The Wish

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    Capitolo Dodici: La Favola di Sarah

    Arrivai in camera da letto di Prince, Blanket e Paris in un nanosecondo, col fiatone, accompagnata da un bambino di cinque anni di nome Michael Jackson che non vedeva l'ora di raccontare la mia favola.

    Non sapevo nemmeno io il perché di tutto questo entusiasmo da parte sua. Era una favola, una favola che forse non gli sarebbe nemmeno piaciuta, eppure il suo sorriso, così sfavillante e bambinesco, lasciava trasparire una gioia incredibile.

    I lettini di Prince e Paris erano posti vicini. Michael si sedette nello spazio vuoto fra i due, su una sedia a dondolo con lo schienale in stoffa rossa, il piccolo Blanket stretto nel suo braccio sinistro. Io ero distesa accanto a Paris, con una gamba che toccava il pavimento e un'altra sistemata lungo il materasso. C'era anche Grace, gentilmente invitata da Michael ad assistere, questa dalla parte di Prince con una mano che accarezzava dolcemente il capo del bimbo.

    Michael indossava gli occhiali per vederci da vicino, oggetto che marcava molto il suo charme da uomo di mezza età (per metà) maturo e composto.

    «Siete tutti comodi?», Michael alzò lo sguardo da sotto le lenti.

    I bambini annuirono. Michael mi squadrò con un sopracciglio alzato ponendomi la stessa domanda. Assentii. Poi mirò Grace e lei fece lo stesso.

    «Possiamo cominciare».

    Sistemò gli occhiali sul naso e si schiarì la voce.

    C'era una volta,
    Una principessina bellissima, dalle qualità più pure e amorevoli che si potessero avere. Ella non possedeva soltanto un'anima candida, ma anche un aspetto incantevole: lunghi capelli rossi come il fuoco, setosi come stoffa pregiata, le scendevano lungo i fianchi. Aveva due occhi verdi come il mare. Era dolce e buona con tutti, allegra e spensierata, sempre con un sorriso sulle labbra.

    «Ma è la signorina Sarah!», Paris sfoderò un sorriso a trentadue denti.

    Tutti mi guardarono curiosi – tutti tranne Michael, il quale rideva sotto i baffi. Continuò a leggere indisturbato.

    Il suo nome era Selenite ed era la principessa del regno di Eos.
    Sebbene fosse una bambina molto speciale, non era molto apprezzata dagli aristocratici del castello. Erano invidiosi, non solo delle sue ricchezze materiali.
    La principessa era molto sola. Aveva bambole, gioielli, abiti di velluto e di pizzo elaborato, ma non aveva amici. Se ne stava nel suo piccolo mondo, parlando con i suoi amati pupazzi e facendo amicizia con gli animaletti del castello, con i quali prendeva il tè ogni pomeriggio.
    Ogni notte, quando dormivano tutti, Selenite sgattaiolava fuori dal letto e accorreva alla grande finestra della sua cameretta, per guardare il mondo al di fuori delle mura.
    Pregava affinché potesse, almeno per un giorno, essere parte di un mondo a cui non si era mai avvicinata. E guardava il paese sognando il momento in cui avrebbe potuto vagare per le vie della città senza che qualcosa o qualcuno le impedisse di farlo.
    Passarono gli anni e la principessa crebbe: Selenite divenne una giovane donna, una ragazza bella e determinata, così tanto che una sera decise di trasgredire le regole.
    Aveva passato anni a chiedersi cosa sarebbe stato fuggire dal palazzo, così una sera raccolse tutto il suo coraggio e riuscì a scappare. Si alzò dal letto, si vestì e se ne andò nel buio della sera senza destare sospetti.
    L'emozione che provò una volta uscita dalle mura fu incredibile. Corse a perdifiato in direzione di Eos e si chiese come mai prima d'allora non lo avesse mai fatto. Esplorò ogni quartiere, borgo, foresta che incontrava con occhi di una bambina.
    Quando giunse l'alba Selenite era così stanca che non riusciva a reggersi in piedi, perciò chiese ai compaesani appena scesi in strada se qualcuno sarebbe stato così gentile da ospitarla nella sua abitazione, per rinfocillarsi e riporsarsi al caldo.
    Tutti quanti rimasero meravigliati scoprendo che fosse la principessa.
    Nessuno le fece mancare nulla. La gente di Eos fu cordiale e ogni uomo, donna o bambino le garantì cibo, acqua e un letto su cui dormire. Selenite era felicissima.
    Il mattino successivo decise di tornare a palazzo, non dopo aver ringraziato tutto e aver promesso loro ricompense e ricchezze.
    Ad un certo punto, lungo il sentiero boschivo, incontrò una donna. Era una signora affascinante di mezz'età, con i capelli castano scuro racconti in uno chignon e un vestito verde smeraldo. Aveva un cestino di rovi ben stretto al braccio destro e un cappuccio le copriva misteriosamente il capo.
    Questa si avvicinò a Selenite, chiedendole se avesse bisogno di aiuto per tornare a casa.
    La principessa si presentò e la nobile donna, con un sorriso affabile, le porse la mano.
    "Che piacere conoscerti, principessa Selenite. Vieni con me, ti porto direttamente davanti alle mura del castello. Conosco una scorciatoia".
    Selenite accettò felicemente, senza conoscere il vero aspetto dell'elegante signora.
    "Vieni, cara, fidati di me".

