» sussurrai.

    Stetti al gioco.

    Mi guardai intorno, un po’ circospetta. Lui fece lo stesso, notando con sincera e segreta approvazione il mio interesse nei suoi confronti. Quasi mi venne da sorridere per i suoi occhioni spalancati.

    «D’accordo, sta’ certo lo farò!» annuii energicamente.

    Non sapevo dove trovassi la forza per mostrarmi serena. “Forse mi comporto così per non pensare”, mi dissi in un primo momento. Invece, sentendo che stavo andando alla deriva, la mia mente aveva capito che l’unica cosa che mi potesse salvare dal pensar troppo era proprio l’allegria di un bambino.

    Il piccolo sorrise.

    Si richiuse all’interno della stanza udendo il rumore di passi che si avvicinavano. Quattro bambini correvano su per le scale discutendo animatamente. Vi erano anche Paris e Prince.

    «Jaafar, abbiamo già cercato qua sopra!» esclamò la bambina più grande della comitiva. Era magra ma con un viso paffutello, folti capelli ricci e uno sguardo vivace.

    Jaafar – il bambino in prima fila, probabilmente suo fratello maggiore o suo cugino, abbastanza alto, capelli ricci e occhi neri – la ignorò. Prince approvò la sua decisione sistemandosi al suo fianco. Paris se stette in silenzio sbuffando contrariata.

    Feci finta di incamminarmi verso il bagno che era proprio lì vicino.

    «Ziaaa!»

    Non appena mi vide, Paris mi venne incontro e si aggrappò alla mia gamba destra. Le sorrisi e mi inginocchiai a terra, chinandomi in avanti con il busto per abbracciarla. I due bambini, le cui identità erano sconosciute, mi fissarono perplessi.

    «Che state facendo?» chiesi inarcando le sopracciglia, sorridendo. «State giocando?».

    «A nascondino!» proruppe Prince. Alzò le mani e le spalle. «Non lo troviamo più!»

    «Chi?».

    «Jermajesty», disse l’altra bambina del gruppo, quella che qualche minuto dopo avrei scoperto si chiamasse Stevanne. Si avvicinò. «È nostro cugino».

    «Ah...». ‘Mazza oh, che nomi originali. «Mmh... mi piacerebbe aiutarvi, ma non l’ho visto», mentii. «Mi dispiace...», sorrisi mesta.

    «Vuoi giocare con noi?» chiese Jaafar.

    Guardai i bambini uno alla volta. Jaafar appariva sinceramente interessato alla mia persona. Stevanne era più diffidente, ma non assunse un’espressione contrariata di fronte alla proposta del cugino. Prince e Paris si illuminarono come due Soli. Io rimasi in silenzio.

    Non ero in vena di divertimento, non dopo quello che era accaduto, ma non me la sentii di rinunciare. Se mi era stata data l’opportunità di giocare con loro, doveva essere per forza un segno del destino.

    «Mi piacerebbe molto», esclamai sorridendo. «Potrei inserirmi nel gioco dal prossimo turno, che ne dite? E intanto vi faccio compagnia nella ricerca».

    I bambini furono d’accordo. Invitai gli altri a cercare da qualche altra parte - mi sembrava giusto rispettare il patto che avevo fatto con Jermajesty - e Paris mi prese per mano. Mi guidarono in lungo e in largo per tutta la casa, anche in giardino.

    Michael non c’era, era sparito, ed io ne fui sollevata.

    Percepii lo sguardo dei presenti su me e sui bambini quando, correndo, ci dirigemmo tra gli alberi del giardino, perdendoci tra essi; oppure quando mi videro ridere alle loro battute, assecondandoli e facendoli sghignazzare di rimando, camminando loro accanto di vialetto in vialetto.

    Probabilmente in molti si domandarono perché amassi stare più in compagnia dei bambini che degli adulti. Non era una sensazione sconosciuta.

    I bambini mi parlavano animatamente, entusiasti, ed io ricambiavo con altrettanta gioia. Iniziai a mettere da parte il dolore per un po’. C’era sempre, come una canzone di sottofondo che non termina mai, ma non era poi così terribile.

    Ancora una volta l’innocenza dei bambini mi stava salvando da un crollo psicologico ed emotivo incredibile. La loro compagnia era la mia ancora di salvezza, momentanea ma comunque rincuorante. Comprendevo perché Michael li amasse così tanto e, con l’amaro in bocca e il cuore che scalpitava, capii che non eravamo poi così differenti.

    *

    «Allora... allora...», esclamò Jermajesty tutto emozionato, gesticolando nel vario tentativo di placare la sua gioia. «Vuoi dire che dobbiamo cercare cristalli? Di che colore sono? Dove sono? Che cosa ci dobbiamo fare con questi?»

    Sorrisi. Paris fulminò il cugino come se avesse intenzione di saltargli addosso per tappargli la bocca. Prince e Jaafar guardarono la scena seriamente preoccupati. Stevanne sorrideva all’idea di calarsi in un gioco completamente nuovo per lei.

    «Lei non è tua sorella!», sbottò Paris. «Lei è la nostra regina, dobbiamo trattarla bene!»

    Jermajesty s’imbronciò e Paris gli fece la linguaccia non appena il bambino le dette le spalle. Dovetti mordermi il labbro inferiore per evitare di ridergli in faccia. Mi alzai dal marciapiede e loro rizzarono la schiena, ponendosi sull’attenti.

    In quello strano gioco di ruolo io ero una regale, una regina rapita da un mago perfido e potente. La missione dei guerrieri – ossia i bambini – era quella di ritrovare tutti i cristalli sparsi per il “regno”, affinché potessero sconfiggere il mago cattivo e liberarmi dalla prigione. Ogni cristallo aveva dei poteri magici incredibili. Due anelli mi permettevano di comunicare a distanza e guidare i miei fedeli guerrieri alla ricerca dei cristalli: un anello lo tenevo io e l’altro, ovviamente, Paris. Lei recitava il ruolo di mia figlia, una principessa guerriera.

    Mi schiarii la gola e assunsi un’espressione seria e composta. «La vostra missione è cercare i cinque cristalli fatati: ognuno troverà il suo, del colore che più rappresenta la sua anima. Dovrete cercare attentamente. Dovrete combattere e fare gioco di squadra, perché i draghi e gli orchi sono veramente forti. Appena sarete vicino a un cristallo, ve lo comunicherò. Ma state attenti, non avete molto tempo! Per prima cosa dovrete scegliere la vostra arma e allenarvi tra di voi. Solo con un po’ di allenamento e spirito d’unione riuscirete a trovare tutte le pietre preziose».

    Prince, Paris, Stevanne, Jermajesty e Jaafar rimasero col fiato sospeso, pendendo letteralmente dalle mie labbra. Sorrisi una seconda volta. Dio solo sapeva quanto mi divertivo a giocare con i bambini in quel modo. Mi ricordavano quel briciolo d’infanzia gioiosa che avevo avuto.

    I piccoli iniziarono subito a mettersi d’accordo sulle armi da usare. Cominciarono a fremere e a fendere l’aria invano, contro mostri invisibili e potenti. Litigarono anche per scegliere i colori dei cristalli: alla fine, sotto mio severo intervento, vennero scelti l’azzurro, il verde, il giallo, il viola e il rosso.

    La fantasia permetteva loro di vedere quello che gli adulti non erano capaci di notare: forse proprio per questo mi avevano preso in simpatia, perché avevo la fortuna di osservare il mondo – nonostante l’età – con gli occhi di una bamba. Era uno dei più grandi doni che la vita avesse potuto rendermi.

    Stetti ad osservarli con un’espressione bonariamente sorridente, risedendomi sul muretto in mattoni grigi. Ad un certo punto notai una figura che si incamminava in mia direzione; riconobbi lo sguardo e il sorriso: era TJ, uno dei nipoti di Michael.

    «Ciao» disse con un cenno del capo, ad un passo da me.

    Sorrisi e ricambiai sofficemente il saluto.

    Entrambi guardammo i bambini. Dalle sue labbra dischiuse uscì uno spasmo di risata intenerita. Era stupefatto dall’allegria di quelle piccole pesti.

    «Sei simpatica ai miei cugini!» sghignazzò. «Ora che ti hanno trovata non ti molleranno per tutta la serata!»

    Scrollai le spalle, mostrando i denti in un’espressione addolcita. «L’idea mi fa veramente piacere».

    Ridacchiò.

    Si massaggiò un braccio.

    Dedussi da sola dove volesse arrivare, non ero così scema (non sempre). Mi chiese se potesse sedersi accanto a me ed io annuii. Sebbene mi mostrassi grata per la sua compagnia, in realtà non mi faceva né caldo né freddo.

    Nessuno dei due parlò per qualche lungo minuto.

    I bambini lanciavano urla di gioia e schiamazzi divertiti, cercando di colpirsi a vicenda con le loro armi magiche. Uno della compagnia fu mandato a prendere “le provviste per il lungo viaggio” che avrebbero dovuto compiere a breve.

    «Si vede che ami i bambini e giocare con loro...» disse con dolcezza.

    Un altro sorriso imbarazzato da parte mia.

    «Penso di capire perché mio zio Mike ti ha scelto come tutrice dei suoi bambini» esclamò battendo le mani sulle ginocchia. Si lasciò cadere all’indietro. «Li adorate entrambi! Siete veramente uguali».

    Il cuore ebbe un fremito.

    Non sapevo se essere felice per quell’affermazione o devastata… perciò trattenni il respiro e basta. Mostrai una facciata assolutamente neutrale, indefinita... o almeno così speravo che fosse.

    «Sì, forse hai ragione».

    Continuai a guardare dritto davanti a me. Percepii TJ voltarsi in mia direzione.

    «Perciò se ora ti offrissi da bere, tu risponderesti di no, vero?».

    Un’altra lunga palpabile assenza di rumori. La mia espressione parlò da sola.

    Egli sogghignò. «Penso di aver capito la risposta...», si massaggiò il collo.

    Arrossii vivamente sulle gote.

    «No, ti prego, perdonami...! Non volevo sembrare maleducata, scusa…». Lo guardai negli occhi. Lasciai trasparire una nota di sincero dispiacere attraverso la mia voce. «In altre circostanze avrei accettato volentieri, ma oggi non è proprio la mia giornata. Preferirei rimanere con i bambini e giocare con loro».

    Dapprima sorpreso, TJ sorrise. I suoi occhi erano dolci. Mi dette un buffetto sul braccio.

    «Non ti scusare. Anzi, questa tua sincerità mi fa – in un certo senso – piacere...», ridacchiò per la mia espressione confusa. «Anche se non posso negare di esserci rimasto male, la tua schiettezza è da ammirare».

    Sospirai. «Be’... lo apprezzo. Per me è molto importante. Grazie per avermi compreso».

    TJ mi studiò come se un autobus lo avesse preso in pieno. Fece per aprire la bocca, ma non riuscì a dire nulla. Gli sorrisi con più ardore.

    «Però se vuoi puoi giocare con noi. Potresti fare il mago cattivo», sollevai un sopracciglio e le spalle.

    Lo sbigottimento che lo aveva pervaso si sciolse presto, non appena un altro sorriso gli si delineò in volto. Richiamai i bambini e annunciai la vera sembianza dello stregone malvagio. Con maestosa teatralità lo minacciarono, avvertendolo che lo avrebbero sicuramente sconfitto. TJ non comprese niente di tutta quella situazione, così sua cugina Stevanne gli spiegò più o meno tutta la storia. Facendo spallucce, TJ accettò di fare il cattivo.

    Avrei voluto che Michael fosse lì.

    Vorrei che fossi qui.

    «Ti senti bene?», mormorò TJ.

    Lo fissai con un’espressione scossa, ignorando il resto del mondo attorno a noi.

    Un momento cadevo in profonde riflessioni e quello dopo ritornavo in superficie. Ogni volta mi sembrava di essermi appena svegliata da un incubo, solo che la mia testa risiedeva ancora nel sogno. Desideravo chiudere gli occhi e non vedere più nulla.

    Non sarei mai stata abbastanza per Michael.

    Scossi il capo. «Non ti preoccupare».

    TJ serrò le labbra in un cipiglio poco convinto.

    Non so perché e come, ma quel ragazzo mi dava l’idea di un ragazzo profondamente empatico e comprensivo. Era umile, gentile e intuitivo.

    «Le provviste sono pronte, andiamo!», arrivò il piccolo Jermajesty, che nel frattempo era volato a prendere una decina di tramezzini adagiati su un piatto in ceramica color avorio… perché lì non si usavano i piattini di plastica, ovviamente.

    Attorno a noi accorsero tutti gli altri bambini, energici come non mai. Paris mi prese la mano e mi guardò intensamente.

    «Va tutto bene, zia?»

    Inspirai a fondo, colpita dall'intensità che trasudavano i suoi occhietti color verde mare.

    Si comprende così tanto che sto poco bene?

    Sorrisi e annuii piano. «Sì, tesoro, ho solo un po’ di mal di testa».

    «Andiamo allora!», Jermajesty mi afferrò l’altra mano libera e mi fece alzare in piedi.

    Per poco non fece cadere il piatto con tutti i tramezzini sopra. Per fortuna Stevanne prese il tutto prima che accadesse il disastro, squadrandolo con un’occhiata truce.

    Mentre ci dirigevamo lontano dalla piazzola cementata, verso la stazione del trenino, mi ci volle uno sforzo abnorme per non scoppiare a piangere per la seconda volta. Strinsi forte la manina di Paris, accarezzandola con le dita, mentre cercavo di concentrarmi sui fiumi di parole dei bambini. TJ rimase zitto per un po’, fino a quando non iniziò a ridere e scherzare come se nulla fosse.

    Ma io non ero lì.

    *

    «Ce l’abbiamo fatta, zia! Lo abbiamo sconfitto!»

    «Lei è nostra zia, Jaafar, non la tua!».

    «Non dire così, Prince», sogghignai teneramente. «Se tuo padre fosse qui non sarebbe contento. Sii gentile».

    Prince mi guardò turbato. E anche un po’ rattristato, a dire il vero. Si strinse nelle spalle e sospirando lasciò perdere. TJ fingeva ancora di essere morto, disteso a terra con la lingua fuori e gli occhi chiusi, mentre io mi asciugavo le lacrime agli occhi per le risate appena fatte. Anche i suoi due fratelli, Taryll e Taj Jackson, ci avevano raggiunti e si erano messi a fare il dragone e l’orco gigante. Sperai che non fosse colato tutto il mascara o l’eyeliner, perché mi stavano facendo sbaccanare da un’ora e passa.

    L’orologio della stazione del trenino segnava le 22.32.

    Io, i tre fratelli Jackson e i bambini avevamo passato tutto il tempo a giocare. Da quando ero stata brutalmente rifiutata da Michael non ero più tornata alla piazzola cementata, anche a costo di morire di fame e di sete. Non volevo pensare a niente. Non volevo guardarlo negli occhi. L’idea di ritornare in quel giardino mi faceva star male.

    Era stata la scelta più saggia che avessi compiuto quella sera. Stare con i bambini, intendo. Erano uno più simpatico dell’altro. Ma quelli che mi facevano ridere più di tutti erano TJ, Taj e Taryll: i tre fratelli – tra smorfie e parlantine allegre – mi avevano fatto crepare. Uno faceva il mago schizofrenico, un altro l’orco dalle movenze di un gorilla e il terzo – più che un drago – pareva un avvoltoio, sbattendo le braccia in aria ogni volta che faceva un salto. Anche i bambini ridevano, stando al gioco e calandosi nella parte dei guerrieri mezzi matti. Jermajesty, invece, credevo avesse un debole per me. Appena poteva mi veniva appresso, mi prendeva la manina, e da vero galantuomo cercava di baciarla. Voleva fare il cavaliere romantico, senza macchia e senza paura. Una volta – come complimento – mi dette della “Beyoncé bianca”. Avevo riso così tanto che avevo inclinato la testa all’indietro e avevo unito le mani al petto, facendo impazzire tutti con la mia risata da strega malvagia e sadica; Paris aveva preso per mano il cugino e lo aveva trascinato via, rimproverandolo e dicendogli di concentrarsi sulla battaglia finale, non di corteggiare la regina del gioco.

    Se non fosse stato per loro, mi sarei ritirata in camera mia e avrei pianto fino al giorno dopo. O mi sarei subito addormentata per non pensare. Invece, grazie a quel gruppetto di giovani adulti e bambini, avevo ritrovato un po’ di sollievo. Non stavo meravigliosamente, ma non stavo neanche peggio. Il che era un bene. Inoltre, a son di risate, ero riuscita a diventare più spontanea e chiacchierona, facendo divertire tutti con le mie battute o le mie facce sempre molto espressive.

    Ero infinitamente grata ad ognuno di loro.

    In quel momento, molto più che in altri, mi sentii viva. Viva nonostante tutto il dolore che covavo dentro. Era una strana sensazione, quella di sentirsi sprofondare nell’oblio e – al contempo– sentire che è proprio lì che stai imparando a respirare di nuovo.

    TJ si alzò da terra, mentre i suoi fratelli e i bambini gioivano per la vittoria dei guerrieri. Mi venne incontro sorridendo e si pose accanto a me, ancora con il fiatone per le corse fatte. Io in confronto ero calmissima e composta.

    «Ti senti meglio ora?»

    «Sì». Annuii con un pizzico di amaro sollievo. «Più o meno». Lo guardai con occhi carichi di gratitudine. «Grazie per ogni cosa, davvero. Avevo proprio bisogno di tutte queste risate».

    Egli espirò a fondo e sorrise di riflesso.

    Per la prima volta da quando ce ne eravamo andati dalla pista da ballo e ci eravamo messi a giocare, lo guardai negli occhi. Cercava in tutti i modi di capire cosa pensassi, sinceramente felice e soddisfatto per le parole che gli avevo appena rivolto.

    Era proprio bello e ci avrei fatto sicuramente un pensiero, se non fossi stata presa da qualcun altro.

    «Posso chiederti una cosa, anche se penso di sapere già la risposta?»

    Temetti il peggio, ma annuii.

    «Sei innamorata, vero?»

    Il cuore dimenticò di funzionare per un millesimo di secondo, al ricordo del sentimento che mi pervadeva ogni qualvolta avessi di fronte quella verità. Scostai gli occhi dai suoi, increspando le labbra in un sorriso amareggiato, e puntai i bambini che saltavano sull’erba.

    «Sì. Ma non è un sentimento ricambiato. Sto ancora cercando di gestire la cosa, a volte ho dei crolli».

    Mi tremò la voce ma riuscii a finire la frase. Non mi venne da piangere, ma in compenso il naso pizzicò, segno che quel dolore era ancora lì, nascosto sotto risate rumorose e sorrisi allegri.

    Cominciavo a rassegnarmi, credo.

    «Mi dispiace molto», mormorò tristemente.

    Emisi uno spasmo di risata priva di gioia.

    Mi scrutò. Poco dopo sollevò gli angoli delle labbra in un cenno cordiale e sincero.

    «So che le mie parole non avranno alcun effetto positivo sul tuo umore, ma penso che ti debba divertire, ora più che mai. Penso che tu debba ridere – e, fra l’altro, sappi che hai una risata meravigliosa. Una delle più divertenti che abbia mai udito in vita mia».

    Risi. «Oh, be’, grazie di cuore». Presi un profondo respiro e lo ringraziai con gli occhi. «Ci sto provando… a divertirmi, dico. Per ora posso dire che siete riusciti – voi tutti – a farmi dimenticare gran parte del malessere che provo».

    Prima che potesse dirmi qualcos’altro, una voce di donna in lontananza richiamò il piccolo Jermajesty. Questa si avvicinò ansimando. Era bella, moltissimo direi. Indossava un vestito verde smeraldo e teneva i capelli lisci e neri lungo le spalle.

    «Ma dov’eri finito? Mi stavo preoccupando!»

    «Scusaci zia, colpa nostra che non ti abbiamo avvisato», intervenne TJ con uno sguardo di scuse. «Ci siamo messi a giocare con i bambini e ci siamo dimenticati di che ore fossero».

    Lei ci osservò tutti, esaminando la mia figura in particolare, e con un ultimo grande sospiro sorrise al figlio. «Venite, è ora di andare a mangiare la torta».

    I bambini non aspettarono di sentirselo dire due volte. Scattarono come fulmini e superarono la donna di qualche metro, correndo a per di fiato. Lei sbuffò e velocizzò il passo per non perderli di vista, nonostante i tacchi. A seguire s’incamminarono pure Taryll, Taj, TJ ed infine io. Non avevo la minima voglia di tornare di là.

    TJ notò che mi tenevo in disparte. Rallentò il passo.

    «Ti va di danzare?»

    Sbattei le palpebre, visibilmente perplessa. «Uh?»

    Si fermò e lasciò che i due fratelli continuassero senza di noi.

    «Ti va di ballare, dopo il taglio della torta?»

    «Oh», risi imbarazzata, facendomi piccola piccola. «Io non…»

    «Non fraintendermi», m’interruppe. Mi osservava con mani nelle tasche e spalle rilassate. Anche Michael faceva così, spesso e volentieri… «Non voglio conquistarti. Immagino che tu non sia in vena di corteggiamenti. Ma penso che ti aiuterebbe a vivere il momento. Adesso non vale la pena soffrire per qualcuno che non ci merita. Mandare tutto al diavolo con un bel ballo, di tanto in tanto, è la cosa migliore», e sorrise apertamente.

    Lo fissai per un tempo che mi sembrò interminabile, intrecciandomi le dita delle mani nervosamente. Dalla piazzola in lontananza provenivano fischi di giubilo e di sorpresa. Probabilmente avevano fatto entrare in scena la torta. Immaginavo che fosse buonissima, ma non avevo fame. Certo, mi sentivo spossata, stanca e senza energie – visto che non avevo praticamente mangiato e bevuto nulla in due giorni – ma non riuscivo a farmi venire l’appetito.

    Fanculo Michael.

    Fanculo la mia tristezza, la mia riservatezza e la mia timidezza.

    Fanculo il mio bisogno di isolarmi e di soffrire in silenzio.

    Fanculo tutto.

    Rilassai la postura, continuando a mirare il punto da cui proveniva la musica e quel fitto vociare entusiasta.

    «Va bene». Lo scrutai profondamente. TJ si accigliò. «Ma aspetterò seduta su una panchina, nel frattempo che mangerete la torta. Non ho fame al momento», sorrisi appena. «E dopo potrai offrirmi da bere e un ballo, come promesso».

    *

    Adoravo osservare la gente, soprattutto quando questa si divertiva.



    Quando ero troppo giù di morale per prendere, alzarmi e ballare o cantare senza freni – cercando di scrollare di dosso la momentanea tristezza – trovavo confortante restare ad ascoltare le risate altrui. Non mi sentivo triste o isolata. Semplicemente riuscivo a percepire la loro allegria e renderla mia per un istante.

    La torta era stata tagliata e tutti se la stavano godendo di gusto, in particolare i bambini. Tutti tranne me, che preferivo non farmi notare da nessuno e starmene per conto mio.

    Quando tutti finirono di gustarsi il dolce la musica cambiò. Il basso e melodico soul lasciò il posto a canzoni più allegre e infantili, per dare spazio ai bambini di divertirsi e danzare. Anche alcuni adolescenti presenti – con cui non avevo minimamente interagito durante la serata – si buttarono immediatamente in pista.

    Prince e Paris si dettero da fare; il loro ballo consisteva in tante giravolte su loro stessi e mosse che centravano poco e niente con quello che stavano danzando. Ma erano bellissimi, fenomenali. Anche Stevanne, Jermajesty e Jaafar si scatenarono.

    Una risata acuta e penetrante attirò subito la mia attenzione. La riconobbi subito, perché risaltò sopra tutti e tutto.

    Il cuore tremò.

    Evitai di cercare Michael con lo sguardo, pur sapendo di essere nascosta e lontana dalla piazzola per poter farmi trovare. Era difficile non rimanere incantati dallo charme di quell’uomo – soprattutto lo era per me; l’abito, il portamento e lo sguardo sicuro mi davano un fremito di piacere che non avrei mai pensato di provare per lui. Era un brivido familiare che, prima d’allora, non avevo capito si trattasse di attrazione fisica.

    Successivamente alcune zie, madri e padri di famiglia senza mogli accompagnarono i bimbi nelle danze. Fu molto divertente e una parte di me – quella che amava profondamente il ballo – desiderò farne parte.

    Ero certa che Michael fosse ancora lì. E la delusione e l’angoscia che mi avevano colpito poche ore prima come una valanga erano tutt’ora presenti; non mollavano la presa e non mi lasciavano respirare un attimo. Cominciavo ad abituarmici.

    Dopo una mezz’ora la musica cambiò. Stavolta era una canzone che conoscevo benissimo e che amavo con tutto il cuore. Purple Rain di Prince. Il disk jockey comunicò che era giunto il momento dei lenti.

    Chissà come avrebbe reagito Michael, sentendo il suo caro “rivale” risuonare dalle casse.

    Un soffio d’aria fresca s’infilò sotto la pelle e mi fece rabbrividire.

    Alzai gli occhi al cielo. Le chiome degli alberi si scuotevano leggermente. Non potevo vedere le stelle, non da quei piccoli squarci di blu non coperti dalle foglie… eppure sapevo che brillavano anche per me. Sempre con la testa all’insù serrai le palpebre. Restai così per un po’, inspirando ed espirando profondamente. Non so se fosse la canzone ad avere quell’effetto su di me, o se invece fosse colpa della lieve brezza che mi accarezzava il viso e la pelle, ma per un momento mi sentii parte di un tutto e di un nulla. La tristezza si trasformava in rassegnazione. La solitudine si trasformava in un vuoto carico di parole non dette ed emozioni impossibili. Accettavo il vuoto e l’arresa. Mi convincevo che non potevo essere felice, non con Michael. Cominciavo a credere che fosse giusto che non mi amasse. E ciò mi portò quasi a piangere, nonostante fossi troppo debole e troppo persa nella musica per avere la forza di farlo.

    «Sarebbe così gentile da concedermi un ballo?»

    Aprii gli occhi e guardai la figura di fronte a me. Era TJ.

    Mi si accostò piano e, con uno sguardo addolcito, mi porse il braccio, attendendo che mi alzassi dalla panchina e che mi aggrappassi a lui. Lo guardai con la stessa espressione di un animaletto sperduto – tant’è che, intenerito, mi dette un buffetto sulla guancia. Sorrisi imbarazzata.

    Mi sollevai, incatenai il mio braccio al suo e ci dirigemmo verso il terrazzo all’aperto. Ebbi un giramento di testa ed un intenso senso di nausea, ma non volli dire niente. Non avevo più niente da perdere e non volevo deluderlo.

    Rallentammo il passo presso le tavolate bianche ricolme di stuzzichini e bevande. Lì sciolsi la presa dal braccio di TJ. Quest’ultimo fu così gentile da offrirmi un bicchiere di spremuta, che bevvi solo a metà.

    Ero alla perenne ricerca di lui, ma non avevo il coraggio di farlo sul serio. Temevo che se avessi incrociato i suoi occhi, non sarei più riuscita a mantenere una maschera di apparente indifferenza.

    Alcuni adocchiavano me e TJ incuriositi; due donne, particolarmente interessate, bisbigliarono fra loro. Taryll, sorridendo ad una signora di passaggio che evidentemente conosceva – la quale lo esaminò con fare interrogativo –, si avvicinò al mio orecchio.

    «Ci sono tante persone che non fanno altro che osservarti da tutta la sera. Sembra che tu sia proprio un colpo nell’occhio». Forse era colpa del rossetto troppo appariscente. Arrossii e TJ continuò ridacchiando. «Perfino zio Mike ti fissa in continuazione».

    Il fiato morì senza mostrarsi apertamente.

    Strinsi la presa sul bicchiere. Lo appoggiai al tavolo con la lentezza di una tartaruga.

    «Purtroppo non amo essere al centro dell’attenzione… ma ci sto facendo il callo, stasera», alzai un sopracciglio e compii un mezzo passo all’indietro.

    Le parole “Perfino zio Mike ti fissa in continuazione” rimbombavano in testa senza sosta.

    «Non ti preoccupare, staremo da questa parte della piazzola. Andrà tutto bene. Anzi…». Mi prese la mano e ne baciò il dorso. «Grazie per aver accettato il mio invito».

    Arrossii, emettendo un piccolo spasmo di risata, e scossi il capo abbassando gli occhi sul pavimento cementato.

    Volevo guardarlo. Volevo incrociare Michael senza sentirmi, subito dopo, sull’orlo di un precipizio. Volevo che le cose fossero andate diversamente e volevo che lui ricambiasse i miei sentimenti.

    «Pronta?».

    Scrutai il bellissimo volto di TJ. Annuii timidamente.

    Ci dirigemmo a due metri dalle tavolate bianche. Non eravamo nel bel mezzo della pista, tuttavia non si poteva dire che passassimo inosservati. Per fortuna non eravamo i soli a danzare.

    Il cuore batteva ad una velocità incredibile.

    TJ mi posò le mani sopra le sue spalle. Presi un profondo respiro – senza smettere di ammirare il mio compagno di ballo negli occhi – e in quell’istante percepii il suo profumo: era buono, certo... ma non era Michael.

    Non sarebbe mai stato Michael.

    E questo mi fece sentire a disagio.

    Abbassai le palpebre. Mi lasciai coccolare dalla musica, mentre le dita di TJ mi cingevano dolcemente la vita e mi facevano ondeggiare; prima a destra e poi a sinistra, poi avanti ed infine indietro. Sapeva come condurre senza far sentire impacciata la propria compagna.

    Cercai di non pensare a nulla, ma fu impossibile.

    Non avrei mai voluto che sarebbe andata a finire così. E non lo pensavo solo per quanto riguardava la serata, ma anche per la situazione tra me e Michael. Allora desiderai non aver mai fatto il colloquio, a novembre. Mi pentii di non essermi tenuta distante dalla famiglia Jackson quando era il momento. Desiderai non aver mai voluto bene a Michael. Desiderai che Janet non mi avesse mai posto di fronte ai sentimenti per il fratello. Desiderai annullare ogni singola cosa.

    Inconsciamente aprii gli occhi e, dinanzi, mi apparve la figura Michael.

    Sentii male al petto.

    Aveva le spalle dritte, totalmente avvolte nel suo abito bianco, e lo sguardo impenetrabile. Teneva in braccio Blanket e i suoi due bambini, Prince e Paris, gli stavano accanto tenendosi uno alla sua mano e l’altra alla sua giacca. Dondolavano a destra e a manca, fissando il vuoto con sguardo carico di sonnolenza. Accanto a loro c’era Janet, il suo fidanzato e un altro uomo di cui non sapevo il nome.

    Mi guardava.

    Eccome se mi guardava.

    Fu un secondo soltanto, ma bastò per dare una risposta alle mie domande: era un’occhiata dura, fulminante. Perfino i muscoli del viso erano tesi, inaspriti da una sensazione di visibile ma offuscata irritazione. Fastidio, sì, e anche uno sprazzo di inquietudine.

    Chinai il mento e le iridi chiare sulla spalla di TJ.

    Presto o tardi avrei dovuto affrontare l’inevitabile.

    Tutto mi stava scivolando via dalle mani.

    Non era servito a niente ballare con TJ. Non era servito a nulla giocare con i bambini e ridere a più non posso. Non era servito a nulla mandare a quel paese Michael con il pensiero. Io ero sempre io, il dolore era sempre dolore, e l’amore per quell’uomo sopravviveva comunque.

    Purple Rain finì
    .1TJ mi baciò la guancia sinistra e io sorrisi debolmente. Lo ringraziai con gli occhi. Stette per aprire la bocca e dire qualcosa ma gli fu impedito. Quando lo vidi fissare un punto alle mie spalle con fare stupito, mi girai.

    La mia visuale s’illuminò della sua presenza.

    Il suo viso era magnifico. Mi accorsi che si era truccato con poco e niente, lasciandosi il più naturale possibile. Stessa espressione indurita di prima. Stessa postura eretta. La serietà celata da un sorriso di cortesia, una luce negli occhi così abbagliante da non poter essere descritta a parole.

    Michael...

    «Posso rubartela per un ballo?», chiese sofficemente.

    La sua voce era così profonda che mi fece vibrare il respiro in gola.

    «Non chiederlo a me, zio», sorrise. Mi guardò negli occhi. «Devi chiederlo a lei...»

    Michael mi puntò, gentile e affascinante. Issò appena le sopracciglia. «Posso avere l’onore?»

    Cercai prima TJ e poi lui. Ero completamente smarrita. Non seppi cosa dire, ma annuii comunque.

    TJ se ne andò lanciandomi un occhiolino che non riuscii a ricambiare. Il disc jockey stava ancora scegliendo il prossimo brano da suonare. Mi sembrava di essere avvolta nel silenzio e il resto – mormorii allegri e borbottii confusi – fu ovattato dall’emozione di ansia e gioia che provavo nel sentire Michael così vicino.

    Mi venne incontro di un passo.

    Sentivo la sua presenza pulsare quanto il mio battito cardiaco... percepivo quelle immensità scure fissarmi intensamente, scavando fin sotto i vestiti e fin sotto la pelle, alla ricerca dei miei veri sentimenti. Un passo e ci saremmo toccati di nuovo.

    Cercai di nascondere la palpabile difficoltà che avevo nell’atteggiarmi da persona normale. Non lo guardai, non osai farlo: se soltanto avessi provato, probabilmente sarei annegata in lui e non avrei avuto più la capacità di muovermi.

    Mi morsi il labbro inferiore.

    Il suo strano profumo di sandalo mi invadeva l’olfatto.

    Improvvisamente lo sentii prendere un lungo respiro. Non enunciò alcun suono dalle labbra.

    Prima che potessi arrivare a scorgere i suoi occhi, mi bloccai a metà strada, restando a esaminare la sua giacca bianca e il suo petto che si alzava e si abbassava a ritmi piuttosto irregolari... profondi, ma irregolari...

    «Stasera io e te siamo come lo Yin e lo Yang…».

    Rabbrividii.

    Afferrò la mia mano sinistra, tirandomi con dolcezza disarmante verso di sé. Per un momento dimenticai di essere nel bel mezzo di una pista da ballo, insieme a tanti altri invitati che potevano sospettare dei sentimenti che provavo per Michael.

    Lo guardai confusa.

    Non sorrideva, ma i suoi occhi, persi nei miei e rapiti dalla mia figura, non tentennarono. Erano intensi, folgoranti. Di nuovo scorsi quel fuoco incendiare le sue iridi buie, lo stesso che mi pareva di aver visto più di una volta e che non avevo mai compreso del tutto.

    «Stanotte, molto più delle altre volte in cui siamo insieme, io e te siamo come lo Yin e lo Yang…».

    Non ci stavo capendo più nulla. Che cosa?

    «Non lo hai notato?» distese la fronte fingendo stupore. Il fuoco che aveva dentro era come lampi di luce nella notte. «Io sono vestito di bianco; ho la pelle – be’ – scura, in origine, gli occhi scuri, i capelli scuri... sono un punto nero circondato dal bianco. E tu... sei vestita di nero, con la pelle chiara, gli occhi chiari, i capelli... be’, più o meno chiari...». Ridacchiò, ma il risolino scemò subito. I suoi occhi non osavano lasciarmi andare. «Al contrario di me sei un punto bianco rivestito dal nero... eppure siamo così uguali...»

    Pensai che avesse bevuto, o che qualche valvola del suo strano cervello non funzionasse in modo corretto. Quel ragionamento non aveva senso e la mia smorfia pensosa fu capace di farlo sorridere.

    Pendevo dalle sue labbra, dal suo ragionamento tanto sconsiderato quanto… quanto innocente e colmo di magia. Non sapevo se riporre attenzione a quella stretta, che delicata mi portava sempre più vicina al suo corpo, o a quello sguardo magnetico e deciso. Michael sapeva stregarmi ogni volta che voleva. Lo faceva con una tale sicurezza e dolcezza che mi ritrovavo spiazzata, inerme di fronte alla sua anima e al suo piacevole ed affettuoso raggiro.

    Abbracciò la mia mano con la sua, grande e protettiva.

    Si bagnò le labbra e studiò il ciondolo di mezza Luna che tenevo al collo.

    «È destino. Io e te siamo legati da una forza più potente di quanto crediamo. Siamo diversi, ma fondamentalmente conserviamo la stessa scintilla nell’anima. Siamo parte della stessa essenza, siamo legati da un filo che non si può distruggere, sciogliere o bruciare. Non possiamo stare uno senza l’altro».

    Una lieve musica cominciò a innalzarsi nell’aria.

    La conoscevo. Michael mi aveva parlato di quella band. Erano i Boyz II Men, End of the Road. La sentivo distante, in confronto alle parole che Michael mi stava sussurrando con tale passione. I suoi occhi erano talmente splendenti che sarebbero riusciti a competere con la luce del Sole.

    Senza che me ne accorgessi, fece scivolare la sua mano libera dietro la mia schiena. Mi fece tremare non appena il contatto fu effettuato con maggior decisione e il mio petto si scontrò con il suo. Mi persi nei contorni del suo viso leggermente spigoloso, nella fossetta marcata, nelle labbra e nelle sopracciglia praticamente perfette.

    Inclinai appena la testa all’indietro. Il viso di Michael si pose a pochi centimetri dal mio orecchio sinistro; con il respiro accarezzò dolcemente una ciocca di capelli, il collo, la gota, un lembo del vestito... questa carezza mi avvolse completamente – gambe, braccia, petto... dalla punta dei piedi fino all’ultimo capello.

    Il ritmo della musica si fece lentamente più scandito, ma ancora non ci muovevamo.

    «Ci apparteniamo, principessa»
    2.

    Tutto sembrò svanire. Le persone, il ranch, il mondo intero. Eravamo solo io e lui.

    Mi strinse a sé, facendomi dondolare piano mentre io – incapace di trattenermi – chiudevo gli occhi. Li chiusi e mi abbandonai a lui. Mi abbandonai con la fronte sulla sua spalla.

    Fottiti, avrei voluto dirgli. Fottiti tu e le tue coglionate, ecco cosa avrei voluto dirgli. Avrei anche voluto dirgli che era uno stronzo. Avrei voluto dirgli di lasciarmi in pace. Avrei voluto dirgli che non mi illudesse. Ma soprattutto avrei voluto chiedergli che mi amasse.

    Non importava quanto fossi triste, quanto lo odiassi o quanto mi sentissi schiava di sentimenti troppo grandi da gestire: Michael era sempre il centro di ogni cosa. Era l’essenza della mia essenza. Era parte dell’aria che respiravo. Era l’unico per me, e lo sarebbe stato per sempre.

    Michael mi si avvicinò all’orecchio.

    «Girl, I know you really love me… you just don’t realize, you’ve never been there before…»

    Feci scivolare la mano che tenevo sul suo braccio – lo stesso che mi cingeva la schiena – verso il luogo dove si trovava il suo cuore, afferrando spasmodicamente la stoffa della sua giacca e le mie palpebre. Inspirai l’odore della sua pelle.

    Michael ricambiò. Credetti di sentirlo tremare.

    Impercettibilmente si scostò, vagando verso il basso, e mi baciò il collo. Mi accarezzò la schiena percependomi rabbrividire. Serrai le labbra per non lasciare che un gemito fuoriuscisse dalla bocca.

    Quando la canzone finì e riaprii gli occhi, sembrò essere passato solo qualche secondo. Tutto sembrò riacquistare forma. Mi ripresi da un sonno ad occhi aperti, un viaggio che avevo intrapreso con Michael che quasi non riuscivo più a ricordare. Un viaggio nel silenzio, attraverso il quale due anime riuscivano ad abbracciarsi nella loro forma più pura.

    Michael ed io ci osservammo. Le sue profondità arsero, sorrisero, analizzarono ogni lineamento del viso che gli era sfuggito, che amava, che non riusciva a smettere di ammirare. E io lo amai – lo amai con tutta me stessa – fino a non poterne più. Fino a desiderare di interrompere lo scorrere del tempo.

    «Scusa...»

    Un mormorio raggiunse le nostre orecchie, destandoci. Era Janet.

    Scrutò Michael e in seguito me. Mi squadrò, con labbra incurvate in un enigmatico cipiglio straboccante di domande.

    «Posso ballare con mio fratello?»

    Guardai Michael senza rispondere. Egli rimase puntato su di lei ignorandomi completamente. La luce nei suoi occhi e tutta la loro poesia erano scomparse.

    «Sì...», sussurrai, annuendo e arrossendo al tempo stesso. «Assolutamente…»

    Lei fece un cenno di ringraziamento col capo. Mi sorrise ed io provai a far lo stesso. Michael mi lasciò andare, mi inseguì con gli occhi, ma io gli voltai le spalle senza degnarlo di attenzioni.

    A piccoli passi mi avviai lontano, dentro casa, incapace di fermarmi.

    Tutto l’amore che avevo provato in quei miseri tre minuti di pace fu ancora una volta seppellito da una sensazione d’assoluta afflizione, e dalla consapevolezza che niente poteva essere rimediato. Non trattenni neppure una lacrima.

    *

    Non riuscirei a quantificare quanto tempo spesi in camera mia, a letto, con il volto affondato nel cuscino, fino a quando non mi sollevai per asciugarmi le guance con una mano.

    Le lacrime continuarono a bagnarmi la pelle imperterrite. Ero sicura che quello fosse lo sfogo “definitivo”, quello che avevo represso e che non ero riuscita a esternare per quasi due giorni.

    Mi sentivo... mi sentivo ferita e tradita. Mi sentivo presa in giro – prima mi rifiutava e poi mi rivolgeva parole colme d’amore, e inaspettatamente l’attimo dopo non esistevo più.

    Mi venne in mente ciò che mi aveva detto quando ballavamo.

    Siamo simili, sì, ma non siamo uguali – come diceva la canzone degli U2 che attraversava le finestre… segno che c’erano ancora ospiti che ballavano o non accennavano ad andarsene.

    Ricordai le tante occasioni in cui lo avevo abbracciato, il calore della sua mano, la soavità della sua voce – a volte bassa e a volte leggera come il vento. E poi il suo respiro sul collo, i brividi che ogni volta mi causava quando mi passava accanto, quando mi cingeva da dietro quando meno me lo aspettavo, quando mi accarezzava inaspettatamente.

    Per un momento mi mancò tutto di Michael. Ogni cosa. Mi mancava non averlo lì.

    Volevo che fosse di nuovo il mio migliore amico, ma sapevo che in fondo non l’avevo mai considerato tale: lui era sempre stato uno scalino più in alto rispetto a tutti. Sempre al primo posto.

    Come diavolo facevo a dimenticarmi di lui, quando il mio cuore scoppiava d’amore? Eppure lo contenevo – ero obbligata a farlo – perché non potevo fare altrimenti. Forse mi avrebbe anche licenziato, adesso che le cose erano decisamente cambiate.

    Andai in bagno, trascinandomi di peso, e mi guardai allo specchio. Il trucco era sbavato e rovinato. Uno scempio. Presi dei dischetti di cotone e lo struccante e mi tolsi tutto. Mi sciolsi i capelli. Dopo aver fissato il mio riflesso con gli occhi ancora lucidi dal pianto, ritornai a letto. Mi girava la testa e mi sembrava di avere la febbre. Mi sedetti sul bordo del materasso e fissai la finestra.

    L’amore si dimenava nel sangue e nei miei occhi; voleva uscire, voleva diramarsi in tutto il corpo, avvolgermi completamente e farmi volare chilometri e chilometri sopra la Terra. Voleva trasformarsi in mille fuochi d’artificio, risplendere.

    Solo per lui.

    Sempre e unicamente per lui.

    Non ce la facevo più.

    Qualcuno bussò alla porta. Non invitai quella persona ad entrare, ma questa si aprì lo stesso. Quando girai il capo in direzione del fascio di luce che attraversava l’oscurità della mia stanza, la mia faccia si contorse in un’espressione irrigidita. Non avevo neanche la forza di arrabbiarmi.

    Puntai di nuovo la finestra.

    «Sarah...», mormorò gentile.

    Chiusi gli occhi.

    Avrei potuto riconoscere la voce di Michael anche in mezzo a un milione di persone.

    Ebbi la pelle d’oca.

    «Possiamo parlare?», chiese Michael con una dolcezza che – per quanto fosse in grado di liquefarmi – al momento mi sembrò perfino disgustante.

    Chiuse la porta senza aspettare la mia risposta. Fece qualche passo in avanti, ma si bloccò alla vista dei miei occhi arrossati e stanchi. Mi lasciai cadere sul materasso una seconda volta, di schiena, ammirando il soffitto.

    Avrei voluto rispondergli, ma non ci riuscivo, anche se ero conscia del fatto che quell’emozione di inettitudine non sarebbe durata molto.

    «Sarah...». Il tono divenne cupo. «Mi fa male vederti così...» Sentii lo stomaco chiudersi in una morsa terrificante e subito dopo un gran senso di nausea. «Per favore...»

    Non illudermi, basta.

    La sua voce, profonda e intimorita, si indurì. Avanzò fino ad arrivarmi praticamente a fianco, in piedi e immobile al bordo del letto.

    «Non riesco a sopportare questo silenzio... guardami».

    Distesi la fronte in un’espressione fintamente stupita.

    «Che cosa vuoi che ti dica?» sussurrai rialzandomi a sedere, guardando la finestra con occhi assenti, utilizzando un tono neutrale.

    Sentivo lo sguardo di Michael su di me, ma non mi rendeva nervosa. Ero così dipendente da quel senso di impotenza e stanchezza – mentale, emotiva e fisica – che anche il più minuscolo briciolo di timidezza passava in secondo piano.

    «Dimmi cosa provi...»

    Serrai le palpebre e storsi il naso in un cipiglio schifato.

    «Che cosa dovrei spiegarti, Michael?» sibilai il suo nome, contraendo la mascella. Sentii le lacrime pungermi gli occhi come se fossero spilli. «Ma fammi il piacere

    Così dicendo mi alzai e gli schivai la spalla. Mi diressi verso la finestra. Rimasi con le braccia incrociate per un secondo, dandogli la schiena. Mi tremavano le gambe.

    Mi portai una mano fra i capelli. Anche le dita sussultavano.

    Respirai con leggera fatica. Lo stomaco era una morsa d’acciaio, la gola era chiusa e mi faceva male. Quando lo puntai con due occhi colmi di risentimento, mi guardò scioccato e addolorato assieme. Le sue iridi, grandi e spalancate, erano lo specchio dei suoi sentimenti.

    Boccheggiò, gesticolando. «Sarah... posso spiegare...»

    «Spiegare cosa? Cazzo, Michael, tutto questo... non... non c’è NIENTE da spiegare!» esclamai alzando la voce e le mani in aria. Mi osservava con afflizione e pentimento. «Pensavi che non lo avrei capito da sola? Porca puttana, M-Michael!»

    Stavo piangendo. Le lacrime scendevano da sole e non me ne rendevo conto. Mi bagnai le labbra nervosamente e mi passai i dorsi delle mani sulle gote bagnate, scrutando il soffitto. Il fiato era instabile, oscillando a ritmo dei singhiozzi.

    «Per favore», mi pregò cercando di venirmi accanto. «Puoi... puoi dirmi cosa ti ho fatto? Voglio... voglio sentirtelo dire»

    «Sei uno stronzo, Michael! Un vero STRONZO!» urlai e mi venne da ridere sarcasticamente.

    La testa mi girava e sentivo le tempie pulsare.

    «Mi illudi e poi... Dio, Michael… hai... hai baciato le mie labbra l’altra notte, il... oh... il tuo sguardo sembrava così pieno di amore e... e affetto per me... che mi sono sentita in grado di credere che tu... che tu mi amassi…».

    Uno spasmo di pianto mi bloccò. La voce si incrinò dal dispiacere e gli detti le spalle, inspirando ed espirando a bocca aperta, cercando di contenere il mio pianto.

    «Credi… credi che sia una statua di pietra? So benissimo di essere imperfetta... di essere solo un’insegnante e un’amica… so di essere chiusa, asociale, tendenzialmente bloccata nelle mie paure... so di essere insignificante nel mio modo di essere, ma questo non ti dà il diritto di prendermi per il culo… MAI!»

    Tantissimi brividi di freddo mi pervadevano per la tensione e il nervosismo, stritolandomi le viscere. Mi appoggiai alla finestra con un palmo.

    «Non sei affatto insignificante». La bassa voce di Michael era carica di amarezza e rimpianto. Sembrava commosso, perché le sue iridi erano velate da una spessa patina bagnata. «Per me non sei insignificante. Sei una delle persone più meravigliose che io abbia mai incontrato...»

    «Ti prego...», rantolai coprendomi il viso con le mani.

    Percepii come le mie labbra sussultassero ogni qualvolta inspirassi.

    Quando i nostri occhi s’intrecciarono ancora, eravamo entrambi lo specchio della sofferenza. Michael teneva un piede e un braccio in mia direzione, pronto ad afferrarmi, ma il corpo non si muoveva.

    «Basta, Michael… non sarò mai abbastanza per te...».

    «Lo sai che non è vero», era serio.

    Provò ad avvicinarsi con cautela. Rifiutai la sua vicinanza e, mentre indietreggiavo, venni colta da un forte giramento di testa e da un possente conato di vomito. Stavo male, tanto da pensare che non fosse semplicemente per il pianto.

    «No...», faticai a respirare. Guardai in basso, verso i suoi piedi. «Smettila di farmi del male... i-io non potrò mai valere qualcosa per te... io non varrò mai n-niente per uno come te...», sorrisi con la vista offuscata, sollevando l’attenzione sulla sua camicia bianca, leggermente sbottonata.

    Michael si passò le mani sulla faccia, muovendosi sul posto.

    Il silenzio invase la stanza. L’aria divenne più pesante. Mi parve che stesse piangendo anche lui, ma non avevo voglia di scoprirlo.

    «Io... io non pensavo che soffrissi così tanto» mormorò straziato. Mi osservò, voltando il busto a tre quarti in mia direzione. Con una mano si pettinò i capelli all’indietro. Lo sguardo era perso nel vuoto. «Io volevo solo proteggerti… non avrei pensato che – ».

    «Che cosa? Che sotto questa mia indifferenza ci fosse qualcos’altro?».

    Mi studiò con le lacrime agli occhi.

    Accennai un sorriso beffardo e provocatorio. «Lo sai anche tu che faccio difficoltà ad aprirmi. Sai quanto è difficile per me esprimere sentimenti del genere. Prima ricambi e poi mi ignori… sei stato così egoista, egocentrico, che hai pensato solamente a te stesso! Non ti è mai interessato nulla di me. Non ti è mai importato nulla... se io restassi o me ne andassi, a te non fregherebbe proprio niente!»

    Michael si immobilizzò, così come la sua espressione addolorata cambiò completamente. Diventò freddo come il ghiaccio, tutto ad un tratto. La sua fronte si distese e le iridi scure assunsero una serietà incredibile. La bocca si storse in segno di fastidio.

    Avevo detto delle brutte cose, ma non mi importava. Ero irritata. L’idea di ferirlo nel profondo era uno dei metodi che avevo creduto più efficaci per liberarmi di lui e cacciarlo via. Probabilmente pensavo che non avrebbe reagito a ciò che gli avrei detto, che se ne sarebbe restato zitto e incapace di reagire, e invece mi sbagliavo. Non era affatto pronto a lasciarmi dire quelle cose.

    Mi fissò sorridendo di rabbia, esattamente come avevo fatto anch’io poco prima. La fisionomia del suo volto pareva esprimere turbamento, ma gli occhi fiammeggiavano d’ira. Spalancò le labbra alla ricerca di qualcosa da dire e, scuotendo la testa, si mise una mano al petto.

    «Ciò che TU provavi? E A ME non hai mai pensato?!», alzò la voce.

    La sua faccia era esterrefatta, furibonda. Non lo avevo mai visto così, se non quando parlava del processo o mi accennava dei suoi problemi con il suo personale o team manageriale.

    «Per... per tutti questi mesi ho cercato di farti capire quello che sentivo! MESI, Sarah! Cazzo, fin dall’inizio mi sono mostrato interessato. A TE. Pensi che sia facile – al posto mio – fidarsi di qualcuno, con tutto quello che sto vivendo di recente? Pensi che io non mi sia mai chiesto se ne valesse la pena, dirti quello che provavo? Anche io sono riservato, eccome se lo sai... e non credi che sia stato difficile per te come lo è stato per me? Forse anche di più?!»

    «Tu non ti fidavi di me?» annaspai strabuzzando gli occhi.

    Evitò di ricambiare la mia occhiata sconvolta. Si bagnò le labbra per ben due volte e si pose le nocche sui fianchi, mentre emozioni di collera e sconforto saettavano nelle sue iridi oscure. Mi sentivo disarmata.

    «E poi... Dio, Michael, come avrei potuto minimamente pensare che tu mi stessi corteggiando?!»

    Sbarrò occhi e bocca a sua volta, fulminandomi. «E tu non pensi che io abbia provato lo stesso, dannazione?!»

    Silenzio.

    Prese fiato e gesticolò nervosamente, andando avanti e indietro sul posto.

    «Anche io sono stato male, avrei voluto gridare al cielo cosa provavo per te! Avrei voluto dirti subito ciò che sentivo, ma dovevo capire se tu mi amavi!»

    Non ci credevo.

    Risi amaramente, dissentendo con il capo.

    «No, tu ti sei divertito a giocare», mi si mozzarono le parole in gola. «Non mi hai mai dato alcuna certezza dei tuoi sentimenti, non ti sei nemmeno sprecato».

    Sapevo che non era vero.

    Mi puntò un dito contro, scuotendo la testa e inclinandola da un lato. «No, questa è una bugia! Non ho mai giocato con te, non l’avrei mai fatto!».

    Lo fissai sul punto di piangere una terza volta.

    Michael espirò ad occhi chiusi. Tentò di placare la sua ira.

    «Sei tu l’egoista... io NON HO MAI goduto, NON HO MAI gioito per come ti ho fatto sentire stasera e molte altre volte. Sapevo di spezzarti il cuore. Sapevo molto bene che prima o poi avrei rischiato di perderti, e se sono venuto qui è perché mi sentivo in colpa. Tu... tu non hai mai capito che ti amavo. Eppure sei sempre stata il centro del mio mondo».

    Guardò altrove. Mostrò un ghigno sardonico, con collera e stupore assieme. Torturò il labbro inferiore con la lingua.

    «La prima volta che ti ho visto, io... io sono rimasto affascinato dai tuoi occhi e dalla luce che possedevano. Dentro di me sentivo qualcosa di insensato che mi spingeva a cercarti. Ti guardavo e mi sentivo tanto a casa quanto disorientato e scosso. Ho lottato per reprimermi. Ma volevo capire se al di sotto di quella tua assurda formalità ci fosse qualcosa di puro e genuino... e così è stato! Col tempo mi sono reso conto che tu non mi piacevi soltanto, ma che mi ero fottutamente innamorato di te! E tu mi dai dell’egoista insensibile!»

    Le parole di Michael erano dure, crudeli quasi. Ridacchiò senza divertimento. Si bagnò la bocca e fissò il pavimento, scuotendo il capo con un’espressione che pareva addirittura sdegnata.

    «Ma tu non hai mai capito nulla. Ti sei sempre vista inutile, ingombrante, una seccatura, una persona non degna del mio amore. Come se io fossi un essere incapace di innamorarmi. E non capivi che ero io quello che pensava di non essere meritevole della tua compagnia. Sei così cieca... tu – Sarah – eri così occupata e convinta di essere immeritevole del mio amore, che non ti sei mai accorta del mio sentimento. Tu sei terrorizzata dall’amore. Il mio!»

    Non riuscii a rispondergli.

    Ero felice, davvero felice, perché era quello che desideravo di più al mondo: sentirmi amata da Michael. Una parte di me non riusciva a trattenersi dal desiderio di corrergli incontro, baciarlo e lasciare che i miei timori scomparissero al contatto con le sue labbra e con il suo corpo. Ma più di ogni cosa, ero schifata da me stessa.

    Ero riuscita a deludere la persona che amavo di più.

    Non mi ero mai accorta di nulla. Non me ne ero mai voluta accorgere.

    Michael non osava guardarmi. Pensai che fosse così furibondo che il solo rivolgermi attenzioni lo avrebbe portato ad odiarmi di più. Teneva le braccia incrociate al petto, fissava il letto pieno di avversione e, anche se da lontano, lo vedevo oscillare in avanti e indietro concitatamente.

    Io, invece, riuscivo soltanto a tremare.

    Ero sicura che – per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti – detestasse chi fossi.

    La lucidità venne meno, mentre la vista si oscurava sempre più velocemente. Non erano solo le lacrime a rendermi cieca. Stavo male e volevo vomitare. C’era qualcosa che non andava.

    Cercai un appoggio.

    Ero stordita.

    Non riuscivo più a pensare.

    «Sarah!».

    Il grido di Michael mi giunse come un eco e rimbombò rumorosamente nell’aria. Non mi accorsi che la luce si era spenta dinanzi ai miei occhi.






    1 Consiglio ai lettori di leggere il testo o la traduzione di Purple Rain ed End of the Road. Come per tutte le canzoni che inserisco nella storia, nessuna viene inserita a caso. Penso che rispecchino entrambe il punto di vista di Michael, in questo caso.
    2 Per chi non se lo ricordasse, questa frase riporta al capitolo 14.


    Edited by fallagain - 9/4/2020, 22:19
     
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    Capitolo Trentuno: Il Risveglio


    Ricordo di aver sognato.