    «Ma è scema!», sbottò Prince.

    Esplosi in una fragorosa risata e così anche Grace. Paris diede ragione al fratello scuotendo la testa vigorosamente.

    «Non dire queste cose», Michael lo rimproverò.

    Camminarono a lungo nella fitta foresta.
    La strega si fermò nel bel mezzo di una radura abbandonata e, prima che Selenite potesse aprir bocca, la donna estrasse una bacchetta da sotto il mantello verde. Un'esplosione di luce rossa e incandescente accecò la principessa, facendola cadere a terra svenuta.

    «Mio Dio!», Paris era più sdegnata che terrorizzata.

    Trattenni un'altra risata e Michael la fissò divertito ma severo: era chiaro che il narratore non volesse essere interrotto, il che voleva dire che era molto preso dalla storia, molto più di quanto avrei potuto immaginare.

    Quando la giovane si risvegliò era ormai pomeriggio inoltrato. Gli uccellini cantavano e il Sole risplendeva alto nel cielo azzurro primaverile. Tutto sembrava come prima, ma la ragazza non era più la stessa. Era diversa.

    Michael fece una pausa umettandosi le labbra.

    Selenite non ricordò immediatamente cosa fosse successo, perciò si alzò e si trascinò verso il bordo di un fiume vicino per sciacquarsi il viso.
    Quando si specchiò nel riflesso dell'acqua, con grande sorpresa si accorse che non era più la ragazza di prima. Davanti ai suoi occhi c'era una giovane donna dai capelli sciupati, neri come la pece, occhi verdi scuro e un aspetto da gitana.
    La giovane si disperò per la sua bruttezza.
    La strega le aveva fatto un maleficio.
    Quella donna si chiamava Medea ed era una maga davvero potente. Riusciva a cogliere la vera essenza delle persone, scoprendone ogni bella qualità per poi rubarla ai legittimi proprietari e farne uso per sé; ingannava coloro che passavano per la sua strada rubando la loro bellezza, sia quella interiore che quella esteriore.
    In preda al panico Selenite decise di tornare al villaggio di Eos per chiedere aiuto.
    Tutto ciò che ricevette fu indifferenza e diffidenza. Le persone la evitavano, la guardavano dall'alto in basso e scappavano per non avere nulla a che fare con lei; i bambini la prendevano in giro per il modo in cui era vestita, per l'anormalità dei suoi gesti e per il suo orribile aspetto.
    "Io sono la principessa Selenite! Vi prego, aiutatemi!"
    Ma nessuno le credeva.
    Selenite si sentiva ferita, confusa e amareggiata. Nessuno si era mostrato gentile o amorevole nei suoi confronti, non come quando si era presentata con il suo vero aspetto.
    Abbandonata dal suo stesso popolo decise di tornare al castello e pregare i suoi genitori per il perdono che tanto ambiva. Purtroppo nessuno dei due la riconobbe.
    "Dovete credermi, sono vostra figlia, Selenite!"
    Ma il re e la regina la cacciarono urlandole di non farsi più rivedere a palazzo. La principessa, disperata, vagò per giorni e giorni alla ricerca di un qualsiasi riparo, affamata e sciupata.
    Al tramonto del quinto giorno, sfinita, cadde a terra.
    Poco prima di perdere i sensi una dolce voce le sussurrò all'orecchio: "Non ti arrendere, principessa Selenite. Ci sono io con te".
    Un uomo le aveva coperto la schiena con il suo mantello rosso e le aveva accarezzato dolcemente la nuca.
    C'era un motivo per cui la strega Medea non era riuscita a rubare l'anima della sovrana: nel momento in cui la maga aveva scagliato il maleficio, un angelo era intervenuto in difesa di Selenite. Egli aveva protetto la principessa materializzandosi davanti al suo corpo, difendendo la sua anima con il suo scudo di luce dorata – emanata dalla spada di cristallo lunare che portava sempre con sé.
    "Non temere, riuscirai a farcela. Con il tempo diventerai una donna comprensiva, forte e indipendente. Un giorno ti raggiungerò e ti amerò per tutto ciò che sei, ma tu continua ad avere fede. Continua a credere in quello che sei veramente".
    La principessa aprì gli occhi per poter scorgere l'uomo a cui apparteneva la voce e rimase senza fiato: l'angelo era bellissimo, etereo, e portava lunghi capelli sulle spalle, due occhi brillanti come pietre preziose.
    L'angelo la prese in braccio e le sorrise dandole un amorevole bacio sulla fronte.
    Prima di cadere in un profondo sonno lo sentì dire:
    "Quando ti risveglierai ti ritroverai in una dimora stupenda. In quel luogo potrai cominciare una nuova vita. Ci rivedremo presto" e, senza che la principessa se ne accorgesse, l'angelo le consegnò una soffice piuma fra le dita. "Conserva questa piuma e quando ti sentirai in difficoltà guarda il cielo. Soffiala verso il Sole pensando a me".

    Michael si interruppe.

    Gli rivolsi un sorriso sghembo mentre questo esaminava il foglio senza dire una parola, sfogliando quelli successivi per leggere il seguito.

    «Papà! Non vale!».

    Paris era palesemente contrariata. Si tirò su dalla posizione distesa e Prince la seguì a ruota, mentre io mi mordevo le labbra per non ridere di fronte a tutti. Michael studiò i suoi figli con spaesamento, poi osservò me. Si accorse della mia aria divertita e si scosse mormorando un «Scusate» delicato.

    Il giorno dopo la ragazza si svegliò in una casetta abbandonata, nei pressi di un bosco sconosciuto. Era circondata da alberi dalle chiome così alte da poter toccare il cielo, accanto ad un ruscello di acqua cristallina e un sentiero che guidava direttamente al villaggio vicino.
    La principessa pianse di riconoscenza e tristezza.
    I mesi passarono, gli anni pure, e la principessa divenne ben presto una donna sicura di sé. Aveva trovato un umile lavoro come sarta nel villaggio accanto, imparando ad amare chi la circondava per chi era realmente. Trovò anche delle persone che la poterono amare per il suo cuore, a discapito del suo aspetto.
    Un dì, però, la ragazza cambiò. Senza sapere come o perché iniziò a sentirsi sola e abbandonata. Chiamò il suo angelo tante volte, continuò a parlare ad alta voce sperando che l'ascoltasse, gli chiese molti segnali che purtroppo non arrivarono mai.

    Era meraviglioso come Michael leggesse le storie.

    Aveva un'espressività coinvolgente, un parlare così fluido e pacato da farmi perdere in un mondo inesistente. Per tutto il tempo in cui lo avevo ascoltato ero rimasta sempre appesa alle sue labbra, in attesa del limpido fluire delle sue parole.


    Una mattina Selenite ritrovò la piuma bianca donatale dall’angelo.
    Non ne aveva mai avuto la necessità, ma pensò che quello sarebbe stato il momento perfetto per esprimere il suo desiderio.
    Uscì di casa, si diresse verso il suo campo fiorito preferite e si sedette fra le sue margherite, assaporando il vento sulla pelle. Prese la piuma che teneva stretta stretta nella mano destra, la alzò in cielo e sorrise tristemente.
    "Questo è il mio desiderio: stare per sempre insieme al mio migliore amico".
    E con tutto il fiato che aveva la soffiò lontano.
    Attese per giorni e giorni un cambiamento, ma nulla avvenne. La speranza della giovane svanì del tutto nel giro di poche settimane.