    Avevo ancora gli occhi chiusi quando mi destai.

    Ero sola, al buio, e non vi era alcun rumore nel luogo in cui mi trovavo. Le orecchie avevano smesso di fischiare. Non sapevo né dove fossi né come fossi finita su quello che pareva il mio letto.

    I ricordi scorsero davanti all’oscurità, sfuocati, stuzzicando la memoria.

    Mi illusi di aver sognato.

    Ebbi il coraggio di spalancare le palpebre... prima lentamente, poi in maniera più rapida.

    Mi chiesi quanto fosse durato quel mio stato di incoscienza. Mi sembrava di aver chiuso gli occhi soltanto per un attimo, e di averli riaperti un secondo più tardi. Nonostante ciò, tutto era cambiato.

    La prima cosa che vidi una volta fu la sagoma di una donna.

    «Come stai tesoro?», disse con dolce voce. «Ti senti meglio?»

    Mi si bloccò il fiato in gola quando riconobbi chi fosse.

    La donna se ne stava seduta su una sedia al lato destro del letto. Il suo sorriso era affettuoso, un po’ crucciato, bloccato in un’espressione amabilmente preoccupata, vestita degli stessi abiti con cui l’avevo vista qualche ora fa.

    «Credo di sì…»

    Mi guardai intorno, smarrita. Ero nella mia camera – riconoscevo i mobili, le pareti, i tappeti e il grande armadio in legno scuro – e soltanto la fioca luce del comodino ravvivava l’ambiente. Tutto esattamente come prima.

    Adocchiai con la coda dell’occhio la signora Jackson mentre tentavo di mettermi seduta.

    Ella mi mise una mano dietro la schiena per aiutarmi.

    «Attenta... fai piano...», sussurrò.

    Mi aiutò ad appoggiarmi allo schienale del letto, sistemandomi il cuscino in modo che non mi sentissi scomoda. La osservai in silenzio, inerme; da come si comportava con me, che ero una completa sconosciuta, il suo istinto di mamma sembrava valere per qualsiasi essere umano.

    «Cosa è successo...?».

    Dov’è Michael?

    Katherine Jackson prese un fagotto avvolto in un telo bianco. Disfece l’involto estraendo un pezzo di pane. Porgendomelo sotto il mio sguardo perplesso, sorrise e rispose alla mia domanda.

    «Sei svenuta, tesoro...». Guardò la sveglia elettrica sul comodino. «Dieci minuti fa»

    Spalancai gli occhi. Non era mai successo in vita mia.

    Ella mi gettò un’occhiata mesta. «Eri con mio figlio Michael quando è successo. È riuscito a prenderti prima che cadessi e sbattessi la testa a terra», si bagnò le labbra. «È stato con te per un minuto, sperando che ti risvegliassi, ma non è successo. Perciò è corso giù per le scale, subito dopo averti portato a letto. Grazie a Dio ha incontrato mio figlio Randy e ha chiesto di me. Michael sta chiamando il dottore, ora...»

    «Sta chiamando un dottore?», ero sempre più allibita.

    Il pensiero di un Michael tormentato mi strinse il cuore; sia per il dispiacere di avergli procurato angoscia, sia per la lieve contentezza che mi dava nel saperlo preoccupato per me.

    La cosa che però più mi sconvolse fu il fatto che mi avesse preso in braccio e mi avesse portato a letto da solo; l’idea di avergli spaccato la schiena non mi piaceva così tanto. Quell’uomo, invece che fare la cosa più sensata e lasciarmi a terra, aveva pensato di distendermi su qualcosa di morbido, invece che correre e chiamare aiuto, ne ero sicura.

    Katherine sorrise e mi strinse la mano, quella con cui non tenevo il pezzo di pane.

    «Mio figlio è molto apprensivo con chi vuole bene. Si preoccupa per un nonnulla in effetti... è molto caro... ma in questo caso ci siamo preoccupati tutti. Gli svenimenti durano meno di un minuto, ma tu non riuscivi a svegliarti».

    Stetti per chiedere cosa intendesse con “Ci siamo preoccupati tutti”, ma la signora Jackson abbassò lo sguardo sul tozzo di pane che ancora non avevo toccato.

    «È meglio che mangi, tesoro. Ti vedo molto stanca e credo che tu non abbia mangiato niente, stasera. Potrebbe aiutarti a riacquistare le forze». Mi dette un buffetto sul braccio e si alzò in piedi. Mi scoccò un’occhiata addolcita. «Io vado ad avvisare mio figlio che ti sei svegliata. Pensi di stare bene anche da sola, almeno per qualche istante?»

    Annuii, ma avrei tanto voluto dire di no. Aspettò che mangiassi il pane e bevessi il succo di frutta adagiato sul comodino. Dopodiché si incamminò verso la porta della stanza.

    «E la festa...?», domandai in un sussurro.

    «È tardi ormai, la maggior parte degli invitati è andata a casa. Janet sta salutando gli ultimi invitati, ma avrebbe tanto voluto essere qui per darti sostegno».

    Mi studiai le mani con un profondo senso di colpa e imbarazzo.

    «Non ti preoccupare, Sarah», enunciò la madre di Michael. «Non è colpa tua se la festa è terminata. E nessuno ti fa una colpa per essere svenuta».

    Come se ciò fosse abbastanza per consolarmi.

    La donna si bagnò le labbra per la milionesima volta.

    «Penso che Michael sarà qui a momenti».

    «La ringrazio...», stirai un sorriso. «È molto carino da parte sua avermi fatto compagnia», arrossii e la guardai negli occhi.

    Sorrise anche lei. «Non ringraziarmi, l’ho fatto con amore».

    Una delle frasi tipiche di Michael.

    Sentii una lieve fitta al petto.

    Katherine mi salutò e uscì, lasciando la porta adagiata allo stipite. Avvolta nella completa solitudine e nel silenzio, meditai su quanto accaduto. La verità è che non riuscii a pensare a niente di concreto, nonostante mi sforzassi di farlo. Il mio cervello doveva essere entrato in quella fase di rifiuto che non mi permetteva di riflettere ulteriormente su una situazione avvenuta.

    Mi arrecai parecchie offese, ma non piansi per i miei rammarichi.

    Mi distesi sul materasso, mi coprii bene con le coperte portandole fino al naso e in ultimo mi misi di fianco, verso il lato vuoto del letto.

    I miei occhi si smarrirono nel vuoto.

    Volevo che Michael fosse lì. Esattamente come quando mi ero ammalata il dicembre passato.

    Le palpebre calarono sulle mie iridi lucide. Ero spossata. Mi mancavano le energie e il sonno. Non fu necessario sforzarmi di dormire, ma – nella zona fra veglia e sonno – percepii la presenza di qualcuno nella stanza. La sua mano si posò sulla mia nuca, scostò una ciocca di capelli dalla guancia e respirò a fondo. Si sedette in parte a me, sulla sedia, in modo soffice e quasi impalpabile.

    Michael mi accarezzò i capelli. Con il pollice della sua morbida mano mi sfiorò la gota, l’angolo vicino più alle labbra. Se fossi stata più lucida, avrei sentito le farfalle nello stomaco dalla gioia.

    Mi si avvicinò cautamente all’orecchio.

    Tratteneva il respiro.

    Dolci fremiti mi avvolsero la pelle, leggeri e vellutati come il soffio di una brezza mattutina.

    Le labbra si posarono tra la guancia e la bocca, soffici, umide, segno che sicuramente se le era bagnate più volte. Il contatto con queste fu il peggior scoppio di amorevoli formicolii che avessi mai percepito in vita mia.

    «Ti amo...», sussurrò al mio orecchio.

    Era il dolce tintinnio di campane a vento, il Sole di un pomeriggio d’estate che riscalda e asciuga il terreno dalla pioggia. Era le onde del mare mentre sbattevano contro le rocce di una scogliera, nel bel mezzo di una tempesta. Era la scintilla di luce risiedente nei suoi stessi occhi. Era ogni cosa.

    E poi, senza un perché, tutti i pensieri e le emozioni si persero in un sogno senza incubi.

    *

    Dormii parecchio, ma non abbastanza a lungo. Quando ripresi coscienza, i fiochi raggi solari penetravano pacatamente le fessure delle serrande abbassate, segno che era ancora l’alba.

    Me ne stavo a pancia in su, con le palpebre abbassate e il petto che si alzava e si abbassava, a ritmo dei miei lenti respiri. Ero da sola? C’era qualcuno al mio fianco?

    Non sapevo se Michael fosse con me oppure no.

    Non sapevo se ciò che avevo udito – poco prima di crollare nel sonno – era reale oppure una menzogna; il mio istinto diceva di aspettare, di osservare il suo atteggiamento nel momento in cui l’avrei guardato negli occhi, giusto per non rimanerci male nel caso in cui mi avrebbe evitato di nuovo. Non volevo illudermi.

    Potevo averlo immaginato, no?

    Certo, come no.

    La verità è che avevo una fottuta paura di sapere quello che provava per me, ma questo lo avevo capito già da un po’... così come comprendevo di provare due emozioni completamente differenti dentro di me: la voglia di amare e lasciarmi andare all’amore, in lotta con il desiderio di fuggire, scappare a gambe levate di fronte a sentimenti più grandi di quelli che potessi sopportare.

    Le paranoie umane sono assillanti ronzii nelle orecchie, tarme che distruggono le funzioni del cervello. Sono cannibali, affamati della stabilità emotiva. Ho sempre pensato che la maggior parte delle persone si diverte a contorcersi la mente con insensati e sconsiderati dubbi. Senza di questi, tutto sarebbe più tranquillo, più pacifico, più sereno. Se l’umanità non si complicasse la vita, di tanto in tanto, mancherebbe qualcosa. Qualcosa di straordinariamente inutile, qualcosa a cui ci siamo affezionati e che non riusciamo ad abbandonare.

    Cercai di voltarmi sul fianco destro, ma qualcuno mi bloccò dolcemente il braccio. Sobbalzai un po’. Avvertii qualcosa infilato sotto la carne, e temetti che fosse proprio quello che pensavo che fosse.

    Dopo qualche secondo di titubanza aprii gli occhi.

    Mi si mozzò il fiato in gola. La figura di Michael se ne stava seduta sulla sedia dove – qualche ora prima – si era seduta sua madre. Era sporto verso il materasso, con il volto rivolto a destra. Guardava la mano distesa sul mio fianco, il cui palmo era rivolto verso l’alto. Le sue dita mi sfioravano la pelle dandomi i brividi. Avrei voluto vedere meglio la sua espressione, ma in quella semi-oscurità riuscivo a vedere poco che niente.

    In compenso riuscii a vedere bene l’ago infilato nel braccio e la flebo accanto a me.

    Terribilmente inquietante.

    I muscoli del braccio s’irrigidirono e d’istinto provai a tirarmi su con la schiena. Stringendo la mano, incontrai le dita di Michael.

    «Shhh...», mormorò quest’ultimo, cercando di tranquillizzarmi. Il suo sussurro era affettuoso e rincuorante. «Tranquilla...».

    Lo squadrai con timore e finalmente, abituando lo sguardo al buio, riuscii a percepire il calore dei suoi occhi. Mi guardava intensamente.

    «Non muoverti troppo...»

    Assunsi una smorfia addolorata.

    «Perché c’è una flebo?», gracchiai piano.

    Michael si sporse verso il comodino e accese la luce della piccola lampada al nostro fianco. Nei suoi lineamenti vi era una traccia di serietà e compostezza che mi fece dimenticare l’ansia per l’ago nel braccio. Le iridi scure e le occhiaie parlarono al posto suo. I suoi due oceani scuri navigarono dentro di me, attraversandomi l’anima.

    Era nervoso quasi quanto me, forse di più. C’era ancora una questione da risolvere tra me e lui. Nessuno dei due se l’era dimenticata.

    «Mi dispiace averti messo questa cosa», parlò sottovoce, abbassando lo sguardo. Si riferiva alla flebo. «Quando mia madre è venuta a cercarmi, per dirmi che ti eri svegliata, sono corso qui. Ma tu dormivi. Preferivo non aspettare il tuo risveglio, ero troppo preoccupato. È venuto il dottore a controllarti. Secondo lui non è niente di grave, è solo un calo di zuccheri e di pressione… e tanta stanchezza accumulata. Hai bisogno di dormire e di ricaricarti di energie. Tornerà a farti visita tra qualche ora».

    «Non ho bisogno di un dottore...», borbottai stropicciandomi gli occhi con il braccio senza ago.

    «Sì, invece».

    Lo osservai. Mi studiava severamente. Aveva uno sguardo irremovibile.

    Non seppi che rispondere. Mi voltai per leggere l’ora sulla sveglia.

    «Sono le sei e un quarto del mattino» disse Michael. Accennò un debole e afflitto sorriso. «Hai dormito più o meno sette ore...»

    Sospirai.

    «E tu? Hai dormito?»

    Ridacchiò sollevando le sopracciglia e scuotendo il capo. «No. In effetti no...» le sopracciglia si aggrottarono e il sorriso si attenuò. «Non ho dormito granché...».

    Annuii lievemente. Posi gli occhi sull'ago della flebo, ben nascosto da un cerotto bianco. Immaginai che quello che mi stessero dando fosse un concentrato d'acqua e zuccheri, o qualcosa del genere.

    «Da quanto sei qui?», chiesi.

    Il mio era un timido bisbiglio. Lo adocchiai di sfuggita. Michael puntava la mano ancora stretta nella mia e si umettava le labbra. Sentivo il cuore sul punto di scoppiare.

    «Da tutta la notte».

    Mai come allora desiderai che fossimo una cosa sola. Volevo lui, solamente lui.

    «Non ti ho mai lasciata da sola... non avevo il coraggio di farlo...». Mi ipnotizzò con gli occhi. Quest’ultimi si addolcirono notevolmente. «Non volevo ti risvegliassi senza di me al tuo fianco».

    Le farfalle nello stomaco si ribellarono con ferocia. Nessuno come lui era capace di farmi impazzire in quella maniera. Lo odiavo e lo amavo assieme, costantemente, molto più profondamente di quanto credessi possibile.

    Chiusi gli occhi per trattenere l'emozione che provavo dentro. Mi tirai su e, come per qualche ora prima, mi appoggiai allo schienale del letto. Non riuscivo a respirare.

    «Sarah...»

    La sua mano libera scivolò sulla mia guancia, tremante e calda. Riaprii gli occhi con un sussulto e lo guardai sull’orlo della commozione.

    Neppure Michael sapeva come tenersi a freno. Teneva le labbra serrate – lo sguardo fisso su di me –, mentre quelle dita scivolavano con delicatezza innata sul mio collo, timorose all’idea di farmi male. Niente era più bello delle sue iridi scure: sofferenti, carezzevoli, scintillanti e lussuriose. Percepivo la mia anima espandersi oltre i confini del corpo e sfiorare la sua.

    «Mi dispiace, piccola...», la voce si incrinò e gli occhi si inumidirono. «Mi dispiace così tanto...», scosse il capo in maniera impercettibile. «Non era mia intenzione arrivare fino a questo punto. Non era mia intenzione farti soffrire così tanto...»

    Rabbrividii colta dalla tentazione di baciarlo.

    Abbassai lo sguardo, inspirando faticosamente. «Michael, non...».

    «No, ti prego. Ho bisogno che tu mi ascolti ora».

    Anche i miei occhi furono punti da lacrime calde e salate. Non volli guardarlo. Mi avrebbe fatto crollare. Mi avrebbe distrutto e così facendo avrebbe distrutto ogni mia difesa.

    «Guardami...».

    Il tono della sua voce era pregante, commosso.

    «Guardami negli occhi. Per favore...».

    Il mio respiro tremò.

    Con un coraggio che non avrei pensato di avere, feci come mi aveva chiesto.

    Era bellissimo. Lo guardavo e vedevo l’amore in ogni sua forma.

    Boccheggiò e mi strinse le mani tra le sue. «Io ti amo, Sarah. Io ti amo. Ti amo oltre ogni limite del possibile, dell’immaginabile e del non immaginato, e ti amo in un modo che non sarò mai in grado di descriverti. Ti ho sempre amato, molto prima mi accorgessi di provare questo... questo sentimento che non ha nome... che non è solo amore... ma è qualcosa di più... qualcosa che non è di questa Terra»

    Il naso mi pizzicò.

    Mi bagnai le labbra e il ritmo del respiro accelerò. Una lacrima mi scese dagli occhi e poco dopo un’altra ancora. Incapace di usare le mani, tentai inutilmente di cancellarle strofinando le guance sulle mie spalle nute, di nascondere il viso per non mostrarmi vulnerabile.

    Anche Michael lasciò cadere una lacrima. Inspirò a bocca aperta e serrò le palpebre, irrigidendo la mandibola.

    «Da mesi ruoto intorno a te… ad ogni cosa che fai, che sei, che mi provochi dentro». Aprì gli occhi e sorrise... sofferente e dolce assieme. «Ho sempre voluto sapere tutto di te, fin dall’inizio. Volevo poterti stare vicino ogni secondo. Ho tentato di combattere questo desiderio e di tenerti distante, inconsciamente e non. Volevo tanto... non staccare mai gli occhi dai tuoi – verdi da perdere il fiato –, toccarti, abbracciarti, baciarti... dirti che ti amo... dirti quanto sei bella...»

    Allungò una mano sulla mia guancia umida; l’asciugò con tenerezza, inclinando il capo verso destra, e mi guardò come se davanti a lui ci fosse qualcosa di assolutamente incantevole. Assolutamente e smisuratamente incantevole.

    Continuai a piangere in silenzio.

    «Voglio condividere ogni attimo della mia esistenza con te. Dire che amo ogni singolo particolare di te, difetto o pregio che sia. Perché è così… ti amo nella tua completa essenza. Voglio amarti, voglio possederti, voglio essere l’unico per te come tu lo sei per me. Perché da quando sei parte della mia vita – dall’istante in cui sei entrata in casa mia, a novembre – sento che il mio cuore ti appartiene...».

    Scostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, abbassando gli occhi.

    Avrei voluto credergli.

    Tutto ciò che mi stava accadendo non era reale... lui non poteva amarmi. Non così.

    Perché tremavo?

    Il mio mento si alzò sotto la guida di un dito di Michael. Mi diresse in sua direzione e aspettò pazientemente che lo osservassi. Il suo sguardo era indescrivibile e nessun aggettivo sarebbe in grado di rappresentarlo. Era colmo d’affetto per me, semplicemente.

    «Dentro di te vedo una bellezza innata, una moltitudine di qualità che ti rendono speciale... tu sei l’angelo in Terra che è venuto a salvarmi, ne sono sicuro. Il dono di Dio, la grazia, ogni cosa».

    Mi misi una mano davanti alla bocca per non fare rumore mentre singhiozzavo.

    «Io ti ho amato in passato... ti amo adesso e ti amerò in futuro. E questo sarà per sempre».

    Tentai di coprire stupidamente il volto con la mano sinistra. Egli la allontanò e la prese fra le sue.

    «Sarah, guardami. Guardami, ti prego. Ne ho bisogno. Innamorarmi pazzamente di te, Sarah, è il mio risveglio... la mia rinascita sei tu. Siete tu, i miei figli, i miei fans, la mia famiglia. Siete le uniche cose per cui vale la pena lottare».

    La vista era offuscata.

    Volevo scappare.

    Mi abbracciò le guance con entrambi i palmi delle mani. Mi aggrappai alla camicia del suo vestito bianco che – notai solo allora – non si era cambiato dalla sera precedente. La strinsi e posi la mia fronte nell’incavo del suo collo.

    Michael mi accarezzava, piangeva silenziosamente, mi toccava e cercava in tutte le maniere di farmi percepire quel suo amore irreale.

    «Michael...», emisi con un gemito spezzato. «Ho paura...»

    «Non devi...»

    Tirai su col naso e tremai. «Io… non ho mai provato nulla di così forte».

    Michael mi cinse, stando attento al braccio inerme e disteso al mio fianco, quello con la flebo attaccata; delicatamente mi baciò la fronte e la nuca. Mi accarezzò i capelli, li allontanò dalla mia fronte per poter osservare meglio i lineamenti del mio viso.

    «Fallo per me», pianse. «Non respingermi...»

    «Non voglio che questo mi uccida...».

    «Sarah...»

    Mi sfiorò il viso, mi guardò con adorazione e, chinandosi lentamente, adagiò le labbra sulle mie. Mi legò a sé con più energia, lasciando che quel contatto con la sua bocca mi demolisse dentro. Dapprima dolce, lento, in seguito più scandito, più passionale. Mi sostenni alla sua spalla. Respirai di dolore e gioia nello stesso momento, percependo il ventre e il cuore in preda a sottili ma dolenti contrazioni.

    Lasciai scivolare la mano dalle spalle al suo collo, per tenermi stretta a lui.

    «Ti amo...», mormorò. Emanò un debole e rauco sospiro.

    Mi baciò ancora... e ancora, sinuosamente... e ancora, in modo sempre più scandito, ritmato... come se avesse paura di lasciarmi andare.

    «Tu non immagini quanto ho aspettato questo giorno...», scosse la testa ad occhi chiusi, fronte contro fronte. «Quante notti ho pianto...», mi accarezzò le gote. «Quante volte ho cercato parole sufficienti per spiegarti cosa provo...»

    Sorrise e mi baciò tenendo le palpebre abbassate su quegl’incantevoli pozzi oscuri. La lingua entrò in me soffice e gentile, assaggiandomi con esultanza. Esalai un sottile gemito che egli ricambiò un secondo più tardi con uno strozzato alito d’ossigeno.

    «Ti ho aspettato una vita intera».

    Sorrisi con le lacrime agli occhi.

    Volevo sentirlo su di me, volevo sentirlo dentro di me, volevo essere una parte di lui per sempre e sentire quel bacio per il resto della mia esistenza. Non volevo smettere, volevo continuare ad amare. Volevo continuare a sentirlo sulla mia pelle.

    Volevo semplicemente che durasse. Per sempre.

    *

    «Miss Morris» disse il dottore con voce pacata, togliendomi l'ago dal braccio. «Si sente meglio ora?»

    Voltai il capo dalla parte opposta per non vedere estrarre quel coso dalla pelle, tentando di non mostrare il mio fastidio. Quando tolse l’ago contrassi appena i muscoli del viso, totalmente presa dalla mia ridicola sceneggiata per apparire indifferente.

    Michael se ne stava in piedi, vigile come un faro, a braccia incrociate. Era in piedi ed immobile accanto al letto, tra la flebo e il medico; qualche volta quest'ultimo gli lanciava occhiate eloquenti, intimandogli silenziosamente (ed inutilmente) di farsi da parte. Il comportamento di Michael mi faceva ridere, mi commuoveva e mi contrariava assieme.

    Guardai il dottore e sospirai. L'uomo che si stava occupando di me era un uomo di mezza età, molto silenzioso e sulle sue.

    «Ha idea di cosa possa aver causato questo svenimento?», chiese scoccandomi una rapida occhiata.

    Mi mise un cerotto sul braccio frattanto che mi apprestavo a rispondere.

    «Sì, credo di sì» sussurrai. «In due giorni non ho mangiato niente e non ho bevuto molto. Avrò dormito sì e no sei ore. Quindi deduco di aver avuto un calo di pressione o di energia».

    «Ha per caso vissuto un’esperienza di stress o ansia, in queste ultime ore?»

    Corrugai la fronte e arrossii violentemente.

    A Michael venne da ridere, ma si coprì il viso con una mano: mi stupii per quanto fosse capace di leggere attraverso le mie espressioni facciali. Non osai guardarlo per l’imbarazzo.

    «Sì...», risposi al medico.

    Chiuse la valigetta con i farmaci. La flebo l’aveva fatta sparire già da un pezzo. Mi osservò. «Allora direi che è stato un insieme di cose. È raro che uno svenimento duri così tanto, ma direi che la stanchezza non l’ha aiutata a riprendersi nel giro di un minuto. La pressione era molto bassa quando ve l’ho misurata. Stia attenta in questi giorni: mangi, beva tanto e dorma. Ed eviti ogni forma di stress».

    Annuii.

    «Nel caso in cui si presentassero altri casi del genere?», domandò Michael con sopracciglia aggrottate.

    «Non penso che accadrà di nuovo se la ragazza seguirà questi consigli» confermò l'uomo. «Il suo corpo necessita solo di zuccheri e di relax. Se le cose non miglioreranno, chiamatemi».

    Michael accennò un “Sì” con il capo, ringraziando. Il medico prese la valigetta e mi salutò; Michael afferrò l'asta pieghevole della flebo. Ricambiai il saluto del medico sorridendo appena. Lui e Michael si diressero fuori dalla porta ma, prima di farlo, quest'ultimo mi dette un'occhiata amorevolmente protettiva. Arrossii e sorrisi piano.

    Quando i due furono usciti dalla porta non mi sembrò vero. Il cerotto sul braccio mi infastidiva. Volevo andare a farmi una doccia prima che Michael tornasse in camera: sicuramente lo avrebbe accompagnato all'uscita e gli avrebbe parlato...

    Mi alzai cautamente e mi immobilizzai sul posto, avvertendo un vuoto allo stomaco e un roco borbottio proveniente da esso. Respirai a fondo, ma non cambiai idea: andai alla ricerca di biancheria pulita, un paio di pantaloni larghi e neri e una maglia con cui potessi sentirmi comoda, magari a maniche corte. Avevo intenzione di farmi un bagno solo per freddare i miei ormoni impazziti e meditare su quello che era accaduto fra me e Michael nel giro di quelle 24 ore.

    “Che diavolo devo fare ora?”, mi domandavo.

    Dovevo comportarmi come se niente fosse? Dovevo aspettare che fosse lui a prendermi e baciarmi? Ad abbracciarmi e dirmi ancora “Ti amo”? O dovevo fare io il primo passo, mostrarmi volenterosa di riprendere ciò che avevamo interrotto?

    Un giorno prima eravamo amici, migliori amici. E adesso…

    Mentre sceglievo la maglietta da indossare, Michael entrò in stanza. La sua presenza mi strinse la pancia dall’emozione.

    Maledizione...

    Di fretta nascosi la biancheria intima fra pantaloni e maglietta. Mi guardò perplesso.

    «Che stai facendo?»

    «Vado a fare una doccia...».

    Si avvicinò scuotendo il capo.

    «Sto scegliendo il cambio per...»

    «No, assolutamente no Sarah». Mise le mani sui fianchi inclinando la testa da un lato. «Prima devi fare una buona colazione, hai sentito cosa ha detto il dottore...».

    «Ma la faccio... dopo...», borbottai.

    Sollevò un sopracciglio. Era contrariato, ma divertito. Più mi si avvicinava, più vibravo d’ansia e trepidazione. Abbassai lo sguardo con le gote che punzecchiavano dal calore.

    «Neanche mia madre mi tratta così...», mi crucciai.

    Michael si sistemò a pochissimi centimetri dal mio corpo. Mi sfiorò il braccio con il torace.

    «Forse ti tratto così», sorrise improvvisamente, «perché ci tengo troppo, piccola incosciente».

    «Be’, ti ringrazio...», sollevai le sopracciglia ridacchiando, «ma non è necessario che tu mi faccia da balia! Ce la faccio a stare in piedi, non sono mica sul punto di morire... posso resistere ancora un po’, fidati!»

    Più lo guardavo, più pensavo che avesse uno sguardo da pesce lesso. Doveva essere proprio fuso d’amore per ammirarmi così.

    «Uhm...», mugugnò insoddisfatto.

    Alzò gli occhi al cielo con un sorrisetto furbino. Diresse le mani lungo i miei fianchi, mi pose di fronte a lui e mi strinse. Ero pastafrolla fra le sue dita. Mi abbracciò così amorevolmente che mi sgretolai.

    «Io credo che stavolta dovrai arrenderti al mio volere».

    «Stavolta?», esclamai fintamente scioccata, sbarrando le palpebre.

    Rise splendidamente, ma continuò il suo discorso imperterrito.

    «...perché non ti lascio fino a quando non avrai deciso di mangiare qualcosa».

    Mi scoccò un bacio sulla fronte e mi mancò il respiro. Lo osservai incantata. Mi drogava senza iniettarmi alcuna sostanza stupefacente. Sorrideva in maniera splendida.

    «Lo sai», emisi in un fiato, «che se io decido di non obbedire al tuo volere – e tu deciderai di tenermi qua fino a quando non avrò cambiato idea – morirò di fame lo stesso?».

    Corrugò la fronte ed io sorrisi.

    «Le cose non cambiano molto, effettivamente...», borbottò perplesso.

    Si chinò sul mio collo e lo baciò, lentamente e con passione. Persi qualche battito cardiaco frattanto che il basso ventre si raggomitolava su se stesso.

    «Questo vorrà dire che ti dovrò portare in braccio fino alla cucina...».

    Mi allontanai con un gesto frenetico del collo. «A proposito!». Michael m’osservò confuso. «Non dovrai più prendermi in braccio, ok?», arrossii. «Io sono pesante, non devi spaccarti la schiena per me!»

    Sorrise.

    «Allora obbedisci a me, subito», alzò le sopracciglia sogghignando. «Altrimenti lo rifaccio un’altra volta... e, per la cronaca, non mi sono spaccato la schiena. Ero così preoccupato per te che non ci ho pensato due volte».

    «Adesso non senti male, ma vedrai fra due giorni!», annuì violentemente, manifestando tutto il mio disappunto. «Anzi, ti do tempo poche ore per sentire i primi segni di malessere».

    Mi baciò sulla guancia con una risatina sottile.

    «E non tentare di placarmi così, che tanto non ci riesci...».

    «Uhm...», mi baciò una seconda volta, più vicino alle labbra, mentre io tentavo inutilmente di resistergli, ridendogli in faccia. «Dici davvero?». Un terzo bacio. «Io vedo che fai molta difficoltà a resistermi, invece...», sussurrò allegramente.

    Emisi un gutturale borbottio di protesta, una specie di “Grrr” che, in realtà, appariva un contrariato ma gioioso miagolio, la silenziosa richiesta di ricevere ancora le sue labbra sulle mie.

    «E va bene», gli guardai la camicia bianca, stringendomi ad essa con le dita. «Obbedisco...»

    Mi baciò il naso e lo arricciai con un sorriso.

    «Vedo che hai capito».

    Mi prese la mano sinistra, facendo qualche passo indietro e alla cieca.

    Rimanemmo in silenzio per un po’... a fissare uno gli occhi dell’altro e le nostre dita intrecciate.

    Tutt’e due avremmo dovuto abituarci a quel cambiamento nella nostra relazione. Era una novità non facile da “metabolizzare” subito, bisognava avere pazienza. Solo quando saremo stati da soli, ognuno per conto nostro, avremmo potuto riflettere e sorridere, forse, per la strana situazione che stavamo vivendo.

    Accarezzò il dorso dell’arto e poco dopo, con un cenno della nuca, mi invitò a seguirlo. Mi fissava con il Sole negli occhi, e io avrei pagato per vedere se anche il mio – almeno una volta – avesse assunto quelle stesse sfumature di felicità.

    Quando fummo dinanzi alla porta – non prima di aver appoggiato il cambio pulito sul letto disfatto – mi arrestai.

    «Quando hai intenzione di cambiarti?».

    Sbatté le palpebre. «Uhm?»

    «Sei troppo bello con questo completo», bofonchiai.

    Michael spalancò la bocca senza dire nulla. Qualche secondo dopo scoppiò a ridere. Arrossì e tentò di mettersi una mano davanti alla bocca per placarsi. Mi tirò a sé con dolcezza.

    «Ti eccito?», mormorò soddisfatto.

    Feci una smorfia che era tutto un programma, un misto fra lo sdegnato e l’eccitato.

    «Be’», esclamai, sollevando un sopracciglio. «Direi che è l’abito perfetto per un femminicidio di massa».

    La sua risata scemò presto. «Be’, non è che tu sia da meno…».

    Lo scrutai con dubbiosità.

    Michael si morse il labbro inferiore.

    «Io?»

    Michael non rispose. Sorrise strafottente.

    Anch’io indossavo lo stesso abito di ieri. Quando ricordai la profonda scollatura del vestito – quella sul seno – arrossii appena. Michael fece scivolare la mano libera sui miei fianchi, spingendomi appena verso la porta chiusa della camera. Mi appoggiò al legno e io, inerme, lo scrutai eccitata ed intimorita al tempo stesso.

    Guardò la mia bocca, umettandosi le labbra. I suoi occhi luccicavano.

    «Il tuo vestito è proprio il contrario dell’innocenza».

    La sua voce era roca.

    Pose il viso nell’incavo del collo e cominciò a baciarlo con movimenti lenti e rumorosi, piccoli schiocchi che – al mio orecchio – erano come spari nella notte. Risalì verso l’orecchio.

    «Io...», gemetti.

    All’improvviso tornò sulle mie labbra, agguantandomi le guance con le mani. Con energia cercò ogni centimetro di pelle, l’assaporò, la gustò e la schiuse penetrandomi con la lingua; ricambiai utilizzando lo stesso ardore, la stessa devozione, emettendo senza volere un basso sospiro di piacere. Tremai.

    Michael si avvicinò di più, sospirando pesantemente. Il suo gusto divenne il mio, il mio divenne il suo. I secondi si persero uno dietro all’altro, seguiti dal ritmato aumento dei baci.

    Poi, a poco a poco, mi lasciò andare.

    Ci guardammo intensamente.

    Avevo il fiatone. Io ero smarrita e lui in cerca di autocontrollo.

    Sorrise un po’ scombussolato. «È meglio che andiamo, Moony...», mormorò. Il petto s’alzava e s’abbassava con scatti rapidi e fieri. «Altrimenti le cose potrebbero prendere una piega straordinaria...»

    Non risposi, troppo invaghita da lui e dal suo sapore per trovare le parole giuste.

    Quello che mi stava facendo era la migliore tortura a cui fossi mai stata sottoposta, un meraviglioso piacere, troppo grande da reggere ma impossibile da resistere. Lui era la mia bellissima condanna.

    Michael riafferrò la mia mano. Mi posò un bacio sulla fronte ed io chiusi gli occhi. Gli sorrisi ed egli fece lo stesso. Poi, silenziosamente, ci incamminammo verso la cucina.


     
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    Capitolo Trentadue: Le Montagne Russe


    Mi lasciai sommergere dall’acqua, chiudendo gli occhi.

    L’idromassaggio era acceso, coccolava il mio corpo dolcemente. L’acqua era calda, amabile e destabilizzante. La musica di R. Kelly alleggiava nell’aria grazie ai potenti impianti audio installati nel bagno.

    Adoravo quella stanza. Era grande e spaziosa, illuminata da luci regolabili manualmente. La vasca era bianca, più o meno di forma rettangolare ma con gli spigoli arrotondati, posta in un angolo estremo della stanza proprio accanto ad ampie finestre; il bordo della vasca era in marmo nero e lucido. L’acqua scorreva dal becco di un cigno dorato.

    Lasciai cadere la testa all'indietro, fissando la figura di quell’incantevole animale.

    Tante cose erano cambiate rispetto ai mesi precedenti. Solo cinque giorni prima Michael e io avevamo ufficialmente detto addio al vecchio rapporto di amicizia, trasformandoci in una specie di migliori amici e al contempo amanti.

    Si poteva essere amanti e migliori amici assieme?

    Probabilmente sì, ma io sentivo di non rientrare in nessuna delle due categorie. Amare Michael, stare con Michael, essere una cosa sola con Michael anche solo attraverso uno sguardo, non era cosa da potersi classificare, figuriamoci se sarebbe potuto esserlo la nostra relazione. Era un legame che non si poteva etichettare – almeno secondo me. Non eravamo né fidanzati, né amici, né tanto meno padre e figlia o marito e moglie, o fratello e sorella. Eravamo un po’ di tutto. Anime gemelle? Non avevo la presunzione di esserlo, non mi passava neanche per la testa. Ci avrei sperato, ma sapevo che in qualche parte del mondo ci sarebbe stata un’altra donna capace di renderlo più felice e completo di me. Dovevo accettarlo, godermi quel che veniva senza preoccupazioni.

    Ma a volte venivo presa dallo sconforto.

    Improvvisamente la gioia si trasformava in dubbio, paranoie, paura, e diffidenza. Cominciavo a definirmi parte di qualcosa che non poteva esistere per davvero. Non capivo che felicità potesse trarre Michael da me, stando in mia compagnia. Forse era questo che metteva in caos tutto il mio mondo. Avevo paura, non potevo negarlo, e c’erano momenti in cui avrei desiderato tornare indietro... attimi in cui lo sconforto prendeva possesso di me e mi raggelava.

    E Michael, come se lo percepisse, mi stava accanto. Silenziosamente comprendeva quando avevo bisogno del suo sostegno. E di colpo, grazie al suo amore, tutte le angosce si zittivano. Magari momentaneamente, ma succedeva.

    La scuola e i bambini mi avevano rapito quasi tutti i giorni; Michael era totalmente concentrato su nuovi pezzi in sala di registrazione e sulle udienze preliminari del processo per le accuse di pedofilia. Faticava a fare pause dal lavoro: quando si puntava, non lo si smuoveva con niente. Ciò nonostante, quel venerdì tornammo a Neverland come di routine.

    Io e Michael stavamo insieme alla sera, finita di raccontare la fiaba ai suoi bambini, oppure quando questi giocavano assieme ed erano sotto il controllo di Grace. Allora Michael mi sorrideva, mi abbracciava, chiudeva gli occhi e cominciava a baciarmi. Nessuno dei due emetteva parola. Io personalmente non ne ero capace.

    Non ero una persona sdolcinata e, tutto sommato, neanche Michael lo era. Eppure non rifiutavo mai l’affetto che mi offriva. Amava accarezzarmi i capelli e io di risposta le mani; mi osservava tanto, io arrossivo e gli dicevo di smetterla perché mi metteva in imbarazzo, e lui rideva... guardavamo film, ridavamo come due scemi, mi invitava a fare l’idiota comportandosi come un ragazzino, e io gli andavo dietro come se niente fosse: era bellissimo, perché non avevamo perso la voglia di essere amici.

    La cosa che mi metteva più angoscia era l’avvicinarsi della fine della scuola di Prince e Paris. Per i normali bambini delle elementari era finita da un pezzo, ma avendo perso qualche settimana di lezione a novembre, il loro programma non era stato terminato. E Michael ci teneva all’istruzione dei suoi bambini.

    Quasi tre mesi di vacanza e io avrei preso una pausa... ma cosa avrei fatto? Sarei rimasta a Neverland? Non avrei potuto vedere Michael per un bel pezzo, probabilmente. Sarebbe stato troppo sospetto. Che cosa avrebbe detto lui al riguardo? Mica poteva tenermi con sé per sempre.

    Mi sistemai meglio il mollettone dietro la nuca, stando attenta a non bagnare i capelli, e mi strinsi le ginocchia al petto. Un fremito mi avvolse il corpo al ricordo delle mani di Michael sulla pelle. Me le infilava sotto la camicia, sotto la canottiera… arrivava ai fianchi, alla schiena, e qualche volta anche ai glutei. Gli piaceva baciare la mia carne e sentirne l’odore di pulito e io facevo lo stesso. Mi diceva che avevo un buon profumo. Amava darmi piccoli buffetti sul sedere, sulle cosce o sul viso; cercava di abbassarmi le spalline del reggiseno come sempre, studiava le mie curve quando capitava che mi dovessi chinare per afferrare qualcosa... con un sorriso indefinibile sul volto.

    Qualcuno bussò alla porta e il mio istinto fu subito quello di alzare la voce dicendo «Occupato». In quella casa erano tutti molto educati e rispettosi: non si entrava in una stanza senza aver prima chiesto il permesso.

    «Sarah, sono Michael».

    Giusto, i bambini erano andati al parco con Grace.

    «Scusa se ti disturbo, posso entrare un secondo?». Piccola pausa. «Penso di aver lasciato dei demo in bagno e mi servono. Ci metto poco».

    Lasciato dei demo in bagno?

    Guardai l’acqua e notai che le bolle e la schiuma del potente getto idromassaggio riuscivano a coprire le mie parti nude. Ma perché cavolo stavo cercando di nascondere il mio corpo? Ero forse insicura?

    «Oh, sì» dissi crucciandomi dal dubbio. «Entra pure»

    La porta si aprì di poco e non persi l’occasione di nascondere le mie curve con le mani; solo il seno veniva scoperto per metà, o quasi.

    Michael entrò a passo deciso. Sotto il mio sguardo impenetrabile si avviò verso lo stereo e, chinandosi a terra, aprì un cassetto; estrasse un paio di CD da una scatolina chiuso a chiave. Si alzò e con una lentezza esasperante li osservò uno alla volta, corrugando la fronte. Umettandosi frequentemente le labbra rimase in silenzio, muovendo il capo a ritmo di musica. Solo il basso rumorio dell’idromassaggio e l’inizio della canzone Your body’s calling sembravano far scorrere il tempo.

    Chinai lo sguardo sulla porzione di seno appena visibile. Avvicinai le ginocchia al petto – ancor più di prima – e osservai il cigno d’oro alla mia sinistra. Rimasi puntata su di esso per un periodo indefinito, ma sentendomi fin troppo osservata, volsi la mia attenzione verso Michael; le sue iridi si spostarono velocemente dal mio viso ai suoi CD.

    Si era incamminato verso la finestra, sedendosi a bordo della vasca, su un punto non bagnato del marmo nero. Incrociò una gamba sull’altra. Fingeva di esaminare altro, ma in realtà sapevo benissimo dove stesse vagando il suo sguardo. Con un’espressione leggermente maliziosa rimasi a osservarlo in silenzio, cercando di trattenere un sorriso divertito. Chissà quanto avrebbe portato avanti quella pessima messinscena.

    «Uhm». Michael drizzò la schiena. «Strano...»

    «Che cosa?», chiesi mordendomi un labbro per non scoppiare a ridergli in faccia.

    «Pensavo di aver lasciato dei demo qui, ma non ci sono», mormorò. Mi gettò uno sguardo penetrante, uno sguardo da ragazzino ingenuo per niente credibile.

    Risi, scuotendo il capo. «Sì, certo...»

    Alzò un sopracciglio.

    «Hai controllato bene il cassetto?», ridacchiai ignorandolo. «O da qualche altra parte?», mi sistemai un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, accennando al ripiano chiuso a chiave con un gesto del capo.

    Lo guardai e non rispose. Anche a Michael veniva da ridere.

    «No, Sarah», si sistemò bene sul posto, poggiando il peso su una mano. La sua espressione era un misto fra dubbio e ilare curiosità. «Ripetimi cosa hai detto, non penso di aver capito...»

    «Niente, niente…», sghignazzai sventolando la mano davanti alla faccia per chiudere il discorso.

    Michael non fece una piega. Rimase a studiare ogni dettaglio, ogni capello fuori posto, ogni lineamento del mio volto e ogni espressione che facevo inconsapevolmente. Mi analizzava e ciò mi faceva arrossire, ma non smettevo di ricambiare con un’occhiata altrettanto attenta e intensa.

    Ad un certo punto parlai, alzando un angolo delle labbra in un sorriso birichino. «Vuoi rimanere a scrutarmi fino a quando non finisco il bagno?».

    «Anche dopo, se vuoi».

    Risi, facendo cadere la testa all’indietro.

    «Perché?», domandò lui, curioso istigatore. Sorrideva appena. «La mia presenza ti infastidisce per caso?». Posizionò il busto in mia direzione, poggiando anche l’altra mano sul marmo.

    Il suo sguardo era eccitante. Serietà e desiderio in una cosa sola. In più era vestito completamente di nero: pantaloni neri stretti e camicia leggera dello stesso colore. I primi due bottoni erano slacciati. Era una combo micidiale. I capelli erano perfettamente ondulati come al solito.

    «No, no, figurarsi!», esclamai con schiettezza, ridacchiando con palese ironia. «Ma mi pare strano che tu possa dimenticare dei demo proprio qui. Una parte di me, forse l’istinto, mi fa pensare che tu sia venuto apposta per controllarmi...», alzai un sopracciglio.

    Sospirai e senza il minimo pudore o ritegno lasciai che il polpaccio destro uscisse dall’acqua, seguito immediatamente dal ginocchio; drizzai il piede distendendo la gamba, poi essa compì un mezzo cerchio e si appoggiò sul ginocchio opposto. Sorridevo con nonchalance, come se quel gesto fosse fin troppo innocente e casto.

    Il mio misero e buffo tentativo di attirare il suo sguardo riuscì alla perfezione. Michael, attento, osservò il movimento della gamba: le labbra si incurvarono in un tenero sorriso, mentre gli occhi proiettarono esplicitamente un enigmatico bagliore di frastornazione.

    «Non capisco proprio da dove ti nascano certe idee in testa», mormorò sottolineando le ultime parole con divertimento. Mi puntò e mi squadrò profondamente. «Potrei dire che quella che provoca sia proprio tu»

    Sorrisi maliziosamente, stringendomi nelle spalle. «Io non direi proprio».

    «Ah no?», esclamò inarcando le sopracciglia.

    Stando attenta ai movimenti che facevo mi coprii i seni e mi avvicinai al bordo vasca, quello dove era seduto. Mi osservò mentre stringevo le mani sul bordo e adagiavo il capo su di esse. Iniziai a tirare fuori discorsi senza senso, con uno sfrontato sorriso in faccia.

    «Lo sai che da piccola amavo il cartone La Sirenetta? E ti dirò una cosa che ti farà ridere un sacco: ogni volta che andavo al mare e beccavo uno scoglio, mi fingevo Ariel».

    Ridacchiò per quella mia confessione, scuotendo il capo.

    «Poi mi sono resa conto che le vere sirene non sono affatto come Ariel. Sono tentatrici e portano i marinai e i navigatori a morte certa». Gli scoccai un'occhiata furbetta. «Se fossi una di loro, ti avrei già fatto cadere in acqua e affondare...»

    «Lo stai per fare, principessa», mormorò appena.

    Arrossii sorridendo compiaciuta.

    Michael si umettò nervosamente le labbra. Respirò a fondo, a pieni polmoni, innalzando un muro di calma apparente. I suoi due occhi scuri esaminavano tutto, anche il seno che sporgeva appena dal livello dell'acqua.

    «Non lo so, sai?» arricciai il naso scetticamente. «Penso che non sarei mai in grado di farti cadere in vasca. Non sono un bottino così allettante, e tu non avresti mai il coraggio di immergerti...», lo provocai con un sorriso di sfida.

    Michael distese la fronte in un’espressione sorpresa. Pochi secondi più tardi la corrugò, mordendosi il labbra inferiore. I suoi occhi si accesero dal divertimento e dall’eccitazione. Mi puntò con un dito.

    «Tu mi stai sfidando

    Mi morsi le labbra anch’io e mi trattenni dal ridere, ma non abbassai lo sguardo.

    «No, sto semplicemente alludendo alla verità!».

    S’incupì. «Be’, ti sbagli».

    «Io non credo».

    «Lo fai solo per provocarmi».

    «Perché dovrei?» risi. «Non ne ho alcun motivo. Hai troppo rispetto della mia intimità per entrare in questa vasca con me. Non lo puoi fare».

    Michael fece per dire qualcosa, ma si trattenne. Mi guardò con due occhi carichi di sfida. Aveva compreso che mi stavo divertendo.

    «D’accordo» affermò all’improvviso, in tono serio. La sua faccia era il riflesso del lato permaloso del suo carattere, eloquente al massimo. «Hai ragione».

    Michael si alzò in piedi con una faccia di assoluta imperscrutabilità. Mi ignorò, poggiò i CD nel ripiano dal quale li aveva presi, richiuse a chiave e si incamminò verso la porta. Tutto questo senza dirmi una parola.

    «Dai, Michael…!» lo richiamai ridendo.

    Il mio tono pregante lo fece fermare sul posto. M’osservò fintamente gentile, le labbra serrate e le sopracciglia inarcate in una smorfia di leggero nervosismo. Sapeva essere davvero suscettibile. Sbatteva le palpebre in maniera molto veloce.

    «Uffa…» mormorai sbuffando. «E io che volevo chiederti un bacio».

    Silenzio.

    Il rumore dei passi di Michael fu attutito dalla musica movimentata. Alzai lo sguardo e me lo ritrovai chinato sulle ginocchia, con le mani appoggiate sulla vasca, la camicia un po’ sbottonata e quello sguardo in grado di farmi impazzire gli ormoni in un solo secondo. Il suo viso marcato, la fossetta del mento che mi mandava fuori di testa... i capelli corvini e leggermente ondulati... e quegli occhi in grado di scavare nell’anima in un istante.

    Lo desideravo ardentemente.

    Mostrandosi più sereno accostò le labbra alle mie e vi scoccò un gentile bacio. Ricambiai con la stessa amabilità, nascondendo il dolore che contrasse i miei poveri addominali e la mia femminilità. Si separò alzando gli angoli della bocca in un dolce sorriso.

    «A più tardi, sirenetta...» bisbigliò carezzevole.

    Un colorito rosato mi dipinse le guance. Si alzò in piedi e mostrandomi la lingua uscì dalla stanza.

    Abbassai lo sguardo.

    Quando sarei dovuta andarmene per le vacanze estive… be’, quelli sarebbero stati alcuni dei momenti che mi sarebbero mancati di più. Tre mesi, in fin dei conti, erano pochi. Ma il sentimento si sarebbe affievolito o si sarebbe rafforzato?

    Di che cosa avevo paura?

    Di me o di lui?

    Non passò neanche un minuto che, a metà della canzone Ignition (Remix), la porta si riaprì una seconda volta. Era Michael.

    Lo fissai sconcertata.

    Era tranquillo e composto. Chiuse la porta con un solo gesto del polso. Era concentrato, canticchiava silenziosamente la canzone, ma quell’accentuato sorriso in faccia non mi convinceva per niente.

    «Michael…?».

    Mi coprii per una seconda volta il seno con le mani.

    Michael mi scoccò una rapida occhiata. Un guizzo di luce nei suoi occhi e l’alzarsi di un lembo delle labbra mi fece intendere che le sue intenzioni non erano affatto caste. Lo guardai con le labbra socchiuse per un paio di secondi, fino al momento in cui non persi il fiato completamente.

    Michael si era seduto sul bordo di marmo nero della vasca, proprio come poco prima, ma si stava tirando via i mocassini. Poco dopo si tolse pure i calzini. Si alzò in piedi.

    «Michael…?!» lo chiamai con un fil di voce, ridendo.

    Sollevò le sopracciglia, fingendosi sorpreso. «Sì?»

    Senza rispondere lo guardai a bocca aperta mentre si sbottonava la camicia. La sua pelle era macchiata da alcuni segni di vitiligine, eppure era stupendo. Incantevole.

    Non potevo credere lo avrebbe fatto sul serio.

    Spalancai le palpebre e arrossii, capendo le sue intenzioni. Mi portai una mano sulla fronte, ridacchiando nervosamente.

    «Michael...» mormorai, imbarazzata. «Io scherzavo!»

    Ridacchiò piano, dirigendo le dita sui pantaloni scuri. «Prima ti sei mostrata decisamente convinta della tua opinione, o sbaglio? Sai che non metto in dubbio la tua parola. Tu mi provochi, e allora rispondo di conseguenza...»

    Abbassò la zip dei pantaloni e slacciò l’unico bottone che li teneva sui fianchi. Se li abbassò fingendo totale indifferenza, come se quella fosse una cosa da nulla. Ma davanti ai miei occhi risaltò subito quel particolare, quello strano allettante particolare che fece contrarre le pareti del basso ventre. Era tenuto in un paio di boxer bianchi, non troppo stretto a dire il vero, ma nemmeno in grado di “attenuare” la... be’, sì, avrete immaginato di cosa sto parlando.

    Avvampai vedendolo immergere un piede nell’acqua. Emisi un gracile mormorio, sconcertata ma divertita, indecisa se osservarlo e ridergli in faccia… o se saltargli addosso.

    Con un sorriso immerse tutte e due le gambe nell’acqua calda, si lasciò scivolare lentamente e sospirò piano. Appoggiò le mani sugli angoli della vasca. Mi studiò incuriosito e strafottente. Io mi ero raggomitolata nella parte opposta alla sua, troppo sbigottita per parlare; io ero nuda, mentre lui indossava soltanto un paio di boxer. Ero in trappola. Nella sua trappola.

    Alzò un sopracciglio. «Ancora convinta che io non sia capace di qualcosa?» domandò allegramente.

    I suoi occhi non avevano più un accenno di innocenza.

    «In teoria», gracchiai arrossendo, «io non ho detto che dovevi venire dentro con i boxer...»

    «Avresti preferito senza niente?» chiese sorridendo apertamente e maliziosamente, contraendo la mia intimità con una sola occhiata.

    «No, no!» esclamai. «Non oserei mai chiederti tanto!»

    Ero una scema. Qualunque donna sana di mente avrebbe detto di sì al posto mio.

    Michael inarcò maggiormente il sopracciglio sinistro.

    «Ma lo avresti preferito?».

    «Io...»

    Riuscii a ingoiare la saliva a fatica. Non risposi, vedendo come Michael – con sorrisetto sbarazzino e provocatorio – allontanava mani e corpo dal bordo vasca per avvicinarsi a me.

    «Michael...», risi imbarazzata e divertita assieme. «Non fare il dispettoso! Dai, ti credo, hai ragione…!», mi prese il polso che copriva una porzione di seno. «Michael!», gli risi in faccia arrossendo.

    «Non dirmi che ora hai paura...» sussurrò con voce roca.

    Quando utilizzava quella voce diventava ancora più sensuale del solito. Era un tono basso, maturo. Mi guardava come un leone ammira la sua preda. Come se non aspettasse altro che assaggiarmi. Quella morsa al ventre non smetteva di fare male.

    «In realtà ne ho tantissima!», ridacchiai nervosamente, cercando di fargli lasciare la presa, sistemandomi un ciuffo dietro l’orecchio.

    Rabbrividii, ma Michael non mi mollò neanche per un istante. Sembrava che riuscisse a vedermi nuda anche senza l’acqua, la schiuma e tutto il resto. Era ipnotizzato da me. Mi possedeva senza avermi ancora posseduto davvero.

    «E perché avresti paura?», sorrise.

    Mi tirò verso sé, mentre l’altra mano avanzava verso il mio viso. Le distanze si riducevano senza che io me ne accorgessi. Le mie guance scottavano e abbassai gli occhi di riflesso.

    «Sai, a volte non penso che ti piaceranno le sorprese che ti riserva il mio corpo» dissi con sarcastico divertimento, scuotendo il capo.

    Ma nonostante il tono allegro della mia voce, il suo sorriso si spense. La sua espressione felina e segretamente divertita tramontò lasciando spazio ad un’occhiata cupa e pensierosa. Compresi che quello che gli avevo detto non gli piaceva. E il mio tentativo di buttarla sul ridere non aveva funzionato.

    «Tu davvero ti preoccupi di questo?».

    Non risposi. Guardai le tende per non morire sotto la severità di quelle iridi perforanti. Sentivo di essere calda in viso come mai lo ero stata fino ad allora. Non ero sicura di volergli spiegare tutte le insicurezze che provavo. Anche io, di tanto in tanto, non mi piacevo. È una cosa normale.

    «Non credi di piacermi?».

    Pausa. Le mani che mi stringevano mollarono un po’ la presa.

    Borbottai. «Tutti gli uomini vorrebbero una donna con un bel fisico longilineo al proprio fianco. Con le curve, sì, ma nei punti giusti… non è che io sia ‘sta Venere greca».

    «Tutti gli uomini?» chiese lui.

    Lo adocchiai di soppiatto. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e non sapeva che rispondere; ma poi, d’improvviso, prese un respiro profondo. Scosse il capo. Sorrideva.

    «Sarah…».

    Si umettò le labbra. La sua espressione era intenerita.

    Rimasi immobile, sulla difensiva, ma mi lasciai trascinare dalle sue mani, piano pianino. Arrossii senza guardarlo negli occhi, respirando a fondo, autoinvitandomi a calmare gli ormoni impazziti.

    «Lascia andare la presa...» mormorò affabile.

    Lo osservai e vidi che indicava il seno.

    Dopo alcuni secondi di muta riflessione scostai le braccia e la mano sinistra dal petto. Ero così imbarazzata che sentivo uscire il fumo dalle orecchie come una locomotiva. Mai mi ero sentita così insicura. Si vedeva quasi tutto, compresi i capezzoli, già inturgiditi nel momento in cui era entrato nella vasca. Michael sorrise dolce e, incatenando lo sguardo al mio, si appoggiò con la schiena sul bordo della vasca. Distese le gambe e mi invitò a sedermi sopra di lui. Aprii le gambe per potermi posizionare sopra le sue cosce, attenta a non sfiorare la sua intimità.

    Mi sentivo così impacciata e al contempo stesso così protetta: le sue mani mi tennero dolcemente per la vita e mi fecero sentire nel posto più sicuro al mondo. Non avevo paura di niente, se non di quelle iridi intense come non mai. Tutto il resto, avvolta nel suo abbraccio, scompariva.

    Una volta sopra di lui, Michael mi guardò negli occhi e rimase in silenzio per un po’. Le sue mani scivolarono in basso, verso i fianchi coperti d’acqua. Li carezzò a lungo e analizzò amorevolmente il seno prosperoso. La lussuria nella sua espressione mi velocizzò il respiro.

    «Non devi più dire certe idiozie» bisbigliò.