    «Non può finire così!», piagnucolò Paris.

    Anche Prince sembrava basito, ma io non feci una piega. Tutti mi fissarono, perfino Michael, ma feci loro cenno di continuare la lettura con atteggiamento impassibile.

    Qualche giorno più tardi, mentre lavava i panni nel fiume, Selenite vide una piuma bianca posarsi su un fiore. Non appena lo sguardo cadde su di essa la piuma si sollevò in aria e si posò sull'acqua, proprio dinanzi ai suoi occhi increduli. La corrente la portò via.

    «L'angelo!», Paris mi guardò.

    Con le lacrime agli occhi Selenite lasciò tutti i panni sull'erba e seguì la piuma correndo a perdifiato. Corse e corse, attraversando un boschetto e raggiungendo una radura che brulicava di gigli bianchi e lillà.
    Un giovane si stava sciacquando il viso.
    Non appena Selenite lo vide nascose il viso fra le mani e pianse, sconsolata.
    I capelli del ragazzo erano corti e fluenti e non sembravano affatto quelli del suo salvatore. Era una persona in carne ed ossa, non una presenza luminosa. Non portava il mantello e neanche la spada di cristallo.
    "Sei tu?".
    La principessa si scosse. Quella voce era familiare, così familiare da...
    Alzò il viso e il giovane era proprio di fronte a lei. Le sorrise e le prese la mano.
    "Sono felice di rivederti, Selenite".
    La ragazza pianse di gioia. Era lui! Era proprio lui! Aveva lo stesso sorriso! Gli stessi occhi luminosi! L'aspetto era differente, ma la voce era quella che tanto rimembrava con affetto!
    "Un tempo mi hai conosciuto come l’angelo. Ti avevo fatto la promessa che sarei ritornato e ora sono qui, ho ascoltato il tuo desiderio su una piuma
    1.
    I due si abbracciarono e il bacio del vero amore causò uno scoppio di luce bianca e dorata.
    Quando il bagliore cessò il suo salvatore la invitò a studiarsi nel riflesso del fiume. Selenite lo fece e sorrise: il maleficio era stato spezzato ed era tornata la bellissima principessa di un tempo.
    L'angelo continuò: "Regna con me, per portare amore e speranza in questo mondo e per renderlo migliore".

    «Vai avanti papà, continua!».

    Michael si era paralizzato e io, al contrario, ero arrossita violentemente. Era inutile dire che la descrizione di quell'angelo ricordasse vagamente la personalità di Michael. O almeno, così credevo.

    «Daddy?», Prince inclinò la testa con fare dubbioso.

    Il padre si bagnò la bocca e fece finta di nulla.

    "Insieme porteremo pace e serenità ovunque, cureremo le persone da tutto l'odio e l'indifferenza di cui soffrono. Saremo un'ispirazione per molti. Vieni nel mio castello, sii la mia regina".
    Selenite accettò.
    L'angelo la abbracciò e con dolcezza le accarezzò i capelli come la prima volta.
    "Noi ci apparteniamo, principessa".

    Il "narratore" si fermò per qualche altro istante e sorrise. Grace pure. Prince storse il naso (era tutto troppo sdolcinato per lui), mentre Paris era la felicità in persona. Io, invece, mantenni lo sguardo perso nel vuoto. Non ero triste, ma il naso pizzicava per le lacrime. Mi ero dimenticata di quanto fosse dolce e romantica quella fiaba – forse anche troppo.

    I due amanti vissero con amore e serenità per molti anni, regnando con onore, umiltà e bontà. Si amarono nella buona e nella cattiva sorte. Anche quando la morte incrociò il loro cammino non smisero di volersi bene, riabbracciandosi nuovamente nell'Eternità.

    Michael richiuse il libretto con sole due dita. Il silenzio regnò sovrano.