    Le sue dita scesero ancora più in basso, verso i glutei. Trattenendo il fiato avvicinai il ventre al suo. Chiuse gli occhi ed inspirò a fondo, continuando quella perlustrazione al mio corpo con le dita.

    «Se mi sono innamorato di te è per la tua anima. Ma il tuo corpo, per quanto impossibile possa sembrarti...», mormorò rocamente. «E le tue curve...» La mano sinistra si diresse sul seno destro. «Queste adorabili curve...» Lo prese fra le dita e lo alzò piano. «Le amo con tutto me stesso».

    Pose le labbra sul capezzolo, schiudendole per farlo entrare. Lo portò piano in bocca e lo baciò appassionatamente, esitando e prendendo delle pause di pochi secondi tra un bacio e l’altro, leccandolo con maestria e gustandolo fino a irrigidirlo più che poté. L’altra mano avanzò sulla coscia e la massaggiò con devota cura, avvicinandosi e allontanandosi dalla mia zona più intima.

    Rilasciai un piccolo e strozzato gemito.

    La mia carne bruciò con ardore sotto le sue carezze. Fremevo sotto la sua guida, le palpebre si riducevano ad una fessura nonostante la voglia di guardarlo fosse immensa. Il cuore pareva sul punto di scoppiare.

    Michael abbandonò il capo fra i due seni, mi baciò e massaggiò con la mano sinistra il capezzolo, torturandolo e torturandolo ancora, fino a farmi gemere una seconda volta. Le mani scesero e si fermarono sul bacino, accarezzandomi la schiena e delineando la spina dorsale con due dita. Essa si sciolse e mille brividi parvero avvolgermi in un abbraccio destabilizzante.

    Michael mi lanciò uno sguardo intenso, duro, sensuale. I suoi occhi erano lo specchio dei suoi sentimenti.

    Serrai le palpebre e inclinai la testa all’indietro, sentendo le sue dita avviarsi verso la mia zona segreta e, fino a poco prima, protetta. Emisi un sospiro soffocato, mentre il seno si alzava e si abbassava a ritmo irregolare. Mi avvicinai al viso di Michael e lo baciai vicino alle tempie, bramandolo sconsideratamente.

    Con due dita della mano libera mi prese il mento e lo abbassò, premendo e assaporandomi le labbra. Tutto fu più rapido, più energico. Mugolai nell’istante in cui percepii l’altra sua mano vicinissima alla mia intimità. Quando fu sul punto di entrare in me si bloccò, lasciando che la mia schiena si incurvasse appena. Il dito medio saliva e scendeva piano, impercettibilmente, sulla zona più sensibile del mio corpo.

    Mi tenni saldamente alle sue spalle, rabbrividendo, e nascosi il viso tra i suoi capelli.

    Respirai a fatica.

    Scese ancora, ed infine entrò dentro. Lanciai un gemito breve ma acuto, alzando il viso verso l'alto e spalancando labbra e palpebre. Mi baciò il collo con lentezza. Come la lama di un coltello affonda la carne, scavò in me eseguendo le manovre più pazze e sconsiderate che avessi mai subito da un uomo.

    «Michael...», piagnucolai. «Oh... Dio...» chiusi gli occhi sentendolo più forte e più rapido dentro di me. «Michael...», ansimai.

    Il bacino si ritrovò a seguire le pressioni delle sue dita con movenze sinuose e lente. Le mani si tennero alle sue spalle nel tentativo di non far cedere le gambe. Avvicinai il seno alle sue labbra. Non attese oltre per assaporarli con dolcezza.

    «Sarah...» sussurrò. La sua voce era molto più bassa del solito, incontrollatamente rauca. La sua espressione era profonda e sicura. «Chiamami per nome...»

    Spinse di più e velocizzò il ritmo. Gemetti. La musica allo stereo diventava sempre più lontana.

    Era impossibile credere che solo con due dita fosse in grado di farmi impazzire così. Sapeva benissimo dove toccarmi. Non ero più nella condizione di sapere cosa stavo facendo. Non sapevo dove ero, quanto tempo fosse passato... niente.

    Spinse ancora, aumentando le pressioni. La sua unica mano libera si posò sulla mia schiena e mi invitò a spingere verso lui.

    «Chiamami...» rantolò, «voglio sentirti...».

    «Michael...»

    «Ancora...», sussurrò, «ancora...».

    Ero lì, ne ero sicura.

    «Michael, ti prego... Michael...»

    Lasciai cadere la testa all'indietro.

    «Mio Dio...» quasi urlai. «Oh Mi...»

    L'ondata di maestoso piacere si liberò, avvolgendo ogni parte di me. Fu rapido e tuttavia intenso, un momento che mi immobilizzò totalmente nel tempo e nello spazio.

    Sospirai aprendo gli occhi.

    Le mie pareti scalpitarono e le sue dita placarono la loro frenetica ricerca, proseguendo con carezze molto più lente. Il respiro rallentò di poco, mentre il cuore batteva rumorosamente in petto. Tutto divenne pian piano più lucido. I colori tornarono e le forme pure, così come anche la memoria.

    Adocchiai Michael solo per un secondo. Mi osservava con due occhi famelici e divertiti. Dopodiché posi il viso nell'incavo del suo meraviglioso collo. Con le labbra gli sfiorai l’orecchio.

    Lasciai che i miei polpastrelli scendessero lungo suo petto. Lo accarezzarono dolcemente. Michael si irrigidì ed io continuai a dirigermi verso il basso, senza trattenere l'impazienza. Gli lambii il collo con la bocca e respirai il suo inebriante profumo, percependo un’altra scossa al ventre.

    Lo sentivo chiaramente sotto di me, fiero e imponente, al di sotto della biancheria.

    Ero così spinta dal desiderio di averlo dentro di me ed essere sua che avevo detto addio ad ogni limite. Le sue dita erano ancora in me.

    Volevo di più. Volevo ogni cosa.

    «Sarah...» bisbigliò Michael nel mio cauto avanzare verso il suo membro, oltrepassando il confine segnato dalla stoffa di cotone. Il respiro tremò, la testa cadde all’indietro e gli occhi si socchiusero. «Uhm...»

    Mi apprestai a sfiorare il suo membro con le dita; dapprima titubanti e in seguito più sicure, più decise.

    Michael cominciò a gemere fra sospiri sommessi. Mi afferrò i fianchi.

    Delle voci vicine mi distrassero, segno che la cosa non poteva continuare ancora per molto. Ma io e tanto meno Michael eravamo sul punto di fermarci: continuai a cercarlo, lui continuò a stringermi a sé, fremente dal desiderio. Rabbrividiva... mormorava... gemeva...

    Poi di colpo un bussare alla porta ci fece sobbalzare.

    Tutti e due ci girammo di scatto, scossi e sgomenti, il cuore che scalpitava per lo spavento dopo un intenso attimo di estasi interrotto proprio sul più bello. Avevo il terrore che qualcuno potesse entrare e ci vedesse.

    Fu come cadere giù dal letto nel pieno di un sonno profondo: un risveglio brusco, terribile a dir poco.

    «Papààà?» domandò una voce.

    Prince.

    Porca miseria...

    Il mio sguardo fu subito su Michael, occhiata ricambiata con la stessa ansietà che descriveva la mia. Avvampammo. Tornai a fissare la porta.

    Ingoiai la saliva. «Prince, sono io, Sarah!», tentai di non balbettare.

    «Dov'è papà?» urlò per farsi udire sopra la musica.

    Ti prego, Prince: credi alle mie bugie. Fallo per me.

    «Non è in studio di registrazione?» arrossii più di prima, portandomi una mano sulla faccia per l’imbarazzo. «Hai provato a guardare?»

    Mi sentivo male.

    «No... a dopo, zia!»

    Eh, sì, zia… zia un cazzo…

    Alcuni passi.

    Poi il nulla.

    Passarono alcuni istanti prima che avessi il coraggio di muovere un solo muscolo. Il mio corpo era paralizzato. Il collo pure, verso la porta. Non ero sicura che se ne fosse andato.

    L'atmosfera era stata sicuramente interrotta dall'intervento del piccolo, troppo incosciente per capire cosa stesse succedendo per davvero o chi fosse in quel bagno con me. Perfino la musica che ascoltavo sembrava complice di un delitto perfetto.

    Sobbalzai all'improvviso, percependo il viso di Michael e il suo calore nello spazio fra i due seni. Il petto vibrò per l'emozione. Vi scoccò un bacio delicato.

    «È meglio che finiamo qui, sirenetta» sussurrò. «Altrimenti si preoccuperanno per me...»

    Annuii ma lui non mi vide. Alzò gli occhi con timidezza e tenerezza assieme, azzardando a un sorriso. Era un po’ accaldato. Annuii ancora.

    Sollevai le gambe e mi sedetti vicino a lui. Egli si alzò immediatamente e uscì dalla vasca. Prese un asciugamano poco distante da dove ci trovavamo e si avvolse completamente. Si asciugò il corpo in fretta e furia e – voltando la testa dalla parte opposta per non farlo sentire a disagio – si spogliò dei boxer, rimettendosi i vestiti di poco prima. Con le guance ancora tutte rosse mi si avvicinò: mi dette un bacio veloce sulle labbra e a testa bassa uscì dalla stanza, controllando che a destra o a sinistra non spuntasse uno dei bambini o dei domestici.

    Io mi lasciai seppellire dall’acqua dell’idromassaggio. In silenzio pensai e ripensai a quello che era avvenuto poco prima, al senso di beatitudine che avevo provato quando il piacere mi aveva invaso, al contatto con la sua intimità. Soprattutto, ricordai il volto di Michael e la sua espressione di orgoglio e incanto nel non avermi padrona di me stessa, ma semplicemente sua.

    *

    Con lo sguardo rapito da quel figurino dorato, rimasi a studiare ogni sua curva e ogni suo movimento. La musica era veloce, il ritmo straordinariamente scandito. Seguiva il tempo e danzava una coreografia in cui le movenze ricordavano la marcia di un esercito. I ballerini sparivano se paragonati a lui, ma non si poteva dire non fossero bravi, anzi.

    Michael non sembrava affatto che stesse ballando, no. Sembrava che stesse facendo sesso. E più guardavo quei video, più me ne convincevo.

    «In the suite, on the news, everybody dog food.
    Bang bang, shock dead, everybody's gone bad»

    Una folla immensa seguiva il ritmo di quella musica a mani alzate o battendole. Lo sguardo di Michael era serio, selvaggiamente strabiliante, e un ciuffo riccioluto gli ricadeva sulla fronte, donandogli un’aria ancora più sexy.

    Ritornello. Poi ancora danza.

    Era un professionista. Era un’altra persona. Ed era indescrivibilmente erotico.

    Lasciando perdere il fatto che ai miei occhi appariva eccitante anche se vestito in calzamaglia o con un sacco della spazzatura in testa, Michael aveva un fisico da paura. Un sedere da favola e delle gambe da far invidia alle donne. In quell’epoca era davvero in forma.

    Due mani mi pinzarono i fianchi all'improvviso e saltai sulla sedia dallo spavento. Emisi un urletto soffocato. Guardai il volto di quell’adorabile intruso e lo percepii appoggiare la guancia alla mia tempia destra. Avvampai all'istante, colta sul fatto, mentre Michael osservava se stesso con timida curiosità. Gli veniva da ridere.

    «Ma... cosa stai guardando?», domandò piano, sorridendo imbarazzato.

    «Sai» mi schiarii la gola «è molto interessante visitare i siti dedicati a te e leggere i commenti dei tuoi fan... soprattutto se donne...» borbottai sentendo le guance scottare per l'imbarazzo.

    Guardò il PC, scetticamente divertito. «Ahhh...»

    «Una di loro mi ha portato qui, a dire il vero... sono molto devote al tuo vestito dorato... stavo guardando per caso...»

    Ridacchiò senza controllo. Lo guardai con occhi spalancati.

    «Ero curiosa!», sbottai.

    «Non lo metto in dubbio», affermò ridendo sotto i baffi, bagnandosi le labbra.

    Ripose di nuovo gli occhi sullo schermo e la sua espressione cambiò: una smorfia di leggera insofferenza gli dipinse il viso.

    «Mio Dio...», emise in un sospiro.

    «Che c'è?» domandai piano. Avevo già capito tutto. «Non ti piace quello che vedi?»

    Non rispose. Accennò un sorriso amareggiato.

    Alzai gli occhi al cielo e sbuffai. Quando faceva così non lo capivo proprio. Forse ero limitata io, ma per me era bellissimo. Indescrivibile. L'uomo più bello al mondo, sia dentro che fuori.

    «Credimi, sei un uomo davvero affascinante» affermai guardando un Michael di qualche anno più giovane. «E poi dici a me che non devo farmi paranoie sul fisico, pff!», scossi la testa.

    «Tu sei una cosa diversa...».

    «No, non lo sono».

    «Sì, invece».

    Sospirai esasperata. Mi bagnai le labbra e mi allontanai da Michael, spostandomi con la sedia dalla parte opposta alla sua. Egli cercò di ravvicinarsi in tutte le maniere possibili, ma io lo rifiutavo rifiutando le sue mani o la sua bocca.

    «Io non sono te, Sarah» continuò bloccando ogni tentativo di riavvicinamento. «Tu sei meravigliosa. Sei bellissima e pura. Io invece...»

    Lo fulminai con lo sguardo ed egli rimase zitto, senza guardarmi di rimando.

    Tornai alla visione del live They don't care about us. Cercai di concentrarmi solamente sul suo corpo ricoperto d'oro e sulle sue facce da “Ti prendo e ti scopo sul posto”.

    «Tu mi guardi così soltanto perché mi ami».

    Mi voltai con gli occhi fuori dalle orbite.

    «E per te non è lo stesso che con me?», alzai eloquentemente un sopracciglio.

    Ancora una volta non rispose. Mi fissava con un’espressione indefinita.

    «Avanti, Michael, guardati!»

    Lui obbedì silenziosamente. Puntò lo schermo del computer. Davanti a noi vi era un Michael Jackson seducente, che passeggiava sulla pista sbattendo i piedi a terra, seguito dai suoi compagni di ballo. Si fermò in mezzo alla pista e fece quel suo tipico movimento di bacino mettendo in risalto il...

    Sbattei le palpebre per il piacevole shock procurato da quella visione.

    «Dimmi se con quel vestito non sei un gran pezzo d’uomo!» proruppi con enfasi, divertente e buffa nel mio modo d'essere.

    Egli ridacchiò arrossendo.

    «Non per dire, ma secondo me sapevi benissimo che effetto facevi alle donne. Insomma, quel vestito ti fascia benissimo il fondoschiena! Si vede proprio bene la forma curvilinea...» e imitai la figura con la mano sinistra.

    «Sarah!» esclamò avvampando. Mi dette un buffetto sul braccio, sghignazzò e mi osservò a bocca aperta dallo stupore… ma sapevo che gli piacevo troppo quando mi esprimevo in certi termini.

    Segretamente adorava l'idea di farmi quel effetto. Un pochino gli piaceva farsi adorare. Sapeva benissimo quando usare il suo potenziale, ma non lo ammetteva facilmente. A dir la verità non amava far vedere quel lato del carattere neanche alla sottoscritta, orgoglioso com’era. Ma io ero più perspicace di lui talvolta.

    «Cosa c'è?» chiesi alzando il tono di voce di un'ottava. Alzai le spalle e sorrisi da finta tonta. «Quel che è vero, è vero! E non solo ti evidenzia dietro... ma anche davanti! Però… scusa la schiettezza… portavi la biancheria in quelle occasioni, vero? Dai, non ridere, è una domanda seria!»

    Michael rideva così tanto che dovette allontanarsi – il sorriso coperto dalle mani, caldo sulle guance come non mai – e stendersi sul letto, scosso dai fremiti dei suoi stessi sghignazzi.

    Mi alzai dalla sedia.

    «Che poi, altra domanda...»

    «Sarah, ti prego!» mi pregò senza fiato.

    «No, no, aspetta! Ultima cosa!»

    Mi sedetti sul letto con un sorriso indecifrabile. Mi puntò divertito, inquietato e incuriosito assieme, in attesa di ciò che avrei detto. Mi sporsi verso di lui e inspirai a fondo.

    «Ma quelle donne le facevi svenire per l'emozione del concerto o per l'orgasmo?»

    Michael si sganasciò. Mi guardava e rideva, più per la mia espressione facciale che per la domanda in sé. Era arrossito tantissimo, basito per quei miei schietti e concisi exploit, ma in fondo sapevamo entrambi che lo allietava l’idea di eccitare il gentil sesso. Era inutile che venisse a raccontarmi palle.

    «Ma come ti viene in mente...?», balbettò fra le risa.

    «Avanti, è chiaro come l'acqua che scaturivi delle reazioni (e non capire male, ho detto reazioni) per niente caste!».

    «Sarah, ti prego... mi stai facendo morire!»

    Ignorandolo socchiusi gli occhi e mi afferrai il mento con atteggiamento meditabondo. Aggrottai le sopracciglia e le labbra. Mi scrutava allegramente spaventato.

    «Non ti sei mai chiesto se qualche donna fosse rimasta incinta?» domandai con tono da finta intellettuale. «In quel caso si spiegherebbe perché tante ragazze dicevano di essere le madri dei tuoi “ipotetici figli”. Pensa, uno sguardo da uomo selvaggio come quelli e un movimento di bacino... e bam! Test di gravidanza positivo!», battei le mani, sorridendo come se avessi appena scoperto l’America.

    Michael aveva le lacrime agli occhi. Non ce la faceva più e questo non succedeva spesso. Da parecchie settimane non lo vedevo ridere così di gusto. Mi dovette tappare la bocca con le mani per impedirmi di continuare a parlare, ma in seguito appoggiò la fronte sulla mia spalla destra, privo di forze. Ridemmo entrambi.

    Ad un certo punto presi un respiro profondo e sorrisi dolcemente.

    «Tu sei l’uomo più bello che io conosca».

    Lo sentii irrigidirsi e smettere di ridere.

    «Non importa quale sia il tuo aspetto: la tua bellezza interiore risplende e ti rende un uomo magnifico. È vero che ti amo, ma tu hai qualcosa che nessuno ha: un magnetismo incredibile. Con uno sguardo riesci a conquistare tutti. Sei affascinante. Hai una personalità carismatica, intrigante, ma sei anche un uomo semplice e tranquillo. Sei un uomo forte, ma anche fragile. Sei timido, ma sei anche sessuale. Sei un ragazzino, ma sei anche un uomo maturo e intelligente, con un immenso desiderio di cultura e conoscenza».

    Si allontanò dalla mia spalla e lo vidi guardarmi con le lacrime agli occhi, luccicanti come non mai a causa di una gioia indefinibile. Sorrisi ancora di più.

    «Tu sei immenso. Basta guardare l’effetto che hai fatto e fai ancora sulle persone. Entri in una stanza ed è come se tutto ruotasse attorno a te e basta. E questo mi fa paura. Tra tutte le persone che potrebbero essere al tuo livello, in questo mondo, hai scelto me. Non sono invidiosa o gelosa, al contrario: ho un’ammirazione incredibile per quello che sei e che fai. Quando ti guardo è come se vedessi il Sole per la prima volta», smisi di fissarlo, colta da un improvviso moto di imbarazzo. Michael continuò a studiarmi attentamente, stupito ma serio. «Ho visto dei video in cui ti esibivi e video in cui semplicemente passeggiavi per un centro commerciale», ridacchiai e mi attorcigliai le dita delle mani nervosamente. Sembravo una bambina. «In ogni occasione riesci a incantare me e tutti coloro che ti circondano. Hai un grande potere sugli altri, ma non in senso negativo. È come se la tua aura si espandesse e circondasse ogni dannata cosa, capisci?

    Ti fai delle domande sul tuo aspetto – non ti piaci –, eppure io mi chiedo continuamente: perché? Perché tra tutte le possibili donne di questo mondo ha scelto me? Mi sento come se l’Universo mi stesse porgendo in mano un regalo troppo costoso e prezioso, unico nel suo genere, e io non fossi in grado di ricambiare con altrettanta grandezza, mi spiego? Ti amo immensamente, ma mi chiedo perché io. Molte altre persone meriterebbero di stare al tuo fianco. Persone più carismatiche di me, sicuramente. Non che io mi veda insignificante, questo no, ma non so come ricambiare qualcosa di così tanto immenso. Perciò quando pensi a certe cose – a come io possa amarti per il tuo aspetto – sappi che io le tue stesse insicurezze. Su cose diverse, questo è vero, ma neanche io mi vedo così meritevole di tante azioni e amore».

    Michael non disse nulla per qualche secondo e io non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi. Sentivo le sue iridi puntarmi e scavarmi all’interno, alla ricerca dei miei sentimenti e pensieri più intimi. Mai come in quel momento ebbi paura dell’interesse che provava nei miei confronti.

    «Io sono soltanto un uomo»

    Lo sentii accennare ad una risatina e lo guardai di riflesso. Uno scintillio di commozione e dolcezza gli faceva brillare gli occhi. La sua espressione era lo specchio della gratitudine, ma anche del rammarico. Strinse le labbra in un sorriso mesto e se le umettò velocemente. Con una mano passò il dorso sulla mia guancia destra.

    Rabbrividii appena.

    «E ho scelto te perché tu vedi oltre. Vedi ciò che gli altri non vedono, così semplicemente e senza il bisogno di giudicarmi».

    Gli lanciai un’occhiata confusa, aggrottando visibilmente le sopracciglia e la bocca. Ridacchiò ancora e scosse la testa.

    «Lo vedi? Sei proprio una piccola incosciente. Non hai la minima idea dell’effetto che tu hai su di me. Tutte le cose che dici di me, io le penso di te, Sarah. Entri in una stanza e il resto si annulla. Non te non accorgi neanche. Al compleanno di Janet hanno chiesto tutti di te, tutti. Nonostante cercassi di nasconderti dal mondo, non sei passata inosservata…», disse accennando un sorriso furbesco.

    Con un borbottio confuso appoggiai la fronte sulla sua spalla.

    «Tu sei bellissimo, Michael Joseph Jackson. Dentro e fuori. Quelli che tu vedi come “difetti”, contribuiscono a renderti l’uomo bellissimo che sei, non dimenticarlo mai».

    Chiusi gli occhi e inspirai il suo profumo. Era inebriante quanto l’affetto che provava per me.

    «Io ti amo... lo sai questo, vero?» mormorò sorridendo. Mi prese il viso tra le mani e io rabbrividii una seconda volta. Mi sorrideva. «Lo sai questo, mia adorabile e perversa ragazza?».

    Osservai le sue guance leggermente incavate, le sopracciglia perfette, il sorriso grande, quel naso sbarazzino e quegli occhi profondi in grado di incatenarmi a loro per ore.

    Lo baciai intensamente.

    Quel sapore di buono m’intorpidì il corpo. Le mie labbra seguirono il ritmo delle sue. Ero inebriata dal suo respiro. Inginocchiato sul materasso mi tenne per i fianchi e mi indusse ad appoggiarmi sulle sue cosce. Inserii le dita di una mano fra i suoi capelli corvini. Amavo il suo odore, il gusto di quel contatto, e affettuosamente disprezzavo quando il mio autocontrollo cedeva per mano sua. Andavo fuori di me quando mi teneva stretta in quel modo, quando la bocca cercava tutto di me. Annegare in lui era peggio di una droga.

    «Ti amo anche io» gemetti fra un bacio e l'altro, arrossendo, «e non pensare che io non abbia la stessa reazione delle tue fan...»

    Rise piano, ad occhi chiusi. «Era quello che speravo...»

    Si diresse verso i miei glutei e mi accostò al suo bacino. Gli addominali si contrassero, bloccai l'ossigeno nei polmoni e mi aggrappai alle sue braccia. Michael emise un roco mugolio compiaciuto.

    Mi abbracciò. Si lasciò cadere all'indietro e mi alzai di poco per fargli distendere le gambe. Mi distesi sopra di lui, tenendo le ginocchia puntate sul materasso. Infilò le mani sotto la mia canottiera e mi accarezzò piano. Avevo la pelle d’oca. Negli attimi in cui i nostri baci si interrompevano sentivo la testa girare vorticosamente.

    Le labbra scivolarono sul suo collo, flebili e desiderose di lui, mentre le dita proseguivano verso il petto: era così bello sentirlo respirare a fatica. Michael inclinò il capo all’indietro e chiuse gli occhi. La bocca era schiusa, ma pesanti sospiri uscivano ritmati e rumorosi dalle sue labbra. Rilasciai un piccolo gemito di piacere, ricambiato da una maggiore stretta sui fianchi da parte sua.

    «Sarah...» mugolò pregante.

    Le parole divenivano più graffiate minuto dopo minuto.

    «Ti amo» emanai in un fiato, affrescando le gote di un colore scarlatto.

    Percepii i lineamenti del suo viso delineare un sorriso.

    Lo adocchiai mentre ponevo instancabilmente la bocca sulla sua, pronta a gustarla una milionesima volta: le palpebre erano semichiuse, le iridi velate da una patina di lucente incoscienza.

    «Piccola...» sussurrò.

    Lo baciai ancora.

    «Ho bisogno di sentirtelo dire», gemette.

    Smisi di respirare. «Ti amo» mormorai. «Ti amo tanto».

    Le mie dita si dirigevano sempre più in basso, alla ricerca di quel bottino che mi mancava straordinariamente. Michael gemette. Avanzai verso il basso... ancora ed ancora... mi arrestai percependo quella forte protuberanza a contatto con le mie dita. Mi lasciai scappare un sospiro emozionato. Era eccitato da morire.

    Michael emetteva mugolii continui. La mano si muoveva da sola, saliva e scendeva e ad un certo punto s'infilò sotto i pantaloni. La sua biancheria non conteneva affatto quel virile membro. Era una delle più belle sensazioni che avessi provato nella mia intera esistenza. Lo sentivo bisognoso di affetto e di cura.

    Michael sobbalzò.

    «Sarah», mi strinse più forte a sé mentre gli baciavo il collo. «Tu sei... oh, ti amo... se ti amo...» chiuse gli occhi e si morse le labbra. Arrancò per il modo in cui lo massaggiavo.

    Aumentai le pressioni, le carezze e i baci su quella parte di petto che fuoriusciva dalla sua canottiera a V. Mi afferrò i glutei e mi strinse al suo bacino. Gemette con maggior fervore nel momento in cui lo torturai con più insistenza.

    Era così dannatamente eccitante. Così maledettamente... ardente... fuoco nelle mie mani, un oggetto che reclamava solo me ed un glorioso devastante piacere. Sembrava di essere sulle montagne russe.

    I muscoli del suo collo si tesero. I capelli neri come la pece ricadevano disordinati sul cuscino, le dita premevano sui miei glutei e li strizzavano appena.

    «Dio, come farò senza di te...?»

    Aprii gli occhi, prima piano e poi sempre più cosciente.

    Detti arrivederci al momento di piacere per dar il benvenuto alla paranoia. Quelle parole riuscirono a darmi più fastidio di quanto immaginassi.

    Rallentai le pressioni.

    La mia mente venne assillata da ronzii confusi.

    Quel “Come farò senza di te?” era la conferma che me sarei dovuta andarmene presto. Non era una condizione – non disse “Come farei senza di te?” – era una certezza. Che ne sarebbe stato di noi?

    «Sarah…?» chiese Michael a voce roca, scombussolato.

    Rinunciai alla dedizione verso il suo membro. Non gli baciavo più la pelle rosea del collo. Le mani erano timidamente tornate sui suoi fianchi. Si sollevò con la schiena dal letto dandosi una spinta grazie alla forza che aveva nelle mani.

    «Che succede...?».

    Non ebbi l’audacia di affrontare i suoi occhi. Inspirai e mi strinsi al suo petto.

    «Quando le lezioni scolastiche finiranno, io non potrò rimanere qui. Dovrò andarmene…» affermai rassegnata, mormorandolo con un fil di voce.

    Egli rimase in silenzio.

    «Sarah...»

    Mi rimisi in ginocchio e mi abbassai la canottiera. Girai la testa verso il computer e decisi ad andare a spegnerlo. Con i muscoli del collo irrigiditi, mi alzai dal letto.

    «Aspetta».

    Michael mi prese per mano. Sembrava preoccupato, eppure non volli guardarlo negli occhi.

    «Devo spegnere il computer...».

    «Lo farai più tardi».

    «No» dichiarai. «Lo voglio fare ora».

    Mossi un altro passo ma mi trattenne.

    «Devo dirti una cosa, ascoltami», sentenziò severamente. «Non fare sempre la testarda...»

    Mi umettai le labbra. Ascoltai le sue parole.

    Mi sedetti, ma non lo guardai. Il mio sguardo slittava dal computer alla tastiera, dalla tastiera alle pareti all'arredo della mia stanza. Più che mai desiderai che quei suoi occhi non potessero decifrare le mie emozioni.

    «Guardami».

    Non lo feci.

    Prese un respiro.

    «Io non voglio che tu venga coinvolta in scandali. Non voglio che la stampa o altre persone vengano a sapere di te. Non perché non ti amo, ma perché voglio proteggerti. Ti tortureranno come fanno con me. Non posso fidarmi nemmeno dei miei dipendenti... non posso fidarmi di nessuno. Di nessuno». Espirò a fondo. «Voglio proteggerti».

    Meditai a lungo, accompagnata da un pesante ed insolente silenzio. Pochi minuti più tardi accennai ad un sorriso comprensivo. Triste, sì, ma comprensivo.

    «Perciò l'unica alternativa è finirla qui...».

    Le sue mani avvolsero le mie.

    «No, Sarah, non intendo questo!» esclamò fin troppo frettolosamente. Lo guardai. Era agitato. «Vorrei che tu rimanessi con me giorno dopo giorno, ogni istante, per sempre. Ma non possiamo. Io sono un uomo di spettacolo, tu una donna che necessita della sua vita normale. Se ti portassi ovunque io vada, loro si accorgerebbero di te. Gli avvoltoi che ho attorno non aspetterebbero altro che fare della nostra relazione un inferno. Ti uccideranno... lo capisci questo, vero?».

    Lo osservai sperando di apparire impassibile. Il viso di Michael era afflitto da un mite rammarico, la fronte leggermente crucciata, gli enormi occhi scuri che lampeggiavano sia per il dispiacere sia per l'attesa di una mia qualsiasi reazione emotiva.

    «Lo capisco» sorrisi mesta. «Ed è vero, non intendo dire addio alla mia vita quotidiana. In più non voglio metterti nei guai con il mondo dello spettacolo, e neppure voglio che i tuoi subordinati possano intuire qualcosa di...», inspirai forte, «di noi...».

    Fu quando abbassai lo sguardo una seconda volta che finalmente Michael capì come mi sentivo, comprendendo le assillanti domande che alimentavano i miei dubbi. Sapeva esattamente cosa mi passava per la testa. Riusciva a tradurre con facilità le mie “criptiche” espressioni.

    «Sarah – »

    «Mi verrai a trovare qualche volta?» chiesi impacciata. Lo ammirai di soppiatto e sovrastai la sua voce, arrivando a zittirlo. Le mie guance divennero un po’ scarlatte. Il cuore batté velocemente.

    Mi fissò. Rilassò le spalle, mantenendo pur sempre uno sguardo pensoso.

    «Sarah...». I suoi occhi navigarono insolenti nei miei. «Non devi pensare che la tua partenza da questa dimora ci impedisca di stare assieme. Non devi pensarlo mai, ok?». Era inquieto. «No, non ho intenzione di perderti».

    Annuii. Guardai le nostre mani legate e sorrisi.

    Erano stupende, bellissime... calde... affettuose e grandi, piacevolissime da sentire sulls pelle. Quando mi accarezzava, percepivo una sensazione che andava ben oltre il fisico e il materiale. Eravamo due anime separate che si sfioravano, ma che non riuscivano a diventare una cosa sola; una missione impossibile, in una dimensione che non era la nostra.

    «Devi credermi».

    «Ti credo».

    «No, non abbastanza» affermò pacato e dispiaciuto. Lo osservai soffrire in silenzio, con quegli occhi neri, incantevoli e affranti. «Non abbastanza...»

    Accennai ad un sorriso più rasserenato. L'improvvisa accettazione di quello a cui saremo andati incontro non mi fece più così paura. Così, senza un comprensibile motivo. Come se aver visto l’amarezza dei suoi occhi fosse stata una consolazione – una piccolissima, minuscola consolazione –, nonché la prova che forse non mi avrebbe dimenticato.

    «Ti credo» dissi. «Ho intenzione di crederti».

    Gli sorrisi ancora. Michael inclinò il capo verso destra, studiandomi con innata dolcezza. Portò una mano sulla mia guancia sinistra e la tenne al caldo. Lasciai cadere il volto su di essa chiudendo gli occhi. Con il pollice mi accarezzò nella zona vicina alle labbra.

    «Penso proprio di amarti...», mormorò amabilmente.

    Aprii gli occhi, soffocando una risata. «Lo hai compreso solo ora?»

    Un piccolo sorriso gli marcò le guance. Le ossidiane nere che aveva al posto degli occhi erano lucenti come non mai. Provava una devozione in grado di togliere il fiato.

    Sollevò a malapena le sopracciglia. «A dire il vero lo scopro ogni volta che ti guardo».

    Arrossii e risi. Scossi il capo. Michael mi si avvicinò sorridendo come un bambino monello, cosciente di avere il mio cuore nelle sue mani. Poggiò delicatamente le labbra sulle mie e chiusi gli occhi.

    In seguito mi sarei alzata, avrei spento il computer e mi distesa a letto con Michael al mio fianco. Avrei passato una delle più belle serate della mia vita. Niente sesso, solo amore. Niente parole, solo silenzio. Il mio cuore che si contorceva su di sé mentre le sue dita mi pettinavano i capelli; il suo cuore, invece, che batteva non appena appoggiavo la fronte al suo torace; era tutto troppo bello per essere vero, così tanto da poter piangere felicità.






     
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    Capitolo Trentatre: Gli Spiriti Affini


    «Che razza di... coglione!» sbottai contrariata, spalancando gli occhi dallo spavento e dalla rabbia.

    Misi piede al freno e lo premetti. Una macchina mi aveva appena superato. Velocemente - troppo velocemente - e arrivò quasi a sfiorarmi il fianco sinistro dell’auto. Il contraccolpo dovuto al mio improvviso rallentamento portò il mio collo e quello di Michael in avanti. Fu una scossa breve, ma la paura fu grande, soprattutto per me: ricordo che misi una mano davanti al petto di Michael, tenendolo appoggiato al sedile, sopraffatta da un istinto di protezione.

    Quando il guidatore della meravigliosa Porsche nero lucido si allontanò con la stessa velocità di come mi aveva superato, tolsi la mano dal torace di Michael.

    «Ma sì, stronzo, corri!» alzai la voce. «Dai, che magari ti rivedo sul telegiornale di stasera!».

    Mi passai una mano fra i capelli. Guardai Michael per vedere se stesse bene. Quello che ricevetti - in cambio delle mie sincere preoccupazioni - fu un’espressione di sottile divertimento. Mi scrutava con le sopracciglia sollevate.

    «Sarah» mormorò sorridendo. «Non è successo nulla!»

    «Non direi, porca puttana!».

    Fece una smorfia come a dire “Eccolo là! È tornato il mio scaricatore di porto preferito!”. Gli veniva da ridere, ma poneva lo sguardo di fronte a sé per non farmi arrabbiare ancora di più.

    «Se non avessi rallentato saremmo potuti finire fuori strada! O ci saremo catapultati in direzione della scogliera, direttamente in mare!»

    «Come nei film, vero?» domandò sorridente.

    Lo linciai con un’occhiata torva.

    Quest'ultimo mi rise in faccia con strafottente nonchalance. «Dai piccola, non è successo nulla! È andato tutto bene, ora si è allontanato».

    Guardai dinanzi a me e m’imbronciai, inarcando pure un sopracciglio.

    «Certo, parli così perché non saresti stato tu quello con il morto sulla coscienza!» scrollai le spalle.

    Ridacchiò.

    «Sai che ho la patente?»

    «Seh...»

    «No, sul serio!», sorrise. «Ce l'ho davvero!»

    Lo adocchiai con scetticismo.

    Indossava larghi pantaloni neri - il doppio della sua taglia - e una camicia a maniche corte (strano da parte sua) di colore rosso, giallo e verde. In più aveva, con mio stupore, ciabatte da spiaggia - con calzini arancioni e blu compresi. Indossava anche un largo cappello di paglia, una mascherina nera davanti alla bocca (che in quel momento teneva abbassata) e gli immancabili occhiali da sole.

    L'abbigliamento adeguato per non dare nell'occhio, no? Non lo si poteva prendere sul serio.

    Al contrario io avevo puntato su vestiti decisamente più normali dei suoi: shorts in jeans, maglietta senza maniche color arancione e sandali bianchi.

    «Davvero? Hai la patente?» domandai incredula, fissando la strada.

    Annuì convinto.

    Pensai mi stesse prendendo per i fondelli. «E da quando?»

    «Dai lontani anni ‘80. Ma non la uso mai. La utilizzavo, ma non ho più la possibilità di farlo».

    «Per la fama?»

    «Anche».

    Quel “Anche” mi preoccupò.

    «Wow...» inarcai le sopracciglia e assunsi una smorfia contrariata. «Be’, questo comunque non c’entra nulla! Potevi morire

    Alzò le braccia al cielo. «Va bene, testardo di un maschiaccio, hai ragione tu, okay?», gli angoli delle labbra si sollevarono in un sorriso canzonatorio.

    Maledissi i suoi occhiali da sole e la visione che celavano. Gli feci la linguaccia e tornai a guardare dinanzi, ignorandolo del tutto. Sorrisi anch’io.

    Alla radio partì una canzone meravigliosa. Era Ordinary Day di Vanessa Cartlon. Qualche volta capitava che ascoltassi la sua musica. In realtà ascoltavo un po’ di tutto e mi piaceva ascoltare ogni genere musicale; inoltre, grazie a Michael, la mia cultura musicale si ampliava sempre di più.

    «Posso alzare?»

    «Diamine, sì!» disse Michael in tono buffamente ridicolo. Se ne veniva fuori con quei termini apposta per divertirmi. «È la tua macchina!», sorrise.

    Ringraziai e gli chiese se potesse farlo al posto mio. Michael alzò il volume quasi al massimo, spronato dai miei continui incitamenti e rimproveri per i suoi giochetti alza e abbassa volume, giusto per farmi irritare. Era peggio di un bambino.

    «Penso che te la dedicherò...», bisbigliai.

    Michael piegò il capo in mia direzione. Teneva la testa sul dorso della mano destra, appoggiata proprio accanto al finestrino.

    «Uhm?»

    Arrossii.

    «Ho detto», lo guardai sorridente, «che ti dedico questa canzone. Ti rispecchia... almeno, rispecchia l'idea che ho di te…»

    Guardai la strada con le guance accaldate. Michael non emetteva parola. Essere impacciata quanto una ragazzina alle sue prime esperienze amorose mi confondeva.

    Non era la prima canzone che gli “dedicavo”, anzi. Gliene avevo donate tantissime, tutte quelle che in un certo senso me lo ricordavano. Ma dal giorno in cui avevamo confessato i nostri sentimenti non gli avevo più esplicitamente dedicato qualcosa. Le trovavo ma le conservavo segretamente, mentre in passato ogni occasione era buona per fargliele conoscere.

    Non riuscivo a esprimere con candida gioia e serenità quello che sentivo. Avevo un blocco causato dalla paura di fare passi più lunghi della gamba. Dicevo “Ti amo”, ma desideravo donargli ancora di più. Non credevo che ciò che provassi fosse abbastanza.

    Nell'attimo in cui feci guizzare lo sguardo verso Michael, lo scorsi togliersi gli occhiali da sole. I suoi occhi sorridevano dolcemente. Le sue iridi brillavano di luce propria. Dopodiché lanciò un’occhiata alla mia mano, quella posata sulla leva del cambio. Le sue dita scivolarono su di essa, tremanti d'emozione.

    Rabbrividii anch’io.

    «Ha una melodia e delle parole molto dolci», sussurrò intenerito. «La devo aver sentita una volta».

    Mi sollevò la mano e ne baciò il dorso. Quelle labbra si posarono su di me come il Sole si distende sulla terra. Scaldavano e accarezzavano la morbida pelle ispirandone l'odore di pulito. Le palpebre erano abbassate per l'attenzione che poneva alla canzone.

    Ripose la mano sulla leva del cambio e continuò a stringerla debolmente. Il suo sguardo vagò su di essa, sul cielo, sul mare, sul mio viso, e di nuovo sulle nostre mani.

    Michael era così straordinario da far perdere il fiato a chiunque. Era l'uomo che sapeva come prendermi più di tutti. Mi rendeva sua con un solo gesto o uno sguardo, sciogliendomi la spina dorsale soltanto con l’utilizzo della voce.

    Sapevo il perché non mi lasciassi andare veramente, me ne rendevo conto non appena lo guardavo negli occhi. Qualsiasi cosa lui mi facesse, le mille farfalle che avevo nello stomaco svolazzavano furiose, si dimenavano disperate nel tentativo di fuggire; le loro non erano piccole fragili alette, erano lame affilate che squarciavano il mio organo vitale impedendomi di respirare, di sopportare il risultato di un amore che desiderava solo avvolgere il mondo intero. Perciò preferivo ammutolire quell'imponente sentimento che mi avrebbe portato alla morte, piuttosto che morirne davvero. Preferivo contenerlo, placare quella sensazione di immensità e al contempo agonia, quell’emozione che faceva volare la mia anima e mi avvinghiava spietatamente le viscere.

    Era una giornata meravigliosa, quella del 29 maggio 2004. Niente nuvole in cielo. Il Sole cominciava a sfiorare l'orizzonte e illuminava il tutto di arancione, giallo e viola. Il mare rifletteva i raggi solari, mentre le onde sbattevano sulle rocce dell’infinita Pacific Coast. I finestrini erano leggermente abbassati, la brezza salmastra scuoteva i nostri capelli come chiome degli alberi nel bel mezzo di una tempesta. Le temperature erano tornate ad essere più o meno sopportabili. Il calore che aveva fatto bollire il cemento e l’intera area di Los Angeles sembravano essersi placati. Ma faceva ancora abbastanza caldo.

    Era un tardo pomeriggio. Un giorno d'estate, di inizio estate. Una gita solo tra me e Michael, in auto, come non accadeva da mesi e mesi.

    Ci piaceva quel modo di stare insieme. Cercavo in ogni maniera di "estraniarlo" da quel clima di tensione quale era il processo. Non era ancora iniziato, ma Michael era già impaurito. Era un po’ paranoico, ad ogni udienza preliminare gli veniva un magone che non lo faceva nemmeno mangiare. Qualche giorno prima, in tribunale, non gli avevano concesso la riduzione di pena.

    «È proprio una canzone dolce. Degna di te, direi».

    Lo puntai. La sua pelle era abbagliante. Sotto la debole luce solare che attraversava il finestrino dalla sua parte, colpendogli alcuni lembi di maglietta, sembrava ancora più etereo.

    «Mi piace tantissimo. L'adoro» sottolineò quelle parole con vivida estasi. Sospirò appena e sfilò gli occhiali dalla maglietta per rimetterli su. «Hai davvero un opinione così dolce e delicata di me... così pura...»

    Mi accarezzò la guancia destra con i polpastrelli. Svolsi subito gli occhi alla strada e non risposi. Accennai ad un debole sorriso di gratitudine e imbarazzo. Benedii le lenti degli occhiali da sole che, nonostante la sensazione di essere nuda sotto il suo sguardo, non gli permettevano di vedere la mia commozione.

    «Te ne ho dedicate tante in questo periodo, sai?», disse.

    «Davvero?»

    «Mmh-mmh...». Trattenne il fiato. Guardò il mare e arrossì di poco. «La maggior parte però te le ho scritte di mio pugno. Anche ai tempi in cui eri ancora la mia piccola incosciente scrivevo di te...»

    Lo scrutai incuriosita. Conoscevo a memoria le canzoni che mi aveva dedicato, ma era una novità sapere che lui stesso ne avesse scritta qualcuna per me. Il cuore fece le capriole dall'emozione.

    «Non l'avevi mai detto...», mormorai.

    Sotto quegli occhiali scuri ero sicura che mi stesse fissando. Inspirò ed espirò, poi emise un soffio di risata intimidita. Scosse leggermente il capo.

    «Ti sembrerà ridicolo sentirtelo dire, ma avevo previsto questo momento. Avevo previsto questa esatta situazione. Ma prima di dirtelo volevo aspettare che fossi mia definitivamente».

    Ridacchiai, superando una macchina con cautela. «Be’... in realtà non sono ancora tua...» alzai un sopracciglio, «o sbaglio?»

    «Sbagli, invece».

    Assunsi un'aria dubbiosa.

    Sorrise. «Ci apparteniamo, principessa, te lo sei dimenticata?»

    E fu in quel istante che un moto di tristezza avvinghiò il mio animo senza che potessi prevederlo. Un'ondata di profonda rassegnazione. Il soffio della poca fiducia in me stessa. Un fottuto colpo di scena da parte del mio carattere lunatico, che sapeva arrivare al picco della felicità in un istante e il secondo dopo cadere in uno stato di tristezza completa. Così, senza ragione.

    Guardai la strada, rimasi zitta e non sorrisi.

    «Sarah?»

    «Uhm?»

    «Che succede?»

    «Nulla» scossi il capo. «Me ne ero dimenticata, tutto qui».

    «No, invece...» affermò stringendo la presa della mia mano.

    Mi aggrappai alla leva. Strinsi le labbra e sbattei le palpebre per non lasciarmi prendere dallo sconforto. Che diavolo sto facendo?

    «Sarah, mi vuoi dire che succede?»

    «Non ti preoccupare, davvero, Michael...» sussurrai con un pigolio addolcito. «Scusa… sono io che sono fatta male, non badarmi... a volte capita...»

    Silenzio.

    Troppo lungo come silenzio.

    «Ferma la macchina».

    Aggrottai la fronte e spalancai gli occhi. Lo guardai scioccata. «Cosa?».

    Non sorrideva più. Quegli occhiali mi incutevano timore, perché non potevo intravedere le sue emozioni.

    «Ferma la macchina, per favore», disse. «Ho bisogno di scendere».

    *

    Parcheggiai lì vicino, in un luogo sicuro e distante da bagnanti e guidatori curiosi. L'auto aveva il motore spento; la radio, invece, era rimasta accesa. Era un punto della Pacific Coast molto isolato, parecchio lontano dall'autostrada e da spiagge varie. Nessuno passava di là, e per raggiungere il punto in cui Michael ed io ci eravamo fermati dovevano attraversare una stradina di sassi ben nascosta a occhi distratti. Mi pareva di esserci già stata.

    Michael scese per primo - mani in tasca e sguardo perso nell'orizzonte, senza cappello o occhiali ma con la mascherina nera per proteggersi dal sole - ed aspettò che avanzassi titubante e lo superassi di qualche passo per posizionarsi al mio fianco.

    «Siamo nello stesso luogo...», mormorai stupita.

    «Sì. Siamo dove ci fermammo quella sera, tanti mesi fa, quando andammo a prendere i regali per i miei figli. Stesso punto della stessa scogliera. Per questo ti ho detto di fermare».

    «Ah...»

    Mi guardò.

    «E per un’altra cosa, anche...».

    Mi tolsi gli occhiali da sole.

    «Dimmi...»

    Lo aveva fatto apposta. Aveva chiesto di fermarsi affinché potesse guardarmi negli occhi e potesse parlarmi, senza che potessi sviare inutilmente il discorso. Ero indecisa se fingere un malessere o meno, con la scusa di salire in macchina e tornare a quella che oramai chiamavo casa.

    «Voglio sapere che ti è preso all'improvviso» disse con voce fioca ma decisa. La sua espressione era seria e concentrata. Una mano scivolò nella mia senza che me accorgessi. «Mi fai arrabbiare quando dici che sei fatta male, perché non lo sei. Sei umana e hai i tuoi momenti no. Ma io ti amo, e voglio sapere cosa ti angoscia».

    Non lo guardai. In silenzio si lisciò i capelli davanti al viso e strinse gli occhi per ripararsi dalla luce solare. Mi spinse appena verso di lui, in modo tale che potessi sfiorargli il petto con un braccio.

    «È una stupidaggine...»

    La mano scivolò dalle mie dita al mio fianco. Con il capo inclinato a destra e uno sguardo intenso da farmi cedere le gambe, fece voltare impercettibilmente il mio bacino verso di lui.

    «Io la voglio sapere» sussurrò in tono carezzevole.

    Si umettò un labbro, terribilmente dolce e gentile in quel gesto ricolmo di charme.

    Mi pettinai i capelli all’indietro. Michael mi avvicinò ancora di più. La spina dorsale si stava sciogliendo sotto le vibrazioni di quelle dita.

    «Allora?», domandò cortese.

    Osai incrociare i suoi occhi. Mi sentii annegare in un profondo oceano di affetto.

    «Non lo so...», mi venne da ridere per non disperarmi. Alzai le sopracciglia e le spalle. «Delle volte mi dico che è successo tutto troppo in fretta... sono passata dall'amicizia all'amore senza accorgermene». Avvampai. «Non era così che me lo sarei immaginata...»

    Si fermò a riflettere. Si passò la lingua sulle labbra e mi stregò con un cipiglio di profondo interesse.

    «L'amore non lo si può immaginare, lo si vive», emise in un fiato. I nostri bacini si sfiorarono. La mia gamba destra s'incastrò perfettamente fra le sue. «Ma non è solo questo...» disse in tono basso, «dimmi tutto».

    «So che è una follia…», mormorai fissandogli il colletto della maglietta, tentando di mantenere la lucidità. «Ma non riesco a credere di provare un sentimento così incomprensibile per te, ecco. È un qualcosa talmente forte che mi mette in subbuglio. E se quello che dono non è abbastanza? Se non sono in grado di ricambiare quello che tu provi per me con la tua stessa intensità?».

    I miei mormorii lo fecero trattenere il fiato. Lo adocchiai di soppiatto e vidi che gli sorridevano gli occhi. Le labbra erano sempre coperte dalla mascherina.

    «Tu hai molte idee sull'amore», scosse il capo, ridacchiando. Mi agganciò a sé con maggior energia. «Idee che non sono sempre fondate sulla razionalità, mentre altre invece sì. Il fatto di non esserti innamorata di me fin dal primo momento in cui mi hai visto, per te significa che non mi ami davvero».

    Centrò il punto in pieno.

    «Be’, forse» sbottai contrariata. «Ma...»

    Michael mi mise un dito sulle labbra prima che potessi dir altro. «Non hai mai pensato che la nostra amicizia non è mai stata normale?»

    Avrei tanto voluto togliergli quella assurda mascherina dal volto e baciarlo. Volevo sentire il suo gusto per una milionesima volta e perdermi in un girotondo senza fine. Avrei voluto che quel tramonto lo facesse risplendere senza che il Sole potesse fargli del male. Quei due pozzi neri senza fondo non la smettevano di farmi impazzire.

    «Ci siamo spinti oltre fin dal principio, Sarah» spiegò provocandomi adorabili brividi sulla nuca. «La nostra intimità era tanta, molta più di quanto tu non riesca a ricordare in questo momento. Ma io ricordo perfettamente il tuo battito cardiaco… è lo stesso di quando tu mi baci tutt’ora».

    Le mie iridi si posarono sulla mascherina, le dita s’avvicinarono al viso e la abbassarono fino al collo. Mi scoccò un bacio lieve, dolce e rassicurante sulle labbra. Il petto fu percosso da sensazioni forti quanto scariche di elettricità pura.

    «Ma allora», mi allontanai, «perché hai dubitato dei miei sentimenti? Se sapevi che ti amavo da tempo, perché non hai pensato di dirmelo subito?»

    «Non era compito mio farti comprendere cosa provavi», ammise. Si strinse nelle spalle, guardando in alto con fare sbarazzino. «E poi, anche io sono umano. Forse strano, ma lo sono. Mi sono sempre obbligato a non instaurare relazioni amorose con i miei dipendenti. Non è nella mia indole e non è nella mia morale, onestamente. Quando ho cominciato a capire cosa provavo per te, inizialmente l’ho rifiutato anch’io. Non volevo accettarlo e per questo cercavo di tenerti distante…».

    «Tu cosa?» spalancai le labbra e le palpebre. «Non ci credo».

    «Ti dico la verità», accennò una risatina imbarazzata. Si mordicchiò un labbro scrutando a lungo la mia collana con la mezza luna. «Ero confuso quanto lo sei tu ora. Ero combattuto fra l'amore e l'amicizia» Mi osservò intensamente. «Pensavo che tu fossi soltanto un’amica, ma poi ho cominciato a farmi delle domande. Dopo aver scritto canzoni e canzoni per te, dopo i momenti sempre più dolci e affettuosi che vivevamo, ho passato periodi terribili. Ho creduto di impazzire. Te l’ho dissi già alcune settimane fa, quando ti espressi i miei sentimenti per te...»

    «Oddio no, non ricordarmi quel giorno...» affondai il volto nell'incavo del suo collo, ridendo.

    «Perché mai?».

    Scossi il capo spasmodicamente. «Ho detto cose che mi fanno vergognare da morire... Dio...»

    «Durante il litigio?»

    «No, no...» mormorai. Rosso vivo comparve sulle mie guance rosee. Sembrava che le orecchie mi stessero fischiando. «La confessione...»

    Se ne stette qualche secondo in meditazione. Mi preoccupò. Temetti di averlo fatto rimanere male, come se stessi chiaramente negando quei sentimenti per lui.

    «Sciocca che sei...» ridacchiò dandomi un bacio fra i capelli.

    Alzai il viso.

    «Mi ricordo ogni parola. Ogni lacrima che versasti...», le sue dita toccarono la morbida pelle del viso, «ogni espressione... ogni mormorio…».

    Che faccia da pesce lesso.

    «E, soprattutto...», socchiuse gli occhi e mi alzò il mento con due dita. Un sorriso vittorioso sollevò i lembi della sua bocca. «Ricordo il tuo primo “Ti amo”».

    «Michael...»

    «“Non voglio che questo mi ucc...”»

    «NOOO! Ti prego!», stridetti. Gli chiusi la bocca con una mano mentre ridevo dall’imbarazzo. «Quella cosa... è stata la cosa più ridicola che io abbia detto!»

    Michael respirò a fondo e lo sguardo cambiò. Fece una smorfia infastidita e severa. Scostai la mano dalla sua faccia, chinai il capo e mi pettinai una ciocca di capelli.

    «Perché te ne vergogni così tanto?» sussurrò. «Io non capisco. L'amore è una delle cose più belle al mondo, perché non lo lasci andare?»

    Sospirai senza guardarlo. «Non amo dire certe cose… mi sento esagerata, come se stessi facendo una sceneggiata… cioè, sì, mi piace essere romantica, ma non troppo…»

    «Non con me...»

    Lo guardai confusa. «Che intendi dire?»

    I suoi occhi erano severi. «Tu sei romantica. Sottolinei le parti più dolci dei tuoi romanzi preferiti. Ti sciogli durante il momento del bacio nei film. E ti devo ricordare il discorso che facemmo su Arwen e Aragorn? Sarah, tu sei innamorata dell'amore», s'incupì. «Ma con me è diverso».

    Abbassai gli occhi.

    «Io ti amo. E non me ne vergogno. Ma se a volte mi freno, è perché temo di abituarmi troppo a queste emozioni e poi ricevere una qualche delusione... come se avessi sempre il presentimento che un’incudine possa piombarmi sulla testa da un momento all’altro. Quindi mi sento di reprimere questo sentimento. Ho davvero paura di morire dell'amore che provo per te. Questo sentimento mi fa bene e mi fa male, perché non riesco a controllarlo e a volte sembra farmi esplodere il corpo, non solo l’anima…». Le mie iridi si bagnarono di commozione. «Non devi pensare che non ti amo... sono fatta così, ci provo in tutte le maniere a lasciarmi andare... tutto quello che ho sentito con te è diverso dal normale...»

    «Sarah…».

    Avevo le lacrime agli occhi quando ammirai il suo sorriso dolce e comprensivo. Non era arrabbiato, né deluso né rattristato. Era felice. Le sue iridi sembravano rispecchiare tanti fuochi d’artificio splendenti. Le guardai più attentamente e vidi che erano offuscate da un velo di lacrime.

    «Non ho bisogno che mi spieghi» affermò con amore. Sorrise. «Ti sei risposta da sola».

    «Non penso di capire...»

    «Hai appena ripetuto quello che dicesti quel giorno, quando hai ammesso di amarmi. Moriresti di questo amore», scosse il capo a mo’ di affettuoso rimprovero. Si morse un labbro e s'accigliò. «Tutto ciò che hai detto… non ti sembra una delle confessioni più romantiche del mondo?»

    Schiusi le labbra provando a dire qualcosa di sensato.

    «Io non...». Arrossii. «Ah...».

    Mi guardai intorno. Michael rise.

    «Ho passato notte insonni domandandomi cosa stesse accadendo al mio cuore, tanto tempo fa» continuò accostandomi al suo petto. «Delle volte desideravo starti lontano per riflettere. Occupavi il mio tempo, il mio cuore e la mia mente. Non era normale quello che stavo vivendo. Tu eri tutto. Eri mia amica ed eri la mia complice. Quando l’ho realizzato sono rimasto sconvolto... non lo volevo accettare. È stato complicato dire a me stesso che ero follemente perso per te. Era tutto... tutto troppo veloce, non aveva senso logico. E io avevo paura...».

    Inclinai il capo da un lato. «Amica e amante insieme... una confidente, ma anche un qualcosa di più, un’amica con cui però condividevi un “rapporto” molto stretto...»

    «Più o meno», sorrise. «Noi siamo ed eravamo tutt’e due le cose. Siamo tutto».

    Ponderai a lungo. Era strano, troppo bello per essere metabolizzato in così poco tempo.

    Lo guardai di soppiatto. «Quando hai realizzato di...».

    «Di essere innamorato di te?»

    «No, dico... qual è stato il momento in cui che hai concretizzato che stava accadendo qualcosa... l’istante in cui il tuo amore è iniziato a fiorire, ecco», farfugliai imbarazzata. «Io purtroppo me ne sono accorta troppo tardi… ero un’ingenua completa», ridacchiai.

    Si bagnò le labbra. Il suo sguardo si posò sul mio collo e sulle sue dita che delicatamente lo sfioravano. «Be’, a dire il vero... molto presto, molto più di quanto tu possa immaginare...»

    «Davvero?»

    «Mmh-mmh», mi fissò. «Ti ricordi la prima volta che ti feci visitare Neverland?»

    Annuii sorpresa.

    «Ti ricorderai il carosello, il gelato, la nostra chiacchierata solitaria… Dio, quando ho fatto quella mia riflessione sul tramonto, il tuo sguardo era di una bellezza indescrivibile. E poco dopo hai visto una piuma tra i petali di un fiore. Ci conoscevano da così poco tempo...» Prese un respiro e sorrise. Due lacrime spuntarono dai suoi occhi lucidi e scuri. «Eppure quel desiderio era per te».

    Rimasi senza parole.

    Le sue mani avanzarono verso le mie guance, le afferrò con dolcezza e portò la mia fronte sulla sua. Piangere di gioia era l’unica cosa che avrei voluto fare in quel momento.

    «Tu eri il mio desiderio, Sarah. Alzando quella piuma verso l’alto, soffiandola in vento, io pregavo per il vero Amore. Quello che salva la vita, quello che rigenera e benedice ogni singolo istante dell’esistenza umana. Senza saperlo, volevo te. Il mio unico sogno era trovarti, non uscire vivo dalle accuse e dal processo», asciugò una mia lacrima. Mi baciò. «Tutto l’amore che sei... è sempre stato il mio unico desiderio... è la ragione per cui mi sono reso conto di essermi innamorato di te».

    Ridacchiai fra le lacrime. Tutto ciò che sentivo era il suo profumo e l’aria salmastra che ci avvolgeva. Mi aggrappai con le mani dietro al suo collo e ricambiai il suo amore con un altro bacio. Destabilizzante, rinvigorente. Molto più passionale del solito, non meno soffice di tutti quelli che gli avevo già donato.

    Avrei tanto voluto che Michael capisse che lo amavo davvero. Desideravo che comprendesse quando la sua presenza fosse di vitale importanza per me. Una doccia di acqua fresca e pura che disseta un torrido deserto. Era quella rara nevicata che cadeva su un terreno solitario, dimenticato da tutti. Non ero in grado di esprimermi a parole ma – forse con uno sguardo, un bacio, un gemito – potevo augurarmi di offrirgli tutto quello che cercava.

    Il silenzio che si genera dall’amore vale molto più di un normale scorrere di parole. È l’essenza del vero vivere, e altro non si può fare che goderselo. È la forma più pura del sentimento. Nel silenzio, una moltitudini di colori si scontrano e si proiettano verso l’alto, sotto forma di scintillanti arcobaleni. È un genuino rinascere dalle ceneri dopo anni e anni di cupa desolazione. Due cuori si uniscono e si fondono in uno, emergendo da un mondo colmo di oscurità e paure. Il silenzio dell’amore avvolge tutto, non dice nulla ma descrive ogni cosa. È un’esplosione che nessuno avverte. È il desiderio su una piuma.

    Labbra contro labbra, umide e inarrestabili, mentre i sospiri si tramutavano in soffi d'aria calda inebrianti. Baci languidi, occhi chiusi in una scoperta senza sosta. Le mie dita che si posavano sulle sue guance marcate e le sue dita, invece, che mi tenevano i miei fianchi.

    In quel totale senso di estasi, una canzone che conoscevo abbastanza bene passò alla radio.

    «Questa...», allentai il frenetico ritmo dei baci.

    Michael si scosse. «Cosa?»

    Ci guardammo negli occhi. Di certo non si sarebbe aspettato un’interruzione così brusca. Io sorrisi arrossendo e lanciai una fulminea occhiata alla macchina. Mi ero completamente dimenticata che la radio, seppur a basso volume, funzionava ancora.

    «We stand alone, warmed by the light that reflects in your eyes.
    I feel inside an emotional storm and a heart like a sky
    »

    «La canzone?»

    «A-ha...» bisbigliai. «Sono gli Spandau Ballet
    1... Dio, amavo questa canzone. Era la mia preferita».

    Adoravo quel gruppo: ero praticamente cresciuta con loro. Michael lo sapeva bene e li conosceva anch’egli (come poteva essere altrimenti?). Respirai a pieni polmoni e ascoltai devotamente. Anche Michael fece lo stesso, abbracciandomi forte.

    Abbandonai la fronte sulla sua scapola e osservai distrattamente la mascherina abbassata.

    «I’ve found the gold deep in my soul and I want to hang on
    Just one look of encouragement and I what I have here is heaven sent
    and hit from above
    ».

    Quella era la felicità? Quella era la sensazione di essere innamorati? Sentirsi completi, con la mente svuotata da ogni pensiero? Era quello il più grande sentimento al mondo? Sì. Era quello che avevo cercato per anni. Era la ragione per cui mi sentivo in grado di respirare a pieni polmoni. Era l'immenso, formato da silenzi e sussulti del cuore.

    Osservai Michael, commossa.

    «Ti posso dedicare anche questa?»

    Piegò lo sguardo in basso.

    «Certo...», sorrise.

    Mi dondolò piano fra le sue braccia e mi baciò la fronte. Fino a quando la canzone finì e anche più tardi, quando alla radio ne passò un’altra completamente diversa, Michael non disse nulla. Ad un certo punto mi prese il viso fra le mani e mi costrinse a fissarlo. E io, intimidita, lo feci: due lacrime spuntavano curiose dai suoi oceani lucenti. Un brivido risalì la mia spina dorsale dal basso.

    «Ti ringrazio, principessa», sorrise. Mi scoccò un altro bacio sulle labbra. Lungo, dolce, emozionante. «Per ogni cosa che riesci a donarmi».






    1 La canzone citata si chiama Crashed into Love (www.youtube.com/watch?v=84H02gdWAf0) degli Spandau Ballet. Consiglio di ascoltarla e leggere le parole, perché descrivono perfettamente il tipo di amore che pervade Michael e Sarah e la relazione in sé.

     
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    Capitolo Trentaquattro: L'Oblio


    «È inutile che continui» esclamai ridendo. «Tanto non mi convinci!»

    Entrai dentro in casa seguita da Michael alle mie spalle.

    «Sei davvero antipatica», ridacchiò. Chiuse la porta d'entrata. «Io guido magnificamente!»

    «Ha!».

    Mi avviai rapidamente verso lo sgabuzzino sotto le scale, in cui avrei riposto la giacchetta che mi ero portata dietro quel pomeriggio. Non che facesse freddo – anzi – ma il mio era un gesto incondizionato. Eravamo tornati a Neverland, visto che era sabato. I bambini avevano passato tutto il pomeriggio con alcuni dei loro cuginetti – alcuni di questi presenti anche alla festa di compleanno di Janet.

    Gli lanciai un'occhiata furbetta, ricambiata dall’espressione rapita di Michael che osservava accuratamente il mio...

    «Come no!»

    Misi mano alla maniglia della stanzina isolata, spalancando la porta per fare entrare un po’ di luce. Mi avviai verso il primo appendiabiti libero.

    Avevo appena fatto fare una guida a Michael. Il risultato non era stato dei migliori. Mi aveva convinto con quegl'occhi grandi e preganti e io non avevo avuto il coraggio di rifiutare, finendo così per pentirmene amaramente. Era un pericolo come guidatore; pigiava l’acceleratore al massimo, incurante delle curve o dei possibili ostacoli in mezzo alla strada, frenava e cambiava marcia di botto. Era uno sconsiderato.

    L’unica cosa che potei fare – se non a dire inutilmente “Michael, rallenta” o “Michael, la mia macchina non è un trattore” – fu quella di appigliarmi alla maniglia sopra il sedile. Quando arrivammo ad un certo traguardo e fermò la macchina, scesi e m’inchinai a terra gridando “Sono viva!”. Aveva riso come un matto.

    «Tu non credi nelle mie capacità di guidatore».

    «Già!», mi voltai e gli presi la giacca che teneva in un braccio. Me la porse senza smettere di fissarmi. «E sinceramente faccio bene! Sei una minaccia per la mia incolumità!»

    Appesi la sua giacca nera e lucida sopra la mia. Non ci badai molto, ma Michael stette in silenzio tutto il tempo. Non rispose. Nel momento in cui mi girai per uscire dallo sgabuzzino lui aveva fatto qualche passo in mia direzione, tenendo una mano sulla maniglia della porta.

    Gli occhi di Michael incrociarono i miei con un enigmatico bagliore.

    «Sul serio?»

    «Sì», annuii convinta.

    Sorrise volgendo in basso lo sguardo. Si bagnò le labbra frettolosamente, poi mi porse una mano e attese che gliela prendessi. Con il cuore che batteva dall’emozione mi avvicinai. Michael si morse un labbro, respirando a fondo non appena mi percepì accanto.

    La mano che mi aveva attirato a sé scivolò verso il mio fianco. Mi fece avvicinare al suo bacino con un solo passo. Sbattei il seno contro il suo torace.

    «Mi piace molto…»

    Chinò il capo verso l’incavo del mio collo, vi affondò il viso e lo baciò; la mano avanzò lungo la mia natica. Buono, delicato... un bacio lungo e saporito. Tutto questo come la scena di un film: a rallentatore.

    Tremai socchiudendo gli occhi.

    «Cosa...», annaspai piano, ingoiando la saliva. «Cosa ti piace...?»

    Sorrise. «Mi piace farti impazzire».

    Gettai un’occhiata alla porta che si chiudeva. Non riuscii a dire niente per impedire che questo non avvenisse: non parlai, non mi mossi, lasciai che quei baci assaggiassero ogni parte del collo, salendo e scendendo, non risparmiando nemmeno un centimetro di pelle.

    «Michael...», gemetti sentendo una contrazione al basso ventre.

    Un rumore di porta che si chiude improvvisamente, il buio che scende su tutto, uno scatto di serratura. Capii tutto. Cercai febbrilmente le sue labbra, misi una mano sul suo collo e una fra i suoi capelli neri. Inarcai la schiena. Un gemito fuoriuscì dalla gola nel momento in cui percepii la sua lingua nella mia bocca, navigando in me. Quella stanza sembrava improvvisamente troppo piccola, ancora più piccola di quanto non lo fosse prima che perdessi la ragione.

    Michael mi strinse i fianchi con le dita. Sospirò pesantemente.

    «Parlami...», disse con voce roca. «Parlami ancora... voglio sentirti...»

    Ebbi le vertigini. Feci un passo indietro e Michael mi seguì. Mi appoggiai al muro in mattoni rossi.

    «Mio Dio...». Il petto si alzava e si abbassava. Avevo paura che il cuore scoppiasse. «Non riesco...».

    Le mani di Michael avanzarono lungo la zip dei pantaloncini e l’abbassarono, infilando le dita di una mano al di sotto della stoffa, rimanendo comunque sopra la biancheria. La mia gamba destra si alzò e puntai il piede contro il muro. Michael l’afferrò con energica affettuosità e l’accarezzò a lungo. La pelle di entrambi scottava. Le nostre labbra si separarono solo per prendere il fiato necessario.

    «Ti prego...», gemetti.

    Inclinai la testa all’indietro e Michael riprese a lambirmi il collo. Con una mano si diresse verso la schiena intimandomi silenziosamente di appoggiarmi al suo petto. Lo feci emettendo un altro mugolio disperato.

    «Ti voglio...», disse in un sospiro spezzato dal desiderio. Lo immaginavo ad occhi chiusi, e fantasticavo su cosa mai i suoi istinti gli stessero urlando in testa. «Ti voglio mia...»

    Tentò di slacciarmi il reggiseno e io lo aiutai. Quando sentii di avercela fatta mi rilassai, Michael lo intese e scivolò piano verso i due seni. Sentivo il suo gonfiore a contatto con la mia intimità.

    «Michael...»

    Dire il suo nome era l’unica cosa che mi riuscisse bene. Mi sentivo straordinariamente vulnerabile.

    Prese il seno sinistro con il palmo di una mano. Lo massaggiò, lo alzò, ne sfiorò il capezzolo e lo inturgidì più di quanto già non fosse. Lo premette contro il mio petto, lasciò un po’ la presa, e poi ricominciò da capo.

    «Parlami...», gemette. «Dimmi cosa vuoi che ti faccia...». Michael si piegò in basso e io gli lasciai la presa del suo fianco, drizzando la gamba. «Eccitami»

    Volevo che mi facesse impazzire. Volevo impazzire.

    «Per favore...». Mi sostenni alle sue spalle. «Ti amo...»

    «Non è abbastanza...», annaspò.

    Lo percepii chinarsi un po’ verso terra. Le dita avevano ancora il mio seno in possesso.

    «Ti prego», piagnucolai. Le mie dita tremarono cercando le sue guance. «Fammi quello che vuoi – fai tutto, Michael –, non importa... basta che... ti voglio...»

    Non sapevo più dov'ero, nemmeno che ore fossero. Stavo delirando. Stavo delirando e non sembravo io, ma non mi interessava. Non interessava nemmeno a Michael. Anche se immerso nel buio, potevo immaginarlo sorridere compiaciuto.

    Finalmente, dopo aver sollevato la maglietta e il reggiseno, la bocca si posò sul mio seno sinistro; gli diede piccoli baci e lo frizionò con la lingua; nel frattempo l’altra mano si apprestava a slacciarmi i jeans. In pochi istanti mi parve di svenire. Gemetti.

    Le dita si addentrarono al di sotto delle mutandine e fui scossa da un prolungato fremito. Lasciai andare un sospiro pesante. Fu dentro me in pochi secondi, senza esitare. Massaggiò, mi tormentò, affondò in me e si allontanò, entrò e uscì piano, continuamente. I muscoli si contraevano mentre scivolava nei segreti e umidi meandri del mio corpo. La voce della sottoscritta, incrinata dal piacere, si alzava lenta nell’atmosfera – a volte più acuta, altre volte più bassa e straziata, altre ancora più passionale e sensuale.

    Mi abbassò anche la biancheria.

    Di colpo emisi un piagnucolio di gioia, percependo la lingua di Michael in quel luogo. Mi aggrappai a due appendiabiti vicini, mugolando di piacere. S’infilò dentro di me e assaggiò i miei umori, cercò il mio punto debole e lo coccolò. In seguito si aiutò anche con due dita.

    Mi aveva in pugno.

    Le mie sottili urla lo facevano diventare pazzo.

    «Michael...», mugolai senza fiato. I ritmi erano sempre più frenetici, le pressioni erano aumentate ed ero quasi al culmine. Tutto troppo presto. «Michael... ti voglio ora...»

    ... e poi si fermò.

    In silenzio, pur sapendo che non mi avrebbe visto, spalancai gli occhi dalla sorpresa.

    Chinai il capo, ansimando. Un debole bagliore di luce proveniva dall’impercettibile fessura fra il pavimento e la porta. In un attimo avevo ripreso quasi tutta la lucidità. Il volto si era allontanato dal mio sesso. Michael si era alzato impercettibilmente, ma non aveva atteso che riprendessi fiato per baciarmi. Tutto più passionale, tutto più velocizzato. Le mie mani s’inserirono sotto la sua maglietta. Con un mugolio si avvicinò al mio ventre – la sua eccitazione così palese e concreta contro il mio corpo. Si abbassò i pantaloni fino a metà coscia.

    «Toglimeli, ti prego...».

    Obbedii. Le mani erano smaniose, ma il mio cervello era totalmente andato; glieli abbassai fino alle caviglie, obbligandomi a sedermi a terra come anch’egli aveva fatto poco prima, puntando le ginocchia al pavimento.

    Mordendomi un labbro cercai anche di abbassare la sua biancheria molto lentamente. Michael mi lasciò fare senza protesta e sentii un rauco respiro fuoriuscire dalle sue labbra. Si appoggiò alla parete a cui io stessa davo le spalle, tenendosi sugli appendiabiti.

    Le mie mani arrancarono da sole alla ricerca della sua eccitazione. Quando lo sentii, era eccitato – rigido e scalpitante come non mai. Cercai di concentrarmi solo sul gioco che dovevo apprestarmi a compiere. Michael cominciò a rantolare, mi tenne il capo con una mano e affondò le dita nei capelli mentre io affondavo in lui.

    Dapprima piano e dolce. Le sue preghiere di sottofondo, che mi inducevano a continuare. Poi divenni più sensuale, più sicura e più curiosa. I miei deboli respiri colpivano la sua pelle. Mi lasciai guidare dalla presa che energica ma non arrogante mi teneva stretta a lui.

    «Oh Dio...», si appoggiò di nuovo alla parete. I suoi piagnucolii mi davano lo stimolo giusto per torturarlo. «Sarah...»

    I gemiti di Michael e i miei riempivano il silenzio. Non pensai a cosa avrei fatto se i bambini – che erano con Grace – sarebbero tornati a casa di punto in bianco. Ma in quel caso li avremmo sentiti subito.

    «Sarah...», lo sentii biascicare. Lo percepivo tremare. Emise un sottile grido estasiato. «Sto per...»

    Compresi.

    Lo lasciai venire.

    Poco dopo respirai a fondo, ridando finalmente un po’ di ossigeno ai polmoni. Egli arrivò al picco sussurrando un flebile mormorio di assenso. Dentro di me pensai stesse sorridendo appagato.

    Mi dette cenno di alzarmi accarezzandomi una guancia. Nel mentre, lui si rivestì in silenzio, senza il benché minimo imbarazzo. Il suo petto era ancora scosso dai tremori quando posai le mani sulle sue spalle, baciandolo sulla guancia.

    «Sapevo che prima o poi... questo sgabuzzino sarebbe stato utile...»

    «Non ti era utile già da prima?», domandai in un sussurro, sorridendo.

    «No...», sentenziò piano, sorridendo a sua volta. Mi dette un bacio sul naso e io ridacchiai. «Ci ho pensato solo la prima volta in cui ti ho portato qui dentro con me...».

    Lo baciai. «Pensavi a me in questo modo già allora?»

    Trattenne il fiato, emise uno spasmo di risata sorda e sensuale. «Non sai quante volte ti ho pensato così...», i polpastrelli scivolarono sui miei glutei. «Solo per me...», inspirò il mio profumo, «la tua pelle... così morbida come la immaginavo... il tuo sapore...»

    «Michael, ti prego...», esclamai a voce incrinata, «fammi venire...»

    Percepii il suo tenebroso silenzio e in seguito si chinò a terra per la seconda volta. Non se lo fece ripetere due volte. Due dita avanzarono verso la mia femminilità e si addentrarono in me nel giro di qualche secondo. Gemetti quando lo sentii avvicinarsi con il capo, ritornando in quel oblio senza fine apparente.

    *

    «Biancaneve non ci pensò ulteriormente: prese scopa e strofinaccio e di buona lena ripulì ogni cosa» enunciai in tono affabile e dolce. «Poi salì al piano superiore e vi trovò sette lettini in legno. Su ciascuno era inciso un nome: Dotto, Gongolo, Eolo, Cucciolo, Brontolo, Mammolo e Pisolo. “Che strani nomi!” pensò Biancaneve.»

    «Sì» ridacchiò Prince stringendosi al mio petto, adocchiando la sorella anch'ella rannicchiata su di me. «Mooolto strani».

    Sorrisi. Sciolsi le gambe dalla posizione a farfalla e adagiai i piedi sul tappeto, tenendo il libro obliquamente sulle cosce. Mi sistemai meglio sul morbido schienale del divano.

    Una goccia di sudore mi imperlò la fronte. Una lieve e calda brezza pomeridiana accarezzò i capelli. Le finestre del terrazzo del salotto erano aperte, i raggi solari battevano scottanti sul terreno attraversando le folte chiome degli alberi in giardino.

    Eravamo solo ad inizio giugno e sembrava che fossimo in pieno agosto.

    «Poi, siccome era molto stanca, si distese sui lettini e si addormentò. Gli abitanti di quella casa erano sette nanetti, i quali lavoravano in una miniera di diamanti molto vicina. Rientrando, trovarono Biancaneve e decisero di ospitarla, raccomandandole di essere estremamente prudente per via della regina cattiva».

    I bambini seguivano assiduamente la lettura, esaminando le immagini che riempivano quasi completamente ogni pagina del libro. Eravamo solo noi tre. Blanket dormiva nella sua cameretta tenuto d'occhio da Grace. Michael, invece, aveva un impegno di lavoro importante a cui non poteva rinunciare.

    In quei giorni le cose fra noi erano... vaghe. Non ci ignoravamo ma neppure passavamo molto tempo assieme. Gli attimi di tenerezza si erano ridotti notevolmente. Dapprima dolce e affettuoso, poi sempre più impegnato e notevolmente più distaccato. Michael mi sorrideva, mi lanciava tenere occhiate, ma era strano. Assente. I suoi baci erano flebili, veloci.

    Non sapevo neppure io cosa pensare. Sapevo che dovevo parlargli, ma non mi lasciava l’occasione per farlo.

    «Un brutto giorno la regina cattiva chiese di nuovo allo specchio chi fosse la più bella del reame. E lo specchio magico le rispose:Al di là dei sette monti, al di là delle sette valli, c'è la casa dei sette nani, in cui vive Biancaneve che è ancora assai più bella di te”»

    Paris sghignazzò teneramente. «Sei buffa quando imiti la voce dello specchio!»

    Mi accigliai.

    «Ahhh», sorrisi divertita. «Io sarei buffa?»

    «Tanto!» sbottò Prince scaturendo la risata della sorella. Si morse le labbra e mi lanciò un'occhiata curiosa e allegra, tipica dei bimbi che avevano appena fatto un malanno.

    «Bene, bene...» mormorai. Finsi di essermi offesa, chiudendo il libro. «Vediamo se dopo questo mi pensate ancora che io sia buffa...!»

    Le mie mani scivolarono lunghi i fianchi delle due povere vittime innocenti. Dalle labbra di entrambi s'innalzarono subito schiamazzi e risate acute; cercarono di reagire ricambiando il solletico, ma io fui abile, ossia finsi che il loro tentativo di farmi ridere fosse estremamente vano.

    Mentre mi voltavo verso Paris, vidi la figura di Michael apparire dal corridoio. Il mio sguardo si bloccò su di lui, incantato, e così anche il resto del corpo.

    La sua entrata in scena fu capace di far volteggiare il cuore su se stesso. Ma percepivo qualcosa di diverso... anzi, lo vidi chiaro e tondo nel suo viso un po’ incupito e nelle mascelle serrate... per quanto eccitante fosse, vestito in smoking nero e camicia verde scuro, qualcosa non andava per niente.

    «Daddy!»

    Prince saltò in piedi sul divano.

    Il padre sorrise, avanzando veloce verso di noi. Indossava occhiali da sole spessi e scuri che lo rendevano ancora più freddo. Non seppi dire se mi guardò, se quel sorriso fosse in parte rivolto anche alla sottoscritta.

    Prince e Paris si alzarono andando incontro al loro papà. Michael si chinò a terra per poterli tenere fra le braccia.

    «Lo sai» cominciò il più grande «Sarah ci stava leggendo di Biancaneve!», mi puntò sorridente. «Ma non l'abbiamo finita perché ci siamo fatti il solletico!»

    Michael rimase imperturbabile, strinse le labbra in un sorriso di cortesia. C'è qualcosa che non va davvero, pensai.

    «Lo vedo».

    Tentai di non crucciarmi più del dovuto. Ripresi il libro fra le mani, ma i miei occhi non si distolsero dall’immagine seria e composta di Michael.

    «Zia Sarah rimarrà con noi come Biancaneve è rimasta con i nani, vero?» domandò Paris, inclinò il capo verso quello del papà. «Nessuna strega verrà a prenderla?»

    Michael fece per togliersi gli occhiali e li infilò nella camicia sbottonata; nel mentre, apparendo totalmente indifferente al quesito posto, rispose: «No, probabilmente se ne andrà molto presto. La scuola è finita».

    Di colpo qualcosa nel petto venne infranto come uno specchio che viene gettato a terra con violenza. Non respirai neanche per il trambusto che provavo dentro. I bambini mi osservarono dispiaciuti.

    «Perché vai via, Sarah?»

    «Non puoi rimanere qua a Neverland con noi, zia?»

    Ma le loro domande furono parole dette al muro. Il mio sguardo vacillò. Li guardai per cercare di capire se quello che avessi udito fosse vero. Che io sapessi di dovermene andare era ovvio. Non era quello che – diciamo – “mi aveva ferito”. Era il più totale menefreghismo, l'aria di sfacciata indifferenza nei miei confronti.

    Non avevamo nemmeno avuto il tempo di parlare del mio trasferimento. Mi ero arrangiata da sola in quei giorni, cercando una bella sistemazione nelle vicinanze, preferibilmente isolata da altre ville, così che Michael e i bambini sarebbero potuti venire a trovarmi senza dare il minimo sospetto o preoccuparsi di essere visti. Lo avevo fatto perché pensavo che Michael fosse convinto di non volermi allontanare completamente.

    Mi sentivo stupida.

    Michael prendeva l'iniziativa senza di me. Non chiedeva nulla, faceva tutto lui. E aveva comunicato quella notizia senza il benché minimo accenno di gentilezza o cordialità.

    Mi gettò un'occhiata che intercettai subito. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. La mia reazione a quel suo cipiglio investigatore ed indifferente fu uno sguardo di celata delusione.

    Ripose l’attenzione sui suoi bambini.

    Prince e Paris continuarono a parlare a vuoto per un paio di minuti. Né io né Michael eravamo disposti a parlare. Quest'ultimo osservava i suoi figli distrattamente. Non dava segno di vero e proprio coinvolgimento emotivo.

    «Papà, perché oggi sei così serio?» mormorò Paris avvicinandosi mestamente. «Stai poco bene?»

    Michael sbatté le palpebre e si scosse dai suoi pensieri.

    «Scusa principessa» accennò un sorriso dispiaciuto, «Non è niente. Stavo pensando a cosa potremo fare tra poco... che ne dite di andare a fare una passeggiata fuori?»

    «Ma fa caldo!», Prince corrugò la fronte.

    «Allora potremo fare un bagno in piscina, assieme a vostro fratello Blanket. È da un po’ che non usiamo la piscina di Neverland» batté le mani sulle proprie ginocchia. Respirò a fondo, sorridendo lieve. «Che ne dite?»

    Stava cercando in tutti i modi di convincerli a uscire da quella casa. E allo stesso modo non dava attenzioni alla sottoscritta neanche per sbaglio.

    Perché?

    Prince e Paris accettarono la proposta e Michael si alzò per salire al primo piano e andare a prendere Blanket. Se ne andò senza salutare. Anche i bambini fecero per alzarsi e seguirlo ma si bloccarono subito, osservandomi. Non avevo il coraggio di affrontare quei loro grandi occhi dolci e preoccupati.

    «Vieni con noi, zia?»

    Scossi il capo, sorridendo. «No, grazie piccoli».

    Paris mi venne incontro e fece per prendermi la mano.

    «Ma ti divertirai! Fa caldo!»

    La guardai con un’occhiata rammaricata. Non ebbi la forza per rispondere subito, lasciai scorrere qualche secondo e mi schiarii la gola.

    «No, io – »

    «Sei triste perché non rimarrai con noi?», domandò Prince. «Per quello non vuoi venire?»

    La vista s’offuscò malgrado lo sbigottimento per quella frase.

    «Sì, anche per questo» sospirai. «Ma principalmente voglio approfittarne per andare in biblioteca. Devo restituire qualche libro»

    Una scusa come un’altra. Una maniera come un’altra per proteggermi dalla sofferenza e scappare lontano. Una balla come un’altra creata per non rivelare apertamente quello che provavo.

    I bimbi non insistettero. Mi sorrisero mestamente e mi dettero un bacio sulla guancia. Poi se ne andarono.

    Guardai il libro che stringevo fra le mani pensando e ripensando all'espressione di Michael, a come mi aveva ignorato e all'atteggiamento che aveva rivolto non solo a me ma ai suoi bambini. Rimasi lì per quasi cinque minuti, senza muovermi di un passo. Alla fine emisi un sospiro strozzato e le mie mani si strinsero sulla copertina quasi spasmodicamente. Decisi di appoggiare il libro sul tavolino per evitare di romperlo.

    Quel moto di rabbia repentina mi fece tremare il respiro. I miei piedi si mossero colti dallo sciocco desiderio di andare da Michael e chiedergli che cosa avesse.

    Mi issai dal divano con un colpo improvviso. Quando fui su per le scale, le mie orecchie udirono il vociare allegro di Prince e Paris che mi venivano incontro. Erano in costume, con boccaglio e occhialini e un asciugamano ciascuno. Mi salutarono. Da sotto le scale li sentii chiamare il loro papà a gran voce.

    Quando ritornai a guardare dritto davanti di me incrociai lui: pantaloni di una tuta leggerissima, maglia bianca, occhiali da sole e cappello nero, e Blanket in braccio che emetteva paroline confuse e frasi senza senso logico.

    Era serio.

    Lo stomaco si attorcigliò su se stesso nel giro di due rapidi istanti. Un moto di profondo rancore mi aiutò ad aumentare la velocità della camminata.

    Guardai sempre avanti, fissando un punto vacuo.

    Lui si avvicinava, io mi avvicinavo.

    Quando mi fermai sul posto, trattenni silenziosamente il fiato. Schiusi le bocca per dire qualcosa.

    Una folata di vento e basta.

    Michael che mi passava di fianco senza esitazioni.

    Non uno sfiorarsi di braccia. Non un cenno d'intesa o affetto. Mi superò come se uno non potesse percepire la presenza dell'altro.

    Sentendo i suoi passi avviarsi alla rampa di scale, il mio cuore si strinse in petto. Mi voltai appena, per vedere se avesse rallentato il passo o avesse avuto un attimo di esitazione. Se si stesse guardando indietro e se mi avesse rivolto un sorriso dispiaciuto.

    Niente.

    Gli occhi si riempirono di lacrime.

    Non aveva esitato.

    Quando scese le scale, mi incamminai verso la mia stanza. Vi entrai e sbattei la porta, cercando furiosamente le chiavi della macchina. Rovistai a destra e sinistra lasciando alcuni cassetti aperti. In seguito li chiusi per evitare che Michael potesse entrare e darci un'occhiata.

    «Brutto...», ne chiusi uno con violenza, «stronzo!», e mi sedetti sul letto per indossare un paio di scarpe comode.

    Afferrai la borsetta sul tavolino in legno e uscii, non prima di essermi data un’occhiata allo specchio: non mi importava se ero vestita con dei pantaloncini corti e neri stropicciati. Come non mi importava indossare una canottiera viola che mi andava fin troppo larga.

    Quando uscii, girai la chiave che avevo volontariamente preso dalla serratura all'interno della stanza, anche se non ero così scema da pensare che Michael non ne avesse una seconda di riserva. Non so perché lo feci – probabilmente per evitare che invadesse la mia privacy o che curiosasse tra le mie robe senza avermelo chiesto. Anche se non era casa mia, e ne ero consapevole, l’idea di farlo innervosire per ripicca mi fece star meglio.

    Misi la chiave in borsa e poi me ne andai da Neverland.

    *

    Non riuscii a stare lontano dal residence fino a tardi. Ci provai, ma non ci riuscii.

    Qualcosa dentro me diceva di starmene lontana solo per far impazzire Michael; qualcos’altro, invece, mi chiedeva di ritornarci il più presto possibile. Rabbia, pensai. Voglia di chiarire con la persona che amavo e che si stava comportando come un bambino infantile. Oppure semplice sofferenza nel sapere che non mi aveva cercato, neppure per telefono.

    Versai anche qualche lacrima. Non perché fossi vittima della tristezza, ma del rancore.

    Mangiai presso un ristorante di Santa Barbara dopo aver fatto una passeggiata sulla spiaggia. Mi limitai a fare un giro per negozi vagando senza meta e perdendomi tra gli scaffali della biblioteca. Non trovando niente che mi interessasse, andai in libreria e comprai un libro. Un po’ ero riuscita a calmarmi e ritornare in me stessa, ma nel momento in cui mi apprestai a varcare l’enorme cancello di Neverland il cuore riprese a tumultuare.

    L'idea di vedere Michael non mi faceva piacere. Mi veniva l’ansia solo immaginandomelo di fronte.

    Tutto era buio. Erano le 21.50 di sera e la fioca luce bianca dei lampioni sparsi qua e là illuminavano i vari sentieri del ranch. Da fuori i finestrini dell’auto si sentivano i grilli cantare rumorosamente.

    Il respiro si velocizzò quando parcheggiai. Mi guardai intorno e sospirai con evidente esasperazione. Ero di nuovo sul punto di una crisi di nervi. Battendo un piede a terra, presi il cellulare dalla mia borsa. Ero lì, congelata nel sedile della mia auto, a pregare che avvenisse l’impossibile.

    Devo imparare a essere più menefreghista, a prenderlo quando viene e mollarlo quando va, diceva la mente. Ma prima di incominciare a farlo, voglio dare un'ultima controllata..., sussurrava il cuore speranzoso.

    Povera illusa.

    Nessuna chiamata. Nessun messaggio. Niente.

    Riposi il cellulare nella borsa e scesi dalla macchina.

    Mi sentivo arresa.

    Quante seghe mentali per nulla.

    Che razza di idiota.

    Camminai per il viale in ghiaia finissima a piccoli passi, con la testa leggermente chinata sui miei piedi. Prima di entrare in casa decisi di prendere la chiave della mia stanza; nel caso in cui avessi potuto vedere Michael, sarei potuta fuggire a gambe levate e rinchiudermi in camera in fretta e furia.

    Mi fermai sul posto e rovistai nella borsa. Quando ricominciai a camminare alzai lo sguardo e mi arrestai di botto. Il tempo si fermò.

    Vidi un Michael teso, a braccia conserte, appoggiato sulla porta di casa che mi fissava in modo cupo e misterioso. Tutto era buio, se non per il quieto tepore delle luci all'interno della dimora. Qualcosa nel suo sguardo mi inquietava.

    Niente pigiama. Pantaloni in velluto nero e camicia a maniche lunghe e leggera, color rosso acceso. Postura apparentemente rigida. Niente occhiali da sole. Niente capello. Soliti lucidi mocassini. Niente trucco, zigomi ben contratti e quella fossetta marcata che lo distingueva a distanza di chilometri. Occhi grandi e capelli disordinati.

    Non seppi se il cuore tremava per i sentimenti di collera o per il desiderio di corrergli incontro e baciarlo. Era così affascinante, così uomo, e mi destabilizzava completamente.

    Puntai i piedi nel luogo dov’ero per un tempo che non seppi definire. Ero irritata ma anche soddisfatta nel vederlo tanto arrabbiato nei miei confronti... molto soddisfatta.

    Poco dopo mi sistemai meglio la borsa sulla spalla e avanzai. Tenni lo sguardo in direzione dei suoi piedi: uno lo muoveva convulsamente, l'altro gli serviva come appoggio per il peso del corpo. Mi sentivo studiata e, in un certo senso, anche giudicata. Non c'era più indifferenza da parte sua, ma un forte e visibile disappunto.

    Ignorai la dolorosa fitta allo stomaco.

    Quando gli fui a un metro di distanza si staccò dalla porta d'entrata.

    «Potevi anche avvisare che te ne saresti andata per tutto il pomeriggio», mise le mani nelle tasche, parlando con tono ironico e infastidito. «Sono due ore che ti cerco».

    Gli lanciai un'occhiata torva.

    «Si vede», sibilai fra i denti.

    Mi misi al suo fianco e tentai di metter mano alla maniglia della porta. Michael l'afferrò in silenzio. I suoi occhi mi analizzavano carichi di rabbia. I miei non erano da meno.

    «Ho dovuto aspettare che fossero i miei figli a dirmelo. Se fosse per te mi lasceresti qua come uno sciocco!» sentenziò velenosamente. Scosse il capo e assunse una smorfia di sarcasmo. «Perché hai chiuso la camera?» mi sorrise sprezzante. «Sono curioso».

    La vista si offuscò per l'avanzare di un pianto incombente.

    «Tu un povero sciocco?!» quasi urlai. Spalancai le palpebre mentre sentivo che ogni particella di me lo stava odiando profondamente. «Oh, be’, certo! Povera miserabile vittima che sei!»

    Feci marcia indietro e mi incamminai di nuovo verso il sentiero che portava al lago. Ero sul punto di mettermi a correre. Se lo avessi avuto di fronte per un altro secondo gli avrei tirato due ceffoni che non si sarebbe scordato per il resto della sua vita.

    «Un miserabile, io?» gridò. Sentii i suoi passi inseguire i miei. «E, dimmi, da quando lo pensi? È questa la ragione per cui te ne sei andata oggi?»

    Mi voltai di scatto. Si fermò a due metri da me. Avanzai verso di lui che, immobile e accecato d'ira, mi aspettava.

    «Come puoi dare a me giudizi, quando sei il primo che deve farsi un esame di coscienza?» urlai con tutta la collera che percepivo. Seguì una mia fiera e pomposa rappresentazione di lui. «“Oh, piccola, io ti amo, dimmi perché stai male...!”, “Siamo tutto, dobbiamo parlare!”. Ma ti senti quando parli? E poi ti allontani e ti comporti freddamente, come se non te ne fregasse nulla!»

    Spalancai le palpebre e la bocca aspettandomi una sua reazione a parole. Lui strinse labbra e pugni. I suoi occhi sbarrati facevano paura.

    Scoccai la lingua al palato e risi sarcasticamente, scuotendo il capo.

    «Mi vieni a far critiche e morali inutili... e sei il primo che dovrebbe pensare ai suoi comportamenti e meditare!».

    «Tu non sai niente, hai capito?!», mi puntò il dito contro. Aveva gli occhi lucidi. «Non puoi capire!»

    «Capire cosa?!» indietreggiai sentendo una stretta al cuore. «Smettila, ok? Vuoi tenerti le cose per te? Vuoi allontanarti? Fai pure! Arrangiati! Io di sicuro non ti cerco più se devi trattarmi come una merda!»

    Sputai le ultime parole con amarezza e illimitato disprezzo.

    Gli gettai un'ultima occhiata, stavolta delusa: Michael ricambiò inspirando forte mentre le mie parole distruggevano le sue barriere di rancore. Fu come se si fosse svegliato da un sonno profondo, come se gli avessi dato davvero una sberla in faccia. Strinse le labbra con smorfia angosciata.

    Mi asciugai una timida lacrima che timidamente era spuntata dagli occhi e lo superai. Mi strinsi alla borsa, tenendola ben salda sulla spalla.

    «Vuoi sapere cosa è successo? Va bene!», esclamò stizzito.

    Lo ignorai.

    «Sarah, cazzo...!»

    Al suo irritante richiamo seguì il tentativo di prendermi un braccio. Appena sentii le sue dita su di me lo spinsi lontano. La mia aggressività lo fece indietreggiare impercettibilmente.

    «Non toccarmi!».

    «Ascoltami...».

    Il tono era più pacato. Teso, ma più pacato.

    «No, col cazzo!» aumentai l'andatura della camminata. Mi girai di scatto. «Adesso vuoi che ti ascolti? Cosa devo sentirmi dire, “Sei l'origine dei miei mali”?»

    Strinse i denti. «Smettila di sparare stronzate, Sarah!».

    Riuscì a prendermi il polso. Sebbene non mi stesse facendo male mi stringeva forte. Gli lanciai un'occhiata disgustata e tormentata assieme, occhi appannati dalle lacrime, e con un ultimo strattone riuscii a liberarmi. Rimase sconvolto dalle emozioni che il mio volto lasciava trapelare e non ebbe la forza di trattenermi.

    Sobbalzai indietro per l'energia che ci avevo messo. Ripresi a camminare senza più enunciare parola.

    «Ci sarà un’altra udienza il 13 settembre, probabilmente l'ultima. Il processo inizierà a breve».

    Il fiato mi morì in gola.

    «Ecco cosa dovresti sapere...»

    Non riuscii più a camminare.

    Lo guardai in faccia. Aveva le lacrime.

    Non era più arrabbiato… era sconfitto e angosciato.

    «Qualche mese e tutto finirà...» mormorò debolmente. Una luce cristallina scese lungo la sua guancia destra, per poi scomparire con la stessa velocità con cui era nata. «E io non voglio continuare a vivere in un sogno che prima o poi avrà una fine...»

    Ci fissammo a lungo.

    Quell’ultima frase tuonò nel petto furiosamente. Tutto aveva un senso.

    Chinai lo sguardo.

    «Perciò è meglio finirla qui, subito, per non soffrire dopo, non è così...?» dissi con un bisbiglio strozzato.

    Silenzio.

    Trattenni il fiato e il pianto. Non vidi più nulla di quello che mi stava attorno.

    Ed eccola. Ecco l’incudine che aspettavo.

    Mi aveva illuso. Mi aveva detto che non mi voleva perdere. Eppure i ripensamenti li aveva avuti eccome, perché pensava che con l’avvicinarsi del processo sarebbe stata meglio chiuderla lì.

    Come potevo dargli torto.

    Non potevo sapere quanto dolore gli stessero provocando quelle accuse.

    Tuttavia non era giusto. Non avrebbe mai dovuto illudermi con vane promesse di felicità.

    I suoi piedi si mossero verso me creando un rumore sordo al contatto col suolo; non ebbi capacità di reagire. Attesi che Michael mi fosse vicino per chiudere gli occhi. Mi sfiorò le guance con le dita scosse da tremori.

    «Mi dispiace...», mormorò piangendo. «Mi dispiace così tanto, perdonami ti prego...»

    Mi ritirai in me stessa girando la testa dall'altra parte, dandogli le spalle, assumendo un’aria sofferente. Volevo che un muro ci dividesse. Non volevo che mi si avvicinasse. Se dovevo sprofondare, volevo farlo da sola. Perché Michael non ci sarebbe stato per me. Michael voleva chiudere quella sottospecie di relazione che avevamo.

    Sospirò dolorante. «Sarah...»

    Mi afferrò una mano distesa lungo il fianco. Cercai di allontanarmi, di mollare la presa, ma era tutto inutile. Michael avvertì la mia debolezza e mi abbracciò da dietro. Affossò il viso tra i miei capelli e io non feci nulla.

    Non desiderai sapere quali pensieri lo avessero portato a quella brusca decisione, tantomeno volevo sapere se desiderasse dirmi quelle cose da giorni oppure da qualche ora. Non pensai che ciò che lo spingeva a parlare così era una terribile e accecante paura per il futuro.

    Volevo andarmene.

    Mi scoccò un flebile bacio sulla nuca. «Dio mio, Sarah...» Poi me ne dette un altro ancora. «Non avrei mai voluto – »

    «No».

    Mi allontanai con un gesto freddo del capo. Feci qualche passo in avanti e Michael non mi trattenne. Voltai il busto a tre quarti. Mi guardò con la bocca schiusa e il viso bagnato. I suoi occhi erano un caleidoscopio di mille emozioni diverse: paura, tormento, confusione, panico.

    «Non voglio sentire... non voglio che tu dica nulla...», emisi in un soffio, scoccandogli un’occhiata straordinariamente dura e fredda.

    «Sarah, non...».

    «Ti prego». Lo supplicai, serrando le palpebre e aggrottando la fronte. «Non mi interessa».

    Senza guardarlo gli diedi le spalle e mi diressi verso la porta di casa. Come un automa la aprii e vi entrai in silenzio. Il dolore mi attorcigliava le viscere. Le tempie pulsavano e non sapevo più per cosa, se per uno scriteriato rancore per Michael o per un soffocante tormento.

    Era finita così come era iniziata: velocemente e senza controllo.




     
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    Capitolo Trentacinque: Le Condizioni


    Riuscii a dormire quella notte.

    Entrata in casa mi ero asciugata gli occhi e avevo respirato a fondo. Non ero andata a salutare i bambini, temendo stupidamente che Michael potesse raggiungermi.

    Mi ero chiusa in camera e mi ero distesa su un fianco del letto con sguardo diretto al cielo nero al di fuori della finestra. Tutto sembrava continuare a respirare senza di me. Ero ferma in uno stato di trans. Michael era svanito dalla mia vista e tutto sembrava ovattato. I miei occhi erano colmi di lacrime che però non riuscivo a versare. Appariva ancora tutto troppo incredibile da credere reale.

    Allontanandomi da Michael, il mio cervello si era resettato, probabilmente per autodifesa; rimembravo quello che era accaduto ma nella mia testa era come vedere un film muto: solo gesti, grida lontane messe a tacere dal mio rapido battito cardiaco. E poi tutto diventava nero.

    Mi ero illusa.

    E in un certo non era colpa di Michael. Era colpa mia, perché avevo costruito castelli di carta e questi erano stati spazzati via da una folata di vento che mi aspettavo benissimo.

    Ma Michael non avrebbe dovuto alimentare le mie fantasie. Sapeva benissimo a cosa sarebbe andato incontro. Aveva preferito tentare – e quanto eravamo durati? Qualche settimana? Un record.

    Non mi sarei mai immaginata che mi avrebbe allontanato così presto.

    Non credevo che potesse fare così male.

    Non sarei mai dovuta venire a Neverland.

    Pochi istanti più tardi il sonno mi avvolse senza accorgermene.

    *

    Mi svegliai verso le dieci di mattina a causa dei primi sintomi della fame.

    Indossai un paio di shorts in jeans, una canottiera nera e il solito paio di infradito. Andai in bagno per sciacquarmi il viso e osservare in che stato fossi: lo specchio rifletteva una giovane donna stanca... e un po’ in carne, ma non esageratamente. Occhi apparentemente assenti e cipiglio imperscrutabile. Labbra né serrate né sorridenti.

    I miei capelli castano rossiccio erano annodati e scompigliati, in particolar modo dietro la nuca. Sbuffando tentai di pettinarli, ma dopo neanche due minuti mi arresi e mi feci una coda alta come al solito. Lasciai il bagno con un altro sospiro, stavolta decisamente più afflitto.

    Mi comportavo come se niente fosse. Come se quello avvenuto la sera prima non fosse accaduto veramente. Non riuscivo neanche a pensarci.

    Presi un libro dal comodino dove dormivo e mi avviai verso la porta a passo trascinato. La aprii e il mio sguardo venne rapito da qualcosa di indefinito appoggiato a terra, proprio sotto i miei piedi.

    Era un fiore.

    Un fiore arancione con sfumature giallastre. Aveva tantissimi e sottilissimi petali, decisamente più grandi di una margherita e con un lungo e spesso gambo. Sotto di esso vi stava un foglietto bianco piegato in due.

    Il mio cuore s’arrestò per un attimo.

    Mi guardai attorno, a destra e a sinistra, con fare confuso. Vedendo che non c'era nessuno mi chinai a terra, afferrai il fiore con una mano e il biglietto con l'altra. Non avevo dubbi su chi fosse il mittente. Le dita tremavano.

    Inspirai il profumo del fiore: odorava leggermente di limone, un’essenza gradevole e, in fin dei conti, anche molto delicata. Non sapevo cosa aspettarmi, ma avevo una gran paura di leggere.

    Espirai con labbra leggermente sussultanti.

    Mi appoggiai al stipite con una spalla. Attesi qualche istante per metabolizzare la sorpresa e di seguito lessi il biglietto.

    Dolore.

    Una sola parola a caratteri maiuscoli. La sua calligrafia particolarmente disordinata, talvolta incomprensibile, tinta di inchiostro nero come il petrolio, esattamente come il colore dei suoi capelli. Esattamente come me la ricordavo, esattamente come l’amavo.

    Quella scritta sosteneva tutto e niente.

    Gli occhi si bagnarono di lacrime.

    Mi mancò il respiro e arrancai per ritrovarlo.

    Rientrai in camera chiudendo frettolosamente la porta; adagiai il fiore, il libro e il biglietto sul cuscino. Andai alla ricerca del mio quaderno con tutti i significati dei fiori, sezionando ogni cassetto presente in stanza. Michael insisteva per farsene fare una copia, adorava il modo in cui io li amavo.

    Quando aprii l’ultimo cassetto mi paralizzai.

    Non era neppure lì.

    Non era da nessuna parte.

    Non poteva essere in valigia, era impossibile. Michael lo sfogliava spesso.

    Inspirai profondamente.

    Mi sentivo stordita, arrabbiata e angosciata assieme. Di certo quel regalo mi faceva piacere, ma Michael non sarebbe riuscito a lenire il dolore con un fiore. Era stato chiarissimo. Voleva mettere un punto alla nostra storia. Mi volevo autoconvincere che non avrebbe cambiato idea tanto facilmente.

    Così faceva solo peggio.

    Che senso aveva?

    E soprattutto... quand’è che era entrato in camera e mi aveva “rubato” il quaderno? Mentre dormivo? Oppure quando ero uscita nel pomeriggio, il giorno prima? Non poteva, avevo io la chiave… a meno che non ne avesse usata una di riserva, ma era impossibile. Non avrebbe avuto senso. Doveva essere stato quando dormivo…

    Tutta quella serie di domande mi affollò dandomi alla testa. Mi sentivo assente. Svuotata.

    Gettai un’ultima serie di occhiate al fiore e al biglietto.

    Espirai.

    Con quell’immagine impressa nella mente, mi avviai una seconda volta in direzione della porta. Non tornai indietro per riprendere il libro che avevo dimenticato sul materasso, né tantomeno per il fiore o il biglietto. Uscii e m’incamminai lungo il corridoio, impaurita all'idea di poter incontrare Michael da un momento all’altro.

    Non avrei saputo cosa dirgli. Le mie idee si distruggevano e si riformavano su basi inconsistenti. Non credevo di capirci più nulla. Non capivo cosa volesse da me.

    Non ero io a camminare, ma un guscio vuoto.

    Arrivata alla rampa di scale che mi avrebbe portato al piano terra, a circa due metri di distanza da questa, mi arrestai. Sentii il mio cuore fermarsi un’altra dolorosa volta: sul parapetto in legno scuro vi era un altro fiore. E anche un altro bigliettino.

    Non mi guardai intorno come avevo fatto poco prima.

    Un passo e poi un altro. Sempre più veloce. Cercando Michael con lo sguardo, per poi appoggiarmi al parapetto e buttare occhiate esitanti al piano inferiore. Non c’era nessuno. Non c’era ombra di anima vivente... eppure ero convinta che lui ci fosse. Che si stesse nascondendo da me.

    Puntai quel fiorellino scarlatto e lo strinsi fra le dita.

    Lo riconoscevo, era un garofano. Un garofano rosso vivo, dai petali sottili e un gambo finissimo. Il pistillo si intravedeva appena. Era delicatissimo al tatto e odorava di un dolce profumo, forse un po’ meno buono dell’altro. Aprii il biglietto con eccitata titubanza e lessi ciò che vi era scritto.

    Il mio cuore si spezza.

    Sentii un fioco crack al cuore.

    Perché mi faceva questo?

    Amava giocare con i miei sentimenti? Tentava di fare il mago, tirando ad indovinare il mio stato d’animo seguendo il significato dei fiori? Perché cominciai a credere lo stesse facendo apposta per farmi male.

    Non avevo dimenticato il modo in cui mi aveva trattato. E soprattutto non avevo scordato quello sguardo. Quella voce. Mi aveva praticamente fatto intendere che non potevamo stare assieme. Mi aveva fatto capire che si stava arrendendo già prima di aver lottato.

    Ma non potevo non riconoscere che quel suo gesto mi stesse donando un briciolo di speranza, un barlume di gioia che mi portava a credere che – forse – quella che stava sbagliando ero io. Avrei detto la bugia più grande di tutte, se avessi ammesso che di Michael non mi importava più nulla. Io lo amavo con tutta me stessa, anche con tutto quel rancore nell’anima. Anche se immaginavo che mi stesse dicendo addio.

    Mi strofinai gli occhi per non piangere e mi tenni salda al parapetto, per non permettere alle gambe di cedere e, perciò, di lasciarmi cadere a terra. Il petto s’alzava e s’abbassava furiosamente.

    Avanti, Michael, vieni fuori, volevo urlare, ma non ebbi il coraggio di farlo. Le parole sembravano essersi bloccate in gola da quando, la sera prima, io e Michael ci eravamo lasciati in quel modo tanto brusco.

    Presi fiore e biglietto e mi diressi verso la cucina, pronta a ricevere un’ulteriore sorpresa. Eppure, quando vi entrai, non scorsi nulla.

    Mi bloccai sullo stipite della porta.

    Tutte le mie aspettative crollarono nel giro di qualche secondo.

    Rassegnata, mi incamminai verso la credenza e poggiai fiore e biglietto sul bancone dove di solito facevo colazione. Attesi che Michael comparisse come per magia davanti al mio sguardo pregante, ma neanche quel desiderio fu esaudito. Presi un bicchiere vuoto e aprii il frigorifero alla ricerca del latte; dopo un attimo di perplessità cambiai idea, preferendo un po’ di succo di frutta.

    Aprendo l’anta del ripiano dove vi erano i biscotti mi congelai sul posto.

    Una cascata di sollievo e inquietudine fuoriuscì attraverso i miei occhi.

    Il cuore batteva all’impazzata: vicino al sacchetto di biscotti con il quale facevo sempre colazione, vi erano un terzo fiore e un terzo biglietto.

    Michael era la persona più sorprendente e imprevedibile che avessi mai conosciuto, in ogni senso.

    Lasciai i biscotti nel ripiano, prendendo quel tesoro nascosto e sedendomi su uno sgabello accanto al bancone. Aprii il fogliettino di carta bianca emettendo un sospiro pesante.

    La tua assenza mi addolora.

    Scossi il capo, accennando ad una risata sarcastica.

    Mi morsi il labbro e fissai i petali color porpora, piccoli ed estremamente morbidi al tatto. Li accarezzai con dolcezza, sfiorai la consistenza del gambo verde scuro, cercai il suo profumo ma la sua particolarità era proprio quella: non odorava. Quel fiore era la zinnia.

    Anche la tua assenza mi addolora…

    Mi sedetti sullo sgabello e bevvi il mio succo di frutta ammirando i fiori. Rileggessi più e più volte i bigliettini, fino a imprimerli forte nella memoria. La sua scrittura sembrava la cosa più bella che avessi mai visto. In sua assenza mi stringevo alla sua calligrafia e così facendo mi pareva di sentirlo a fianco, come se fosse fisicamente lì con me.

    Una musica soffusa e la dolce voce di Michael invasero l’ambiente circostante come per magia.

    Alzai la testa di scatto.

    Quel candido volteggiare di suoni richiamò la mia attenzione quasi brutalmente. Era una melodia delicata e armoniosa, quasi celestiale. La voce di Michael era celestiale. Così amabile che, in un qualsiasi altro contesto, mi sarei immediatamente sciolta.

    Con l’orecchio cercai di capire da dove provenisse e dedussi che non fosse troppo distante.

    Ascoltai le parole.

    La canzone parlava di una ragazza bellissima. La sua personalità era abbagliante e candida come la luce della Luna: per quell’uomo, lei era l’unica persona che gli potesse rendergli la vita migliore. Il suo cuore stava cadendo a pezzi, tormentato dalle mille chiacchiere e dalle accuse del mondo; su di lui era calata la notte, ma c’era quella ragazza, l’amore di una vita, a ricordargli come sorridere ancora.

    Non era una canzone suonata al pianoforte. Era registrata.

    Mollai tutto sul tavolo e corsi verso la sala, con uno scatto così veloce che ci misi due secondi per raggiungerla. Il mio sguardo vagò per tutta la stanza alla ricerca di Michael o di un altro indizio “floreale”. Il respiro sembrava far male ogni qualvolta questo fuoriuscisse dalle labbra.

    In salotto non c’era nessuno.

    Il grande impianto stereo era acceso e dalle casse rimbombava la melodia che avevo udito dalla cucina.

    Era come se Michael circondasse ogni cosa.

    Arrossii violentemente. Percepivo il suo abbraccio attraverso la sua voce, eppure mi sentii in imbarazzo. Non perché non volevo che mi pensasse in quella maniera, ma perché tutto quel suo sentimento mi mandava in crisi. Ogni residuo di collera veniva momentaneamente annientato, nonostante il dispiacere inglobasse ancora il cuore e lo stomaco.

    Sopra il pianoforte nero e lucido vi era un altro fiore.

    Questa volta era di un colore viola intenso, quasi lavanda, e lo riconobbi subito a distanza: era un giacinto. Quando mi avvicinai – con le gambe che tremavano considerevolmente – lo presi emettendo un gemito emozionato: il gambo era lungo e alcune foglie verde acceso spiccavano dal colore quasi incandescente dei germogli tubolari.

    Mi sentii scoppiare di gioia.

    Era lì, lo sentivo.

    Odorai il fiore dall’incomprensibile essenza.

    Afferrai l’ennesimo pezzo di carta che Michael mi aveva consegnato, nonostante conoscessi perfettamente il suo significato. Il naso mi pizzicò per la commozione.

    Perdonami, ti prego.

    No, non dovevo perdonargli nulla. Nulla di tutto questo. L’unica cosa che dovevo perdonargli era la sua malefica capacità di farmi innamorare di lui, di farmi impazzire per lui, di non essere mai in grado di farmi smettere di amarlo.

    Mi sedetti sullo sgabello accanto al pianoforte.

    Alzai gli occhi verso lo stereo e ascoltai attentamente ogni parola di quella canzone. La voce di Michael dapprima angelica diventava sofferente, e l’attimo dopo ancora si graffiava di un sentimento che non era rabbia, bensì una passione di sconsiderata bellezza.

    Non potevo crederci. Era tutto troppo assurdo.

    Sentivo che c’era.

    I miei occhi si diressero verso lo stipite della porta.

    E così era.

    La vista si bagnò di uno strato così spesso di lacrime che fu capace di accecarmi temporaneamente. Quello che riuscii a scorgere fu un Michael in jeans scuri, camicia nera e mocassini ai piedi. In mano teneva qualcosa, probabilmente un altro fiore.

    Mi asciugai con rapidità una lacrima scesa sulla guancia e abbassai lo sguardo sulle mie mani.

    Stavo per scoppiare a causa del batticuore. L’idea di avere i suoi occhi addosso per la milionesima volta mi dava una fitta alla stomaco. Non doveva chiedere scusa per qualcosa che, di colpo, non aveva più bisogno di essere perdonato.

    Mi fu accanto più velocemente di quanto potessi prevedere. Si chinò a terra con movimenti impercettibili e mi sfiorò una mano. Le sue dita arsero la mia pelle. Accarezzò il dorso febbrilmente.

    Lo guardai.

    Il suo viso era contratto in una morsa di dispiacere profondo. Aveva due solchi profondi al posto delle occhiaie, segno che non doveva aver dormito tutta la notte. Quegli occhi scuri e grandi richiedevano la mia totale attenzione, decisamente sull’orlo del pianto; sembravano abbracciarmi al posto delle sue braccia. Le labbra erano serrate e la mascella era irrigidita per l’emozione.

    Osservai cosa tenesse in mano e contemporaneamente mi asciugò le guance bagnate con quella libera.

    Sospirò tremando.

    Il mio destino è nelle tue mani.1

    Allontanai lo sguardo volgendo la testa a destra. Boccheggiai un attimo, cercando di riprendere fiato e di non scoppiare a piangere per l’improvvisa ondata di amore che avevo appena sentito scagliarsi su di me. Non era solo l’amore di Michael nei miei confronti, ma anche quello che io provavo per lui.

    Lo amavo immensamente, in una maniera spaventosa e devastante, tanto da perdere l’autocontrollo.

    Una camelia bianca...

    Pollice e indice s'adagiarono sul mio mento e lo attrassero a sé. Non feci alcuna resistenza, ma abbassai le palpebre per evitare di perdermi di nuovo. Mi prese il viso fra le mani e adagiò la fronte sulla mia.

    «Mi dispiace... mi dispiace tanto», mormorò con voce spezzata.

    Lo guardai. Una lacrima gli era scivolata sulla guancia sinistra e istintivamente gliela cancellai con due dita. Trattenne il fiato, serrando le palpebre per godere di quel contatto, e sapevo che stava resistendo al desiderio di baciarmi.

    «Non voglio che tu te ne vada... mai».

    Lo fissai.

    «Sei un’idiota», tirai su appena con il naso.

    Non riuscii a esaminare la sua espressione sollevata, poiché fu subito sulle mie labbra.

    Un gemito di arresa scivolò al di fuori della mia gola. Inspirai di lui, del suo profumo, dell’odore del giacinto e della camelia vicino a noi. Lasciai che i miei sensi memorizzassero le dita di Michael sul mio viso. Il dolore si lasciò sottomettere da un sentimento d’amore indicibile, un flusso di elettricità che dalla spina dorsale dirompeva nel resto del corpo.

    Mi aggrappai alle sue mani.

    Allontanandosi, sorrise debolmente. Gli occhi erano ancora lucidi, esattamente come i miei.

    «You know, she’s the Moon of my heart», cantò a voce bassa. «She brought light into my darkest nights».2

    Rabbrividii.

    Gli afferrai la camicia con entrambe le mani. «Promettimelo... promettimi che non lo stai dicendo tanto per dire, che lo pensi davvero. Promettimi che credi ad ogni cosa che mi hai scritto o detto».

    Le sue iridi di velarono di una contentezza abbagliante.

    «Te lo prometto», mi baciò ancora.

    Lo abbracciai e chiusi gli occhi.

    Mi accarezzò la nuca freneticamente. «Non abbandonarmi ora... I need you...»

    Mi strinsi nelle sue spalle.

    Tremai per l’ennesima volta. «Ti amo davvero».

    *

    «Credo che quella di settembre sarà l’ultima data prima dell’inizio del processo vero e proprio...», sospirò.

    Passeggiavamo tranquilli per il vialetto che costeggiava il lago, uno vicino all'altro, con le dita intrecciate in una stretta affettuosa. Il rumore di fontane lontane e di insetti canterini danzavano nell'aria assieme al vento fra le chiome degli alberi.

    Lo osservai preoccupata e addolcita al tempo stesso. L’ombrello che teneva nell'altra mano lo copriva dalla ferocia dei raggi solari.

    «Hai paura perché non puoi impedire che questo avvenga, giusto?».

    I suoi occhi erano persi sul sentiero ciottolato. Serrò le palpebre inspirando a pieni polmoni.

    «Ho paura che questo mi devasti per sempre...» ingoiò la saliva con una certa difficoltà, «e lentamente è quello che sta succedendo».

    Chinai il capo e pensai alla cosa più giusta da dire. Ma in realtà non c'era nulla che fosse capace di aiutarlo, neanche le parole. Mi sentivo inutile, ma speravo che Michael non lo comprendesse fino in fondo, per non farlo stare peggio di come stava. Il mio cervello continuava a lavorare freneticamente, alla ricerca di un qualsiasi tentativo per tirarlo su di morale. Gira e rigira mi ritrovavo sempre dinanzi ad un punto cieco.

    «Scusa...».

    Gli lanciai un’occhiata stranita. Michael strinse le labbra colto da un istantaneo senso di colpa. I suoi occhi divennero tristi e la sua espressione cupa.

    «Mi dispiace ferirti quando dico certe cose».

    Gli sorrisi dolcemente. «Non ti preoccupare. Non sei un peso per me. Anzi, scusa se non dico nulla, io – »

    Smise di camminare. «No, io mi preoccupo invece».

    Le sue iridi scure mi studiavano cariche di serietà e attenzione. Sapevo che per Michael cadere nello sconforto era normale, come era normale sentirsi sopraffatto dalla sofferenza. Ma forse non voleva che sprofondassi con lui…

    «Michael, ti capisco, sta tranquillo. So che...»

    «Che sono un idiota quando dico certe cose?»

    Assunsi un’aria buffamente pensosa. «Anche!», ridacchiai piano. «Ma non è con me che ti devi scusare...».

    Feci un passo verso di lui e gli strinsi la mano con più forza.

    Si accigliò con visibile scetticismo e si bagnò le labbra, ammirando distrattamente il lago in lontananza. Si smarrì nelle sue sfumature verde smeraldo e negli scintillii cristallini creati dal riflesso del Sole. Era arrabbiato con se stesso.

    «Qualche volta vorrei che non mi dicessi “Non ti preoccupare”. Qualche volta vorrei che ti infuriassi con me, che mi prendessi a pugni e mi dicessi che mi odi». Mi gettò un’occhiata indecifrabile. «Vorrei sentirmi dire cosa ti fa soffrire».

    Rimasi ad osservarlo per lungo tempo senza dire una parola.

    Abbassai gli occhi sulle nostre due mani che impercettibilmente dondolavano a destra e sinistra.

    «Mi dispiace...», mi morsi il labbro inferiore. «Io voglio soltanto esserti d’aiuto e non so come fare. Tutte le parole sembrano inutili…».

    «Non hai risposto»

    Alzai lo sguardo, confusa.

    «Uhm?»

    Quei suoi occhi mi fissavano costantemente.

    «Voglio che mi dici cosa provi, Sarah. Voglio che mi dici chiaro e tondo perché sei delusa da me, e lo so che lo sei».

    «Michael...»

    Mi mollò la mano e mi afferrò per le braccia.

    «Dimmelo. Dimmi sinceramente che ti sto facendo soffrire. Dimmi che non sono l’uomo che ti aspettavi fossi. Io non voglio più segreti».

    L’austerità di quel suo atteggiamento paranoico mi colpì in pieno petto. Le sue mani tremavano appena. I lineamenti del suo viso si erano induriti, ma gli occhi tradivano una sfumatura di sofferenza impressionante.

    Mi allontanai di qualche centimetro. «Mi fai soffrire quando dici questo...» bisbigliai. «E mi fai star male quando ti allontani da me. Perché capisco che non posso aiutarti, o che comunque continuerai a soffrire, non importa quanto amore cercherò di darti. Non faccio e non sono abbastanza».

    La voce tremò emanando quelle parole, ma riuscii a dirle senza abbassare lo sguardo.

    Michael ed io stemmo in silenzio per un po’, occhi negli occhi. Da tristi le sue iridi si fecero sempre più vuote. In seguito trasse un profondo respiro, chinò il capo un istante e lo ripuntò nuovamente sulla sottoscritta. Si umettò le labbra per una seconda volta.

    «Ti sbagli. Il tuo amore non è mai troppo poco per me. Se tu non ci fossi, non starei meglio di ora».

    «Dimostramelo», enunciai in un fiato. Il mio petto s'alzò e s'abbassò per l'ansia di quel discorso mai veramente intrapreso prima d'allora. «Non allontanarti. Lasciami rimanere al tuo fianco. Anche se non sarò sempre in grado di dire le cose giuste. Anche se non sarò in grado di comprendere cosa stai passando. Non lasciarmi fuori. Dimostrami che il mio amore è abbastanza dandomi la possibilità di starti vicino e di farti felice come posso».

    La vista mi si ovattò. Cominciavo ad odiarmi.

    Mentre i miei occhi si chinavano al terreno, le due mani di Michael si posarono sulle mie guance. Mi attirò al suo viso e mi scrutò con un’espressione provata.

    «Io ti amo, Sarah Anne Morris» disse con due stelle lucenti al posto dei suoi cieli oscuri. La sua voce era carica di sincerità. «E ti amo come non sarò mai in grado di fartelo capire. Ti chiedo perdono, perché non sono in grado di starti accanto come meriti. Ma non ti lascerò fuori. Farò di tutto per dimostrartelo».

    Michael mi regalò un sorriso luminoso, non appena captò una mia smorfia di divertito imbarazzo. Poggiai la fronte contro il suo petto colta da un improvviso moto d’affetto e timidezza.

    «Piccola...», mi richiamò affettuosamente.

    Le sue mani mi accarezzavano la schiena dandomi alla testa. Avevo la pelle d'oca mentre lui mi bisbigliava all’orecchio. Quando si comportava così, sapeva benissimo l’effetto che mi faceva.

    Infossai il viso nell'incavo del suo collo.

    «Alza quel viso, Moony...» mi scoccò un bacio sulla tempia «voglio vederti felice... desidero osservare la luce dei tuoi occhi quando ti dico che ti amo...»

    «Ma io mi imbarazzo, e lo sai».

    «Shhh...» mi zittì cercandomi la guancia con le labbra. «Ti prego... fallo per me».

    Avvampai. Alzai il capo tenendo gli occhi sul colletto della sua camicia un po’ sbottonata. Mi morsi le labbra per non ridergli in faccia: quando mi imbarazzavo, ridevo come una scema e per niente.

    «Non sarò mai capace di dirti quanto sei speciale per me...»

    «La vuoi smettere?» esclamai con gli fuori dalle orbite, mostrando un sorriso paralizzato dalla vergogna. Michael sorrideva fin troppo beatamente.

    Inclinò il capo da una parte con fare furbetto. Si morse un labbro e osservò il mutare del colore sulle mie gote. Dita affettuose vagarono dal mio collo alle labbra. Mi sistemò un ciuffo di capelli dalla fronte e infine mi baciò.

    Separò la sua bocca dalla mia con un sospiro, come se mi avesse dato una dolce carezza.

    «Sei bellissima quando ti imbarazzi...»

    Lo linciai divertita. «Ancora?».

    Mi ignorò bonariamente, bagnandosi l’angolo destro del labbro inferiore. «Sei proprio la Luna de – »

    Fece per finire la frase, ma gli misi una mano davanti alla bocca. Soffocai una risata e scossi il capo in segno di diniego. Rideva con lo sguardo, trionfante come un bambino che vince una medaglia d’oro per la prima volta nella vita. Lo faceva apposta e se la godeva.

    «Smettila» lo ammonii severamente. «Perché se continui così penso solo che ti diverti a prendermi in giro».

    Quando gli tolsi la mano dal viso si umettò la bocca ancora una volta e sorrise apertamente. Mi faceva andare fuori di testa. Ero sicura si divertisse un mondo, ma al contempo i suoi occhi scintillavano di sentimenti che mai avrei creduto che potesse provare per me.

    «Ti è piaciuta la canzone che ti ho dedicato?» domandò mentre mi avvolgeva il fianco destro con una mano. Non lo guardai. «Non mi hai detto nulla al riguardo».

    «Perché non saprei che risponderti» ammisi facendo spallucce e ridacchiando intenerita. Sospirai e chiusi gli occhi, appoggiando il mento sulla sua scapola. Il cuore era sul punto di esplodere. «Ti ringrazio. Non so descrivere cosa provo. Solo… grazie. È stupenda».

    «Vuol dire che possiedo le carte giuste per conquistarti» sussurrò piano, sorridente. «Ne sono davvero molto felice...».

    «Tu non hai mai avuto bisogno di conquistarmi. Non ne avrai mai la necessità».

    «Oh, sì invece...»

    Alzai gli occhi e notai uno sguardo improvvisamente triste. Corrugai la fronte e mi staccai dal suo petto per poterlo osservare meglio. Mi tenne stretto a sé, serio in volto.

    «Ho una grande paura di perderti» mormorò. Le sue iridi si bagnarono. «E allo stesso tempo desidero che questo mondo non ti faccia del male... che il mio mondo non ti faccia male».

    Schiusi la bocca per contestare, ma pose il pollice sulle mie labbra. Le accarezzò con devozione e occhi assenti.

    «Il mondo del business è una lotta continua. Qui si gioca al gatto e al topo, cercano in ogni modo di ucciderti... la stampa e non solo». Trattenne il respiro. «E io non ho intenzione che tu venga ferita, non per colpa mia». Mi prese una mano e ne baciò il dorso. Rabbrividii e lui lo percepì. Sorrise mestamente. «Ti meriti una vita decisamente migliore».

    «No», esclamai senza esitazione. «E non devi allontanarmi per forza»

    «Qualche volta penso sia la cosa più giusta da fare…», espirò debolmente.

    Mi scoccò un bacio sulla fronte e poi un altro ancora, e un altro di seguito. Il canto di migliaia di cicale riempì il silenzio per alcuni istanti.

    «La purezza che vedo in te non deve essere contaminata. E spesso penso di essere io la persona che ti può rovinare più di qualsiasi altro. Tenerti distante mi rincuora, ma poi impazzisco».

    «Forse è questo il punto», borbottai. «La mia apparente “purezza”», sorrisi senza divertimento.

    Aggrottò la fronte. «Che vuoi dire?»

    Scossi il capo, tentando di sfuggire alla sua stretta. «Forse è proprio questo che ami di me, la purezza. Quella che onestamente io non vedo, eh» risposi con enfasi, alzando le sopracciglia e le spalle.

    «Amo anche quella, sì», sentenziò duramente. «Ma il mio istinto di protezione nei tuoi confronti non nasce solo dalla voglia di difendere una qualità meravigliosa, ma anche una persona meravigliosa...». Era pacato e gentile, anche troppo. «Lo dovresti sapere molto bene...»

    Mi sfiorò una guancia e abbandonai la testa sul palmo della sua mano, per poi allacciare le mie dita all’altra che teneva libera lungo il mio fianco. Un misto di dolcezza e rammarico pitturò il suo viso scolpito. Quella volta fu lui ad evitare di guardarmi negli occhi.

    «Faccio di tutto per conquistarti. L’ho sempre fatto da quando mi sono reso conto di amarti. Ogni piccolo gesto è rivolto a te, per attirare la tua attenzione. Eppure l’amore non è mai stato il mio forte. Poche storie serie, diversi rapporti occasionali, non una relazione che duri in eterno. Anche a me l’amore vero fa paura, perché temo di non essere in grado di gestirlo».

    In un primo momento non ci credetti, devo essere sincera.

    «È strano», ridacchiai accigliandomi, mentre Michael guidava le mie mani sulle sue scapole. «In fondo siamo accomunati dalle stesse fisime...».

    «Tu le mostri di più», proferì lambendosi le labbra.

    Feci una strana smorfia.

    «E tu invece non lo mostri come faccio io...».

    «Solo perché non lo espongo non significa che non abbia questi complessi». Sorrise. «Io lo nascondo per essere forte per te».

    «Be’, qualche volta non esserlo» borbottai arrossendo. Lo fissai un po’ immusonita. «Dammi qualche ragione per credere che io faccia lo stesso effetto a te».

    Sorrise a trentadue denti. «D’accordo».

    Mi afferrò i fianchi. Dita esperte massaggiarono la mia carne dopo essersi intrufolate sotto la canottiera. Tutto ciò mi donò un brivido di piacere ed entusiasmo che dal basso ventre si diresse lungo la spina dorsale e infine sostò sulle tempie; lì il sangue bollì per quella gradevole agonia, mentre le sue mani salivano e scendevano costantemente e mi accarezzavano con lentezza. Gli scoccai un dolce bacio sulla guancia e lo percepii rabbrividire.

    «Ho deciso che non rimarrò qua».

    Si irrigidì.

    Si allontanò per guardarmi dritto negli occhi. «In che senso?»

    Mi staccai dal suo petto e mi incamminai verso un albero poco distante. Distante pressoché trenta centimetri dalle sue radici, mi sedetti sull’erba asciutta. Ricambiai l’occhiata di Michael – che non si era minimamente mosso dal posto – e fui colpita in pieno viso da un raggio di sole e da un lieve e tiepido venticello.

    Ero convinta. Quell’estate non sarei rimasta nella stessa casa con Michael e i bambini.

    L’inconscio mi diceva che avevo preso la scelta giusta.

    Era dura allontanarmi da loro. Che stessero a Beverly Hills o a Neverland non cambiava niente. Il solo pensiero mi intimoriva, ma... era la cosa più sensata da fare. Non avrei rischiato di dare sospetti con la mia presenza e avrei mantenuto quel poco di libertà che l’esperienza mi aveva consigliato di custodire preziosamente.

    «Penso di aver trovato “un’ipotetica casa” in cui stare per l’estate. I pro sono che è una dimora economica, vicinissima a Los Angeles». Strinsi le labbra in una smorfia rammaricata. «Il solo e unico “contro” è che non potremo organizzare incontri segreti».

    Michael non fece una piega. Era dove lo avevo lasciato.

    «Non ti andrebbe di rimanere in un residence per ospiti qua a Neverland?»

    Scossi il capo.

    «No, mi dispiace» dissi piano. «Non voglio essere segregata come una prigioniera, sapendo che tu e i tuoi figli sarete lontano per la maggior parte del tempo».

    Non ero scema e sapevo bene che Michael viaggiava per lavoro e spesso, nei mesi scorsi, lo avevo seguito. Ma questo solo perché ero la maestra di Prince e Paris. I bambini non potevano rinunciare all’istruzione; quell’estate non avevo più scuse per seguirli.

    «Non sarai segregata...», mormorò.

    Mi venne vicino, a passo lento e pesante, e si sedette accanto a me senza far rumore.

    Dissentii con la nuca e gli scoccai un’occhiata eloquente e un po’ addolorata.

    «Credo che sia meglio così».

    Egli mi studiò senza un minimo di gioia. Lanciò un’occhiata vacua al lago e un sopracciglio gli si inarcò appena.

    «Se lo dici tu...».

    «Sì, lo dico io». Il mio tono di non ammetteva repliche. «E non hai ragione di offenderti».

    Mi squadrò a fondo. «Mi offendo perché la mia intenzione non è renderti prigioniera», sottolineò. Inclinò busto e capo in mia direzione. «Io ti amo».

    Sorrisi appena e gli diedi un bacio sulla gota. Non chiuse gli occhi, ma lo percepii addolcirsi per quel mio gesto inaspettato.

    «Lo so, Michael. Ma rispetta le mie decisioni...», mormorai teneramente. «Solo perché mi ami non significa che voglio dipendere da te per sempre. Non è nel mio carattere. E non trovo l’utilità di rimanere a Neverland o a Beverly Hills, se non servo come maestra».

    Storse le labbra e il naso con lieve disapprovazione, ma non ribatté.

    Sospirai e passai le dita tra i fili d’erba del prato. Quel contatto mi riportò al 25 gennaio, il giorno del mio compleanno, quando io e Michael avevamo giocato tutta la notte fingendo di essere due bambini mai cresciuti.

    «Tanto non staremo lontani per molto, no?», lo guardai speranzosa, esibendo un sorriso stirato. «Non ci perderemo di vista... una breve separazione non può far altro che aiutarci... spero...».

    Michael rimase a fissare il vuoto. Voleva quello che voleva a tutti i costi.

    «Spiegami il senso», esclamò con rammarico. «Spiegami come farò a raggiungerti tranquillamente, senza timore d’essere scoperto».

    Chinai lo sguardo. «Non ne ho idea...»

    Adagiai il capo sulle ginocchia che tenevo strette al petto.

    Passò un po’ prima che uno dei due parlasse.

    «Ti trovo io una casa».

    Mi volsi. «Cosa?»

    Michael era sereno. Mi guardava intensamente, ma ogni traccia di turbamento era svanito.

    «Te lo trovo io un posto dove stare, non importa quanto costerà. La troverò e potrò venire a trovarti quando voglio, anche tutte le notti e i giorni, se vorrai».

    Arcuai un sopracciglio.

    «Non voglio che mi paghi niente».

    Mostrò una faccia da poker.

    «Non me lo hai chiesto infatti, mi sto offrendo io», scrollò le spalle.

    Tentai di ribattere, ma mi bloccò posandomi indice e medio sulle labbra, di nuovo. Mi accarezzò con i polpastrelli e la mia voglia di ribattere si affievolì subito, per mutare nella struggente voglia di baciarlo.

    «Lasciami pagare almeno metà delle spese» bisbigliò sorridente. Mi guardò la bocca e il mento a lungo. «Sarà come se io e te fossimo sposati, come se di giorno io andassi a lavoro e alla sera tornassi a casa da mia moglie...». Mi osservò con fare furbino e mi sistemò la spallina della canotta. «Le coppie fanno così, di solito...»

    Arrossii. «Non potrai mai venirmi a trovare tutte le sere».

    In tutta risposta sorrise.

    Che paraculo.

    «E se tu mi trovassi una casa e poi pagassi tutto io? Ti ricordo che non sono messa male con i soldi… ho accumulato abbastanza in questi anni. Ho sempre conservato la maggior parte dei miei risparmi per le emergenze».

    «Assolutamente no».

    Espirai, esausta.

    «Metà allora. Prendere o lasciare».

    Ci fissammo a lungo. Nessuno dei due abbandonò il contatto visivo. Ad un certo punto, però, si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore e mi fissò la bocca. Non capivo se fosse intenzionato a saltarmi addosso o a ponderare seriamente riguardo la mia proposta.

    Si lasciò andare ad un sospiro rassegnato e scosse la testa, sorridendo.

    «D’accordo...».

    Mi scoccò un’occhiata che non mi convinceva per niente; non c’era solo amore in quello sguardo, ma anche malizia. C’era divertimento, ansia, ma soprattutto desiderio. Entrambi sapevamo che avere una casa tutta mia significava avere l’occasione giusta per...

    «Farò il possibile per non lasciarti fuggire da me».

    Reclinando il capo in avanti, mi si avvicinò e mi baciò sulle labbra.

    «Anche se fai la testarda…» bisbigliò ridente. «Anche se sei talmente insopportabile quando sei così cocciuta…». Mi allontanai a causa del fischio causato da un suo bacio al mio orecchio. Mi grattai per il fastidio e lo allontanai ridendo, dandogli una lieve spinta sul braccio. Rise anche lui. «Ma mi hai stregato anche per questo».

    «Ceeerto, le sfide ti piacciono», sorrisi accigliandomi.

    Gettò un’occhiata ammirata all’evidente scollatura sul seno.

    «Penso che tu abbia ragione...».

    Non aveva minimamente ascoltato quello che gli avevo detto.

    Rotolò una ciocca dei miei capelli attorno al suo indice e mi scoccò un altro bacio a fior di labbra.

    «L’angelo non si lasciò sfuggire la principessa Selenite. Vegliò sempre su di lei. E io farò lo stesso con te… la mia bellissima principessa...». La sua bocca scese piano e mi lambì il collo con dolci carezze. «La mia regina...»

    Stava decisamente vaneggiando. E io ero sulla buona strada per seguirlo.

    «E tu...» emanai con respiro strozzato, sorridendo maliziosamente. «Tu saresti l’Arcangelo?»

    Alzai la gamba sinistra e, torcendo il busto in sua direzione, l’allacciai sopra la sua coscia. Inclinai il torace in avanti, appoggiando il seno sul braccio con cui si reggeva col peso. Michael abbassò una spallina della canotta e del reggiseno e vi avvicinò la bocca, respirando sopra la pelle nuda. Tremai. Il ventre si contrasse, mentre il seno veniva scosso da alti e bassi continui durante l’incauta ispezione che le sue dita stavano compiendo.

    «Ovviamente».

    La mano con cui mi aveva abbassato le spalline afferrò la mia coscia e la strinse dolcemente. Inarcai la schiena e infilai le dita fra i suoi capelli, sorridendo con aria sorpresa.

    «Ma quanto siamo sicuri oggi...», mormorai velatamente, fissandolo umettarsi le labbra, «il re in cui quell’angelo si è incarnato era molto umile, modesto, sensibile, leale, buono, e anche sincero...».

    Mi baciò. «Perché? Io non lo sono?».

    Sorrise e quegli occhi grandi mi assaporarono con una sola occhiata. Accennai ad una smorfia non convinta. Gli sfiorai appena la fossetta del mento con le labbra e Michael mi afferrò la coscia con più forza.

    «Non sono forse tutto questo per te...?».

    Lo percepii sorridere frattanto che affondavo il viso nell’incavo del suo collo.

    «Assolutamente».

    Mollò la presa della coscia e avanzò lungo la spina dorsale. Con un solo dito tracciò una linea dritta dal basso verso l’alto. Uno stuzzicante formicolio invase la mia femminilità. Inarcai il corpo e trattenni un gemito eccitato, chiudendo gli occhi.

    «Bene... molto bene...».

    Due polpastrelli si posarono sulle guance della sottoscritta e dolcemente le diressero verso la bocca di Michael. Il fiato s’interruppe con un roco mugolio d’arresa, mentre le nostre lingue s’univano in gentili carezze, uno scorrere di vibrazioni che dal cuore prorompevano in tutto ciò che eravamo, estraniandoci dal resto del mondo.

    Si separò con un sorriso sbarazzino, lasciandomi scombussolata. Mi baciò sul naso.

    «Tu la mia principessa, e io...»

    «Il mio re?»

    «Se vuoi che sia il tuo re, per me va bene. Sarò tutto quello che vuoi... un re...», affondò sulle mie labbra sorreggendomi il collo con una mano. Quando si allontanò entrambi lasciammo uscire un sospiro eccitato. Mi fissò. «O lo schiavo del tuo cuore...».

    «Non mi piace l’idea che tu sia uno schiavo...», arrossii.

    «Preferisci esserlo tu...?», agguantò la mia coscia destra nel giro di un secondo. «Vuoi essere sotto il mio potere?», scoprì i denti in un sorriso sghembo.

    Quello straordinario dolore all’intimità si fece più forte.

    «Si può sapere a che gioco di ruolo erotico stai giocando?», risi. Tentai di scampargli scostando il volto dal suo. «Lo fai apposta!», lo rimproverai con un pigolio imbarazzato.

    Rise.

    «Ti amo, Sarah».

    Quello sguardo distrusse ogni domanda, ogni lacrima, ogni paranoia, ogni utopia, ogni preconcetto, ogni turbamento, ogni maledetta insicurezza riguardante il mio amore per lui.

    «E io invece no!», gli mostrai la lingua.

    Assunse un’espressione scioccata e cominciò a torturarmi con il solletico e un sorriso spietato. Il respiro scemò e risate elettrizzate scoppiettarono nella quiete circostante. E infine labbra contro labbra, un abbraccio, e un altro incontro di sospiri.

    Quando arrivò il giorno della mia partenza, fortunatamente me ne andai senza troppo dolore nell’animo.








    1 Tutte le definizioni dei fiori sono tratte da un libro chiamato “Il Linguaggio Segreto Dei Fiori"
    2. La canzone non esiste. È stata creata dalla sottoscritta di proprio pugno – “testo” compreso.
     
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    Capitolo Trentasei: L'Attesa


    Il getto d’acqua calda intorpidì i miei nervi e permise alla schiena di rilassarsi sotto il suo morbido fiotto. Risciacquai ogni parte del corpo dai residui del bagnoschiuma e uscii cantando allegramente, avvolgendomi in un asciugamano che odorava di vaniglia.

    Presi la biancheria da un mobile vicino, indossai un paio di pantaloncini comodi e una maglietta senza maniche bianca. Alcuni ciuffi di capelli fuoriusciti dalla presa del mollettone dietro la nuca si erano bagnati, ma li ignorai; faceva un caldo tremendo in quei giorni e non avrei avuto bisogno di asciugarli.

    Scostai le tende del bagno e aprii le finestre. Il Sole mi colpì in pieno viso, mentre le aranciate sfumature dei miei capelli scintillarono al chiarore dei raggi.

    L’enorme vetrata che dava sul retro della nuova casa in affitto era stupenda. Quel giardino ben curato dalla vegetazione tipicamente mediterranea mi fece venire nostalgia dell’Italia. Da lontano si poteva vedere la lontana e deserta costa, in parte rocciosa e in parte sabbiosa. Alcuni alberi coprivano la visuale sulla strada, da cui il loft era parecchio distante, quel giusto che mi permettesse di evitare il caotico e continuo passare delle macchine.

    Era passata qualche settimana da quando me ne ero andata dalla famiglia Jackson.

    Michael mi aveva trovato una casa molto bella – costosa, sì, ma ne valeva la pena per tutti i comfort che possedeva. Era immensa: c’era una cucina, una sala da pranzo, un salotto, due camere da letto e due bagni. La casa aveva due giardini: uno che dava sul parcheggio e l’altro che dava sul mare. Il primo presentava un sentiero in mattoni rossi – delimitato da zone d’erba fiorite – e portava al loggiato, davanti alla porta di casa; il secondo lo si raggiungeva attraverso le due finestre a scorrimento del salotto. Anche lì vi era un sentiero in mattoni, che però guidava verso una scala di legno che permetteva il diretto accesso alla spiaggia.

    L’interno era eleganza e sobrietà assieme. Tutte le stanze presentavano pavimenti in marmo lustrato – ad eccezione delle camere da letto – e i soffitti erano in legno chiaro. Le porte erano realizzate con lo stesso materiale, solo di un colore leggermente più scuro, e in ogni stanza c’erano finestre di smisurata ampiezza, dando un’idea di pulito e freschezza rigenerante. Televisione al plasma, connessione Internet, vasca idromassaggio erano solo alcuni dei servizi a disposizione.

    Da quando me ne ero andata io e Michael non ci eravamo più visti: lo sentivo ogni sera per telefono fino alle prime ore del mattino e pareva che fosse sempre lì con me. Oramai mi ero abituata a quel nuovo stile di vita, ma non potevo negare quanto mi mancasse la sua presenza fisica. Ciò nonostante, non ero ossessionata dai dubbi e dalle paranoie.

    Cantando e improvvisando buffi passi di danza lasciai che la musica proveniente dallo stereo in salotto continuasse ad aleggiare nell’atmosfera. Mi diressi in cucina, luogo dove ricordai aver abbandonato il cellulare poche ore prima, e lo trovai sul bancone bianco poco distante da fornelli, quello al centro della cucina, dove solitamente preparavo i miei pasti. Lanciai un’occhiata allo spazio circostante respirando la brezza marina. Poi afferrai il telefono con un sorriso.

    5 Missed Call

    1 Message

    Era Michael.

    Lessi il messaggio senza esitare un secondo di più.

    Quando sei libera fatti sentire, grazie.

    Le mie sopracciglia si sollevarono notevolmente. Mi bagnai un labbro e in seguito la mia espressione divenne specchio della confusione.

    Erano due giorni che non facevamo lunghe chiamate, al massimo un saluto veloce, e non perché non lo volessimo; Michael stava sostenendo molti incontri con i suoi avvocati, con i produttori discografici e con alcuni collaboratori per la collezione di canzoni che non era ancora “perfetta”. Era stressato e impegnato. Mi aveva detto che quando avrebbe avuto più tempo mi avrebbe chiamato senz’altro, facendomi nota delle sue mancanze proprio nel caso in cui avessi “pensato male”.

    Rimasi stupita da quella risposta secca e spiazzante. Non era da Michael scrivere in quel modo. Pensai fosse meglio chiamarlo e così feci.

    Controllai l'orario del messaggio; lo aveva spedito alle 18.34, momento in cui ero andata sotto la doccia. Andai a chiudere la musica e avviai la chiamata. I cadenzati e sordi squilli che udivo attraverso la cornetta durarono giusto il tempo di chiedermi se avesse il cellulare con sé oppure no. Quando percepii il suo respiro, il cuore tumultuò.

    «Ehi!», esclamai mostrandomi felice.

    La risposta fu secca.

    «Ciao».

    Cominciamo bene oggi.

    «Il tuo messaggio era strano» dissi perplessa. «Tutto bene?»

    «Una meraviglia, mai stato meglio», rispose aspramente.

    Due secondi di silenzio per riflettere e mantenere la calma, al fine di evitare risposte troppo impulsive.

    «Sicuro…?»

    Lo immaginai sorridere ironico. «Assolutamente».

    «Ah», sussurrai scoccando la lingua al palato. «Sarà. Comunque… prima non ti ho risposto perché ero sotto la doccia, non perché non mi andava di alzare la cornetta».

    Il suo tono rimase canzonatorio. «Mi fa piacere saperlo!»

    Roteai gli occhi al cielo.

    Un sottile moto di rabbia si avviò dallo stomaco alla testa. Una piccola lampadina nel cervello suonò l’allarme “Ingiusta mancanza di rispetto”.

    «Bene», affermai duramente. «Allora a presto»

    Impediscimi di concludere la telefonata, ti prego.

    Ma non gli detti il tempo per ribattere.

    «Buona serata!» e buttai giù indispettita.

    Sbattei con una certa pressione il cellulare sul tavolo e mi adagiai con le mani su quest'ultimo, osservando al di fuori della gigantesca finestra alla mia sinistra.

    Fissai il Sole che non aveva ancora intenzione di scomparire all’orizzonte.

    Nervosamente estrassi una terrina da un cassetto e dell'insalata dal frigorifero. Presi una vaschetta di tonno, pomodori, olive e quant'altro per prepararmi una cena leggera, adatta alla stagione. Adocchiavo il cellulare ogni cinque secondi, ancora immobile sul tavolo, sperando in una sua chiamata o in un suo messaggio. Ma niente.

    La mia mente vagò a lungo alla ricerca di un perché che potesse giustificare il suo comportamento. In un primo momento immaginai che si fosse offeso perché non gli avevo risposto subito, ma la cosa sembrava totalmente senza senso. Non era il tipo. Era più probabile che fosse nervoso per tutti quegli impegni che aveva, ma solo perché era arrabbiato con il mondo non significava che dovesse sfogarsi su di me.

    Nel bel mezzo di questo pensiero, lo schermo del cellulare s’illuminò. Vibrò sul tavolo e la suoneria – la canzone di George Michael Fast Love – mi fece sobbalzare.

    Michael.

    Afferrai il telefono. Guardai lo schermo, esitante, cercando di tenere a freno il battito cardiaco e pochi secondi più tardi, sospirando, premetti il pulsante di avvio chiamata.

    «Pronto», esclamai secca.

    «Devo parlarti...»

    Inarcai un sopracciglio. «Dimmi».

    «Mi manchi», espirò rumorosamente.

    Quelle parole soffiarono su di me come una carezza.

    Ci fu un attimo di silenzio assoluto. Trattenni il fiato e mi bagnai le labbra.

    «Si vede...», bofonchiai. «Ma anche tu mi manchi...».

    Conoscete quella sensazione in cui vi sentite arrabbiati con il mondo, e poi all’improvviso tutte quelle emozioni si dissolvono come polvere dal cuore? Solo a causa della persona che amate immensamente, che fino a poco prima vi ha fatto andare fuori di senno? Era esattamente quello che io provavo in quel momento.

    «Scusami...», disse flebilmente. «Ma sono nervoso. Questo clima di oppressione psicologica senza di te è terribile. Mi sento sempre peggio...», prese un respiro profondo. «Non ce la faccio già più».

    Strinsi le labbra in sorriso dispiaciuto. «Non ti abbattere, Michael. Non ora», lo incoraggiai dolcemente. «So che è difficile da farsi, ma tenta...»

    «Non è quello…», esclamò con un ché di esasperazione. Si zittì un paio di secondi e riprese con maggior durezza. «Mi vogliono morto, Sarah, lo capisci questo?»

    Un brivido serpeggiò lungo la schiena.

    «Lo posso immaginare. Ma ci sono io con te, ci sono i tuoi figli e c’è la tua famiglia».

    «La mia reputazione ne risentirà per sempre, Sarah», mormorò. «La stampa non dirà mai le cose come stanno, le storpierà...», emise in tono sofferente.

    «Lo so, Michael...», bisbigliai desolata. «E ci sono persone che continueranno a credere a quello che i giornali dicono…»

    «Lo so… e questo mi fa star male. Non potrò toccare o aiutare anche un solo bambino in questa vita, senza venire accusato di ricommettere lo stesso reato, capisci? La gente verrà influenzata irrimediabilmente da questa falsa idea di me...».

    «Potrai donare tanto comunque, anche in anonimo se necessario». Sapevo che Michael si sarebbe sentito morire se gli avessero privato di fare del bene agli altri. «Non serve essere necessariamente conosciuti per aiutare chi ha bisogno, lo sai benissimo. Magari nessuno saprà chi sei, ma continuerai a dare una mano. Io non ho dubbi su questo, non devi preoccuparti. Forse non potrai stare a diretto contatto... ma anche se i media continueranno a sparare stronzate, sono sicura che questo non impedirà a chi ti ama di starti vicino. Ci sarà sempre qualcuno disposto a difenderti, a starti accanto e ad incoraggiarti. È un peso difficile da reggere da soli, ma tu hai l’appoggio e l’affetto di tante persone dalla tua parte. Ricordalo sempre».

    Avrei voluto vederlo.

    Avrei voluto essere con lui e tenergli la mano.

    «E tu sarai con me?», disse poco più tardi. «Mi sarai vicina quando tutto questo finirà e avrò bisogno di qualcuno con cui condividere le mie “anonime” operazioni umanitarie?»

    «Sempre», sussurrai. «Volta dopo volta».

    Un secondo di silenzio.

    «Ti amo».

    «Anche io». Poi storsi la bocca. «Tranne quando mi tratti male, come poco fa».

    «Ero sotto pressione, scusa...».

    Il tono della sua voce era dolce e amareggiata.

    «Lo capisco. Non fa niente, davvero».

    Cominciai ad aggiungere gli ultimi ingredienti essenziali alla mia insalata mista, mentre una lunga assenza di rumori lasciò ciascuno ai propri pensieri. Chiusi il barattolo con le olive snocciolate e lo riposi in frigorifero.

    «Allora...», parlò con voce carezzevole. «Che stai facendo?»

    «Sto per buttarmi sulla mia insalata mista e poi guardare un film alla Tv! Ma in realtà mi è passata la fame...», esclamai prendendo una forchetta dal cassetto delle posate, sventolandola a destra e a manca.

    «Ricorda di mangiare».

    Mi sembrò di sentire mia madre.

    Ridacchiai. «... disse l’uomo che si teneva in forma e mangiava come un uccellino! Ma non ti preoccupare, non rischio di diventare magra come uno stecco, non sono il tipo», sghignazzai senza troppo divertimento. «Lo giuro!»

    «Sei bellissima», affermò con un sussurro soave. «E non solo fuori...».

    Feci una smorfia divertita. «Ruffiano!».

    «Non tradirmi, mi raccomando...».

    «Io sono una donna fedele». Mi sistemai meglio sulla sedia e tenni saldo il cellulare all’orecchio, guardando fuori dalla finestra una milionesima volta. «Non farlo neppure tu...».

    Il suo tono fu serio e deciso. «Non lo farò».

    Sorrisi, ma poco dopo le mie sopracciglia si corrugarono pensando a cosa sarebbe potuto succedere in caso di tradimento. Se fossi stata io a tradire, probabilmente non mi sarei mai perdonata una cosa del genere... ma difficilmente lo avrei fatto. Non con il “trauma” di essere stata tradita dal mio primo ragazzo. Un tradimento non si dimentica mai. Però… se fosse stato Michael a tradirmi?

    Non riuscivo neppure ad immaginare la mia reazione.

    «Vuoi che ti lasci mangiare? Parliamo dopo?», eruppe di sorpresa.

    Mi scossi con un lieve sobbalzo. «No, scusa! Stavo pensando a cosa guardare più tardi…», mentii.

    «Uhm...». Pausa. «Ti va di guardare un film insieme?»

    «Eh?»

    Non mi badò. «Che film hai intenzione – ».

    «Vuoi venire qui?».

    Mi morsi le labbra: il mio tono era troppo gioioso. Afferrai una ciocca di capelli e la attorcigliai attorno a un dito, fissando la mia insalata con sguardo emozionato. Fremevo all’idea che mi venisse a trovare anche se non volevo darglielo a vedere, ma...

    «No, non potrei purtroppo», fu dispiaciuto nel dirmelo. «Grace ha la serata libera».

    «Oh», mormorai. «Quindi...?»

    «Quindi possiamo fingere di essere insieme, sul divano, abbracciati...», disse scandendo ogni parola con lentezza e amabilità, regalandomi soffici fremiti sulla nuca. Lo immaginai sorridere. «Alla stessa ora, lo stesso film...», continuò imperterrito, «ti va?».

    «Sì...», emisi in un soffio, meravigliata, «tantissimo».

    Era il primo uomo che mi diceva una cosa del genere. Come non rimanerne affascinata o profondamente lusingata? Dopotutto l’amore rincitrullisce tutti, perché io non sarei dovuta cadere nella trappola una seconda o terza o quarta volta?

    «Qualche idea per il film?», domandai cercando di scuotermi da quei pensieri destabilizzanti.

    Lo sentii inspirare ed emettere un “Mmh” pensieroso ma adorabile.

    «Stasera fanno Il Grande Dittatore. Oggi pomeriggio ho guardato un documentario su Hitler; seppur crudele, è stato un uomo di grande carisma. Ciò non giustifica i suoi atteggiamenti, ma trovo affascinante conoscere la psiche e il carisma di tali personaggi. Tu che ne dici?».

    «Oh be’, quello sicuramente. Un carisma diabolico, ma sempre carisma», risposi inarcando le sopracciglia e lui rise. «Il Grande Dittatore è il film con Charlie Chaplin, vero?».

    «Esatto», ridacchiò pianissimo, «In questo film interpreta due ruoli: il barbiere di un quartiere ebreo e Hynkel, ossia Hitler. È un attore magnifico. Sai che la donna di cui si innamora il barbiere si chiama Hannah?»

    Michael, ti prego, non rivelarmi tutto il film!

    Mi venne da ridere ma mi trattenni. «Uhm... questo non lo sapevo…».

    «Il suono di quella parola assomiglia a quello del tuo secondo nome... Anne...». Si prese qualche secondo per pensare. «Hanno lo stesso significato, no?»

    «Si», sorrisi. «Perché me lo chiedi?»

    «Anne ti rende più dolce...», sentenziò, «ma non è bello come Sarah. Sarah è perfetto per te. Mi ricorda il nome della ragazza di cui mi sono innamorato tempo fa…».

    Arrossii.

    «Io invece ho ricordi di due Michael, escluso te. Uno era un parente e uno era un ragazzo che per un breve periodo si innamorò della sottoscritta, al college...», mi morsi la lingua tentando di trattenermi dallo sogghignare di gusto.

    «Ah, questa mi è nuova!» sbottò in tono fintamente scherzoso. «E...?»

    «E all’inizio ci odiavamo. Un giorno gli tirai uno schiaffo così forte che presi paura di me stessa. Sapeva essere un gran cafone. Inoltre usava la forza per attirare la mia attenzione, e questo non lo accettavo. Non accetto le mani addosso da nessuno. Ma dopo avergli dato quello schiaffo, iniziò a rispettarmi seriamente. Fui l’unica ragazza che trattava come un bijou e si trasformò in un vero angioletto. Tentò in tutti i modi di conquistarmi con più dolcezza...».

    «E tu che dicevi di non avere corteggiatori...», mormorò a voce bassa. Sembrava meditabondo e offeso. «E come è andata?».

    Alzai le spalle, nonostante Michael non mi potesse vedere. «Non è andata. A me non piaceva e la sua infatuazione durò poco... forse». Drizzai la schiena e mi stiracchiai. «Ci siamo persi di vista. E comunque non ho avuto molti corteggiatori, dico davvero». Feci una pausa. «Non quanto te».

    Non mi badò neanche.

    «Quanti ne hai avuti?»

    Sorrisi. «Non ne ho la più pallida idea! Ma sicuramente meno di cinque».

    «Mmh», borbottò. «Menti… sono sicuro che ne avessi più di quanto la tua testolina ingenua crede. Non so se esserne felice oppure no. Di sicuro anche ora non passi inosservata...».

    Sapevo che stava dicendo così per provocarmi, per vedere fino a che punto lo avrei punzecchiato.

    «Forse», esclamai allegra. «Sarebbe piacevole sapere che sono desiderata».

    «Ma sei desiderata da me...», mormorò a voce ancora più bassa. «Questo non ti basta?»

    «Molto più di quanto immagini». Presi fiato. «Anche se non te lo faccio presente».

    «Allora fallo... ora...», emise con un rauco sussurro.

    Un secco dolore al ventre mi portò ad inclinarmi in avanti. Inspirai e ridacchiai per scaricare l’emozione improvvisa, scaturita da quella sua sottile provocazione. Mi eccitava.

    «Cosa? Assolutamente no!» esclamai crucciandomi divertita. «Poi penserai di avermi sempre sotto il tuo potere!».

    Stette in silenzio. Attesi una sua risposta a lungo, mentre il mio sorriso si dissolveva pian piano per paura di avergli arrecato offesa.

    «Strega».

    Spalancai di poco le labbra. A me?

    «Pff, vanitoso», rimbeccai.

    Emise uno spasmo di risata per nulla allegra. «Bambinetta arrogante... sei solo una bambina... e presuntuosa...».

    Inarcai le sopracciglia con sbigottimento. Mi sistemai meglio sulla sedia e arrossii, offesa.

    «Spocchioso», borbottai. «Spocchioso ed egocentrico. E anche maleducato!». Lo sentii ridere senza apparentemente motivo e mi imbestialii. «Sei sempre il solito! Non ti rispondo più!».

    «Vuoi sapere che ti dico?»

    «Cosa?».

    «Tu hai bisogno di me».

    Pausa.

    Le farfalle nello stomaco tornarono a dimenarsi in segno di protesta.

    Inspirai e la rabbia se ne andò così come era sbocciata.

    «E perché dovrei?», provai a modellare la voce seguendo un istinto di collera che ormai non mi apparteneva più.

    Michael rimase serio, ma il tono fu vellutato. «Cosa me lo fa pensare? Il fatto che tu non riesca a chiudere questa chiamata perché necessiti di sentire la mia voce come io la tua. Lo penso perché nonostante le provocazioni, non riesci a smettere di ascoltare quello che ho da dire. Mi consideri maleducato ed egocentrico, spocchioso e vanitoso, ma...»

    Fece una pausa ad effetto.

    Corrugai la fronte e arrossii. «Ma…?»

    «Ma non riesci a smettere di amarmi», annunciò docilmente. «Come accade a me, volta dopo volta, come hai detto poco fa. Non riesco a smettere». Pregai affinché non mi sciogliessi sullo sgabello. «In particolar modo amo quando reggi i miei assurdi test psicologici».

    Sorrisi insoddisfatta. «Vai al diavolo, Michael Jackson».

    Tipico di lui, tipico del Michael che conoscevo.

    Anche in quel momento il mio cuore batteva per lui e per la spietata voglia di baciarlo.

    Rise candidamente.

    «Be’, ora comincio ad aver fame sul serio. E metà del condimento della mia insalata l’ho mangiato parlando con te», sghignazzai tra me e me.

    «Ok, allora a più tardi. Alla visione nel nostro film...». Parlò con una tale lascivia che mi si appannò la vista. «Sii puntuale, perché voglio tenerti abbracciata a me per tutto il tempo».

    «Posso preparare i popcorn?»

    «Non sei a dieta?»

    «Ah-ah-ah», scandii quella risata sardonica sillaba per sillaba e Michael rise. «Per una volta posso abbandonare il mio regime».

    «D’accordo, allora».

    «Michael?»

    «Uhm?»

    «Ti amo».

    Silenzio.

    «Aspettavo che me lo dicessi», bisbigliò. Tentennai all’idea di chiedergli se si fosse incupito o se fosse soltanto una mia impressione. «Tu non lo sai, ma m’illumini».

    «Be’, ora lo so».

    Anche tu mi fai lo stesso effetto.

    «Ti amo anche io, Sarah».

    Sorrisi e ricambiai per una seconda volta. Chiusi la conversazione e rimasi per qualche minuto a pensare a lui, alle cose che ci eravamo detti, e soprattutto a quel tornado di emozioni scaturitosi dalla presenza di Michael nella mia vita.

    Chiusi gli occhi.

    Assaporai le conseguenze che quel sentimento aveva su di me e mi irrigidii per non far scoppiare il cuore, accompagnata dal lontano rumore delle onde sulla sabbia e sugli scogli.

    Il Sole se ne era ormai andato. Era il momento del crepuscolo.

    *

    «Zia, guarda che brava che sono!», esclamò la piccola Paris.

    Nuotò sotto acqua, venendomi incontro, per poi risbucare al di fuori della superficie con il fiatone. Lasciò cadere il capo all’indietro, scuotendo le due treccine che le reggevano i capelli. Si resse sulle mie ginocchia con le manine, mentre io me stavo seduta comodamente sul bordo piscina con le gambe a mollo.

    Sorrise luminosa. «Sono una sirena, hai visto?»

    «Sei bellissima, Paris!»

    Percepii lo sguardo di Michael su di me e sulla figlia; se ne stava seduto su uno sdraio alle mie spalle, coperto totalmente da un ombrellone verde acqua. La mia attenzione si rivolse immediatamente su Prince, il quale correva verso il bordo piscina con un sorriso che gli partiva da un orecchio all’altro.

    «E vai con il tuffo della morteee

    E splash! Un tonfo e acqua ogni dove.

    Me la risi di gusto. Invano era stato il mio tentativo di non bagnarmi coprendomi il corpo con le braccia e ruotando la testa dalla parte opposta alla sua, finendo così per incrociare lo sguardo sereno di Michael. Era vestito con pantaloni neri e leggeri e una canottiera bianca con collo a V. Indossava i suoi immancabili occhiali da sole, ma ero sicura che da sotto quelle lenti scure si stesse divertendo un mondo.

    Quel giorno ero stata invitata al Neverland Ranch; era molto più sicuro per i bambini fare il bagno in piscina lì, piuttosto che nella casa a Beverly Hills, soggetta agli elicotteri dei paparazzi più e più volte al giorno. Michael desiderava la completa tutela per suoi bimbi, e loro non vedevano l’ora di ritornare nella loro vecchia casa.

    Le dita bagnate di Prince si posarono assieme a quelle della sorella sulla mia coscia, sfiorandomi gli shorts in jeans chiaro. Faceva un caldo tremendo quel giorno, era un miracolo che non mi fossi messa in costume.

    «Dai zia, vieni dentro con noi!»

    «Non sapete quanto vorrei...», sogghignai, «ma purtroppo non posso».

    Paris si crucciò. «Non ti senti bene?»

    «Purtroppo no…», dissi dispiaciuta. Tentai di abbassare i toni per non farmi sentire da Michael, ma lo conoscevo abbastanza da affermare che in quel momento avesse le orecchie grandi come quelle di Dumbo, per ascoltarmi. «Ho dei dolori allo stomaco e non voglio rischiare di stare male in acqua…»

    I due ci rimasero più male di quanto immaginassi. Mi morsi le labbra.

    Non potevo certo dir loro che avevo il ciclo. Chi poteva sapere se Michael lo aveva già fatto presente a Paris? Dio solo sapeva quanto avrei voluto vederlo spiegare cosa fossero le mestruazioni ai suoi figli. Già mi immaginavo la faccia schifata di Prince.

    «Facciamo la prossima volta, ok? Abbiamo tre mesi di vacanza per organizzarci e fare tutti i bagni in piscina che vogliamo, no?», proruppi allegramente.

    I bambini annuirono accennando due sorrisi sollevati. Paris si immerse di nuovo e finse di essere una sirena che nuota nell’Oceano Pacifico; Prince uscì di nuovo dalla piscina e andò a prendere la rincorsa per fare un secondo tuffo, quello che lui definì “Il tuffo a elefante”… il nome era tutto un programma.

    Mi alzai dal bordo asciugandomi la fronte madida di sudore a causa del Sole cocente. Avevo sete e non volevo bagnarmi completamente. Inoltre cominciavo ad avere mal di testa – non sapevo se a causa del caldo o del ciclo. Poco distante dalla piscina, nascosta dalle rigogliose chiome degli alberi, vi era una casetta in legno, uno spazio per snack e bevande nel caso in cui i bambini avrebbero voluto fare una pausa. Ebbi una fitta al basso ventre e un leggero senso di nausea, ma evitai di fare smorfie di dolore.

    «Papà guarda! Guarda, sono Ariel!»

    Vidi Michael sorriderle e sistemarsi gli occhiali sul naso con un rapido gesto dell’indice. «Sei meravigliosa».

    Mi incamminai verso la casetta di legno, guardando imperterrita davanti a me. Quando gli passai di fianco venni richiamata da uno strano rumore, una sorta di fischio basso e sottile. Mi voltai e notai Michael con la testa inclinata dalla mia parte, il mento un po’ piegato verso il basso. Era ovvio cosa stesse ammirando. Arrossii emettendo un risolino imbarazzato e alzando un sopracciglio con finto stupore.

    Si abbassò gli occhiali da sole fino alla punta del naso.

    «Si vede che non vedi l’ora di immergerti», disse piano, ispezionandomi. «È un peccato che tu stia poco bene».

    Non capivo se stesse flirtando o se mi stesse facendo intendere che aveva sentito i miei discorsi con i suoi figli. Storsi la bocca in un sorriso bambinesco e alzai le mani, facendo spallucce.

    «Per stavolta resisterò!», gli detti le spalle e ripresi a camminare.

    Arrivata nei pressi del piccolo gazebo in legno andai alla ricerca di qualcosa da bere. Il bancone era nascosto dagli alberi e perciò non si poteva scorgere la piscina, ma potei udire gli schiamazzi eccitati di Prince e Paris in lontananza. Presi una bottiglia di succo d’arancia dal frigobar e un bicchiere in plastica dalla lunga tavolata in legno.

    Mentre mi versavo il succo, un paio di braccia mi presero da dietro e si allacciarono sotto il mio seno, rialzandolo leggermente. Trattenni il fiato per l’emozione.

    «Ne verseresti anche a me, per favore?», un debole sussurro raggiunse il mio orecchio sinistro.

    Rilassai i muscoli.

    «Certo».

    Feci per prendere un bicchiere pulito, ma nel tentativo di allungarmi Michael mi tenne stretta impedendomi il movimento. Mi scoccò un bacio sulla guancia.

    «Posso bere dal tuo?» chiese. Lo guardai in viso e arrossii per la sua occhiata fin troppo amorevole. Era così vicino che avrei potuto baciarlo da un momento all’altro. Aveva tolto gli occhiali da sole; i suoi occhi erano intensi come al solito, mentre i lineamenti ben marcati del suo viso erano contratti in un’espressione ridente. «Se non ti schifa, ovviamente».

    «Michael, ho mangiato un tuo chewing-gum una volta» puntualizzai alzando un sopracciglio e un angolo delle labbra. Bevvi un sorso di succo ed egli mi guardò divertito, ponendo particolare attenzione alla mia bocca. «Secondo te mi dà fastidio?»

    «Non si sa mai», ridacchiò.

    Finii il bicchiere di succo e ne versai un altro po’. Dovetti obbligarlo a alleviare quella piacevole stretta per riuscire a compiere quell’atto. In seguito glielo passai, cambiando posizione e mettendomi di fronte al suo corpo, petto contro petto; bevve lentamente e io lo fissai come lui aveva fatto con me.

    «Rinfrescante», si bagnò le labbra corrugando la fronte. Poi sorrise furbino, osservandomi le labbra e in seguito gli occhi. «Ma sono sicuro che su di te ha un sapore migliore».

    Si chinò sulla mia bocca e vi posò un bacio intenso, umido e fresco; il respiro morì per un lungo fievole istante e la sua lingua lambì dolcemente il mio sapore. Ebbi la tentazione di aprire gli occhi per vedere se qualcuno ci stesse osservando, ma non ne fui capace: le mie azioni vitali si concentrarono solamente su quel bacio da mozzare il fiato.

    Quando si allontanò sorrise, pur rimanendo a pochi millimetri dal mio volto. «Non è che non fai un bagno in piscina solo per non mostrarmi il tuo corpo, vero?».

    Scoccai un’occhiata alla mia destra – giusto per controllare che i suoi figli non ci stessero raggiungendo – e ritornai ad osservarlo come se nulla fosse.

    «Purtroppo no... non è per quello», arrossii e allacciai le braccia attorno al suo collo.

    Mi tenne per la vita e io chinai lo sguardo per non sentirmi nuda davvero.

    «E allora qual è il motivo?».

    Mi baciò ancora.

    Gli sorrisi e lo guardai divertita. «Non lo vuoi sapere sul serio».

    «Perché mai?», corrugò la fronte. «Non capisco...»

    Tornò sulle mie labbra, stavolta più passionale ed energico, ed io piegai il capo all’indietro. Affondai le dita nella sua chioma nera, sfiorando quei capelli più riccioluti del solito. Mi sentii vittima del suo profumo, della sua dolce richiesta di possesso, ed una debole fitta mi contrasse il ventre – non sicuramente dovuta al ciclo. Feci sfuggire un gemito.

    Michael si ritrasse leggermente. Gli sguardi di entrambi erano ovattati dal desiderio.

    «Moony...», le dita scivolarono in basso, verso i glutei. Bisbigliò raucamente, «Se continuiamo così, impazzisco»

    Sentii le urla felici di Prince e Paris come echi lontani. Le calde mani di lui risalirono la schiena, s’infilarono sotto la canottiera, mentre io esalavo l’ultimo soffio di aria risedente nei polmoni. Il bacio aumentò l’intensità, mi diede alla testa, e lasciai che quella bocca bramosa di me si posizionasse sul collo. Ancora quei polpastrelli scesero verso i fianchi... fino alle cosce...

    «Michael...», boccheggiai.

    Pregai affinché smettesse e al tempo stesso desiderai che continuasse fino a portarmi al delirio assoluto. Non potevamo permetterci di farlo, non in quel momento, ma ero abbastanza masochista da portare avanti quella tortura.

    Arrossii quando all’improvviso si fermò sulle mie natiche.

    «Michael…?»

    «Aspetta...». Mi staccai dal suo petto per poterlo vedere meglio: aveva uno sguardo serio, concentrato... «c’è qualcosa di strano...»

    Rimasi in attesa. Quei grandi palmi mi afferrarono con energia, spingendo il mio bacino incondizionatamente verso il suo. Sentii quel formicolio nell’intimità farsi sempre più intenso e crudele. Esplosi di rossore e desiderio.

    «Michael!», esclamai sconcertata e rallegrata assieme.

    «Sì...», mi puntò con una scintilla di divertimento negli occhi. «Tu sei dimagrita sul serio».

    Risi forte. Affondai il viso in una mano.

    «Davvero?», chiesi poco più tardi, accigliata.

    «Sicuramente».

    «Be’», borbottai. «Grazie». Mi lanciai un’occhiata alle gambe. «Onestamente non sto facendo molta attività fisica, ma magari le passeggiata lungo la spiaggia aiutano a – »

    Lo guardai. Sorrideva maliziosamente. Capii dove volesse arrivare a parare.

    «Oh, no!», sbottai. Sorrisi e mi ritrassi. La sua presa si sciolse. Scossi il capo fingendomi un po’ arrabbiata. «No, no e ancora NO!», gli puntai il dito indietreggiando. «Non cercare di addolcirmi la pillola così, Jackson!»

    Scoppiò a ridere e quando ebbe finito si passò la lingua sulle labbra.

    «Pensavo che questo genere di pillola potesse ridurre i tempi di attesa», emise velatamente.

    La mandibola scese da sola. Era un sottile riferimento al fatto che, da un mese ormai, prendevo la pillola come contraccettivo?

    Scorsi Paris avvicinarsi di corsa da oltre un albero. Le treccine bagnate scendevano lungo le spalle. Mi sorrise.

    «Papà, zia, venite!», si arrestò e ci osservò. «Vogliamo farvi vedere una cosa!»

    «Arriviamo subito», disse Michael con un sorriso gioioso. «State attenti a non correre troppo, soprattutto se bagnato. Potreste scivolare e farvi male».

    L’altra annuì, ci intimò di fare in fretta e scomparve una seconda volta dalla nostra vista.

    Squadrai Michael per un tempo incalcolabile. Lui ricambiò inarcando le sopracciglia con sfrontata ed irritabile maliziosità. Evitai di sorridere di rimando.

    Appoggiai il bicchiere vuoto sul bancone e il cartone del succo nel frigobar. Quando gli passai accanto mi prese per un polso. Non feci tempo a chinare il mento verso il basso che la sua mano si infilò velocemente tra le mie dita; non appena i nostri occhi si incatenarono teneri sussulti mi attraversarono la nuca e l’intimità.

    Avvicinò le labbra al mio orecchio. «Non hai ancora risposto...».

    Il tentativo di ingoiare la saliva fu vano.

    «Eh?»

    Quel respiro mi sfiorò il collo e l’orecchio con un sussulto. Il fiato s’annodò in gola.

    «Lo sai...», la voce era terribilmente bassa.

    La mano libera scivolò sul fianco e non aspettai altro che accostarmi al suo corpo. Non lottai. Inclinai la nuca verso sinistra mentre Michael con sguardo assente studiava il mio seno scontrarsi col suo torace.

    «Al momento non credo che sia il caso...» risi sofficemente.

    Mi guardò di soppiatto mentre la stretta si trasformava in affettuose carezze. «Non qui, certo...» mi baciò vicino le labbra.

    «Michael, non intendevo quello...».

    Corrugò a malapena la fronte. «E allora cosa?»

    Silenzio imbarazzante per me, silenzio meditativo per lui.

    «Non ti senti ancora pronta?»

    Il suo tono mi fece assumere una smorfia a dir poco contrariata. Lo guardai con l’espressione di chi ha sentito la cosa più ridicola al mondo.

    «Pensavo lo capissi da solo...», ridacchiai. Mi lasciò andare senza dire nulla e io posai le mani sui fianchi. «Ho il ciclo, Michael» sentenziai con buffo disappunto.

    Il suo sguardo si trasformò. Mi osservò allibito mentre io mi mordevo le labbra per non spanciarmi dalle risate. Un tenue color scarlatto gli invase timidamente il viso.

    «Oh.»

    Sorrisi divertita. «Già».

    Scoppiò a ridere imbarazzato. «Oh, God...»

    Feci spallucce. «Vedi che mi dai ragione? C’è un motivo più che valido!».

    Udimmo un richiamo da parte di Prince e Paris. Senza esitare mi diressi verso la piscina. Pochi metri più in là un fischio mi richiamò. Mi voltai. Michael sorrideva con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, immobile dov’era.

    «Ehi, Moony...».

    Diventai rossa in viso. Lanciò una premurosa squadrata lungo tutto il mio corpo. Gli occhi erano splendenti.

    «Sei stupenda».

    Ridacchiai e scossi la testa.

    «Che c’è? È vero!», assunse una faccia da schiaffi assurdamente incantevole.

    «Sì, lo so, lo so!», gesticolai alzando gli occhi al cielo. «Non c’è niente da fare: quando una è bella, è bella e basta», sbattei le palpebre e assunsi un’espressione da finta altezzosa.

    Rise teneramente. Feci dietrofront e scomparvi per un momento dalla sua vista.

    *

    Squillò il telefono.

    Lanciai uno sguardo allo schermo illuminato di bianco. Questo vibrò appena sopra il tavolino in cui era appoggiato, poco distante dal divano in cui ero comodamente distesa. Mi issai con un sorriso stranito in volto. Afferrai il telecomando e interruppi la visione del cartone Le follie dell’imperatore. Risposi subito, con il cuore che rimbombava per l’entusiasmo e la curiosità.

    «Michael?»

    «Scusa, ti disturbo?»

    Mi aveva chiamato soltanto un’ora prima. Era un atteggiamento strano, ma non inusuale: qualche volta mi chiamava anche solo per sentire la mia voce o per raccontarmi piccole sciocchezze. E io cercavo di fare lo stesso con Michael.

    «No, dimmi», sorrisi.

    Lo sentii ridacchiare piano. «Dimmi, uhm, sei occupata ‘sta sera?»

    Mi alzai di scatto in posizione seduta.

    «Ehm, no...», mi illuminai, «come mai?»

    «Pensavo di organizzare una serata assieme. All’inizio volevo farti una sorpresa, ma poi ho pensato che avresti preferito essere avvisata per tempo».

    Mi morsi le labbra, i quali angoli si inclinarono all’insù all’istante.

    «Sono libera». Presi fiato. «E mi farebbe molto piacere. Comunque sì, hai ragione. Devo preparare una cena decente. Non posso darti la prima cosa che ho in frigo. Devo anche... mmh… ma sei sicuro di poter venire?»

    «Ne sono certo», disse allegro. «Altrimenti non te lo avrei chiesto, principessa. Non credi anche tu?»

    Arrossii. «Mmh…».

    Mi dava talmente fastidio sentirmi come una ragazzina alle prese con il suo primo amore. Per quanto lottassi per spegnere quel fuoco, il mio cuore pulsava d’affetto per Michael. Lo sentivo (o lo vedevo) e di conseguenza brillavo a causa di quell’emozione sconsideratamente intensa. Pulsavo della stessa luce d’amore che mi donava, che cercavo di restituirgli con lo stesso vigore.

    «Allora ci vediamo fra un’ora, che ne dici?»

    Guardai l’orologio: erano le 17:03.

    «Mi sa che è troppo presto. Dammi due ore».

    Rise. «Principessa, non devi prepararti per una gara culinaria o una sfilata di moda. Va bene qualsiasi cosa indossi adesso, qualsiasi cosa le tue mani mi possano preparare...», mormorò con voce carezzevole.

    Del primo punto dubitavo più che del secondo. Più che altro perché non sarebbe stato contento se avesse avuto a che fare con un grizzly.

    «Fidati, due ore è meglio. Lo giuro... non te ne pentirai!»

    «D’accordo», lo sentii sorridere. «Per una sera i bambini staranno nelle mani di Grace, ho detto loro una scusa... ossia che sono ad una importante cena di lavoro e che tornerò domani», annunciò con un tono di finta pomposità.

    «Oh, ok». Alzai le spalle, sollevata. «Allora alle 19:00 in punto»

    «Ci sarò. Ti amo, Sarah». Aspettò qualche istante. «Non vedo l’ora...»

    Credetti di essere la donna più felice al mondo.

    «Anche io, Michael».

    La telefonata si concluse e sfoggiai quello che potei definire un enorme sorriso da ebete. Mi alzai dal divano saltellando, chiusi la TV, mi diressi verso la cucina: era meglio darmi da fare con la cena, piuttosto che lavarmi e cambiarmi subito. A quello ci avrei pensato più tardi.

    Mentre tiravo fuori dal freezer delle vongole congelate, realizzai il senso di alcune sue frasi.

    Sono ad una importante cena di lavoro e tornerò domani.

    Con un piacevole dolore al basso ventre – immobile sul posto come uno stoccafisso e lo sguardo perso al di fuori dalla finestra – capii che quella sarebbe stata la sera. Desideravo Michael come non avevo mai desiderato un uomo prima di allora.




     
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    Capitolo Trentasette: I Balli Proibiti


    Mi lisciai le pieghe del vestito, continuando a fissare il mio riflesso allo specchio.

    Avevo deciso di non truccarmi quella sera. Non solo perché non ci sarebbe stato il tempo materiale per farlo, ma perché tutto sommato mi vedevo bene anche senza. L’unica cosa che avevo fatto era stato detergere la pelle del viso e metterci un po’ di crema giorno, una di quelle ultra leggere che si assorbono in fretta, e un sottilissimo strato di labello. I capelli erano stati lasciati al naturale: appena appena mossi, castano aranciato come sempre.

    Anche l’abito che indossavo era molto semplice. Bianco, abbastanza corto, la cui gonna arrivava più o meno a metà coscia. Sul seno si apriva con una decisa scollatura a V e le spalline erano sottilissime; la gonna a cerchio si ampliava al mio minimo movimento o semi piroetta.

    Mi posi su un fianco e inclinai la testa di lato, per potermi esaminare meglio. Mi studiai per vedere se quei soliti centimetri di pancetta si vedessero al di sotto del vestito.

    Il bacino era sempre quello, ampio ed enfatizzato dalla vita stretta, ma da quando Michael aveva mostrato pieno apprezzamento per quella parte del corpo, non mi ero fatta più tanti problemi per come fosse. Mangiando meglio e facendo più passeggiate alla sera, ero anche riuscita a buttare giù qualche centimetro sulle cosce, pur rimanendo sempre ben tornite. Mi potevo scordare le tre fessure tipiche delle gambe delle modelle. Era già tanto che ne avessi una.

    Mi aggiustai le spalline sulle spalle. Ero felice di possedere curve abbondanti sul seno.

    Uscii dal bagno. Drizzai la schiena e di colpo fui scossa da brividi d’inquietudine e di euforia. Espirai emettendo uno strano verso di esasperazione, guardando l’orologio a muro e torturandomi le dita delle mani.

    Non vedevo l’ora che Michael arrivasse. Volevo poterlo abbracciare come non succedeva da un po’ – e come non era mai successo fino ad allora, in una danza di corpi nudi e accalorati. Desideravo la sua presenza come se – di colpo – mi fosse venuta a mancare l’aria nei polmoni, come se fosse l’unica cosa che mi facesse tornare a vivere.

    Ero emozionata. Ero felice. Lo volevo davvero e volevo lasciarmi andare all’emozione che provavo per lui, probabilmente l’amore più grande che avessi mai potuto conoscere e sperimentare in una vita intera. Era tutto troppo mozzafiato per poter essere represso.

    Andai in cucina, dove stavo per cucinare gli spaghetti: quella sera cibo italiano, giustamente. Siccome amava il pesce volevo preparargli la stessa pasta con le vongole e pomodorini che preparava mia nonna Angela. Non sarei mai arrivata al suo livello, ma sicuramente sarebbe stata decente.

    Controllai l’acqua che bolliva in pentola e accorsi in sala da pranzo, la stanza adempiente al salotto, per sistemare le ultime posate. Il tavolo rettangolare si trovava in un angolo ben appartato della stanza e affiancava un’unica ampissima finestra che puntava sul mare in lontananza, sul sentiero per arrivare alla spiaggia.

    Quando sentii suonare il campanello il cuore fece un triplo salto mortale su se stesso.

    «Arrivo!», urlai.

    Bastò uno scatto veloce per accorrere alla porta.

    Aprii emozionata.

    Sulla soglia trovai qualcuno, ma questi non era Michael.

    Il mio sorriso svanì immediatamente, congelandosi in una smorfia amareggiata ma cortese.

    Non era un bodyguard di Michael, o almeno così credevo: era un uomo alto, scuro di pelle, sorridente e con due occhi vispi. Indossava un completo blu che assomigliava a quello di un imbianchino, scarpe di ginnastica bianche e nere e un cappellino dello stesso colore della tuta.

    «Lei è la signorina Morris?»

    «Sì» guardai ciò che teneva in mano con un certo rammarico.

    Una lettera e un giglio bianco.

    Se fosse stata un’altra occasione, probabilmente avrei sorriso vedendo il giglio. Era il mio fiore preferito e Michael lo sapeva. Significava regalità, un simbolo che secondo lui mi si addiceva perfettamente.

    «Allora questo è per Lei...».

    Mi consegnò entrambi gli oggetti con fare gentile.

    Lo puntai con la coda dell’occhio. Ringraziai sorridendo mestamente, mentre l’uomo chinò il capo a mo’ di saluto. Quando lo vidi allontanarsi verso un piccolo furgone bianco rientrai in casa. Non sarebbe servito rimanere fuori come un’idiota: Michael non era lì.

    Chiusi la porta.

    Mi guardai intorno sperando di vederlo comparire di sorpresa, ma così non avvenne.

    Mi trascinai fin dentro in cucina. Abbassai il fuoco dell’acqua e ammirai il fiore; ruotai il gambo a destra e sinistra con due polpastrelli, appoggiandomi al ripiano accanto ai fornelli. Alzai lo sguardo in direzione del salotto, visibile dall’arco a tutto sesto che fungeva da porta comunicante con la cucina. Sospirai.

    Decisi di aprire la piccola busta. Stracciai la carta per estrarre la lettera. La sua calligrafia risaltava sul foglio bianco riempiendolo completamente, disordinata e a caratteri a volte maiuscoli e altre minuscoli. Corrugai la fronte per decifrarne le parole.

    In un giorno di oscurità sei arrivata, hai spazzato via le tenebre coi tuoi occhi profondi e la tua amorevole presenza. Hai indotto la mia anima verso un sentiero che non pensavo avrei intrapreso di nuovo, troppo angosciato dalle mie pene, non più intenzionato a dare fiducia a chi mi circondava. Ma ancora credevo nell’amore e così ti ho trovato. Ho incontrato il tuo sguardo quando meno me lo sarei aspettato. Ti ho lasciato entrare nel mio cuore e nella mia anima e ora sei una parte di me. Ho ceduto ai sentimenti ancora una volta, più intensamente di quanto abbia mai fatto, e so che Dio ti ha mandato per darmi la relazione che desidero da sempre. So che averti nella mia vita è il dono più bello che il divino potesse offrirmi.
    Il tuo amore è il respiro che mi si blocca nel petto quando mi sorridi. È l’abbraccio che mi dai quando meno me lo aspetto. Sei l’onda marina che si posa sulla spiaggia, che si allontana sinuosa ma che sempre ritorna. Sei la bellezza di un tramonto, quello che io adesso ammiro da qui, su questa sabbia fine e chiara aspettandoti.
    Sii la mia compagna, l’anima che mi sarà accanto adesso e in futuro… la donna capace di farmi viaggiare in galassie sconosciute soltanto attraverso il tuo amore, con la tua dolcezza, la tua unicità e la tua adorabile pazzia.
    Ti amo e ti amerò sempre, in tutto ciò che sei. Tienimi sempre stretto a te, Moony. Perché quello che provo per te è infinito e incondizionato, come quello che l’angelo ha coltivato per la principessa Selenite, sottraendosi dalla beatitudine del Paradiso per raggiungerla in un mondo fatto di buio e luce.
    Il nostro amore è profondo, indescrivibile, capace di abbattere la distanza e un giorno anche la morte. Ma soprattutto eterno... fino alla fine dei giorni.
    Ti amo davvero.
    Michael

    Trattenni il fiato per un lungo interminabile minuto, prima che il cuore scoppiasse in una danza di gioia incontenibile. Con l’indice mi asciugai una goccia di acqua salata scesa sulla guancia destra.

    Inspirai a fondo.

    Scoppiare d’amore, molto più di quanto mi illudevo fosse possibile, non era nei miei piani. Come non lo era piangere per la lettera appena letta. Come non lo era amarlo ogni giorno di più, più intensamente rispetto al dì precedente e quello prima ancora.

    Se avessi potuto, sarei esplosa d’amore.

    Desideravo solo affondare nelle sue labbra, sentire il suo profumo, stringermi al suo corpo in un abbraccio che mi privava di ogni energia e al contempo mi investiva come una valanga... volevo dirgli che lo amavo, senza orgoglio e paura, più di ogni aspettativa o previsione.

    Spensi i gas dei fornelli con dita tremanti. Corsi in corridoio e uscii dalla finestra a scorrimento del salotto, bloccandomi sull’uscio e scrutando in direzione della spiaggia, pregando di vederlo lì ad attendermi. Scesi le scale di foga, tenendo d’occhio i miei piedi per non inciampare, mentre i battiti del cuore impazzavano e i pensieri si confondevano l’uno con l’altro. Le parole macchiate su carta risuonavano ancora nelle mie orecchie, come se fosse stato lui ad avermele sussurrate.

    Era questo l’amore? Quello in grado di non essere descritto o spiegato o analizzato? Quello che non poteva essere espresso a parole, se non con uno sguardo? Uno di quelli capace di risplendere più di tutte le luci del firmamento?

    Quando mi tolsi le infradito e i miei piedi incontrarono la sabbia, mi arrestai. Lanciai un’altra occhiata nei dintorni, con il fiatone.

    Avanzai timidamente.

    La melodia dell’oceano dava origine ad una dolce e confortevole ninnananna. Alcune nuvole in cielo si erano colorate delle tinte del crepuscolo. Il Sole se ne stava andando oltre l’orizzonte, divenendo pian piano sempre più piccolo. Arancione, giallo e blu inglobavano il mio mondo e, probabilmente, anche quello di chiunque lo stesse ammirando.

    Ma lì non c’era nessuno, apparentemente.

    Conoscevo Michael abbastanza bene da poter dire che mi stava tenendo d’occhio da lungo tempo, nascosto dove non lo avesso potuto scorgere. Avrei voluto voltarmi e, a braccia incrociate, accennare ad un sorriso divertito e urlare “al nulla” di venire fuori... ma non ne avevo la forza.

    Il fiato tremava; a stento fuoriusciva dalla gola, per timore di spezzare quell’atmosfera incandescente.

    Continuavo ad avanzare verso il mare, a passo più o meno deciso, verso il punto in cui acqua e terra si incontrano. E mentre il mio sguardo ammirava l’orizzonte, lievi folate d’aria mi colpivano il viso portandomi ad abbassare lo sguardo e sistemarmi – continuamente e con impaccio – ciocche di capelli indomabili dietro l’orecchio. Per un momento scambiai la brezza marina con le sue dita, immaginandole accarezzarmi quella chioma infuocata dal Sole. La sua invisibile presenza mi circondava come un manto di stoffa preziosa sulla schiena.

    L’acqua incontrò i miei piedi. Chiusi gli occhi, cinsi le braccia al petto e cercai di rilassare le spalle. Respirai l’odore di sale che mi circondava e mi penetrava l’animo. Immaginai il volto di Michael davanti al mio… e quel pensiero mi attraversò la spina dorsale come una potente scarica elettrica.

    Rimasi in silenzio.

    Poi aprii gli occhi.

    Un sottile richiamo nell’aria mi indusse a voltare le spalle al mare.

    Quando lo feci, sorrisi con gli occhi lucidi.

    In piedi, schiena dritta e portamento regale, c’era Michael. Con le mani affondate nelle tasche dei jeans scuri e la camicia nera, leggermente aperta sul petto. I capelli venivano mossi insistentemente dal vento. Non c’erano occhiali da sole o trucco, era semplicemente lui nella sua magnifica naturalezza. Era bellissimo.

    Sorrideva anche lui.

    Scuotendo la testa, con le gote arrossate per l’emozione, gli corsi incontro. La vista era offuscata ma questo non mi permise di fermarmi, al contrario. Aumentai la velocità… di più e di più... sempre di più. Michael aprì le braccia in attesa del mio arrivo, sollevando le sopracciglia e allora, ridendo, lo abbracciai gettandogli le braccia al collo. Il fuoco che sentii divampare dal cuore mi fece abbassare le palpebre.

    Nascosi il viso nell’incavo del suo collo. Le dita cercarono i capelli di lui, ricci rispetto a come li teneva di solito, quella sera lasciati al naturale. Lo sentii sghignazzare soffusamente e quella risata mi rigenerò. Quando Michael era con me, ero in pace.

    Quasi mi venne da piangere, e non per la sua mancanza.

    «Pensavi che ti avrei lasciata da sola?».

    «Non proprio» mormorai con i brividi lungo tutta la schiena. Le sue mani, grandi e vellutate, mi cinsero i fianchi e mi accarezzarono. «In fondo sapevo che non l’avresti fatto...»

    «Mmh...» ridacchiò pensieroso. Mi parve di sentirlo rabbrividire dall’emozione. «Devo inventare qualche altra sorpresa più efficace».

    Guardai Michael negli occhi. Con un sorriso rimase ad osservarmi profondamente e io ricambiai. Quegli occhi erano la più grande dipendenza a cui potessi andare incontro: sempre così profondi, eloquenti, abbaglianti. Mi sentivo nuda di fronte a quello sguardo, ma non avevo paura. Mi conosceva più di qualsiasi altra persona al mondo. Io gli avevo dato qualsiasi cosa, anima compresa.

    Una sua mano scivolò sul mio collo. Tremai impercettibilmente, stringendomi appena nelle spalle, ed egli sorrise maggiormente.

    «Grazie» chinai lo sguardo sulle sue labbra. Soffocai le lacrime e il lieve prurito al naso causato da esse. «Grazie per esserci e per amarmi».

    Il suo viso mostrò una scintilla di sorpresa indescrivibile. Non sapevo se fosse più stupefatto o emozionato. Socchiuse le labbra, spalancando appena le palpebre e sollevando il petto nel tentativo di riprendere fiato. Quelle iridi nere lampeggiavano come tizzoni ardenti. Si bagnò la bocca, lentamente, e con lo sguardo sempre fisso su di me, gli si bagnarono gli occhi di gioia. Sorrise scuotendo il capo.

    «Sciocca…», mormorò con la voce che tremava. Analizzò ogni lineamento del mio viso, ponendomi le mani sulle gote. «Sono io che ti devo ringraziare».

    Sorrideva in una maniera così devastante che avrebbe illuminato anche la mia notte più buia.

    Le mie labbra furono sulle sue nel giro di un mezzo secondo. Mi strinsi alla sua camicia come se avessi paura di cadere da un momento all’altro, emettendo un gemito emozionato, mentre lui inclinava il capo a destra e guidava il mio a fare lo stesso nella direzione opposta. Mi stringeva con la stessa emozione che pervadeva anche la sottoscritta, con un debole sorriso sulle labbra e quei sospiri carichi di trepidazione.

    E in quel momento, io lo sentii. Sentii che tutto quello che stavamo facendo era giusto. Sentii che in quel sentimento non c’era niente di assolutamente irreale o scorretto. Per quanto mi fossi sentita completa anche da sola, Michael corrispondeva a quel pezzo di puzzle mancante che per anni credevo di non aver avuto bisogno. L’anima lo aveva riconosciuto e avevo capito che lui era proprio quella parte di me che stavo cercando di ritrovare da tempo.

    Amarlo era stata una delle poche cose giuste che avevo fatto nella vita. Amare Michael in tutto ciò che era. Lui e la sua solitudine, il suo estraniamento dal mondo, la sua bontà, il suo altruismo, la sua timidezza e quel suo bisogno di amare ed essere amato. Lui e le sue paranoie, la sua diffidenza, la sua testardaggine e quell’immaturità che si alternava ad un’intelligenza fuori dal comune. Lui e la sua ingenuità, la sua dolcezza e la sua allegria infantile. Lui e la sua eleganza, la sua educazione e la sua stupefacente capacità di essere padre. Michael era tutto ciò di cui avevo bisogno per trasformarmi nella versione migliore di me.

    Era l’amore di una vita intera.

    *

    «Ti ho proprio scelto una casa stupenda», mormorò guardandosi attorno con attenzione.

    Rientrati in casa mi ero sbrigata a raggiungere i fornelli per riaccendere l’acqua per la pasta. Michael, intanto, si era messo a curiosare in giro per il loft. Guardava in alto e in basso, a destra e a sinistra, come un bambino di cinque anni. Sorrisi tra me e me.

    «Però non è molto sicura in caso di furto...». Quando mi raggiunse in cucina attorcigliò la bocca in segno di disapprovazione. «Sono riuscito a raggiungere la spiaggia troppo facilmente, e volendo sarei potuto entrare senza che tu te ne accorgessi».

    «Avevo disattivato l’allarme sapendo che saresti arrivato. Anche se, a dire il vero, sapere che sono un po’ fuori dal mondo non aiuta...». Mi bloccai sul posto. Mi era venuto vicino e guardava la padella dove avevo già preparato il condimento per la pasta. Feci un passo verso di lui, mi alzai sulle punte e lo baciai sulla guancia. «Ma almeno sono lontana dal traffico e dai curiosi».

    Inarcò un sopracciglio. «Se hai le finestre sempre aperte, i ladri non avranno difficoltà ad entrare, allarme o no».

    «Ma almeno ho un bel panorama da ammirare» borbottai alzando le spalle. «Nel caso mi uccidessero prima di rapinarmi, morirei vedendo il mare, e sarebbe la morte più bella»

    Mi fissò accigliato, indeciso se rimproverarmi per quell’affermazione o ridere.

    «Perciò… la morte più bella sarebbe vedere l’oceano, piuttosto che il mio viso?», esclamò scherzosamente. Tenne una mano appoggiata al ripiano accanto ai fornelli e con l’altra mi prese il fianco, attirandomi a sé. Aveva le sopracciglia arcuate e non la smetteva di fissarmi. «Preferiresti quello a me?».

    Non ne ero più sicura.

    Abbozzai una risata imbarazzata. «Tanto, se per quello, io muoio ogni volta che...»

    Interruppi il mio borbottio avvampando e i miei occhi scivolarono subito sull’acqua in procinto di bollire.

    «Mmh?», fletté il capo incuriosito, sorridendo furbescamente. «“Ogni volta che...”?»

    Avvicinò le labbra sulla mia guancia sinistra.

    «No…» sghignazzai e mi buttai sul suo collo, cercando di nascondermi.

    Lo percepii espirare a fondo e dissentire col capo, ridacchiando appena. Le sue braccia si legarono alla mia schiena e cominciammo a dondolare sul posto. Serrai le palpebre, mentre il soffuso mormorio dell’acqua che bolliva in pentola e le onde in lontananza si fondevano assieme. Non mi ero mai sentita tanto in pace come in quel momento. A casa.

    Inspirò. «Se solo potessi, sono sicuro che accetterei di vivere qui per sempre, con te e i miei bambini...»

    «Sarebbe bellissimo...»

    «Te lo immagini, piccola? Il risveglio cullato dal suono del mare, io che ovviamente ti porto la colazione in camera, tu che mi ringrazi...» Mi accarezzò distrattamente i capelli. Non ebbi l’audacia di guardarlo. «E i bambini che entrano in camera per darci il buongiorno, che saltano sul letto con un sorriso felice sulle labbra... e non solo i miei figli, anche i nostri... bagni nell’acqua, passeggiate sul lungomare, giochi vari e castelli di sabbia... e la sera un bel film, o una bella lettura... e io e te che ce ne andiamo felici a letto dopo aver addormentato quelle adorabili pesti…», rise.

    Il mio cuore si strinse e mi venne da piangere per l’ennesima volta.

    Tutto quello che aveva detto me lo ero immaginato perfettamente, come se fosse già lì, concreto come il nostro abbraccio. Era una sensazione dolceamara: esaltazione all’idea che Michael potesse immaginarmi così, come la sua compagna di vita, e nostalgia per qualcosa che non c’era, ma che per un attimo avevo creduto che potesse esistere sul serio.

    Uno dei suoi sogni più grandi era la pace e la normalità. Un’enorme famiglia e la possibilità di poter vivere senza sentirsi tormentato dalla sua testa e dalle voci del mondo.

    I nostri figli...

    «Mangiamo italiano, questa sera?», sviò il discorso nel giro di qualche secondo e fu come una doccia gelata. Sbattei le palpebre e mi allontanai dal suo viso. Non smise di stringermi a sé, anche se per un attimo mi parve di cogliere una scintilla di amarezza nelle sue ossidiane nere.

    Lo adocchiai con visibile calore sulle guance. «Non ho fatto granché, eh... comunque sì, è una ricetta tipica italiana. Spero che tu possa apprezzare...»

    Michael mi studiò di rimando. Osservai le sue guance marcate, profumate di dopobarba, e le sue labbra stese in un sorriso curioso. Due dita avanzarono alla cieca verso la sua camicia un po’ sbottonata. Mi parve di sentirlo rabbrividire e la mia femminilità fu contratta da un’improvvisa pulsazione di desiderio.

    «Certo che mi va», esclamò in tono affabile e profondo, bagnandosi un labbro. «Lo apprezzerò sicuramente».

    Mi accostai alla sua bocca, sorridendo amabilmente, e Michael mi dette un bacio, delicato e destabilizzante. Assaporai quelle labbra dalla morbidezza irresistibile. Appena si allontanò lo vidi sorridere a malapena, con espressione furbetta e per nulla convincente, fronte un po’ aggrottata.

    «Oggi il tuo sapore è piacevolmente salmastro», sussurrò con voce rauca per poi bagnarsi le labbra un’ennesima volta.

    Scossi la testa e mi diressi verso il ripiano dove tenevo il sale grosso. Lo versai nell’acqua che bolliva freneticamente e poi – rimesso apposto – mi avviai verso il tavolo, dove già avevo preparato gli spaghetti pronti da buttare. Quando ebbi messo la pasta in pentola, riaccesi il fornellino dove vi stava il sugo – giusto per riscaldarlo appena – e Michael mi prese sulla vita con più energia. Posò le labbra fra i miei capelli, scoccandovi un bacio lento e appassionato. Potei sentirlo inspirare a fondo l’odore della mia chioma. Feci uno sforzo disumano per riuscire a tenermi in piedi.

    «Posso andare un secondo in bagno?».

    Mi scossi. «Certo, è laggiù», mi guardai alle spalle e Michael fece lo stesso. «Vedi quella porta dritta davanti a te, al di fuori della cucina? Bene, quello è il bagno!».

    Michael seguì il mio dito. «Oh, grazie».

    Feci per fare un passo in avanti ma mi sentii bloccare da un bisbiglio.

    «Sarah?»

    «Sì?»

    Mi voltai in sua direzione. Sorridendo mi inglobò le guance tra i suoi grandi palmi e portò la bocca sulla mia. Un altro bacio lungo e scandito, assolutamente più dolce di quelli prima. In seguito mi osservò con uno sguardo entusiasta. Le mie gote si colorarono di un leggero rosso scarlatto.

    «Sono tanto felice di essere qui con te stasera».

    Accennai ad un risolino imbarazzato. «Anche io... insomma, sono felice che tu sia qui con me... ti amo...», balbettai con atteggiamento buffo.

    Ridacchiò e le sue labbra mi accarezzarono ancora, quella volta sul naso. Si divertiva a baciarmi in quel punto soltanto per la faccia che facevo quando mi strofinavo il naso con la mano, soprattutto quelle volte in cui non si rasava e il suo accenno di barba mi pizzicava la pelle.

    Michael si avviò verso il bagno, ma fui io a interromperlo.

    «Michael?»

    Si girò con sopracciglia alzate. «Sì?»

    I lembi della bocca si incurvarono in un tipico sorriso di scherno. «Non è che mi accenderesti lo stereo, visto che passi per il salotto? Sta vicino alla Tv. C’è già un CD al suo interno, mi basta solo che tu l’accenda… per favore».

    L’impianto stereo, così come per la televisione e per molti altri accessori, aveva un proprio ripiano nella gigantesca struttura a muro del soggiorno. La Tv se ne stava proprio al centro, poco rialzata da terra, ed attorno ad essa si sviluppavano altre mensole; ad esempio, vi era un intero ripiano per le foto di famiglia, la stessa che aveva messo in affitto la casa, e in un altro vi era uno spazio dedicato solo ad oggetti di ceramica, libri di antica data, CD di Blues e Jazz...

    Storse le labbra in una smorfia divertita e scomparve dalla mia vista.

    Dopo qualche secondo partì della musica, prima a volume basso e poi sempre più alto. Doveva essere, se non sbagliavo, un CD misto. Amavo creare delle raccolte con le canzoni che preferivo di più. Solitamente dividevo la musica per genere o per “stagione”: è una cosa un po’ da pazzi, lo ammetto, ma collegavo la musica al periodo in cui le ascoltavo di più; alcune canzoni mi ricordavano l’inverno piuttosto che l’estate, oppure la primavera piuttosto che l’autunno. Quindi dividevo di conseguenza. Quando l’avevo detto a Michael mi aveva guardato interdetto; un secondo più tardi era scoppiato a ridere e, vedendo la mia espressione offesa, mi aveva detto che trovava quella cosa tanto divertente quando adorabile. Che paraculo.

    Quella che avevo lasciato nel lettore era una delle mie tre raccolte “estive” preferite: la prima canzone era di Whitney Houston e Enrique Iglesias. Si chiamava Could I have this kiss forever.

    Assaggiai il sugo per sentire se fosse caldo abbastanza. Decisi di scaldarlo ancora un altro po’ e intanto rimescolai gli spaghetti. Intanto che aspettavo il ritorno di Michael presi due piatti fondi da sopra la mensola; mentre lo facevo, i miei occhi si posarono sulla lettera di Michael, che avevo lasciato sul ripiano vicino ai fornelli.

    La presi in mano e tentai di leggerla velocemente, con un sorriso da idiota sulla faccia, ma non riuscii a finirla una seconda volta per l'emozione. La ripiegai in due e la appoggiai su un mobile distante, per far sì che non si sporcasse. Dopodiché cercai un vaso lungo e sottile affinché potesse contenere il giglio bianco – che non mi ero certo dimenticata –, canticchiando tra me e me.

    «I don’t want any night to go by… without you by my side… I just want – ».

    Feci per finire la frase ma mi interruppi. Incrociai lo sguardo di Michael accostatosi silenziosamente al tavolo al centro della stanza, incuriosito e meravigliato. Si bagnò le labbra e mi gettò un’occhiata divertita. Il suo piede destro batteva a terra seguendo il ritmo della musica.

    Era la prima volta che mi sentiva “cantare”, mi sembrava perfino impossibile crederlo.

    Vedendomi irrigidita sorrise apertamente.

    «Continua, dai!», mi indusse con un gesto di mani e un tono di voce soave.

    Dissentii e, arrossendo come mai, sogghignai in preda all’imbarazzo. Chinai lo sguardo.

    Michael alzò gli occhi al cielo mentre mi si avvicinava con passo felino. Con quella musica la sua camminata diventava sicuramente più elegante ai miei occhi... ed io cominciavo a vedere tutto appannato ancora prima che mi fosse a un respiro di distanza.

    «Non fare la sciocca...», mi venne vicino e mi sfiorò il bacino con tocco premuroso. «Lo sai che non ti giudicherei mai...», accostò un mio ciuffo dietro l’orecchio.

    Lo guardai con occhi spalancati: aveva uno di quei sorrisini preganti stampati in faccia. «Ti prego!», sembrava dirmi. M’umettai le labbra ridacchiando e guardai la pentola con gli spaghetti.

    «Un giorno, quando prenderò lezioni di canto, ti canterò una canzone… ma non prima!», mi scostai.

    Assaggiai due spaghetti per vedere se fossero più o meno cotto, spegnendo il gas dove il sugo si stava riscaldando. Feci tutti quei gesti in silenzio, con Michael che mi ammirava da dietro le spalle. Sapevo di non essere completamente stonata: il ritmo lo sentivo, ma si capiva lontano un miglio che mi mancava la sicurezza e la tecnica vocale. Se volevo farmi sentire cantare, volevo farlo bene.

    Le mie gote erano ancora arrossate quando due mani s’insinuarono da dietro la mia schiena per allacciarsi sulla mia pancia. Mi accarezzarono teneramente, mentre il debole respiro di Michael si adagiava sul mio collo come una foglia sull’acqua.

    Una nuova canzone iniziò. Era Amazing, del mio amatissimo George Michael.

    Ah, le cotte adolescenziali.

    Mi irrigidii immediatamente, tentatissima dal partire in quarta e cantare a più non posso. Michael rise per quella mia reazione. Quest’ultimo rimase immobile a coccolarmi a lungo, anche quando assaggiai di nuovo la pasta e spensi il gas. Lo sentivo muovere la testa e un piede per tenere il tempo.

    Mi baciò sulla guancia. «Che brutto non poter cantare le canzoni del proprio idolo, vero?»

    Che maledetto.

    Storsi le labbra in un’espressione indignata. «Mph… mettere il dito nella piaga non ti aiuterà…»

    Michael rise nuovamente.

    «Perché sei così testarda?», mormorò poggiando la guancia sulla mia tempia destra. «Ti posso aiutare e insegnare qualcosa, se vuoi... anche se non so niente di tecnica e di insegnamento», sorrise. «Non fai schifo. Ti ho sentito cantare, poco fa... hai una voce...», mi prese la mano affettuosamente e se la portò al viso. «Molto dolce… ma non sei stonata, questo no...». Fece una pausa ad effetto. «Ti amerei anche con la voce di una cornacchia».

    Quella volta fui io a ridere come una pazza. Andai a prendere lo scolapasta e mi apprestai a versare il tutto senza bruciarmi o spargere acqua ovunque. Michael rimase fermo immobile, con sguardo fintamente severo.

    «Mmh...» grugnii arricciando il naso in un sorriso malizioso. «Preferirei ballare piuttosto che cantarti una canzone»

    Soppesò la mia risposta. «Sul serio?»

    «Sì, tanto siamo abituati a farlo, no?». Ricordai tutte quelle nottate passate a fare gli scemi, cercando di imitare le coreografie di alcuni videoclip musicali famosi. «Non avrei problemi».

    «Ah sì?» sorrise malizioso.

    Mi venne vicino, mi afferrò il fianco destro con la mano e scese lungo il mio fondoschiena, quasi a rallentatore. Quegli occhi luminosi e scaltri furono attenti ad ogni mio gesto o espressione. La mia mente cominciava a non essere più in grado di formulare un pensiero o un’opinione. Il petto sobbalzò appena per quel sospiro che si era inceppato in gola.

    «Preferiresti ballare sul serio?» domandò come un leone pronto ad assalire la sua preda. «Su ogni genere di musica?»

    Ingoiai la saliva, sorridendo nervosamente.

    «Be’, oddio, perché no?»

    Mentii.

    Michael lo comprese immediatamente.

    Mi regalò un ghigno furbesco e mi lasciò andare. Quelle spalle discretamente larghe – enfatizzate dalla camicia un po’ sbottonata – si sollevarono a causa di un pesante anelito di rassegnazione.

    «Guarda caso stasera danno in TV un film che potrebbe interessarti». Mi pizzicò la guancia con due dita. «È uscito a febbraio. È il sequel di Dirty Dancing, ti va di vederlo?»

    Storsi le labbra mentre facevo scorrere l’acqua sul lavandino e versavo gli spaghetti e il sugo in una pentola abbastanza grande. Il vapore mi fece stringere gli occhi.

    «Un remake?»

    «Dal trailer non sembra brutto» fece spallucce. «Precisamente si chiama Dirty Dancing 2: Havana Nights. È ambientato a Cuba», arcuò un sopracciglio.

    «D’accordo... tanto vale provare, prima di giudicare. Premetto che provo un amore sviscerale per Dirty Dancing, e sarò molto puntigliosa», annuii tra me e me e mi asciugai le mani su uno straccio. «Ma prima, mangiamo».

    «Sissignora», Michael fece cenno militare e mi venne incontro a passo di marcia.

    Mi aiutò a sistemare la pasta sui piatti fondi che avevo tirato fuori dalla credenza. Faceva del suo meglio per essere un bravo assistente, chiedendomi se avessi bisogno di qualcosa in particolare. Volevo farlo sentire il più utile possibile, perché sapevo che quelle piccole cose lo rendevano felice come non mai.

    Ad un certo punto afferrò il cucchiaio ed assaggiò il condimento degli spaghetti. Lo scrutai intimidita. Si bagnò le labbra e sbatté le palpebre, meravigliato.

    «Squisito!»

    Gli sorrisi e mi accostai delicatamente a quella bocca che tanto amavo. Lasciò che lo baciassi ricambiando con molta più enfasi di quanto ci avesse messo in tutta la serata.

    *

    «Che ti è sembrato, allora?», domandò Michael fissandomi incuriosito.

    Mugugnai. «Non lo so. Avrei preferito un finale diverso...»

    I titoli di coda passavano davanti allo schermo accompagnati dalla musica. L’intera visione del film era stata abbastanza di mio gradimento, nonostante mi fosse rimasto l’amaro in bocca. Non sarebbe mai stato paragonabile al primo e sarebbe stato inutile ripeterlo in continuazione. Michael sapeva come la pensavo e perciò mi studiava con un sorriso ironico.

    «Immaginavo».

    Eravamo comodamente seduti sul divano e nessuno dei due osava muoversi di un millimetro. Michael mi accarezzava distrattamente l’avambraccio con una mano, con le gambe un po’ allargate ma distese, le quali toccavano il pavimento senza i mocassini ai piedi. Io, femminile come sempre, tenevo una gamba allacciata alla sua. Il vestito lasciava scoperte le cosce senza troppo riguardo; la mia testa era abbandonata sul suo braccio che, da dietro, si allungava verso lo schienale del divano.

    In realtà ero felice che il film fosse finito. Non perché non mi fosse piaciuto molto… più che altro per le vibrazioni che entrambi, sia io che Michael, emanavamo di continuo. Durante la visione del film potevo percepire nettamente la sottile ma palpabile tensione sessuale tra noi, ed ero sicura che lui provasse lo stesso. Ma nessuno dei due voleva darlo a vedere.

    Formicolio e brividi dietro la testa erano solo alcuni dei sintomi che mi avevano colpito. Qualche volta mi ero allontanata dal suo corpo, magari con la scusa di adagiare la nuca sul poggiolo del divano; avevo cercato di guardare quel film come se fossi l’unica spettatrice in quel salotto. Michael, d’altra parte, con l’avvicinarsi della fine del film non faceva che muoversi sul posto di continuo, senza sapere dove mettere la testa e in particolar modo la mano: in alcune scene tendeva a posarsi troppo frequentemente sul ginocchio e sulla mia coscia mezza nuda.

    «A me è piaciuto abbastanza!», disse con il suo solito fare tranquillo. «Più che altro è interessante conoscere la cultura del posto e la storia che lo caratterizza, oltre che il diverso genere musicale...».

    Sollevai un sopracciglio. «Non è che questo film si sia tanto focalizzato sulla rivoluzione cubana, eh...». Lui rise di gusto vedendo la mia espressione decisamente eloquente, portandosi una mano davanti alla bocca, e io continuai. «Però non è malaccio. Bisogna prenderlo come una cosa diversa dal primo, per apprezzarlo veramente».

    «Ci sono un sacco di persone che stanno dietro alla produzione di una pellicola cinematografica... chi deve fare la trasposizione o il seguito di un classico è sempre soggetto a pregiudizi. Deve avere idee chiare e innovative, che non cadano nel banale. È complicato», fissò davanti a sé massaggiandosi la fossetta del mento con un dito.

    «Già. Come è vero che alcuni remake o sequel sono più belli dei film originali. Anche per la musica è così. Molta gente non si interessa alla canzone originale, quanto piuttosto a quella “modificata”, che magari rispecchia la moda o il genere degli ultimi tempi... poi ovviamente centrano i gusti personali e il modo in cui si trasforma un prodotto, questo sì...».

    Ma figurarsi se Michael mi stava ascoltando.

    Si inclinò verso il mio collo e vi depose baci a fior di pelle. Mi accarezzò con il naso fino a quando non mi ritrassi per il solletico che mi procurava. Nell’attimo in cui mi allontanai lo scoprii mordicchiarsi il labbro, con un certo divertimento misto a indefinibile esaltazione.

    «Mi fai prurito così...», mi lamentai ridacchiando.

    Cercai di alzarmi dal divano, ma prima che compissi un passo in avanti fui bloccata dalle sue mani, le quali afferrarono di scatto i miei fianchi. Mi lanciò un’occhiata eccitata e ridente mentre io sospiravo con arrendevolezza, attorcigliando le labbra in un’espressione combattuta.

    «Posso andare a spegnere l’amplificatore?».

    «Non è detto che io voglia...», mormorò.

    Il suo sguardo scese verso il bacino.

    Un altro formicolamento al basso ventre – aggiunto a languide contrazioni di mia familiarità – mi irrigidirono sul posto. La mente fu abbagliata dall’immagine di me che sbottonavo piano la sua camicia.

    Le dita di Michael si diressero sempre più verso il basso. «Questo film...». Rimasi in attesa, impaziente. Mi lanciò un’occhiata intensa e lasciò la presa. «Mi ha messo voglia di ballare...».

    Un scoppio di fuochi d’artificio rumoreggiò in me. Credetti di aver afferrato subito a cosa si riferisse e quell’idea mi fece venire un leggero capogiro. Si morse il labbro inferiore e mi dette una pacca sul fondoschiena.

    «Avanti, vai a mettere un po’ di musica»

    «Eh?», sorrisi apertamente, allibita.

    «Balliamo».

    Rimasi a guardarlo con perplessità. Pensai che con quel “Mi ha messo voglia di ballare” intendesse qualcosa che non fosse davvero... danzare. E poi, all’improvviso, non seppi più cosa rispondere.

    «Non mi sono certo dimenticato cosa mi hai detto prima. Pensavi che me lo sarei scordato velocemente?», domandò con finta innocenza.

    Ridacchiai per la tensione. «Adesso?».

    «Sì, certo!». Assunse una faccia da schiaffi incredibile, sollevando le sopracciglia con nonchalance. «Perché non rimetti la canzone di poco fa? Quella di Whitney e Enrique Iglesias?».

    Arrossii ancora, ma storsi il naso contrariata.

    «Ho un’idea migliore».

    Inclinò il capo a destra. Con un sorrisetto andai a spegnere la tv e mi diressi verso lo stereo. Presi una pila di CD, incolonnati al suo fianco, e li scartai uno alla volta, alla ricerca di una delle mie raccolte preferite in assoluto.

    «Che cosa stai cercando?».

    «Una collezione di canzoni dei musical che amo», sorrisi senza guardarlo. «Te ne avevo parlato una volta, se non sbaglio. In quel CD ho di tutto: Footloose (mamma mia, che meraviglia), Flashdance, Grease, Moulin Rouge… un misto di cose… anche se ho tenuto solo quelle che preferisco. Nessuna canzone di Dirty Dancing 2 può battere Hungry Eyes».

    Il mio sorriso si ampliò quando trovai il CD e lo inserii immediatamente nel lettore apposito.

    Una cosa che io e Michael avevamo in comune era la passione per i musical, anche se lui ne sapeva decisamente più di me. Da quando ci conoscevamo mi stava facendo una cultura al riguardo mooolto più approfondita di un tempo.

    «Ero ossessionata da questa canzone, da adolescente. Penso che sia un capolavoro».

    Ricordavo quale traccia fosse: la 6. Cliccai il tasto “Skip” fino a quando non raggiunsi quel numero e la feci partire immediatamente, premendo “Play”.

    Non appena la melodia iniziò a risuonare nella sala, mi voltai con una mezza giravolta e mi incamminai verso il divano, passo lento e sguardo sognante, perso nel vuoto. Michael mi scrutava con una gamba accavallata all’altra, sorriso intenerito e occhi luccicanti di interesse. Teneva le braccia incrociate sul petto e il piede si muoveva seguendo la musica. Mi seguì con gli occhi per tutto il tragitto, anche quando – con leggerezza – mi sedetti al suo fianco, poggiando tutto il peso sulle ginocchia e orientando il corpo in sua direzione.

    Quella canzone parlava di sguardi famelici e desiderio. Sapevo benissimo di aver messo qualcosa che poteva accendere entrambi, ma nonostante tutto la trovavo una melodia dolcissima.

    Volli cantare. Così, dal nulla, con il semplice scopo di sussurrargli parole che solo la musica poteva esprimere al posto mio. Non mi interessò nulla delle mie paranoie, del mio imbarazzo, della mia testardaggine: volevo semplicemente conquistarlo. E sì, volevo sedurlo, anche se ero conscia che non ce ne fosse assolutamente bisogno: quegli occhi mi squadravano come quelli di un bambino goloso quando vede il suo dolce preferito, accesi da un bagliore di sfida che si infiammò quando mi vide sorridergli apertamente.

    Chinai il busto in avanti e la scollatura sul seno lo distrasse un attimo dal mio viso. Potei vedere il suo sguardo appannarsi dal desiderio. Un profondo, delirante desiderio.

    «I've been meaning to tell you…», sorrisi arrossendo. «I've got this feelin' that won't… subside…».

    Mi fissò sbigottito. Ridacchiai timidamente, ma non interruppi il contatto visivo.

    Il desiderio venne sostituito da un’espressione di completa sorpresa. Socchiuse le labbra, interdetto, come se fosse sul punto di dirmi qualcosa.

    «I look at you and I… fantasize…», inclinai il capo verso sinistra e gli afferrai le mani.

    Fui colta da una risatina improvvisa. Abbassai gli occhi, cercando di coprirmi il viso con le dita di una mano, e arrossii pensando a quanto lo volesi. Non mi vergognavo per come mi stavo comportando – perché era una parte di me di cui andavo fiera, che mi rendeva donna. Era l’idea di essere sua – completamente sua – che mi faceva vibrare il cuore e la voce in una maniera inimmaginabile.

    Michael mi prese la mano con la quale avevo tentato di nascondermi e l’abbassò con dolcezza.

    Non disse niente, neanche una parola, poiché le sue labbra cercarono le mie senza la benché minima esitazione. Non riuscii neanche a guardarlo negli occhi per poter osservare come mi stesse osservando.

    Nel momento in cui mi baciò, scavò con la lingua alla ricerca del mio sapore, emettendo un sospiro trionfante. Di rimando feci scivolare le mani sul suo collo, coccolandolo con morbide e sensuali pressioni.

    Cambiò posizione prontamente, mettendosi anch’egli con le ginocchia puntate sul divano, facendomi inclinare all’indietro e portandomi a distendermi sotto di lui. Mi prese una coscia con la mano e la massaggiò lentamente, su e giù, come se così tentasse di afferrarmi l’anima.

    Mi sentivo persa. Se mi avesse fatto una cosa del genere in piedi, sarei caduta a terra nel giro di due secondi. La mia intimità era scossa da fremiti delicati, mentre il suo profumo mi dava alla testa confondendo ogni funzione vitale. Mi sentivo drogata e totalmente dipendente da quel contatto fisico e dalle emozioni che mi scaturiva dentro. Volevo unirmi a lui, nel corpo e nello spirito.

    Con un sottile gemito di piacere andai a lambirgli il collo con piccoli baci. Feci scivolare un piede sotto di lui, in modo tale che tutto il suo corpo si ritrovasse tra le mie gambe, e le allacciai entrambe al suo bacino. Lo sentii emettere un mormorio di piacere, mentre inclinavo la schiena e andavo a baciargli una tempia. Con una mano gli accarezzavo i capelli e con l’altra mi tenevo stretta alla sua schiena, stropicciandogli la camicia. Lasciai andare un gemito decisamente più rumoroso e sottile quando mi si appoggiò contro e riuscii a percepire la sua protuberanza scontrarsi con il mio inguine. Mi afferrò la carne della coscia con più forza, sospirandomi pesantemente all’orecchio, carezzandomi le guance con le labbra. Veloce, sempre più veloce, via via sempre più appassionato, mentre i nostri bacini si sfioravano da sopra i vestiti.

    Mi sembrò di avere un giramento di testa.

    Ero totalmente in un altro mondo.

    Sapevo cosa sarebbe avvenuto da quel momento in poi.

    La canzone finii e ne iniziò un’altra, Memory dal musical Cats, la quale spezzò completamente l’atmosfera. Mi venne da ridere non appena la riconobbi e per poco non feci prendere un colpo a Michael. Quando mi guardò era stranito e arrossito: gli bastò sentire la prima frase della canzone, e una risata scivolò fuori dalle sue labbra. Scosse il capo e puntò lo stereo, nascondendosi la bocca con una mano.

    Ci guardammo intensamente, ridendo, ma gli occhi di entrambi sembravano comunicare tutt’altra cosa. Il petto di ognuno si rialzava e si abbassava con forza, accaldati come non mai, e le nostre espressioni lasciavano trapelare ogni cosa.

    Michael mi voleva.

    E il sentimento era ricambiato.

    «Vado un secondo al bagno...», bisbigliai. Gli sorrisi e si sollevò in piedi. Mi porse la mano per tirarmi su. «Tu aspettami pure...»

    «Dove?»

    Ci guardammo a lungo.

    Nessuno dei due rideva più.

    «In camera mia», e gli indicai con un cenno del capo la porta alla nostra sinistra.

    Sorrisi maliziosamente. La sua finta serietà venne disarmata dalla brillantezza di due pietre preziose al posto degli occhi, che splendevano di idee e desiderio di amore infinito.

    Mi accarezzò la guancia. «Perfetto».




     
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    Capitolo Trentotto: Il Fuoco dell'Anima


    Appoggiata al lavello del bagno in marmo lustrato, non potei far altro che analizzare accuratamente il mio riflesso allo specchio. Un gemito disperato ma voglioso fuoriuscì dalle mie labbra socchiuse.

    Non riuscii a chiudere gli occhi, troppo ossessionata dall'immagine di Michael nella mia testa.

    Mi aggiustai un po’ il vestito.

    Aprii la porta e mi incamminai verso la camera da letto. Arrivata allo stipite, guardai curiosamente al suo interno e lo fissai a lungo, immobile.

    Lo sguardo di Michael, apparentemente assente, era puntato al di fuori della finestra scorrevole. Si poteva scorgere la punta lingua fra le labbra serrate. Se ne stava in piedi e con le mani nelle tasche dei jeans. Una spalla era appoggiata al vetro liscio e freddo della finestra. L’aria che entrava dalla finestra socchiusa scuoteva appena la sua chioma corvina.

    C’era un’unica luce ad illuminare debolmente la camera, ed era quella della lampada del comodino.

    Quando Michael percepì la mia presenza inclinò il capo verso la sottoscritta. Lo sguardo si fece vivo e intenso. Mi fece cenno di andargli vicino, mi sorrise.

    Mi avvicinai incrociando le braccia al petto, ricambiando quel sorriso con un lieve dispiegarsi della bocca all’insù. Michael si separò dalla finestra e mi aspettò, ammirandomi da capo a piedi.

    Inarcò un sopracciglio. «Ce ne hai messo di tempo».

    Assunsi una smorfia contrariata e gli feci la linguaccia.

    Ricambiò con una pernacchia e io risi, abbassando lo sguardo e pettinandomi i capelli all’indietro.

    Quelle parole rimasero un flebile eco nell’atmosfera. Ingoiai la saliva e insieme anche il senso di improvvisa debolezza emotiva che mi aveva colpito alle spalle.

    Sobbalzai quando la mano destra di Michael si posò su una mia guancia. M’incatenai a quell’occhiata profonda e amorevole.

    «Ti amo», mormorò. «Più di quanto credi», mi baciò a fior di labbra.

    Ricambiai con un altro bacio, abbassando le palpebre.

    «Ti amo anch’io» bisbigliai.

    Quando aprii gli occhi rimasi incantata: l’espressione che mi stava rivolgendo era la più profonda, la più affettuosa e la più felice che avesse mai incorniciato il suo volto.

    Riposò la bocca sulla mia; deboli carezze si trasformarono in rapidi movimenti, rumorosi e saporiti. Le lingue s’intrecciavano, le teste si inclinavano e le mani di uno si stringevano ai vestiti dell’altro. Mi aggrappai a lui con dolcezza e Michael ricambiò con un sospiro pesante.

    «Io ti amo di più, Sarah...», fu il suo mormorio all’orecchio.

    Inclinai il capo all’indietro, mentre le sue labbra arrivavano alla gola, dirigendosi lentamente sempre più in basso.

    Il cuore tumultuava nel petto. Il ventre si contraeva e il sangue fluiva lungo la zona occipitale della nuca. Non sapevo spiegarmi come diavolo riuscisse a farmi sentire così, ma il fiato diveniva corto e pesante ancora prima che fosse dentro di me.

    Una lieve folata di vento scosse entrambi nello stesso momento.

    Michael mi attirò a sé.

    Percepivo la sua eccitazione alla ricerca di ciò che tanto ambiva, rigido al di sotto della stoffa tesa che lo teneva protetto. Un formicolio invadente mi scosse le membra. Un lamento lascivo percosse la mia gola... o forse un mugolio sottile, ma di un’ottava più alta rispetto al mio tono di voce normale.

    I suoi baci ardevano più della lava di un vulcano.

    Trascinò la mano destra, dapprima poggiata sul mio fianco, in direzione della spalla. Accarezzò a lungo la carne indugiando su questa solo per sentirne meglio la morbidezza, e salendo raggiunse una spallina del candido vestito bianco. La abbassò e posò labbra e naso sulla scapola, premendo forte per qualche secondo.

    Inspirò. «Sei così soffice...»

    Ridacchiai timidamente.

    Delicatamente mi voltò, in modo tale che potessi dargli la schiena. Tornò a lambirmi il collo e la spalla e, senza smettere di assaporare la mia pelle, con la mano sull’ombelico mi premette saldamente verso il suo bacino. Persi il fiato e fu Michael, quella volta, e gemere.

    La mano con la quale aveva abbassato la spallina scivolò al di sotto della stoffa del vestito e si diresse impaziente verso un seno. Emisi un debole mugolio di piacere. Accarezzò il seno con dedizione, passione e sospiri ansanti; si dedicò minuziosamente ad ogni parte di quella protuberanza in una lenta e crudele sevizia: lo avvolse tra le sue meravigliose dita, facendogli compiere piccoli cerchi concentrici, fino a quando non si decise a stimolare il capezzolo.

    L’altra mano, intanto, si era diretta verso la coscia sinistra. Alzando l’abito bianco si era diretto verso la pancia. L’accarezzò non curandosi del fatto che non fosse perfettamente piatta. Infossò il viso nella zona tra spalla e mento.

    Con entrambi gli arti si trascinò verso il mio fondoschiena, laddove mai avrei pensato che potesse provare piacere. Massaggiò a lungo le gambe e le natiche, prendendosi tutta la calma e il tempo che aveva per avviarsi in quel luogo sacro – mai profanato così bene da nessun altro uomo se non da lui.

    Abbassò anche la seconda spallina della veste e – essendo un vestito elastico – lo aiutai a toglierlo, tirandolo via da sopra, per poi farlo cadere a terra con un lieve fruscio. Rimasi solo con gli slip e tremai per l’ennesima volta.

    Espirai a fondo, mentre quei polpastrelli roventi iniziavano a liberarmi anche dalle mutandine, prima abbassandole soltanto e poi portandole un po’ verso il basso, per permettere che queste raggiungessero le ginocchia.

    Non avevo la forza di emettere parola. Non avevo la forza di reagire, di respirare, di rispondere alle sue carezze. Mi sentii ammattire una volta che – riuscita a spingere lontano gli indumenti con un abile gesto del piede – la sua mano sinistra si portò sulla mia femminilità, avvolgendola a coppa, la quale veniva invasa da continue e dolci pulsazioni.

    Gemetti aprendo gli occhi. Mi toccò nel modo più romantico e dolce possibile. Fece scattare le punta delle dita dal basso verso l’alto, spingendo il bacino con più forza verso il mio fondoschiena. In un secondo si infilò dentro di me. Mugolai appena.

    Giocò a lungo all’interno della mia carne, utilizzando la bravura dei polpastrelli, entrando e uscendo di continuo; velocizzando secondo dopo secondo la forza di quelle carezze, premendo in me con delizioso vigore e squisita operosità. Mentre Michael era l’esploratore del mio corpo, in pieno potere della mia anima, io mi lasciavo governare da lui.

    Il respiro sussultò. Piegai la testa all’indietro sempre di più, aggrappandomi al suo avambraccio.

    Non capivo più nulla.

    Cercai di interromperlo. Afferrai il suo collo e le mani che teneva sul mio ventre.

    Inspirai e lo percepii trasalire a causa di quel brusco risveglio.

    «Michael...», boccheggiai con una roca risatina.

    Si separò dalla mia mano che gli impediva di farmi gioire ancora e rispettò il mio richiamo. Si allontanò dall'intimità e mi portò il mento in sua direzione; parlò attraverso quella luce negli occhi.

    Mi sentivo disarmata.

    Vulnerabile.

    Si pose un dito fra le labbra e gustò il mio sapore, eseguendo lo stesso procedimento con tutte quelle utilizzate per toccarmi. Lentamente. Mosse un indice in mia direzione e compii lo stesso gesto che aveva ultimato poco prima, osservandolo intensamente, mentre voltavo il busto e il resto del corpo in sua direzione. Il contatto con la mia lingua lo fece sorridere, ma gli occhi erano completamente accecati dalla confusione.

    Gli presi una mano e lo guidai verso il bordo del letto, indietreggiando alla cieca.

    Quando arrivai a toccare il materasso con i polpacci mi fermai. Mi osservò interessato, silenzioso, con il petto che si abbassava e si alzava leggermente. Mi sedetti sul bordo del letto – in modo tale da trovarmi di fronte alla sua sessualità – e feci scorrere una mano sopra quel gonfiore coperto dai jeans scuri.

    Michael chiuse gli occhi alzando il mento verso l’alto, ma le mani si diressero verso la cintura. La slacciò e sbottonò i pantaloni. Io feci il resto: li abbassai fino alle caviglie e aspettai che se ne liberasse con un gesto del piede, esattamente come avevo fatto io con gli slip.

    Detti un’ulteriore pressione alla sua eccitazione, percettibile ma mansueta. Quel gonfiore scalpitava alto e fiero verso di me. Michael mi guardava a momenti, attento come non mai.

    Il suo sguardo così delirante quanto amorevole mi analizzò languidamente; si passò la lingua fra le labbra e mi fissò a lungo, anche quando gli tolsi l’intimo e mi apprestai a esaudire quel suo desiderio mai detto a parole.

    Il sicuro membro sussultava, mi desiderava, non aspettava altro se non riempire lo spazio che gli spettava. Quando le mie dita si poggiarono su di esso, avvolgendolo coraggiosamente, Michael lanciò un anelito roco e sensuale, oscillando sul posto. Afferrò le mie spalle nel momento in cui le mie labbra iniziarono a baciarlo.

    Michael mi afferrò la nuca e infilò le dita fra i capelli; i suoi piagnucolii mi pregarono sommessamente di continuare, di non smettere... le sue mani tremavano... mi richiamavano a sé... non avevo bisogno di una guida.

    Danzai seguendo il ritmo di quella frenesia che provava; dapprima piano, in seguito più rapido. Mi stringeva la nuca e io rallentavo, gemevo e lui rimaneva estasiato, e appena si ammutoliva velocizzavo il ritmo, stringendomi alla sua sessualità con una maggiore pressione. Mi spingevo fino in fondo e poi mi allontanavo e poi di nuovo tutto da capo. Quando lo sentivo richiamarmi capivo che stavo facendo la cosa giusta, e questo mi eccitava in una maniera incommensurabile.

    Ad un certo punto soffiò un lamento strozzato e, con una piccola pressione dei polpastrelli sui miei capelli, mi allontanò.

    «Moony...», ansimò. Le grandi mani di Michael scivolarono sulle gote con l’intenzione di arrestarmi. «Fermati...», sorrise.

    Obbedii controvoglia. Quando lo puntai di soppiatto, la sua vista era completamente oscurata.

    Lo vidi ingoiare la saliva con lo sguardo perso, frattanto che si mordeva il labbro inferiore. Due respiri profondi e, finalmente, un’occhiata d’intesa.

    Indietreggiai lasciandogli spazio per sedersi.

    Arrossii senza volerlo.

    Michael mi seguì senza fretta, non staccando gli occhi dalla sottoscritta. Mi lasciò distendere, inginocchiato e in attesa, e mi ammirò a lungo: le sue perle nere vagarono dappertutto e soltanto quando mi sistemai comoda si posizionò sopra di me. Fu attento a non poggiare tutto il peso sul mio corpo. La pelle nuda di uno accarezzò quella dell’altro e tremolii d’eccitazione mi portarono ad allacciare una gamba al suo bacino, con un movimento sinuoso e lento dell’arto, mentre inclinavo la spina dorsale verso l’alto. Entrambi trattenemmo un gemito.

    Era la sensazione più bella del mondo; il mio seno in contatto con il suo petto, le nostre intimità che si toccavano, le mie gambe che lo trattenevano in quella posizione, due persone che diventavano una cosa sola; la pelle d’oca dalle cosce alle braccia, sensazioni ovattate che la mente non sapeva trasformare in pensieri.

    Quando gli accarezzai una guancia, sorrise dolcemente. Mi guardò ancora, in silenzio, e io ricambiai. Sembrava voler memorizzare ogni lineamento del mio viso per paura di dimenticarsene da un momento all’altro.

    Ci baciammo ancora, ancora e ancora.

    Mi strinsi alla sua schiena e Michael soffocò un sospiro nell’incavo nel mio collo; mi strinse le cosce con una mano e con l’altra mi lambì il collo, avanzando verso l’attaccatura dei capelli dietro la nuca.

    Le sue labbra si mossero verso le guance, il collo e lo spazio fra i due seni: ne prese uno alla volta e li leccò, li pizzicò, li tormentò, li sezionò; le mani si spostarono sui miei fianchi, frattanto che le labbra e le dita di Michael sussultavano a ritmo dei miei tremori, incamminandosi sempre più in basso… fino a ritornare sulla mia femminilità.

    Quando percepii le sue labbra calde e umide su quella zona, pensai di essere sul punto di non ritorno. Scivolai in uno stato di libidine completa e mi tenni stretta al cuscino. La lingua si infilò in me, centrando il mio punto più sensibile, applicando la stessa tecnica che avevo usato con lui: lento quando ero sul punto di venire, più veloce quando mi tranquillizzavo. Non saltò neanche un punto. Esplorò ovunque, tentando di capire quale fosse la zona che più mi faceva impazzire. Non c’era bisogno che mi chiedesse niente: i miei gemiti si trasformavano in urla sottili non appena beccava la mia zona erogena prediletta.

    «Aspetta...» ansimai in tono pregante.

    Alzò il volto e mi studiò; non era confuso, non era nemmeno accecato dalla passione, neppure dolce e innocentemente amorevole: la sua espressione era misteriosa e divertita. Mi afferrò le ginocchia.

    «Lasciati amare...».

    Si bagnò il labbro inferiore e si infilò con due dita nella mia femminilità; mugolai rumorosamente. Ricominciò la tortura... frizioni che ben presto si trasformarono in penetrazioni accompagnate dalla lingua, esibendo una piena soddisfazione per l’effetto che mi stava procurando.

    Diedi il via a mugolii di compiacimento sempre più lascivi, acuti, fino al momento in cui si arrestavano in gola e quella vellutata protetta carne veniva assalita da ondate di piacere crudeli; una, due, tre volte… fino a quando l’orgasmo non mi faceva tremare completamente. La mente vagava nel buio per qualche secondo, si godeva quel breve istante di entusiasmo e poi ritornava a vacillare nel vuoto, a chiederne ancora.

    L’estasi che stavo vivendo mi dava la forza per volerne sempre di più. Avrebbe potuto continuare così per tutta la notte e io non sarei stata in grado di rifiutare.

    Quando Michael si sollevò da quella posizione, aveva un’espressione di segreta approvazione stampata in faccia. Mi strinsi alla sua schiena ed egli rimase con i palmi delle mani puntati sul materasso.

    Mi ammirò per parecchio senza dire nulla: con gli occhi accarezzò le guance, le spalle, il seno e i capelli.

    «Dio». Sorrise estasiato, intenerito... «Ti amo così tanto...».

    Arrossii più del necessario.

    Scostai il viso verso sinistra, ignorando l’occhiata di gioioso affetto con cui mi stava ammirando. Lo udii ridacchiare. Quando i miei occhi ritornarono su di lui, il suo volto era contratto dall’emozione. Puntò i gomiti sul materasso e mi accarezzò una guancia. Feci cadere la testa sul suo palmo.

    «Spiegami cos’altro devo fare, o dire, per farti capire come mi sento...».

    Le dita si posarono su un seno, quello sinistro, in direzione del cuore.

    Sembrava tutto così irreale.

    Così fottutamente irreale.

    Allacciai le mani attorno al suo collo.

    «Tu sei il mio migliore amico», mormorai.

    Una scintilla di stupore nei suoi occhi e labbra infuocate furono sulle mie nel giro di un millesimo di secondo. Cercarono ogni parte di me già o non ancora trovata, tastata o lambita. Ed eccolo, un altro giro d’ispezione lungo guance, fronte, naso e collo. Il profumo della sua pelle che mi invadeva i sensi e si fondeva con il mio. Mani che si adagiavano sulle mie curve più rotonde. Tremolii ogni dove. Sospiri sommessi, occhiate incandescenti e profonde, sorrisi complici.

    Gli sistemai un ciuffo ribelle da davanti la fronte.

    Se uno sguardo avrebbe potuto uccidere a causa dell’amore che esso lasciava trasparire, io sarei morta all’istante. Proprio lì, proprio in quel momento, mentre le gote si tingevano di rosso scarlatto per la maniera con cui mi voleva.

    Continuò a osservarmi seriamente, nonostante le mie mani stessero passando in rassegna delle sue spalle, scendendo sempre più in basso.

    «Voglio essere tua», gemetti. Lo osservai, pregai affinché potesse percepire almeno un po’ di quell’emozione che mi faceva tanto paura quanto felice. «Ti prego».

    Scosse la testa impercettibilmente, inarcando le sopracciglia, sconvolto dalla mia onestà. Accennò ad una smorfia allegra e maliziosa e mi baciò.

    Quando lo sentii invadermi fu pianissimo ma lacerante. Arcuai la schiena e il bacino verso l’alto, lasciando uscire un urlo sommesso dalle labbra. Mi aggrappai alla sua schiena; scivolò sempre più a fondo, portandolo ad una rauca esalazione di piacere, ed uscì poco dopo con la stessa calma che aveva usato poco prima.

    Era l’unione più grande, quella che fonde spirito e materia rimuovendo ogni pensiero, ogni paura, ogni legame con la realtà. Un viaggio verso l’indefinito e l’infinito, luoghi mai scoperti eppure non così distanti. La stanza si restringeva attorno a noi. Un’elettrica sensazione di lussuria e amore fusi in un’unica cosa.

    Mi accarezzò i capelli e continuò una seconda volta, una terza, una quarta, una quinta volta – una quantità infinità di volte utilizzando la stessa identica pressione e lentezza... mi colmava con la sua presenza e poi si scostava. Mi sentivo sopraffatta dalle emozioni come se le stessi provando per la prima volta: desiderosa di averlo dentro di me quando se ne andava, sul punto di delirare quando mi invadeva nuovamente.

    Le fronti si appoggiarono una all’altra e Michael sorrise nella semioscurità. Respirava a fatica.

    Non appena aumentava il ritmo, nascondevo il viso fra i suoi capelli, continuando ad emettere strepitii di piacere. Potevo scoppiare da un momento all’altro ma non riuscivo ad averne abbastanza. Poteva continuare così per minuti, ore, e avrei continuato a pregarlo all’infinito. Era una danza lenta, che assaporavamo con calma, mentre il tempo scorreva e noi non mostravamo il bisogno di smettere. Più i nostri mugolii aumentavano, più i movimenti acquisivano maggior sinuosità e profondità.

    «Michael...» piagnucolai.

    Le dita di ognuno cercavano l’altro con frenesia. Le mie urla leggere, come onde sugli scogli, morivano per diventare sue.

    «Dio, quanto ti voglio…», sbiascicò al mio orecchio.

    Entrò in me più a fondo e più velocemente: i colpi si facevano sciolti e energici mentre lo accoglievo in me cingendolo fin troppo strettamente. Credetti perfino di udire le mie pareti strepitare dal dolore. Ma non ne avevo abbastanza. Avrei voluto continuare in eterno.

    Si sollevò a sedere, ginocchia puntate sul materasso. Mi alzò il bacino e accostò le mie anche verso la sua virilità, completamente immerso in me, ammirandomi.

    Tutto ciò che vidi fu una serie di immagini sfuocate, fotografie scattate male dallo sguardo velato dal desiderio. Perfino l’ossigeno che avevo nei polmoni sembrava essersi condensato trasformandosi in un mattone pesante ma per nulla fastidioso.

    Uno sguardo in fiamme, il viso contratto. Una danza sempre più rapida ed emozionata.

    «Vieni con me».

    Ed infine uno squarcio di luce.

    Quando l’orgasmo ci colpì assieme il mio corpo sussultava e si abbracciava al suo, mentre Michael si distendeva temporaneamente senza forze sopra di me.

    Fu come lo scoppiare di una bomba e il conseguente silenzio dopo il boato causato.

    Restò piacevolmente all’interno delle mie membra, mentre sospirava ed io sbattevo le palpebre per riprendere il senno: ritornai a vedere i colori, a capire dove mi trovavo e che cosa stavo vivendo – soprattutto cosa avevo vissuto. Il niente aveva raggiunto il suo picco ed era esploso in aria, lasciando solo ricordi offuscati e sensazioni indelebili.

    Infossò il viso fra i miei capelli.

    Non ci movemmo da quella posizione per un po’.

    Eppure, quando i brividi smisero di sconvolgere i sensi di Michael, il mio corpo ne era ancora vittima. Sapevo che fino a quando non mi avrebbe lasciato libera dal suo abbraccio avrei continuato a trasalire in quel modo – tant’è che Michael, incapace di dire una parola, cercò di separarsi da me. Lo trattenni afferrandogli le spalle.

    Non volevo che se ne andasse.

    Michael alzò il capo. Mi fissò ed io gli sorrisi con occhi lucidi. I nostri corpi erano madidi di sudore. Con iridi luminose, stupito dalle lacrime che stavo per piangere, mi baciò.

    Lo abbracciai.

    Pian piano anche il mio corpo smise di tremare.

    *

    Passammo ore alternando momenti di passione come quello precedente ad attimi di completo silenzio, consumando il tempo con marcati e umidi baci, respirando la stessa aria e ubriacandoci di quel semplice gesto che era in grado di farmi girare vorticosamente la testa.

    Mi venivano i brividi ogni qualvolta mi sfiorasse. Ci interrompevamo e restavamo a guardarci occhi negli occhi, sprofondando uno nell’anima dell’altro. Una carezza sul braccio o sulla gamba, un bacio sulla nuca, un intreccio di dita, un abbraccio che eliminava qualsiasi possibile distanza tra noi; chiacchiere, discorsi lunghi ore, risate ed espressioni buffe, e di nuovo l’eccitazione, la sua virilità che entrava in me, io che lo accoglievo con gemiti che si levavano rumorosamente nell’aria.

    Dovevo frenare quelle emozioni prima che si prendessero ogni grammo di lucidità rimasta. Il suo amore era così splendente che riempiva ogni singola molecola del mio organismo.

    Michael mi accarezzò i capelli; con le dita gli sfiorai il collo marcato, pensosamente, perdendomi in ogni suo lineamento: immaginavo di diventare un’unica cosa con lui, nel vero senso della parola.

    «Che cosa guardi?» chiese.

    Mi afferrò la mano e la pose sulle labbra.

    «Il tuo collo...» risposi incatenandomi ai suoi occhi.

    Michael mise una mano sulla mia guancia.

    Sorrise arrossendo. «Ti piace davvero? Il tuo cuore scalpita nel petto per questo?».

    «Anche...»

    Aggrottò impercettibilmente le sopracciglia. «Anche se di punto in bianco perdessi tutti i capelli, il mio fisico invecchiasse e non riuscissi più a fare nulla – neanche un passo – senza l’aiuto di qualcuno? Mi ameresti anche in quel caso?».

    «Certo».

    Il suo sguardo fece domande che le parole non avevano chiesto. La mia espressione si fece seria e decisa.

    «Tu saresti perfetto per me in qualsiasi modo».

    Arrossii e vidi un viso bellissimo, amabile, ma preoccupato. Non capivo perché – in una parte profonda di sé – non mi credesse, e perciò gli lanciai un’occhiata interrogativa.

    «Pensi che l’amore di chi ti vuole bene potrà mai giudicare o cambiare in base a come il tuo corpo si trasforma?» chiesi. «Secondo me non è così. Sono sicura che molti la pensano come me, là fuori o nella tua famiglia... è ciò che pensi tu di te stesso che ti crea problemi... ma se ti guardassi con i miei occhi, o con quelli di chi ti ama davvero, lo capiresti».

    Mi scoccò un’occhiata crucciata. Probabilmente si chiese come facessi a dare più consigli a lui che alla sottoscritta.

    Michael mi si avvicinò al collo. Il respiro si scontrò con la pelle che venne baciata dolcemente mentre la mano si portava sempre più all’interno della coscia, verso la mia intimità che subito cominciò a scuotersi dai brividi. Una smorfia di smarrimento mi apparve in viso.

    «Ti amo... e amo ogni cosa di te…».

    Gemetti leggermente nell’attimo in cui le sue dita arrivarono alla zona inguinale.

    «Stai cambiando discorso…», borbottai.

    «Non è vero», mentì ridacchiando. Mi dette un soffice bacio sulla guancia. «Voglio solo dedicarmi alla meraviglia che ho davanti... niente pensieri oscuri o negativi…»

    Era bravo a ribaltare la frittata. Molto bravo.

    Lo analizzai con un’occhiata severa. Fissò la mia bocca intensamente e vi posò altri piccoli baci bagnati e saporiti. Quella mano curiosa che teneva vicino alla mia femminilità accarezzò la pelle con lievi pressioni.

    «Aspetta... aspetta» lo pregai prima che potesse giungere in quel punto. Mi alzai a sedere. «Lasciami andare in bagno prima... un secondo...»

    Anche Michael si mise a sedere sul materasso. Mi osservava beatamente, ma con un accenno di maliziosa impazienza.

    «Ti aspetto» sussurrò. Si bagnò le labbra. «Non farmi attendere troppo...»

    Mi alzai in piedi. Lo guardai e vidi che non la smetteva di osservarmi; non sarei riuscirà ad andare in bagno se Michael continuava a farmi sentire così tanto “sotto osservazione”. Non ero ancora abituata a farmi vedere completamente nuda.

    «Che c'è?» domandò vedendo come il mio sguardo vagasse da lui al lenzuolo bianco stretto fra le sue mani.

    «Puoi non fissarmi quando vado in bagno?» domandai ridacchiando e arrossendo. «Altrimenti prendo il lenzuolo...»

    Mi lanciò un’occhiata di disapprovazione pura.

    «Perché dovrei?»

    Sospirai. «Dai...»

    Feci per tirare il lenzuolo e Michael lo allontanò con un gesto fin troppo veloce. Lo raggomitolò e se lo tenne stretto al petto, arcuando i lembi della bocca in un sorriso birichino. Un’occhiata da capo a piedi e fu in grado di mandarmi fuori di testa.

    «Vieni a prenderlo» bisbigliò. «Ma temo che non riuscirai a portamelo via... stanotte voglio averti completamente così» e ammiccò al fisico nudo della sottoscritta.

    Attesi qualche istante, ma non sembrava intenzionato a cambiare idea.

    Mi arresi.

    Sospirando mi incamminai al di fuori della stanza verso il bagno adiacente alla camera da letto. Lo sguardo di Michael mi seguì fino a quando non oltrepassai la soglia della porta; se avessero potuto, quegli occhi sarebbero stati in grado di attraversare anche le pareti, non solo la mia anima.



     
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    Capitolo Trentanove: Il Profumo


    Spensi il motore con un giro di chiavi.

    Grazie all’aiuto dello specchietto retrovisore mi slegai la coda alta dietro la nuca e mi riaggiustai i capelli, stando attenta a non impigliarli negli orecchini a cerchio che indossavo. Afferrai la borsa sul sedile alla mia destra, cercai le chiavi che aprivano casa e una volta trovate aprii la portiera, inserendole nelle tasche degli shorts. Uscii e andai verso il bagagliaio per prendere tutte le borse – un misto tra spesa e qualche nuovo prodotto di bellezza – e chiuse tutte le portiere mi avviai a passo calmo e placido verso la porta d’entrata.

    Mi fermai sotto il loggiato a quasi un metro di distanza dalla porta. Posai le tre borse a terra, ripresi le chiavi e feci per infilare quella giusta nella serratura.

    All’improvviso mi sentii prendere da dietro con una stretta energica.

    Le chiavi caddero a terra e il sangue ribollì nelle tempie.

    Il cuore si fermò un secondo prima di agitarsi in gola come impazzito. Una serie di immagini terribili passarono davanti ai miei occhi convinta che colui che mi stesse alle spalle fosse un maniaco sessuale o un rapinatore, ma l’istinto di sopravvivenza fu maggiore rispetto al terrore.

    Una mano mi stringeva il fianco, una il petto.

    Nonostante mi sembrasse di vivere quel momento a rallentatore non esitai a sferrare un colpo al mio cosiddetto molestatore (ovunque potessi colpirlo).

    Di impulso gli diedi una gomitata in direzione dello stomaco. Questo non reagì, anzi; non appena percepì il colpo alla pancia si reclinò in avanti, mollò la presa sul mio corpo e si piegò su se stesso.

    Avrei dovuto, come sarebbe stato sensato fare, prendere la borsa e scappare verso la macchina o meglio ancora dargli un bel colpo in testa per guadagnare del tempo prima di riaccendere l’auto... invece, sotto la debole luce di un lampione non lontano dal porticato, vidi una figura maschile a me conosciuta.

    Spalancai le palpebre e mi misi le mani davanti alla bocca, sconvolta nel vedere i suoi capelli ricadergli davanti agli occhi e quelle grandi mani che si tenevano febbrilmente il luogo in cui l’avevo colpito. Emise un gemito di dolore.

    «Cazzo, Michael...»

    Gli andai vicino e gli afferrai un braccio senza sapere cos’altro fare. Michael non rispose: non sembrava neanche che avesse udito le mie parole – e come dargli torto, vista la botta che aveva preso.

    «Dio, mi hai fatto pensare che fossi un... ma come hai... oh, lasciamo perdere...», andai verso la porta, presi il mazzo di chiavi caduto a terra e brandendo quella giusta la aprii. Feci un passo all’interno per accendere la luce.

    «Ciao, Moony...»

    Ritornai verso Michael e gli accarezzai una spalla.

    «Vieni, entriamo... ce la fai a muoverti?»

    Lo sguardo era fisso a terra, una smorfia di trattenuta sofferenza gli marcava tutti i muscoli del viso. Inspirava ed espirava lentamente col naso. Poco dopo incrociò la mia occhiata preoccupata e colpevole: accennò ad un debole sorriso ma non rispose.

    Dovevo essere stata piuttosto violenta.

    Lo aiutai a drizzarsi ed infine ad oltrepassare lo stipite della porta, tenendolo stretto per un braccio, lasciandolo appoggiarsi su di me con tutto il peso.

    *

    «Ouch...»

    La sua fronte si corrugò mentre le mie dita percorrevano la parte lesa con un sacchetto di ghiaccio secco. La camicia sbottonata fino all’ombelico mi tentava, per non dire che mi eccitava molto, ma mi allontanai subito dall’idea. Mi sentivo ancora straordinariamente in colpa per quanto accaduto.

    «Michael...» pigolai, «scusa... non volevo farti questo...»

    Sorrise dolce, ad occhi schiusi, guidandomi nel punto in cui gli doleva di più.

    «Sarah, stai tranquilla», mormorò pacato. «Hai fatto più che bene, potevo essere stato un ladro o qualcuno che voleva farti del male. Ti sei difesa e io sono felice per questo... anche se dovresti mettere più energia nei colpi, e mirare più in basso...»

    Accennai ad un sorriso.

    Quella sera si era presentato con il desiderio di “spaventarmi leggermente”, ma soprattutto di “farmi una sorpresa”: si era fatto portare dai suoi bodyguards (che se ne erano andati soltanto dopo avermi visto arrivare a distanza) mentre i piccoli erano rimasti sotto le cure di Grace. Non so con quale pazienza aveva aspettato al buio per circa un’ora, in attesa del mio rientro a casa. Erano le 21.30 e avevo cenato fuori, da sola, in un ristorante giapponese che avevo scoperto da poco.

    Non era certamente nei suoi piani farsi pestare dalla sottoscritta.

    «A volte non riesco a controllare la mia forza, sembro un uomo...», arrossii per l’imbarazzo, «ma concordo su una cosa: sei stato incauto».

    Ridacchiò. «Lo so... è stata una cosa molto... ah...! Stupida...»

    Tolsi il ghiaccio nell’istante in cui fu colpito da uno spasmo di dolore. Attesi che la sua espressione facciale si rilassasse e mi fece cenno di continuare con le medicazioni. Gli piaceva essere sotto le cure di una donna, molto più di quanto desse a vedere: seppur dolorante sembrava compiaciuto di avermi lì, seduta su quel divano con lui, mentre lo “viziavo” e mi preoccupavo della sua salute.

    «Tu piuttosto, come mai hai rincasato così tardi?», mi esaminò con aria attenta.

    «Ho fatto la spesa e dato che c’ero ho fatto un po’ di shopping», alzai le spalle. «Siccome era tardi sono rimasta a cenare fuori. Una settimana fa ho scoperto un ristorante giapponese che fa del cibo veramente squisito. Il sushi è una droga, non l’avrei mai detto!».

    Rise per la mia espressione bambinesca e stupita.

    «E che cosa hai comprato di bello?», i suoi occhi puntarono le due borse adagiate a terra, proprio davanti all’uscio di casa. La terza, quella con la spesa, era già stata sistemata a dovere. «Sono curioso».

    Emisi un “Mmh” a labbra strette.

    «Niente di che. Stavolta niente vestiti, solo trucchi. Avevo finito il fondotinta e la crema idratante».

    Michael sorrise arcuando un sopracciglio. «Come se il tuo viso avesse bisogno di trucco».

    Gli scoccai un’occhiata scettica e contrariata.

    Gli angoli della sua bocca si alzarono ancor più di prima.

    «Non è una critica, non essere permalosa», spalancò le palpebre assumendo una faccia da bronzo incredibile. «Voglio dire che sei perfetta così come sei. Hai una pelle meravigliosa».

    La mano che reggeva il sacchetto di ghiaccio venne presa dalle sue dita. Afferrò l’oggetto senza alcuna protesta da parte mia e lo lasciò cadere a terra. I suoi occhi improvvisamente ridenti ma languidi puntarono il mio collo e, con affettuosità disarmante, mi venne incontro per poggiarvi le labbra. Riuscii a malapena a ingoiare la saliva.

    Il suo respiro mi colpì la pelle con un soffio leggero.

    «Sono convinto che hai comprato cose utili...».

    Rabbrividii e trattenni una risatina nervosa.

    «Penso... che andrò a sistemare il resto delle cose...», mi alzai. Non gli concessi il tempo per scendere dalla gola al seno, là dove la scollatura della maglietta senza maniche lasciava intravedere appena i miei seni. «Torno subito».

    «Adesso?»

    Mi incamminai verso le borse.

    «Sì, ci metterò pochissimo. Tanto non puoi fuggire da questa casa finché ho le chiavi», lo guardai negli occhi e gli mostrai la lingua.

    Michael alzò maliziosamente le sopracciglia. «Giusto».

    La complicità che condividevamo era in grado di farmi camminare a sette passi da terra, con uno sfrontato sorriso in faccia che, nei momenti in cui Michael non c’era, mi faceva credere di essere una totale rimbambita.

    Presi le borse chinandomi a terra, accennando un sorriso soddisfatto che lui non poté vedere. Quando mi rialzai, tenendo entrambe le borse in una mano, mi passai le dita dell’arto libero tra i capelli per togliermi dagli occhi delle ciocche ribelli e indomite.

    Ci fu un lampo di luce incandescente. Si scontrò con le pareti del muro e con il mio viso. Abbagliante ma fugace. Mi voltai verso Michael capendo subito che proveniva da lui.

    Lo vidi con una macchina fotografica in mano. Era una Polaroid – la mia vecchia, preziosa Polaroid. L’ultima volta che l’avevo adoperata era stata per scattare una foto al mare con la luce del tramonto e non l’avevo più rimessa al suo posto. L’avevo lasciata là, sul tavolino del salotto, pensando che sarebbe potuta essermi utile una seconda volta. Michael sapeva della sua esistenza e del fatto che tenessi tutte le foto che facevo in un grande album ormai rovinato; di tanto in tanto mi piaceva riguardarle e anche Michael lo aveva sfogliato, molti mesi prima, chiedendo i perché e le ragioni di ogni scatto fatto. Era un tipo curioso e questo stimolava la mia mente molto più di quanto pensasse.

    «Bella questa macchina».

    Mi gettò un’occhiata furbesca e vorace, una di quelle che pareva spogliare con gli occhi. La foto di piccole dimensioni fuoriuscì dalla macchina ed egli la nascose dalla luce, appoggiandola sul tavolino al contrario, in modo che rimanesse all’oscuro e che si sviluppasse nel migliore dei modi.

    «Ti prego, sono in condizioni orribili!», scattai di corsa verso il divano e Michael rise. Strinse la fotocamera fra le mani e cercò di nasconderla come se gli appartenesse. «Michael, dai! Non sono nelle condizioni per fare foto!», risi del suo atteggiamento infantile.

    Mi sedetti e mi allungai verso le sue braccia in un misero tentativo di strappargli la Polaroid dalle dita. Eseguì un rapido movimento all’indietro nonostante lo stomaco gli dolesse – lo notai dall’espressione contratta del suo viso.

    «Perché?», domandò sorridendo come un’idiota, alzando i lembi della diapositiva per vedere se fosse pronta. Si divertiva un mondo. «Sei venuta benissimo. Vuoi controllare?».

    Aveva una faccia da sberle impossibile da descrivere.

    Lo fissai senza dire nulla, incrociando le braccia al petto. Strinsi le labbra in un’espressione fintamente irritata, mentre Michael prendeva la Polaroid in una mano e lo scatto in un’altra e mi sventolava quest’ultimo davanti al naso.

    Sospirando, accettai.

    Mi posizionai al suo fianco, appoggiando il mento sulla sua spalla. Michael mi sorrise e mi mostrò la foto. Mi guardai dapprima con occhio cinico e disgustato, poi sempre più interessato. Non ero venuta male, neppure la posa era orribile: pensavo che il viso sarebbe venuto decisamente più paffutello, invece lo sguardo che aveva inquadrato era decisamente bello, attraente in un certo senso, ma pensoso.

    Inclinai la testa da un lato. «Mmh... potrebbe piacermi...». Esaminai ancora le mie gambe ben tornite. «Non sono proprio così male, dai...»

    Mi rimproverò con gli occhi e tornò ad ammirare la foto.

    «Non dire sciocchezze, sei una bambolina».

    Lo guardai. Esaminava lo scatto così intensamente e dolcemente che mi vennero i brividi. Il palmo della sua mano destra schioccò sulla mia coscia.

    «Avanti, vai a sistemare le tue cose», mi puntò deciso ma affabile. Studiò le mie labbra per poi posarvi un bacio tenue. «Così non hai più scuse per sfuggirmi».

    Mi alzai con uno sbuffo leggero, ripresi le borse lasciate sul pavimento accanto al divano e mi incamminai verso il bagno.

    Un altro flash, un altro scatto rubato.

    Mi fermai sul posto. Il riflesso della luce mi fece capire che stava fotografando proprio me, e non mi fu difficile comprendere il luogo a cui aveva mirato.

    Mi voltai a rallentatore, serrando le labbra in un sorriso sospettoso, guidando un sopracciglio verso l’alto. Michael non mi badò nemmeno ed eseguì lo stesso procedimento compiuto per la foto precedente: la capovolse, la poggiò sul tavolino e ritornò a fissare quella scattata poco prima. Aveva la tipica aria compiaciuta che possiedono gli uomini quando vedono qualcosa che li accendono sessualmente nella donna che amano.

    «Cosa stavi fotografando…?», bofonchiai.

    «Uhm, niente di che», fece spallucce. Mi osservò: quello sguardo fece contrarre le pareti della mia femminilità e del mio stomaco. «Stavo facendo prove tecniche con le varie modalità di scatto...»

    «Seh...», sorrisi e scossi il capo, «farò finta di crederti!»

    Gli detti le spalle e arrivata allo stipite della porta neanche la sua esclamazione a voce alta sembrò distrarmi dall’entrare in bagno.

    «Questa foto me la tengo!»

    Risi. «È tutta tua!»

    *

    «Ma a cosa stai facendo foto?»

    «Alle tue espressioni. Così potrai vedere tu stessa le facce da cartone animato che fai!», sorrise.

    Fui tentata di fargli presente che le conoscevo esattamente le mie facce.

    Posi le due limonate fresche sul tavolino di fronte a noi. Mi sedetti accanto a Michael, lasciando cadere tutto il peso del corpo sul divano, prendendo le tre Polaroid che mi aveva fatto nel giro di neanche mezz’ora – ad eccezione di quella dedicata al mio fondoschiena.

    «Mmh... questa è carina…», ammirai l’ultima che mi aveva scattato, dove stavo sullo stipite della porta del bagno e abbassavo lo sguardo ridendo timidamente. «Devo ammettere che sei molto bravo! Hai l’occhio giusto, riesci a cogliere le angolazioni migliori!».

    Sghignazzò imbarazzato, grattandosi la guancia con l’indice.

    «Sono un bravo osservatore». Mi adocchiò con un’espressione ridente. «Penso le terrò tutte, se per te non è un problema».

    Mi strinsi nelle spalle, riponendo le foto sul tavolino.

    «Per me va bene, non amo avere foto di me stessa negli album fotografici».

    Mi prese il mollettone da dietro la nuca e lo sganciò. Mi ero stancata della coda alta e perciò mi ero fatta un chignon alla veloce; Michael mi preferiva con i capelli sciolti, decisamente; la folta chioma castana rossiccia scese lungo le spalle e io protestai affinché mi ritornasse il mollettone. Mi arresi poco dopo, quando mi baciò languidamente: il respiro divenne pesante e la sua lingua si fece spazio tra le mie labbra.

    «Mmh...», emisi un suono simile ad un miagolio. «Non tentarmi...»

    Lo allontanai dal viso con una mano e arrossii. Michael si morse un labbro agguantando energicamente il mio ginocchio nudo.

    «E chi ti sta tentando? Io sono assolutamente innocente», borbottò fingendosi offeso.

    Con un cipiglio lussurioso iniziò ad ammirare i miei pantaloncini e il seno appena scoperto. Si fermò verso un punto indefinito vicino alle cosce. Mi afferrò entrambe le gambe con le dita, percependo la morbidezza della mia carne.

    «Ti dona il colore che indossi», si riferì alla mia canotta verde smeraldo.

    Mi strinsi un po’ nelle spalle apposta per far scontrare i due seni e dar loro più volume, in un tentativo quasi “comico” di attirare la sua attenzione e sedurlo.

    «Dici?», sorrisi.

    «Assolutamente» fece scattare impercettibilmente le sopracciglia verso l’alto. Un secondo e mi scoccò un’occhiata ammaliante, puntando le mie iridi chiare. «Smeraldo... come i tuoi occhi».

    Risi. «Io non ho gli occhi verde smeraldo!»

    Michael mi fissò profondamente.

    «Hai ragione. Sono più belli a causa delle loro mille sfaccettature, ma sono brillanti come quella pietra».

    Sono i tuoi che scintillano, adesso...

    «Perciò li paragoni ad uno smeraldo?», sorrisi visibilmente sorpresa. «Be’, è decisamente un gran complimento».

    Venni pervasa da brividi caldi e intensi. Michael proseguì dal ginocchio alla caviglia con i polpastrelli di entrambe le mani.

    Assumendo una smorfia maliziosa mollò la macchina fotografica sul tavolino, puntò le ginocchia al divano e mi tenne entrambe le piante dei piedi fra le dita. Si allungò verso il mio corpo semidisteso calcando il peso sui gomiti, affondando il capo nell’incavo del mio collo. Mi lasciai distendere sotto il suo peso.

    Il respiro che avevo tentato di non abbandonare si mozzò in gola. Gli occhi si coprirono di una patina di fuligginoso affetto. Michael mi accarezzò la coscia destra. In automatico l’agganciai al suo fianco, mentre si occupava di risalire al di sotto del mio top con l’altra mano, scavalcando l’ostacolo imposto dal reggiseno.

    «Abbiamo tutta la notte... perché così impaziente?»

    «Sono stanco di aspettare», gemette sfiorandomi il mento con le labbra. Lo osservai eccitata: lo sguardo era voglioso, il suo modo di fare precipitoso, le palpebre appena abbassate. «Possiamo finire di fare foto più tardi...»

    Mi baciò. I miei polpastrelli s’infilarono nella sua chioma corvina e mi permisi, per un fulgido istante, di spingere il bacino verso il suo. Mi scappò un mugolio pregante non appena afferrò un seno tra le dita.

    «Lo sai anche tu che dopo nessuno dei due avrà voglia di farle...», arrancai per rispondere, ingoiando la saliva con notevole sforzo. Gli accarezzai il mento nel tentativo di scostarlo da me. «E poi mi piacerebbe che ci fossi anche tu in qualcuna...».

    Gli regalai un sorriso dolce e una carezza, che dalla fossetta sul mento si abbassò fino al colletto della camicia sbottonata. Il suo profumo mi velava la capacità di pensare.

    Ripiegò la testa da un lato e la fronte si aggrottò un po’.

    «Vuoi fare qualche scatto assieme?»

    «Ovvio».

    Ritornò in posizione eretta e mi permise di sfuggire al suo abbraccio.

    Accarezzò il mio piede destro non più con fare distratto, ma con marcate e leggere pressioni. La luce evanescente delle mie iridi verdi incontrò quella delle sue, neri come la notte. Condividevamo lo stesso fuoco negli occhi.

    Sorrise scaltro ma per un istante sembrò vacillare. Mi prese la caviglia e la baciò.

    Abbassai lo sguardo sui suoi pantaloni: quel tessuto nero enfatizzava la protuberanza nascosta già impaziente di avermi. Il solo vedere come le sue dita mi afferrassero e il sentirle stringermi con amorevole forza mi mandava fuori di testa.

    Mi tirai su a sedere, spinta da una contrazione al bacino e un brivido alla femminilità. I capelli ricaddero scompigliati davanti al mio viso, alcuni entrarono per sbaglio in bocca e me le tolsi immediatamente. Le mie dita si avvicinarono ai bottoni della sua camicia rossa, piano pianino, mentre non distoglievo gli occhi da un Michael in attesa di una mia mossa. Il mio ginocchio destro si infossò fra le sue due gambe aperte.

    «Sembra che ti piaccia molto come sono vestito...», il tono di voce era basso e roco.

    Un lembo della mia bocca si incurvò verso l’alto. «Decisamente»

    Chiusi gli occhi e lo baciai piano sulle guance, con piccoli e scanditi movimenti di labbra. Attesi che mi lasciasse il tempo di sbottonare completamente la sua camicia; dopo averlo fatto gli accarezzai la pelle da sotto la canottiera bianca e soffocai un gemito mentre le nostre lingue s’incontrarono danzarono assieme.

    Le sue mani si affrettarono a raggiungere i seni e li massaggiò ferocemente. Mi afferrai alle sue braccia respirando affannosamente.

    «Michael...»

    Al diavolo le foto assieme.

    «Michael», annaspai. «Ti farà male... la botta...»

    La sua risposta arrivò come un sibilo di vento all’orecchio. «Shh… non ti preoccupare...»

    Mi slacciò i bottoni degli short facendo scendere la cerniera con un singolo movimento di dita. Scivolò al di sotto dei pantaloncini e scostò la biancheria intima in pizzo infilandosi al suo interno. Ingoiai il respiro ed entrò in me per mezzo di due dita, senza fatica alcuna.

    «Oh mio...»

    Mi strinsi a Michael, nascondendo lo sguardo tra i suoi capelli.

    Cercai di slacciare il reggiseno da sola. Uno schiocco e questo si smollò.

    «Mi vuoi?».

    Centrò il punto che preferivo e lo istigò fino a farmi soffocare un grido. Posai le labbra vicino alla sua gola e gli mordicchiai il lobo dell’orecchio destro. Mi parve di sentirlo tremare di rimando.

    «Non ho sentito...»

    Le spinte si fecero più possenti e rapide.

    «Ti voglio, Michael», piansi.

    Con l’altra mano libera si slacciò i pantaloni. Lo aiutai con una certa difficoltà e senza aspettare che si alzasse in piedi per togliersi il tutto, esattamente come lui aveva fatto con me. Infilai la mano al di sotto del tessuto che lo copriva e Michael sospirò elettrizzato, pronto a ricevermi.

    Mentre si sedeva appoggiandosi allo schienale del divano, abbassando i pantaloni e la biancheria intima fino alle caviglie, mi tolsi completamente shorts e biancheria intima per mettermi a cavalcioni sopra di lui. Uno sguardo di intesa e ci baciammo di nuovo, mentre Michael mi teneva per la vita e mi avvicinava al suo corpo mezzo nudo. Gli tolsi la camicia e la canottiera e lui fece lo stesso con il mio top e reggiseno. Gli lambii il collo mentre le dita lavorarono nuovamente alla sua mascolinità.

    Incespicò freneticamente nei suoi continui versi di supplica e mi persuase a non smettere. Più rallentavo, più mi chiedeva di accoglierlo in me.

    «Michael…»

    Mi fissò, ansimò pesantemente e si accostò alle mie labbra sfiorandole appena.

    Lo guidai e lo feci scivolare al mio interno, facendo cadere la testa all’indietro di fronte alla dolorosa ma piacevole sensazione di avvolgerlo completamente. Cercai di respirare profondamente, inarcando la colonna vertebrale, ed egli emise un lungo gemito di piacere.

    Ero sul punto di raggiungere il culmine ancor prima di iniziare per davvero.

    Cominciai a muovermi sopra di lui, dapprima lentamente e poi sempre più rapidamente. Michael sospirava a fatica ogni qualvolta lo facevo entrare nel punto più profondo che potesse raggiungere. Mi stringevo attorno al suo membro con forza, mugolando senza sosta.

    Mi appoggiai alle sue ginocchia con le dita, inclinando la schiena e continuando a danzare sopra di lui. Mi fissò rapito, a volte adocchiando il nostro legame e le mie movenze sulla sua mascolinità, altre volte ammirando l’espressione sul mio volto. Lasciai che mi accarezzasse i seni o mi desse lievi schiaffetti sul sedere senza protestare.

    Solo dopo un bel po’ di tempo aumentai la velocità e mi lasciai andare a gemiti sempre più forti. Mi strinse la presa sui glutei lasciando cadere la testa all’indietro. Lo lasciai immergersi in me senza sosta, fino a quando i corpi non tremarono e nettari preziosi vennero rilasciati in uno stato di ebbrezza indescrivibile.

    Per un tempo indefinito, quand’anche le tenebre si dissiparono all’orizzonte, la nostra danza non smise di esistere.

    *

    <div style="text-align: justify;">Un cinguettio allegro, unito al debole fruscio del mare, fu la prima cosa che le orecchie sentirono quando mi destai. Una sinfonia celestiale, la canzone di ogni glorioso risveglio dopo una notte indimenticabile – una delle tante.

    Ascoltai il mio respiro rilassato e riconobbi la posizione in cui ero sistemata; pancia in giù, una gamba posta fra quelle di Michael e la mano destra deposta sul suo petto nudo. Le dita di lui accarezzavano il dorso dell’arto e sospirava piano, sveglio da chissà quanto tempo. Il torace si alzava e si abbassava all’unisono col mio seno in un ballo lento e ben coordinato.

    Il fiato mi mancò per un millesimo di secondo. Uno sfavillio di luce diafana pareva avvolgere il cuore e, da esso, espandersi oltre i confini del corpo.

    Mi sentivo come una melodia nata senza spartito o strumento musicale, suonando il battito di un sentimento che non emetteva un rumore eppure avvolgeva ogni cosa. Ero protetta. Ero in salvo e al tempo stesso in caduta libera. L’amore che provavo era uno scoppio di colori e canti di giubilo in grado di trasformare l’essere umano in un essere divino: tutto l’universo è in equilibrio.

    Inspirai e strofinai il capo alla sua scapola con un movimento impercettibile. Le dita di Michael scivolarono verso il polso, tremando appena. Se lo portò alla bocca: vi posò un bacio gentile, delicato come i petali di un fiore. Il mio cuore fece una piccola capriola su di sé per l’emozione.

    Fece per rimetterla al suo posto ma lo bloccai. Sfuggii alla sua presa per percepire la sofficità della gota e degli zigomi marcati, quella parte del viso che non avrei mai smesso di lambire, assaggiare o adorarne il fresco profumo di dopobarba.

    Aprii le palpebre sbattendole piano. La vista era annebbiata eppure riuscii a intravedere il suo sorriso. I suoi occhi passarono in rassegna di ogni mio lineamento facciale e si arrestarono sulle mie preziose pietre verdi. Ricambiai con una smorfia stanca.

    «Ti ho svegliato, Moony

    «No...» mormorai stropicciandomi gli occhi. «Per nulla...»

    «Hai dormito bene?».

    «Mmh» Mi stiracchiai. Torsi il busto verso il tavolino, per bere un sorso di acqua fresca dal bicchiere di limonata della sera prima. Non ci eravamo mossi dall’enorme divano del salotto. «Non mi lamento. E tu?».

    «Mi piace osservarti quando dormi... sei così in pace che perfino io mi sento beato».

    Ovviamente evitava di rispondere.

    Per una volta lasciai perdere.

    Mi tirai su. Mi sedetti sul bordo del divano e mi allungai verso il pavimento alla ricerca della biancheria. Il reggiseno vicino al tavolino, le mutandine accanto al divano... un intero guardaroba posato a terra, a casaccio: mai disastro era stato più perfetto.

    Con un sorrisetto sulle labbra, mentre mi aggiustavo il reggiseno, Michael mi osservò. I nostri sguardi si incrociarono. Lo fissai incuriosita ed egli arcuò la fronte.

    Scoccai un’occhiata al suo corpo nudo mentre si sistemava di lato.

    «Devi andare via o puoi restare per un altro po'?»

    Picchiettò le dita sul cuscino che aveva accanto. Lo scrutò con fare pensieroso. Le labbra si attorcigliarono in un cipiglio rattristato e mi osservò a lungo.

    «Sarebbe meglio che andassi...»

    Annuii e abbassai il capo. Distrattamente infilai l’ultimo pezzo di intimo che ancora mi mancava.

    «Vado a mettere qualcosa di più comodo, attendimi un attimo».

    Adocchiai gli indumenti a terra. Li arrotolai attorno al braccio, mi issai in piedi e m’incamminai in direzione del bagno. Neanche un passo e Michael si sedette, con il busto in avanti e la mano che sporgeva di poco verso il mio polso. Aveva i capelli decisamente più arruffati dei miei.

    Ci studiammo a lungo – io confusa, lui imperscrutabile. Arrossii come se avessi già capito la sua domanda.

    Schioccò la lingua al palato.

    «Mi regali un tuo vestito?»

    «Eh?»

    Si bagnò il labbro ed emise un cenno di risata. «Mi regali un tuo vestito? Uno qualsiasi».

    Lo fissai incapace di dire qualcosa. Corrugai la fronte e sbattei le palpebre più volte.

    «Lo vuoi indossare…?».

    Michael esplose in una sonora risata e unì i palmi delle mani con uno schiocco.

    «No, piccola incosciente!», scosse la testa. «Voglio che nei momenti in cui non siamo assieme possa avere qualcosa di tuo, che mi ricordi la tua presenza...». Un angolo delle labbra si alzò di qualche millimetro. «Voglio sentire il tuo profumo nelle cose che indossi...»

    Arrossimmo entrambi.

    Gli avrei donato quello nero con le rose rosse. La prima volta che me lo aveva visto addosso i suoi occhi si erano abbagliati di desiderio e non era rimasto “improfanato” per più di cinque minuti.

    «Va bene», arricciai la bocca in un sorrisino imbarazzato. «Ma anch’io voglio qualcosa di tuo».

    Si lasciò cadere all’indietro, come se fosse in attesa che mi sedessi sopra le sue gambe completamente nude. Puntai la sua canottiera bianca, una di quelle che soleva tenere sotto la camicia, adagiata sullo schienale del divano. Michael seguì il mio sguardo e successivamente mi scoccò un’occhiata allegra.

    «Vuoi la mia canottiera?»

    Annuii.

    L’afferrò e me la porse.

    Non esitai a portarmela al naso. Quell’essenza mi accecò i sensi. Inspirai il suo profumo di borotalco, dopobarba e sandalo; avrei voluto abbassare le palpebre, invece le socchiusi e basta.

    Lo guardai negli occhi e in un istante lasciai cadere la canottiera a terra. Le gambe si mossero da sole verso il suo corpo. Abbandonai il peso sopra le sue ginocchia, incastrandomi perfettamente in loro come se fossimo due pezzi di puzzle combacianti. Michael mi guardò sorpreso ma interessato. Allacciai le mani attorno al suo collo.

    «Ho bisogno di te...», dissi con un fil di voce, baciandogli la tempia destra. «Non andare».

    «Sarah...».

    «Ti prego... ti voglio ancora»

    I suoi palmi avanzarono verso la parte più alta della schiena, vezzeggiandomi dolcemente, per poi stringersi ad essa con forza. Mi sfiorò come se fossi velluto, o una morbida e pregiatissima stoffa orientale. Con le labbra scese fino alla zona dei seni e la baciò fremente.

    Potevo percepire la sua eccitazione a pochi centimetri dal ventre. Gemetti.

    «Non me ne vado...», mugolò.

    Michael alzò lo sguardo e posai la bocca sulla sua. Infilai i polpastrelli nei suoi capelli, aspettando di essere spogliata un’altra volta dalle mutandine, le quali vennero scostate verso destra con due sole dita. La lingua cercò contatto con quella dell’altro e immediatamente la sua durezza mi invase con dolcezza.
     
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    Capitolo Quaranta: La Fiducia


    Rientrai in casa attraversando il terrazzo, stando attenta a non sporcare il pavimento di sabbia. Mi appoggiai alla grande finestra scorrevole del salotto e mi spazzolai bene i piedi con una mano, frattanto che con l’altra reggevo l’asciugamano attorno al torace: faceva caldo, così tanto che mi ci era voluto soltanto il percorso dalla spiaggia fino alla casa in affitto per asciugarmi a metà.

    Feci un brusco cenno del capo all’indietro per togliere alcuni ciuffi bagnati dalla fronte.

    La pelle sapeva di sale e di quella strana essenza che io, da bambina, chiamavo “profumo del Sole”: quel calore che i raggi solari lasciano sulla carne appena abbronzata. Un misto di salsedine, crema abbronzante e tepore.

    Lasciai le ciabatte vicino alla veranda. Raccolsi l’asciugamano che nel frattempo mi era scivolato di mano e mi avviai verso la cucina, adagiando quest’ultimo su una sedia vicino al bancone in legno scuro. Cantai allegramente un motivetto sconosciuto mentre mi versavo un bicchiere d’acqua per risciacquarmi la bocca dall’acqua di mare.

    Il mio sguardo si posò sul cellulare che avevo lasciato sul tavolo poche ore prima, finita la mia conversazione mattutina con Michael.

    Con mia sorpresa notai che era arrivato un messaggio giusto venti minuti prima. Era suo.

    Aggrottai le sopracciglia sorridendo stranita e lo lessi.

    Scrivimi quando sei libera, devo parlarti di una cosa.

    Aggrottai la fronte. Mi sedetti sulla sedia al mio fianco non rendendomi conto del gesto appena compiuto e mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

    Sono libera ora, dimmi tutto.

    Inviai il messaggio senza esitare.

    Avevo sempre un po’ paura di qualcuno che mi diceva “Devo parlarti”. Sotto quel punto di vista potevo capire benissimo l’angoscia del sesso maschile e il perché prendesse in giro noi donne per fare terrorismo psicologico con questa frase.

    Rimasi appoggiata al tavolo tenendo il mento su una mano fino al momento in cui non sobbalzai. Il mio telefono emise un trillo continuo: mi stava chiamando.

    Fissai il telefono e lo afferrai in un batter d’occhio: mi stupii per la velocità con cui Michael doveva aver letto quel messaggio, ma ancor di più per il mio respiro fermo nei polmoni. Il petto tuonò dall’emozione.

    Posizionai il cellulare accanto all’orecchio dopo aver accettato la chiamata. La sua risatina profonda mi impedì di emanare un suono.

    «Lo sai che ti amo?»

    Eh?

    Non seppi se maledirlo, ridere o sciogliermi per quella eccessiva dose di zucchero.

    Era sorprendente, completamente innaturale, sentirmi in quella maniera. Era bello e angosciante, tutto perché non riuscivo a trovare le parole per descrivere ciò che provavo... era terrificante.

    Sospirai. «Lo hai fatto apposta per farmi stare in ansia, di’ la verità…»

    «Esatto...» Michael ridacchiò in tono abbastanza rauco.

    Se una voce avrebbe potuto abbracciare una persona, la sua lo poteva fare senza dubbio.

    Una folata di vento tiepido mi spettinò i capelli.

    «Ti amo...», deglutii l’aria a fatica.

    «Anche io, Moony».

    Strinsi le dita attorno al telefono. «Ma smettila di fare queste... queste sdolcinatezze quando meno me l’aspetto! Altrimenti arrivano quei silenzi che non so sostenere», risi.

    Sogghignò. «E tu non dire queste cose...». In breve la sua risata scemò e si fece serio. «Perché sto impazzendo per te...»

    Il basso ventre formicolò dall’entusiasmo.

    «Mi stai portando fuori di senno...», prese fiato, «vorrei che tu fossi qua... ti vorrei...»

    «Michael!» piagnucolai e risi assieme. «Così fai peggio!»

    «Mi desideri? Ti manco?»

    «Costantemente, amore».

    Mi zittii. Non avevo mai chiamato Michael “amore” prima d’allora. Arrossii violentemente e ringraziai il cielo che non mi potesse vedere.

    «Amore...» ripeté la parola con adorazione. Ridacchiò mestamente. «Lo vedi? È colpa tua...» La frase venne spezzata per mancanza di fiato. «Non immagini cosa ti farei se ti avessi di fronte...»

    «Dimmelo».

    Allacciai una gamba sopra l’altra posando la mano sinistra sulla pancia. La tentazione di far scivolare le dita sulla mia femminilità fu fortissima.

    «Non posso...»

    «Davvero?» sghignazzai con sguardo vacuo, arcuando un sopracciglio.

    «Sei sola?».

    Feci una smorfia e roteai gli occhi al cielo.

    «No, ho invitato due bei ragazzi che ho incontrato sulla spiaggia... mi aspettano tutti madidi di sudore a letto... a petto nudo...», sussurrai con voce bassa e sensuale.

    «Scema!», mi rimproverò soffocando una risata. «Non fa ridere!»

    «Pff! A me pare tutto il contrario», i polpastrelli scivolarono verso il bicchiere vuoto di fronte a me e picchiettai insistentemente il vetro con le unghie.

    «Sei in costume?»

    «Sì... ho appena fatto un bagno al mare e ora mi sto bevendo qualcosa», guardai fuori.

    «In cucina?»

    «A-ha» seguii con l’indice il bordo del bicchiere formando cerchi infiniti, il tutto molto lentamente.

    «Descrivimi tutto»

    «Uhm...» mi guardai intorno. «Be’, sono in costume... è uno a due pezzi, nero, molto semplice, che però si allaccia dietro il collo. C’è una brezza stupenda… e anche un completo silenzio, se non per le nostre voci e il suono del mare...». Sorrisi maliziosa. «Ma perché queste domande?».

    «Ti sto immaginando...», emise in un soffio.

    «Mmh...», sussurrai, «e tu? Dove sei?»

    «Sono in camera...» Michael schioccò la lingua al palato. «Sono disteso a letto, in canottiera e pantaloni neri... c’è il condizionatore… le serrande sono abbassate quasi del tutto...»

    «Mi stai pensando?»

    «A-ha»

    «Bene», sorrisi maliziosa.

    Ingoiai la saliva. Immaginavo eccome le mani di Michael su di me e io sopra il suo corpo. Mi pareva di sentirlo immergersi in me, volta dopo volta, sempre più a fondo. Di colpo ebbi una sete così tremenda che avrei potuto bere tutto l’acquedotto di Los Angeles.

    «Dimmi come mi vedi...»

    Chiusi gli occhi. «Tu non mi hai detto cosa mi faresti».

    Attesa.

    «Vuoi saperlo davvero?»

    «Certamente».

    «D’accordo...»

    Lo udii inspirare.

    «Per prima cosa, ti prenderei tra le mie braccia... ti indurrei a sdraiarti su quel tavolo...» mugolò impercettibilmente «e ti toccherei, ti bacerei, ti sfiorerei ovunque... e tu mi pregheresti per averne di più, molto di più, come fai ogni volta che siamo assieme. Le mie dita si poserebbero dappertutto, sulle tue morbide curve… le labbra salirebbero dal collo verso la tua bocca... e allora entrerei in te, con dolci movimenti... verrei in te...»

    Ondate di piacere intenso si scagliarono contro la mia intimità. Il torace fu scosso da respirazioni pesanti. Fui tentata di portare i polpastrelli in basso, luogo già in attesa di lui, pensando che Michael stesse facendo la stessa cosa.

    «Io ti vedo disteso...», feci sfuggire un sospiro emozionato.

    «Vai avanti», le sue parole erano taglienti come coltelli affilati.

    «Mi vedo sopra... ti sento...», strinsi il palmo della mano attorno alla coscia, afferrando la pelle per non cedere alla tentazione.

    «A-ha...»

    Mi bagnai le labbra. «Immagino come mi stringi i fianchi mentre sei dentro di me, prima piano e poi sempre più forte...». Arrossii per quell’idea ma le parole non smisero di fluirmi liberamente dalla bocca. Mi inarcai in avanti. «Ti vedo mentre ti mordo il labbro inferiore e mi guardi intensamente... il mio seno che segue i nostri movimenti...»

    Lo sentii sospirare pesantemente.

    «Non mi fermerei... anzi, continuerei a dire il tuo nome e pregarti di continuare… più forte, più forte, sempre più forte e velocemente…»

    Mandai giù la saliva accennando ad un sottile spasmo di risata intimidita, non smettendo di arrossire, dispettosa e bastian contraria come al solito.

    «Ma preferirei continuare questa tortura se venissi a trovarmi…»

    Una lunga pausa.

    «Uh...?» Michael espirò, scombussolato.

    Ridacchiai e guardai l’orologio a muro. «Non sai quanto mi dispiace interrompere tutto questo, ma oggi devo uscire prima di mezzogiorno…».

    Dalla cornetta si diffuse un silenzio che mi fece paura.

    «Dove?»

    Feci una faccia strana, comprendendo dal modo in cui aveva posto la domanda che si era incupito, o peggio offeso.

    «Devo andare a fare la spesa, altrimenti morirò di fame e vivrò di stenti. Magari farò una torta salata».

    Parlottai a vanvera capendo immediatamente che non mi avrebbe chiesto nulla al riguardo, e che non gli sarebbe interessato nulla dei miei progetti culinari. Non quel giorno.

    «Mmh-mmh...»

    Roteai gli occhi al cielo.

    «Dai, non ti offendere...»

    «Chi si offende?»

    «Tu, gufo brontolone. Per una volta che non ci sto non è la fine del mondo!», feci spallucce. «Se non te ne sei accorto ti ho indirettamente invitato a casa mia... anche per mettere in atto queste fantasie», bofonchiai.

    «Mmh...»

    Espirai e gesticolai animatamente con me stessa.

    «Due giorni fa mi avevi proposto di vederci oggi e non mi hai più fatto sapere niente! Sappimi dire entro qualche ora, per sapere se devo fare da mangiare per due. Ma se sei offeso e hai cambiato idea dimmelo subito, così non prendo cose per niente», pronunciai quelle ultime parole con orgoglio ferito.

    «Aspetta...», sussurrò.

    «Cosa?»

    «Ti voglio, lo sai questo?»

    Tremai.

    «Sì, certo che lo so...»

    «E stasera subirai le conseguenze». Quelle sillabe erano graffiate dal desiderio e impregnate di furente ardore. Sghignazzò in maniera quasi inaudibile. «Non puoi scapparmi».

    «Conseguenze?»

    «Non fare la finta tonta. Le conseguenze per avermi lasciato così, adesso...»

    Nella testa avevo l’immagine precisa di quell’espressione maliziosa che gli dipingeva il viso.

    «A-ha, certo...», mormorai divertita. «Ti aspetto allora».

    «Sì...», mi parve di vederlo sorridere. «Ti amo».

    Risi. «Anche io... nonno antipatico!».

    Terminai la chiamata attorcigliando una ciocca di capelli attorno alle dita, mordicchiandomi il labbro inferiore pienamente compiaciuta per l’affare appena concluso. Ero innamorata, completamente assente dalla realtà, e non c’era sensazione più bella.

    *

    Studiai i due paia di tacchi ai miei piedi con fronte aggrottata, tenuta compagnia dal lieve vociare di donne allegre in negozio e dal ronzio della radio, percepibile nitidamente dalle casse sopra di me.

    Un paio di tacchi era davvero elegante, quasi dieci centimetri di altezza e di color avorio, e l'altro era bianco, semplice, ma con un tacco finissimo con il quale - ne ero sicura - avrei potuto benissimo rischiare il suicidio. Ne valeva la pena comprare almeno uno dei due?

    Da circa un'ora ero entrata in quel lussurioso negozio di Santa Barbara e non avevo ancora le idee chiare su cosa fare. Avevo visitato chissà quanti posti nel pomeriggio e quello sembrava il meno costoso di tutti. Non era da me indossare tacchi a dirla tutta, ma serviva sempre un paio per l’estate.

    Ad ogni modo, non sapevo proprio in che occasione avrei potuto usarli. Per fare colpo su Michael? Probabile. Impazziva quando mi vedeva vestita da donna elegante. Per andare in giro a fare spese? Nah, anche no.

    Indossai per l'ultima volta i tacchi color avorio e pensai alla borsa da abbinarci. Mi osservai allo specchio che avevo dinanzi, ponendomi sul fianco destro e sinistro per un’altra manciata di minuti. Odiavo fare shopping di scarpe.

    Si sta parlando molto di Michael Jackson in questi tempi, non credi che il processo gli stia dando troppe attenzioni?

    Al nome “Michael Jackson” le antenne che avevo al posto delle orecchie vennero attratte da ciò che i due personaggi alla radio stavano dicendo. Alzai appena lo sguardo.

    Oh be’, questo è certo!

    La donna alla radio rise.

    - Ma per il momento non sembra preoccuparsene! Proprio oggi è stato beccato in un centro commerciale a Houston, accompagnato dalla solita mandria di sfasati e da una bellissima ragazza a braccetto!
    - Ma non era gay?
    - In realtà credevo che fosse un pedofilo!

    Entrambi i due tizi risero delle loro battute e continuarono i loro ridicoli discorsi dimenticando Michael, passando ad un'altra star di Hollywood che in quel periodo aveva difficoltà con la popolarità e tutto ciò che ne conseguiva.

    Feci una smorfia disgustata e ingoiai un moto di rabbia. Mi sedetti sulle poltroncine in velluto rosso e mi tolsi i tacchi: decisi di comprare quelli avorio senza pensarci sopra ulteriormente.

    C'è un motivo – semplice, a dire il vero – che porta alcune persone a parlare male degli altri: basta dar aria alla bocca. Quando nella loro vita c'è spazio soltanto per l’infelicità, l’odio e il rancore, costoro trovano uno sfogo in chi - secondo loro - all'apparenza sta peggio o dovrebbe stare peggio. Scaricano la propria frustrazione sugli altri, perché non conoscono altro di meglio.

    Ma lasciai perdere i commenti sarcastici su Michael per rimuginare sulla notizia udita.

    Che fosse partito per il Texas lo sapevo; me lo aveva detto al telefono e mi aveva detto le “causali” che lo avrebbero portato lontano... ma quale bellissima ragazza lo accompagnava? Era una balla dei due speaker radiofonici o era la verità?

    Storsi le labbra e il mio sguardo si perse nel vuoto. La mente elaborò le sue teorie assiduamente mentre rimettevo le scarpe nella loro scatola, pagavo il conto e me ne uscivo dal negozio... pronta per tornare a casa e ricevere una qualsiasi risposta ai miei dubbi.

    Dopo quasi un’oretta fui a casa. Appena superata l'entrata e aver chiuso la porta mollai la borsetta e il nuovo acquisto sul divano con espressione fiacca e pensierosa.

    Ero in dubbio, tremendamente in dubbio, e le parole dei due tizi alla radio non facevano altro che offuscare qualsiasi mia funzione mentale. Domande e conseguenti risposte ronzavano nel cervello impedendomi di pensare a mente lucida: avrei dovuto chiamare Michael o avrei dovuto aspettare? Facevo bene a lasciar perdere o indagare?

    Effettivamente un breve viaggio Michael lo aveva intrapreso, pensai, e i giornalisti avevano individuato la tappa esatta... su quello non avevano mentito... ma avevano detto il vero anche sulla ragazza? Avevano chiamato i fans “invasati”, quindi non mi stupii troppo se avessero esagerato coi loro giudizi anche riguardo a quella donna (se davvero esisteva). Eppure ero più propensa a credere a loro e a ciò che avevo udito – probabilmente perché la mia mente era terrorizzata alla sola idea di essere “tradita”. Se Michael avesse davvero approfittato per incontrare una sua vecchia conoscenza o anche una nuova, meritavo di saperlo.

    Qualcosa - forse il mio istinto - mi induceva a essere impulsiva, a telefonargli e a porgli una domanda dopo l'altra. Invece il cuore mi diceva di aspettare prima di tartassarlo con le mie “frasi senza senso”.

    Rinunciai a prendere il telefono dalla borsetta e comporre il numero di Michael. Scoccai a questa un’ultima occhiata estremamente irritata.

    Sbuffai accendendo il televisore e cercando insistentemente il canale della ABC, uno dei tanti programmi in cui si sarebbe potuto parlare di gossip, e lentamente mi diressi in cucina.

    Con la testa ancora fra le nuvole preparai un piatto di roast beef a fette condito con pepe, limone e un goccio d'olio; a parte, invece, verdura mista. Condito il tutto portai entrambe le portate sul tavolo della sala da pranzo adempiente al salotto.

    E all’improvviso lo vidi.

    Con la coda dell'occhio individuai un uomo con camicia rossa e una schiera di persone che lo fiancheggiavano. Il respiro si fermò un attimo e accorsi al divano per prendere il telecomando e vedere se fosse Michael o meno.

    Per mia sfortuna, lo era.

    Un tizio parlò in sottofondo mentre le immagini di un Michael sorridente e allegro passeggiava per il centro commerciale di Houston, indicando chissà quale negozio alla ragazza accanto a lui e tenendosi a braccetto senza la minima preoccupazione. Osservai tutto senza emettere parola o pensare a nulla di definito, mentre una tizia sconosciuta offriva ai due qualcosa da mangiare e poi si passava ad un perfetto zoom del viso di Michael e della giovane donna dai capelli castani, fisico longilineo e occhiali da sole. Poi apparvero i due conduttori televisivi, un giovane reporter in linea con lo studio da Houston e di nuovo Michael con quella sconosciuta: il servizio diceva in poche parole di una visita inaspettata del cantante accompagnato dal suo entourage e da un’amica chiamata Monique.

    Mi lasciai cadere sul divano una volta che Michael scomparve dallo schermo.

    Rimasi incantata e senza parole per un paio di secondi.

    Cominciai a vedere sempre più offuscato.

    Lo sguardo cadde poco dopo sulla borsetta e impulsivamente mi allungai per immergere la mano al suo interno e afferrare il telefono. Lo presi con aggressività, composi il suo numero e rimasi a fissarlo con il naso che pizzicava per lacrime.

    Conoscevo bene l’esperienza del tradimento e Dio solo sapeva quanto questo fosse la cosa che più disprezzassi al mondo. Il tradimento mi aveva demolito l’anima e l’autostima, non solo il cuore e una relazione. Avevo fatto di tutto per evitare una persona che avrebbe potuto farmi male in quella maniera di nuovo.

    Il tradimento cambia.

    Ti stravolge.

    Niente torna come prima e tutte le certezze si disintegrano così come sono nate.

    Spensi il telefonino. Lo lasciai cadere sul sofà e non ci diedi più peso.

    Espirai tutto il rancore che si era posizionato nella zona dello stomaco, ispirando vulnerabilità, ponendo così fine al mio desiderio di cenare. Affondai il viso fra le mani adagiando i gomiti sulle ginocchia; inspirai ed espirai a fondo una seconda volta.

    Non pensai a niente.

    Non piansi.

    Mi feci prendere dalle paranoie senza voler chiedere conferma al diretto interessato… ma in quel momento non avevo il minimo interesse di ricevere chiamate o messaggi da parte sua.

    Il tempo si era immobilizzato e io con esso.

    Mi issai di scatto e accorsi verso la mia terrina di insalata e il piatto di roast beef. Presi il tutto e lo misi in frigo, pensando che avrei potuto mangiarlo l'indomani o qualche ora più tardi nel caso in cui avessi avuto un attacco di fame nervosa. Buttai posate e bicchiere nella lavastoviglie e mi appoggiai al lavello.

    Non sapevo se essere più arrabbiata e delusa da me stessa o da Michael.

    Gli occhi divennero lucidi e annebbiati da un velo di emozioni che da parecchio tempo non provavo così intensamente.

    Mi aveva lasciando la sera prima con un sorriso sulle labbra, per poi scoprire questo.

    E se era una finta? Perché non me lo aveva detto?

    Non devo odiarmi, non devo odiarmi, non devo odiarmi. Non devo provare le stesse emozioni del passato. Devo essere più forte.

    Andai a disattivare l'allarme di casa e aprii le finestre scorrevoli del terrazzo. Scesi le scalinate che portavano alla spiaggia, mi spogliai dei vestiti rimanendo in reggiseno e mutande e con una rincorsa mi immersi in mare. Fu un gesto completamente senza senso, ma preferivo fare un bagno in acqua piuttosto che rimanere immobile a piangere, disprezzando me stessa e la mia stupidità in quella silenziosa cucina.

    *

    La mattina seguente mi svegliai con il cuore muto e la mente affollata di offese.

    Dal momento in cui mi ero svegliata fino a quando mi ero trascinata in cucina, sedendomi sullo sgabello con sguardo fisso a terra e una tazza di tè in mano, non avevo fatto altro che pensare alle parole intrinseche di rabbia che avrei voluto urlare a Michael senza il timore di fargli male.

    E alle parole che continuavo a urlarmi per non scoppiare a piangere e crollare a pezzi.

    Presi una fetta biscottata e vi spalmai sopra un cucchiaino di marmellata. Ne preparai un’altra addentando la prima e una volta finito di mangiare entrambe mi alzai dallo sgabello e mi diressi verso la sala da pranzo. Non avevo fame.

    Appoggiandomi all’enorme vetrata che dava alla spiaggia, con occhi assenti osservai il punto d’incontro tra mare e cielo, due meraviglie della natura di cui non riuscii a meravigliarmi con il cuore leggero.

    Ero convinta del suo tradimento e di conseguenza credevo di sapere cosa fosse giusto fare senza pensarci ulteriormente: avrei dovuto trovare un altro appartamento in cui stare, il meno costoso possibile e magari verso LA, qualcosa di economico ma comunque apprezzabile. Non volevo debiti con Michael: lo avrei ripagato di tutte le spese e me ne sarei andata... ma non prima di avergli urlato un “Vaffanculo” a gran voce. Il solo concretizzare quell'idea mi faceva crollare le ginocchia, mi rendeva debole come un rametto sottile in una bufera di neve.

    Credevo al suo tradimento, ma non completamente. Era come essere in un limbo. Fino a quando Michael non mi avrebbe dato la certezza attraverso il suo sguardo, non sarei caduta a pezzi e quell’idea non sarebbe stata una verità assoluta.

    Avrei voluto sputargli in un occhio da tanto schifo che mi faceva.

    Prendere il telefono, controllare se mi avesse chiamato o scritto e in caso rispondergli…? Oppure ignorarlo fin quando non si sarebbe presentato davanti a casa mia?

    Ricordavo, seppur vagamente, che il suo giro turistico a Houston sarebbe dovuto durare soltanto per un giorno. Doveva essere già tornato a Los Angeles.

    Non ero pronta per affrontarlo faccia a faccia.

    Ancora una volta mi venne da piangere e mi trattenni.

    Strofinai gli occhi e ingoiai una boccata di ossigeno poggiando la tazza di tè vuota sul lavandino, non appena tornata in cucina. Potevo sentire quel nodo allo stomaco stritolarmi le viscere. Come un automa mi incamminai verso il divano dove la sera prima avevo abbandonato il telefono spento.

    Lo accesi.

    Non volevo averlo di fronte quando gli avrei detto che lo odiavo e che lo pensavo un traditore. Sarei stata più forte nel dirglielo senza averlo vicino... la spina dorsale sarebbe stata molle, ma le mie mani forse no.

    Aspettai pochi istanti e la schermata del cellulare si riempì di notifiche. Le mie sopracciglia si inarcarono un po’ ma il resto del viso rimase fermo in una smorfia impenetrabile.

    Subito il cuore fece un salto in gola, come a ricordarmi che ero ancora viva e vegeta.

    Quindici messaggi, di cui undici erano avvisi di chiamata, uno era una registrazione in segreteria telefonica e tre erano messaggi scritti. Una chiamata delle tante era stata effettuata poco prima.

    Mi sentivo sottosopra.

    Sarah perché non rispondi? È successo qualcosa?

    Ma vaffanculo.

    Mi sto seriamente preoccupando.
    Se stai leggendo rispondi! Ho bisogno di sentirti!!!

    Grazie a Dio non l’avevo davanti agli occhi altrimenti lo avrei ucciso.

    Se non rispondi entro mezz’ora vengo lì.
    Non posso pensare ti sia accaduto qualcosa.
    Se non mi vuoi parlare almeno dimmi che stai bene

    Stava per arrivare... e il messaggio era di quasi un’ora prima.

    No, non lo volevo vedere...

    Non volevo affrontarlo...

    Mi avrebbe posto di fronte alla possibilità che mi aveva effettivamente tradito, cosa che mi avrebbe fatto bene ma mi avrebbe anche distrutto. Gli avrei sicuramente urlato contro e sarei scoppiata a piangere dal nervoso, mi conoscevo. Non volevo agire così. Non volevo svergognarmi così. Non volevo sentire altre cazzate da parte di nessuno.

    Con le dita che tremavano scrissi e riscrissi una bozza del messaggio che gli avrei inviato. Cancellai e riscrissi, cancellai e riscrissi… riflettei su cosa fosse giusto dire per non farlo venire in quella casa. Alla fine, con il respiro e il cuore pesante, optai per un misero secco “Sto bene”.

    Inviai.

    Mi sedetti sul divano e attesi una risposta che pensavo non sarebbe arrivata presto. Mi sistemai l’abito in satin nero che mi faceva da vestaglia, un accessorio abbastanza sensuale che avevo comprato grazie ai continui incoraggiamenti di Margaret, quella volta che era venuta a trovarmi a Los Angeles. Non indossavo nemmeno il reggiseno, ma poco mi importava.

    Non mi importava di niente.

    Mi sentivo un guscio vuoto e una bomba ad orologeria al tempo stesso.

    Lo schermo del cellulare si illuminò e il nome “Michael” risaltò davanti ai miei occhi ansiosi. Pensai per un attimo di aver perso la capacità di respirare.

    Esitai. Quella vocina che mi diceva di fronteggiarlo fu più acuta di quella che mi invitava a lasciar perdere. Forse lo avrei fatto per provare a me stessa che sapevo essere indifferente al suo potere... o, molto probabilmente, perché non aspettavo altro che litigare.

    Accettai la chiamata inspirando a pieni polmoni.

    «Cosa c’è?»

    «Porca puttana, Sarah!».

    Sembrava furioso.

    «Perché ci hai messo tanto? Ti sto raggiungendo in macchina! Cosa diavolo è successo?!»

    Era da parecchio che non lo sentivo così arrabbiato. Non inveiva così facilmente, ma quando lo faceva sembrava irriconoscibile.

    Lo stomaco si contorse su di sé.

    «Niente», dissi fissando il vuoto, atona. «E a te?»

    Silenzio.

    «Che ti prende?», quel tono era specchio della serietà.

    Silenzio tombale per la seconda volta.

    «Dimmelo».

    Scattai in piedi.

    «Non c’è bisogno che vieni a trovarmi, ok?», mi accigliai irritata, «Io sto bene e non ho intenzione di dialogare. Tu mi chiami per qualche ragione particolare?» abbozzai una risata sardonica. «Ti manca qualcuno

    Volli aggiungere “per passare la giornata e anche la notte assieme”, ma non ce la feci. Le parole si arrestarono assieme all’istinto di urlargli contro.

    «Ma che...»

    Rimase di nuovo in silenzio, stavolta accompagnato dal soffuso borbottio di un motore e da parlottii in sottofondo, emessi da una voce bassissima e lieve. Restai in ascolto ma non riuscii a distinguere neanche una parola, troppo furiosa per pensare a mente fredda. Tutto mi sembrava ancora più confuso di prima.

    Un fruscio dall'altra parte della linea e una cupa sentenza seguì la lunga assenza di suoni.

    «Sono di fronte casa tua, aprimi, sto arrivando».

    Buttò giù il telefono con tono addirittura sfacciato.

    Me ne stetti per un millesimo di secondo ferma sul posto per metabolizzare la risposta... quando realizzai che non c'era più niente da fare per fermarlo, andai verso l'uscita con il corpo che tremava dal freddo nonostante fossimo in piena estate. Quel sentimento di furore salì in superficie come la lava in un cratere di un vulcano in eruzione.

    Arrivata alla porta aprii con velocità incredibile e mi appoggiai allo stipite pensando che non fosse ancora arrivato.

    Mi sbagliavo.

    Mi stava raggiungendo e in fondo al vialetto di ghiaia e sassolini, nascosto dal verde, se ne stava un grosso SUV nero lucido.

    L’espressione di Michael fu scoperta dagli occhiali da sole che si stava togliendo rapidamente, allacciandoseli su qualche bottone della camicia un po' aperta color blu notte. Le mascelle erano contratte come ogni volta che si arrabbiava o era in tensione, gli occhi scuri e profondi entravano in me quasi con impazienza. Le sopracciglia, le labbra, la fossetta sul mento e ogni suo lineamento facciale sembravano ancora più marcati del solito.

    Ebbi la pelle d'oca, lo ammetto... ma finsi di non avere alcuna reazione, ingoiando il sentimento di eccitazione e lasciandomi guidare dall'astio.

    Le spalle si scossero per colpa di un rumoroso sospiro.

    Si fermò a pochi centimetri dall'entrata. La sua presenza era come l'aria che respiravo, in quei momenti più che mai... era soffocante, credevo di potermi sentire piccolissima rispetto alla grandezza di quell'aura che – sebbene arrabbiata – dovevo riconoscere fosse immensa.

    Ma Michael sottovalutava l’impatto che il tradimento aveva su di me.

    Mi scoccò un’occhiata dall’alto in basso e si soffermò sulle curve più abbondanti e rotondeggianti del mio fisico. Mi ero dimenticata che indossavo una vestaglia molto corta. Un bagliore di appannato desiderio parve confonderlo così come accadde a me nel vedere le sue spalle larghe e la camicia sbottonata sul collo.

    Mi sentii spogliata senza essermi tolta i vestiti e la cosa, ad ogni modo, non mi fece per nulla piacere.

    Si scosse incrociando i miei occhi e nessuno dei due disse nulla. Era attratto, confuso, indispettito, amareggiato, incazzato.

    «Mi fai entrare?»

    Diedi un ultimo sguardo all’auto nera che spegneva il motore. Feci passare Michael incollandomi al muro come una sogliola. Il macchinone non partì neanche quando entrammo in casa e chiusi la porta alle mie spalle.

    L’ira che fluiva nel corpo era incandescente, illuminando le mie iridi come un falò di grandi dimensioni. Mi rendeva impossibile anche solo parlare.

    Michael avanzò fino al divano ma non si sedette, lasciò cadere gli occhiali da sole sul poggiolo del sofà. A braccia incrociate picchiettai le dita sulla pelle nuda delle braccia e lo seguii silenziosamente, tenendomi a distanza di sicurezza nel caso avessi deciso di menarlo (non si poteva mai sapere). Dondolai sul posto.

    Tenendo la bocca serrata in una smorfia incomprensibile si guardò intorno, prima di voltarsi verso di me con le mani sui fianchi. Mi guardò da capo a piedi una seconda volta.

    Alzai un sopracciglio in modo alquanto strafottente.

    Serrò i pugni di tutta risposta.

    «Perché cazzo non mi hai risposto? Perché hai chiuso il cellulare?!»

    «Mi sembrava che tu non avessi bisogno della mia compagnia», sibilai.

    Lo sguardo che mi diede fu incisivo e al contempo indefinito. Non mollò il contatto visivo neanche per un secondo. Si bagnò le labbra e chinò il capo verso il basso. Un attimo dopo mi puntò e la fronte si increspò per un improvviso lampo di amarezza. Disprezzavo il suo essere apparentemente offeso.

    «Non è come pensi...», mi adocchiò con seriosità.

    Sorrisi senza divertimento, guardando in alto. «Già! È quello che mi venne detto quando successe la prima volta! “Nooo, stai vaneggiando!” e invece sono stata tradita per mesi».

    Mi incamminai verso il tavolo della cucina dove c’era ancora il bicchiere mezzo vuoto di acqua che non ero riuscita a finire poco prima. Gli voltai le spalle senza avere il coraggio di osservarlo in viso.

    «Non mi credi?» mi seguì alzando il tono di voce. «Io non ti tradisco Sarah, non l’ho mai fatto! Hai creduto alle parole di stupidi tabloid?! Come fai a essere così sciocca?!»

    Mi voltai di scatto e spalancai le palpebre.

    I suoi occhi emanavano scintille di rabbia che cercavano inutilmente di trattenere.

    «Sciocca?! Oh sì, hai ragione!». Fui faccia a faccia con Michael. Mi tenni stretta al bancone della cucina per non cadere. «Sono io che mi faccio tante fisime per niente»

    Una ruga comparve sulla sua fronte e serrò le mascelle. Un secondo dopo si bagnò le labbra.

    «Non ti tradirei mai».

    Forse la serietà in cui lo disse, forse la scintilla d’ira che per un breve istante lo accecò, mi fece crollare il castello di carte che mi ero costruita sulla base di presupposizioni. Le mie spalle si rilassarono, ma la rabbia era ancora lì – e non perché non gli credevo, ma perché mi rendevo conto che non si era sprecato a parlarmene prima. E pretendeva che non mi arrabbiassi.

    «Come posso fidarmi di te?». Sputai fuori quella domanda storcendo il naso. «Non mi hai detto che avresti incontrato che avresti fatto finta di amoreggiare con una ragazza».

    Michael restò impassibile ma si umettò la bocca di nuovo. Sembrava così convinto di sé che finii per incazzarmi ancora di più.

    «Non sono uscito con nessuno, Sarah. Era una finta!», si mosse verso di me e spalancò occhi e braccia inarcando le sopracciglia. «Era una mia ammiratrice, io e lo staff eravamo d'accordo perché sapevamo che i media mi avrebbero seguito dappertutto! Era una manovra pubblicitaria!»

    Smisi di muovermi sul posto. Socchiusi la bocca toccando i denti con la lingua e incrociando le braccia al petto. Lo ridussi in cenere con una sola occhiata, che egli ricambiò con sbigottimento e un filo di rancore.

    «Davvero?», sorrisi con palese cinismo.

    Annuii fra me e me ignorando il suo rabbioso e determinato “Sì”. Le pulsazioni che sentivo sulla nuca si fecero più forti e quello era il sintomo che stavo per perdere la calma definitivamente. Quello che mi aveva detto era forse peggio di sentirmi dire che mi aveva tradito veramente – cosa a cui faticavo a credere al cento per cento.

    «E allora perché non me l'hai detto?», alzai i toni. «Costava così tanto dirmelo? Tirare su il telefono e dire “Sarah, guarda che sta succedendo questa cosa qua, non preoccuparti”?! Costava tanto inviarmi un messaggio

    Michael cominciò ad innervosirsi e a muovere concitatamente le mani. «E a cosa sarebbe servito?!»

    Silenzio.

    La mia bocca si spalancò ed egli non mostrò pentimento alcuno.

    «Stai scherzando?!».

    Non rispose.

    Sbattei le palpebre e poi risi. Risi sarcasticamente. Mi strofinai le mani e distogliendo lo sguardo dalla sua faccia ritornai a dondolare sul posto.

    «Non capisci proprio niente»

    «No, non capisco!», mi venne accanto alzando le spalle, fissandomi con un mezzo sorriso ironico e fronte raggrinzita per il nervosismo ingiustificato. «Non ti stavo tradendo e tu dovresti conoscermi. Solo perché non ti rendo partecipe di ogni cosa che mi succede nella vita non significa che sto scopando con qualcun’altra! E anche tu potresti tradirmi con qualcuno senza che io lo sappia!», si guardò intorno come se si aspettasse di veder comparire un uomo completamente nudo dal terrazzo.

    Sbarrai gli occhi.

    «Cosa?!»

    Mi chiesi se si fosse drogato con qualche sostanza stupefacente prima di venire a trovarmi, o se tutti gli uomini agissero in quella maniera per pararsi il culo così sfacciatamente.

    Ero senza parole.

    Senza dubbio si stava comportando da vittima della situazione.

    Più faceva così, più mi imbestialivo.

    Gli occhi pizzicarono di lacrime.

    «Con me queste stronzate non funzionano» le parole sussultarono ma il tono si elevò con più ardore. Mi misi una mano al petto e Michael ingoiò la saliva indurendo i muscoli del collo. Mi fissava impenetrabilmente. «Stiamo parlando di complicità fra due persone che si dovrebbero amare! Quella era una cosa importante da sapere, PER ME! È ovvio che io pensi male, se tu non mi racconti cosa ti passa per la testa!», battei il palmo della mano sul petto.

    «Le tue sono stronzate, Sarah!» gridò allontanandosi con una smorfia di diabolico orrore. Le mani si muovevano nell'ambiente circostante come impazzite. «Sono solo stronzate per appenderti a qualcosa che in realtà è gelosia

    Emisi uno spasmo di risata basita.

    «E anche se lo fossi?! Hai ottenuto quello che volevi?! Sei così contento quando tutto ciò che progetti va secondo i tuoi piani. Eppure hai così paura di dire “Scusa Sarah, non ho considerato i tuoi sentimenti”, che preferisci dare la colpa a me!», stesi le braccia lungo i fianchi con un colpo secco.

    Sbarrò i grandi occhi neri.

    Stavo esagerando? Probabilmente. Ma poco mi importava.

    «La smetti di dire cazzate?! É una sceneggiata totalmente ridicola! Non... non puoi capire!» scandì rabbiosamente. «Non sei nei miei panni per giudicare e solo allora, solo in quel caso, sarai in grado di dire cose sensate!», mi intimò con l'indice.

    Lo sguardo che mi rivolse fu terribile.

    Era sconnesso dalla ragione, sul punto di scoppiare in una crisi di nervi, ma in fondo lo eravamo entrambi; per Michael mi ero scaldata per una cazzata assurda - quando in realtà non riusciva a capire cosa mi facesse star male per davvero - mentre io lo avevo accusato senza avere prove certe del suo tradimento.

    Potevo credere che non mi avesse tradito, ma non accettavo che non mi avesse comunicato che avrebbe inscenato quella finta – proprio sapendo quanto mi angosciava l’idea di essere tradita. Quello proprio no.

    Lo guardai con un’espressione glaciale.

    «Se vuoi fare la vittima innocente, puoi uscire da questa casa immediatamente».

    Rimanemmo in silenzio assoluto per un minuto. Nessuno dei due si mosse dal posto.

    Scostò l’attenzione dal mio viso alla finestra e si bagnò le labbra incurvate in un sorriso sempre più finto e irato, puntando le nocche sui fianchi.

    «Pensi di sapere sempre come agire bene, giusto? Pensi di poter darmi del bugiardo e del falso senza sapere nulla?! Fai con comodo. Non sei né la prima né l’ultima».

    Fu l’ultima goccia che fece traboccare il vaso.

    Accorsi alla porta d’entrata sorpassandolo con rapidità quasi incredibile. Le lacrime mi allagarono le iridi. Mi seguì e si arrestò in mezzo alla piazzola che divideva cucina e salotto.

    «Io con le teste di cazzo non ci voglio avere nulla a che fare! Esci!»

    Ci fissammo, ognuno convinto di avere ragione.

    “Esci subito da questa casa” volli gridare... ma non ebbi ossigeno a sufficienza per farlo. Ero talmente sconvolta che aprii la porta con un sonoro botto facendomi male ad un dito. Respinsi il dolore momentaneo, scambiandolo con il dolore di non poter tornare indietro sulle mie azioni.

    «Hai ragione...» s’irrigidì disgustato. Inspirò e con sguardo adirato s’avvicinò al punto in cui ero piantata con i piedi. Una folata del suo profumo mi colpì e un incontrollabile brivido serpeggiò lungo la colonna vertebrale. «Hai ragione su tutto»

    Mollai la presa della maniglia e uscendo Michael sbatté la porta.

    Sobbalzai.

    L'immagine di lui che usciva correndo era l'unica cosa che avevo davanti agli occhi; l'essenza legnosa del suo profumo mi confondeva. Solo immagine sfuocate e quell'odio indescrivibile che si dissolveva più veloce della luce, fondendosi con la voglia di riaverlo in quella casa, prendergli la testa fra le mani e pregarlo in modo che si facesse perdonare. Volevo che mi chiedesse scusa.

    Passai una mano sul collo e soffocai l'ultimo grido di rabbia repressa.

    Chiamalo, su! Esci da quella porta e avviati alla macchina prima che parta! Fallo prima che se ne vada via per davvero, hai pochi istanti! Potresti essere ancora in tempo!

    No.

    Lo vuoi

    No, non lo volevo.

    Volevo che riconoscesse i suoi sbagli e capisse il mio punto di vista, imparando a chiedere scusa per la sua immaturità sconsiderata. Però non volevo neppure che mi trattasse bene con improvvise sceneggiate romantiche, non desideravo che mi chiedesse perdono mettendosi in ginocchio.

    Sei così arrabbiata con lui e allo stesso tempo non fai altro che desiderarlo.

    Era da incoscienti, da idioti. Era come in quei film sdolcinati in cui i due protagonisti dopo un brusco litigio pensano immediatamente a fare sesso, in maniera brusca e irruenta, provando il massimo del piacere... e sapere di comprendere finalmente come si sentivano quei due ipotetici amanti mi faceva impazzire.

    Non avevo mai apprezzato tutto ciò. Non avevo mai apprezzato l’idea di fare l'amore dopo un litigio.

    Ero ancora furiosa.

    «Oh fanculo, cazzo!», sbottai roteando gli occhi al cielo, facendo dietrofront e riaprendo la porta di casa.

    Nelle iridi apparve un bagliore opalescente nell'istante in cui lo vidi di fronte a me, ancora una volta sull'uscio, accompagnato dal borbottio di sottofondo del SUV che se ne stava andando. Fermo in attesa, col pugno quasi alzato, il petto che si scuoteva e mi chiamava a sé. Lo sguardo momentaneamente scosso si trasformò in un’occhiata tanto profonda quanto lame affondate nella carne.

    Non feci tempo ad osservarlo per più di un secondo o dire una sola frase di senso compiuto che Michael fu lì, labbra sulle labbra, mano affondata nella mia chioma rossiccia, portandomi ad un brusco indietreggiare.

    Mi strinsi alle sue spalle e il sordo schiocco della porta che si chiudeva mi portò ad emettere un miagolio di protesta, mentre ad occhi chiusi mi sentii appoggiare al muro più energicamente di quanto avessi potuto immaginare da parte sua. Le sue mani mi tenevano i fianchi, mi accarezzavano veloce e scendevano per cercare la fine della vestaglia. Il contatto con la parete fredda non fece che aumentare il calore che sentivo pizzicare sulla pelle.

    «Non ti sopporto quando fai così...» soffiò. Gli tolsi frettolosamente la camicia che lui mi aveva lasciato sbottonare velocemente, la lasciai cadere a terra ricambiando i suoi baci con altrettanti schiocchi rumorosi. «Ti odio così tanto da amarti alla follia...», biascicò.

    Ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Gli permisi di tirarmi via le mutandine da sotto la vestaglia con un solo gesto di mani, adagiandomi con la schiena al muro, per poi allacciare una gamba attorno al suo fianco. Allungai le dita sul suo collo e inclinai il viso per baciarlo. Lo assaggiai con la lingua, lo lambii frattanto che tentava di tirarsi via le scarpe e abbassarsi i pantaloni. Ansai quando si riavvicinò al mio bacino e la sua erezione mi sfiorò le gambe. Tutto così rapido, tutto così frettoloso.

    «Oh Dio, se ti odio» gemette con un ringhio lussurioso, infilando le dita tra i miei capelli e portando la mia bocca sulla sua. Il suo sguardo era una cosa che non avevo mai visto: un misto di lascivia e sicurezza di sé. «Odio le tue paranoie...»

    Le nostre membra si sfiorarono. Mugolai rumorosamente e Michael si spinse con i polpastrelli al di sotto della vestaglia, in direzione del seno; sfiorò le mie protuberanze con carezze febbrili ogni dove, bloccandosi sui capezzoli irrigiditi dal suo tocco. Poi si portò in basso, lungo la schiena, fin quando le dita si posero sul fondoschiena e lo spinse verso il suo bacino. Emisi un urlo strozzato di piacere arrestando i baci sul collo.

    «Sono io che ti odio di più al momento… quindi pensa... pensa a farmi cambiare idea...», ansimai.

    I nostri sguardi si incrociarono. Le sue labbra si sollevarono in un sorriso impercettibile e gli occhi appannati di desiderio assunsero una piega maliziosa, irruente, che all'inizio parve addirittura spietata; ricambiai mordendogli il labbro inferiore.

    Mi fece girare su me stessa prendendomi per i fianchi, in modo tale da dargli la schiena, guidandomi ad inclinare il busto in avanti e fare un passo indietro. Indice e medio della mano destra si infilarono in me, mentre la sottoscritta inarcava la spina dorsale e gettava il capo all’indietro, tenendosi al muro con due mani.

    «Dimostralo...», spinse più forte e sospirò.

    La voce si alzò di qualche ottava quando lo sentii aumentare il ritmo delle dita.

    Si fece spazio nelle profondità di me nel giro di un minuto. Fu forte, immediata, e quella solida prominenza mi portò a gemere ancora più rumorosamente. Lasciai cadere il capo in avanti, ammirando il pavimento sotto di me, frattanto che i suoi movimenti si facevano pian piano più fluidi e tuttavia aggressivi.

    «M... Michael...»

    «Ancora» rispose sopra i miei gemiti continui, «Ancora...»

    Ogni cosa era appannata, sconnessa, tanto che non seppi nemmeno cosa stessi facendo quando lo pregavo di continuare e mi muovevo seguendo la frequenza delle sue movenze. Il sangue fluiva nelle tempie e cercavo di mantenere quel poco di resistenza nelle gambe sufficiente a tenermi in piedi; ascoltavo i suoi mugolii di approvazione, urlavo e ansavo anche prima di raggiungere il picco… e non smisi nemmeno quando tutto finì una prima volta, per ricominciare immediatamente con la seconda.

    *

    Guardai a lungo il soffitto per non imbattermi continuamente nello sguardo osservatore di Michael, il quale mi ammirava da chissà quanto tempo, chinato su di me con i gomiti puntati sul materasso. Mi accarezzava distrattamente i capelli e non faceva altro che studiarmi in viso: non era cupo, ma pensieroso.

    Gli avrei detto di non esaminarmi in quel modo ma non ebbi il coraggio di farlo; in realtà credevo di non avere neppure la capacità di alzarmi a sedere.

    Di sicuro quella era stata una di quelle mattinate che non mi sarei scordata per il resto della vita, in tutti i sensi. Era stato emozionante oltre ogni limite, passionale, feroce, forse anche esagerato... unico. Non mi ero mai sentita così in tutta la mia vita, e non era una delle tipiche frasi che si sentono nei film o si leggono nei libri. Era stato magnifico.

    Immaginai che mi scrutasse per quella piccola questione che, nonostante il tentativo di eliminarla dalle nostre menti, non era stata ancora risolta.

    Non sapevo cosa pensare al riguardo.

    Non sapevo se fossi stata una stupida ad arrendermi a lui un’altra volta o se avessi fatto bene a farlo. Soprattutto, ero ancora arrabbiata perché si era comportato come un bambino.

    Non che io fossi stata da meno, comunque…

    «Sarah»

    Quel flebile sussurro mi risvegliò dai miei pensieri.

    «Mmh?»

    Strinse appena le labbra. «Come ti senti?»

    Riammirai il soffitto espirando tutta l’anidride carbonica risiedente nella gabbia toracica. Non avevo avuto abbastanza fiducia in lui e questo non era un buon segno… ma l’avrei mai avuta anche per un uomo qualsiasi? Era complicato.

    Sospirai. «Non lo so...»

    «Sei ancora arrabbiata...»

    Lo adocchiai di soppiatto ed egli mi scoccò un’occhiata intensa e rammaricata, dolce e sinceramente dispiaciuta.

    «Mi dispiace...»

    Sospirai e gli accarezzai una guancia con tre dita. «Anche a me».

    Era una situazione difficile per me. Volevo che capisse che per me era importante comunicare a cuore aperto, e che per me non erano “solo stronzate”. Potevo credere che quella situazione di Monique fosse tutta una messa in scena, ma non tolleravo il fatto che credesse che fosse inutile rendermi partecipe. Mi vedeva come la sua ragazza o come una qualsiasi? Perché, se era la seconda opzione, non volevo sentirmi così. Non volevo sentirmi una qualunque. Come potevo fidarmi di Michael ed evitare di pensare male o arrabbiarmi se lui stesso non capiva l’importanza di dirsi le cose? Sapeva benissimo che al minimo segnale di tradimento le mie certezze sarebbero crollate. Sapeva che avevo bisogno di rassicurazioni sotto quell’aspetto. Cosa avrebbe pensato al posto mio, se non gli avessi detto di una tale sceneggiata?

    Mi fissò intensamente.

    «Non ti ho tradito, devi credermi. Non ho fatto niente con quella donna e ne avrei avuto la possibilità...», disse in tono fermo. Ma poi notò la mia smorfia indefinita e respirò chiudendo le palpebre per un millesimo di secondo. Smise di accarezzarmi i capelli e si umettò le labbra. «Cosa devo fare per farti cambiare idea?»

    «Io ti credo quando dici che non mi hai tradito», lo fissai negli occhi. «Ma il fatto che tu non mi abbia voluto dire nulla al riguardo – pur sapendo quanto ci avrei sofferto pensando male e per niente – mi ha fatto stare peggio. Per me è essenziale dirsi queste cose, anche se a te sembrano sciocchezze. Io ti direi qualsiasi cosa, pur di non farti sentire insicuro sulla nostra relazione. Le donne hanno bisogno di uomini che parlino con loro e che le rendano partecipi della propria vita, soprattutto quando c’è di mezzo un’altra donna»

    Lo vidi rabbrividire. Studiai accuratamente ogni gesto che compiva, quando si toccava le labbra con le dita oppure quando nervosamente pensava a cosa dire.

    Con uno scatto mi alzai a sedere per averlo quasi faccia a faccia; ma Michael si mise a pancia in giù con i gomiti piantati nel materasso e il suo sguardo vagò da me allo spazio in cui ero stata distesa fino a poco prima.

    «Promettimi che la prossima volta me lo dirai, se dovesse accadere una cosa del genere. Promettilo su tutto ciò che consideri più importante al mondo. Allora ci crederò. Se le parole che mi hai detto rispecchiano veramente i tuoi sentimenti, non tenermi più segrete certe cose… per favore. Perché omettendo la verità si finisce sempre col creare disastri e incomprensioni irreparabili...».

    Gli occhi mi si riempirono di gocce salate. La fronte di Michael si distese dallo stupore. Dopo un attimo di smarrimento si tirò su e con delicatezza mi trattenne il mento in sua direzione con due sole dita.

    «Guardami e ascoltami bene...»

    Obbedii alla sua richiesta, riluttante. La sua espressione fu qualcosa di terribilmente magnifico da descrivere, increspato dal rammarico e commosso dalle mie parole.

    «Io ti amo».

    Inarcai un sopracciglio. «Certo, perché sono l’unica al mondo che ti riesce a dare quello che ti ho dato io stamattina...!», bofonchiai con finta allegria.

    Ma Michael non dette alcun cenno di divertimento.

    «Io ti amo davvero, Sarah. Lo giuro sui miei figli».

    Il suo cipiglio era imperscrutabile. Diresse le sue iridi lucide verso la mano destra, quella che tenevo appoggiata ad una coscia. Lasciò andare il mio mento e mi strinse le dita tra le sue, portandosele al petto. Quando mi accorsi che le stava appoggiando sul cuore, mi irrigidii. Mi parve di oscillare nel vuoto.

    S’incatenò ai miei occhi con un sussurro emozionato.

    «Mi dispiace se non ho pensato a come ti potessi sentire. Tu sei l’unica, sei – »

    Mi inclinai verso di lui e posi la mano libera sopra la sua bocca.

    «Ti amo anche io», bisbigliai. «Ma adesso basta, se no mi sciolgo come un ghiacciolo al Sole».

    Il cipiglio triste che decorava il suo volto scomparve. Si rasserenò alla vista del mio sorriso. Mi allontanai piegando la testa da un lato, ammirandolo come se fosse l’uomo più bello del mondo, e Michael mi baciò il dorso di una mano. Arrossii.

    Mi fidai.

    «Che ore sono?», mi allungai in direzione del comodino per poter osservare l’orario sulla sveglia. Sbarrai gli occhi. «Sono già mezzogiorno e un quarto!», feci per gattonare verso il bordo del letto, «Preparo da mangiare!»

    «No...!»

    Michael farfugliò qualcosa di incomprensibile mentre mi afferrava il bacino circondandolo da dietro con le braccia. Mi sedetti di nuovo, incoraggiata dalla pressione del suo peso corporeo; lo fissai sbigottita.

    «Non andare...», mi scoccò un bacio sulla curva della schiena, sorridendo da vero furbetto, «ti voglio ancora... ti prego...»

    Ancora?!

    Spalancai la bocca con evidente sorpresa.

    «Michael, ma...» borbottai. «Ti sciuperai, se continui così!»

    Lui rise e pose le labbra sul mio fianco sinistro. Lo baciò lentamente.

    «Dai...»

    Accennai ad un riso sbarazzino.

    Invitai Michael a lasciare la presa sul mio bacino e mi avviai in direzione del suo petto a gattoni. Si distese a pancia in su, mi seguì con sguardo stupito ed eccitato frattanto che mi chinavo sopra di lui, pronta a baciarlo sull’incavo del collo come facevo sempre, con movimenti lenti e umidi. Accostai il seno al suo torace gemendo e lo sentii fremere sotto di me, lasciando cadere la testa all’indietro. Lo ammirai sciogliersi nel più completo benessere.

    Era stregato.

    Mi morsi la lingua con soddisfazione.

    La bocca si sistemò a contatto con la sua e pian piano i cadenzati baci si unirono a miei deboli movimenti di bacino verso la sua intimità. Michael emise un mugolio di piacere afferrandomi bruscamente le natiche, cercando di avvicinarmi il più possibile a sé, e allora mollai le sue labbra intensificando le scosse verso quella amabile mascolinità: quando lo percepii quasi completamente vigoroso sotto di me soffocai una risata.

    Michael annaspò. «Mio Dio...»

    I formicolii che sentivo nella mia femminilità si trasformarono ben presto in contrazioni sempre più energiche. Mi afferrò la vita e ammirò lo sfiorarsi dei nostri due membri, soprattutto il modo in cui il mio seno danzava sopra di lui.

    Quando percepii che l’unico desiderio rimasto era quello di entrare in me, sorrisi e mi sciolsi da quella posizione, sedendomi di fianco. Le nostre intimità smisero di sfiorarsi e Michael mi squadrò come se fossi impazzita.

    Ansando e con il cuore a mille ampliai il mio sorriso.

    «Penso che andrò a mangiare qualcosa...». Strisciando mi sistemai sul bordo del letto senza degnarlo più di uno sguardo. «Ho fame, tu resti ancora un po’?»

    Mi fulminò con lo sguardo, è vero, ma ne era valsa la pena: aver compreso che non mi avrebbe avuto subito lo faceva diventare più deciso nel possedermi ancora e ancora e ancora. Era quello che volevo ottenere.

    «Sei perfida», sibilò sorridendo.

    «Lo so», gli mostrai la lingua. «Resti?»

    Ci pensò su un momento. Abbassò lo sguardo e picchiettò le dita sul materasso rimettendosi a sedere. I miei occhi ricaddero sulla sua eccitazione. Storse la bocca contrariato e mi scoccò un’occhiata alquanto maliziosa.

    «Resto per qualche ora. Adesso prendo il telefono e avviso. E non pensare di averla vinta così!», mi puntò con l’indice vedendomi alzare e incamminarmi verso il salotto, nel luogo dove avevo abbandonato la sottoveste e le mutandine.

    Afferrai tutti i vestiti sparsi all’entrata di casa, dividendo i miei da quelli di Michael e adagiandoli sul divano mentre aspettavo che anch’egli uscisse dalla camera; andai in cucina, presi due piatti lisci e cercai qualcosa in frigo che potesse placare la nostra fame. Chiamai Michael a gran voce.

    «Ti va bene un po’ di salmone fresco e qualche verdura fresca?».

    Mi voltai sperando di ottenere una risposta, sentendo un rumore di passi sempre più vicini.

    Aveva un’aria scossa, i boxer addosso e il telefono in mano, tenuto proprio sopra le labbra. Le iridi erano piene di lacrime e fissavano il basso. Poche volte lo avevo visto così sconvolto.

    «Michael...», lo richiamai a voce bassissima, spaventata. Subito temetti che fosse successo qualcosa ai figli o ad un membro della sua famiglia, magari un incidente o addirittura peggio. «Cosa è successo?»

    Non rispose.

    Si arrestò ad un passo da me. Dondolò sul posto con le dita che tremavano.

    «Michael, dimmi...», gli andai incontro e gli sfiorai un braccio.

    Avevo paura quando si comportava in quel modo, perché non sapevo come aiutarlo… ma cercavo di nasconderlo. Almeno uno dei due doveva essere una roccia se l’altro era sconvolto o depresso per esserlo.

    «Mi ha telefonato Mesereau, il mio avvocato...», mormorò.

    Trattenni il fiato.

    «E...?»

    Mi guardò negli occhi. Un luccichio che sembrava dolore misto a terrore sorse in quel volto congelato dal dramma. Le labbra si alzarono un po’ verso l’altro, mentre coi denti si mordeva il labbro inferiore perché non sapeva se ridere istericamente o disperarsi; le sopracciglia si aggrottarono per trattenere un pianto liberatorio.

    «Il processo è rinviato a gennaio... il processo inizia a gennaio…»

    Tutto fu chiaro come l’acqua.

    Per qualche minuto entrambi perdemmo la cognizione del tempo. Lo abbracciai ed egli mi trattenne a sé, soffocando il respiro. Gli accarezzai i capelli, lo baciai e lo assicurai che tutto sarebbe andato bene.

    Lo speravo con tutta l’anima.




     
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