    «Che bella storia...», sussurrò Paris con occhi sfavillanti e parole biascicanti per la stanchezza.

    «Vi è piaciuta?».

    Annuirono entrambi. Prince non era convinto, ma non si sbilanciò. Michael mi gettò una lunga occhiata – dolce ma intensa.

    «Tua nonna ha scritto una favola dolcissima».

    Storsi la bocca in un mezzo sorriso imbarazzato. «Grazie».

    Michael mi fissava inspiegabilmente pensoso. Mi fece venire i brividi lungo tutta la schiena. C'era qualcosa di strano nei suoi occhi, un'emozione indefinita che non seppi comprendere.

    In seguito sospirò e si alzò dalla poltrona tenendo ben stretto un Blanket addormentato fra le sue braccia. Anche Grace ed io ci sollevammo: era ora di andare a letto.

    Michael diede un bacio ai suoi figli, suggerendo loro di fare lo stesso con il fratello minore, me e Grace – cosa che fecero con molto piacere. Adagiò Blanket nel piccolo letto a sbarre accanto ai fratelli e uscimmo.

    «Grazie per aver assistito, Grace».

    Il sussurro di Michael venne seguito a ruota da un mio "Grazie" più delicato. Lei sorrise, ricambiò la buonanotte e se ne andò nella stanza accanto, chiudendo la porta senza fare rumore.

    Tutti e due rimanemmo fermi e immobili sul posto. Michael mi consegnò il libretto ribadendo quanto fosse bello il racconto di Selenite e il suo angelo.

    «Sono felice che ti sia piaciuta. Ora è meglio che me vada», non lo guardai in faccia.

    Michael inarcò la fronte, stupito, e schiuse la bocca per dire qualcosa che però non pronunciò. Si morse il labbro inferiore e guardò in basso. Con un cenno del capo si portò indietro un ciuffo di capelli ricaduto erroneamente sulla pallida guancia.

    «Ti andrebbe di scendere in cucina e bere una tazza di latte?»

    Per la prima volta lo vidi impacciato, nervoso.

    In quel istante non capii perché la gente lo definisse una persona malata e stramba. Era proprio come me, come tutti gli altri. Non ci vedevo niente di strano in quello che era, a parte un minimo di eccentricità e megalomania che definiva il suo carattere rispetto ad altre persone: eppure arrossiva, parlava, sorrideva, piangeva. Come me, come un adulto qualsiasi, come un uomo che incontri per strada e di cui non sai praticamente nulla.

    «Oh, sì, d'accordo...».

    In realtà avevo così sonno che stavo per addormentarmi in piedi, ma non volli rifiutare la sua proposta. L'istinto mi diceva di non farlo.

    Michael mi studiò ammutolendosi. Mi disse di seguirlo e io lo feci camminandogli due passi più indietro. A guardargli il fondoschiena, per la precisione.

    E non era affatto male.

    Man mano che ci dirigevamo verso le scale tutto diventava più buio. Fu una fatica scendere gli scalini senza inciampare. Mi sussurrò di stare attenta a dove mettessi i piedi, ma ero troppo impegnata a cercare il corrimano che...

    «Ma porca put...»

    Michael si voltò immediatamente e mi mise una mano davanti la bocca. Mi ero avvicinata a lui con un balzo, appollaiandomi sulla sua schiena come un avvoltoio. Qualcosa mi aveva toccato la gamba facendomi saltare sul posto come un grillo.

    Non riuscivo a vedere Michael in faccia, ma sentivo la sua mano premuta contro le mie labbra; il palmo era così grande che riusciva a prendermi anche il naso, ma la sua pelle era così... be’, non era vellutata, però era calda.

    La sonnolenza mi stava dando alla testa.

    Mi liberò dalla presa. Lo sentii salire nuovamente le scale e poco dopo una luce si accese, precisamente quella del corridoio. Non mi ero mossa di un millimetro per paura di risentire quella strana cosa sulle gambe.

    Michael mi esaminò perplesso e divertito. Guardai verso i miei piedi e... poco distante dalla gamba sinistra vi era un piccolo omino travestito da cameriere, molto simile a un nanetto da giardino, che mi fissava con un sorriso assai poco rincuorante.

    Ero sicura di non averlo mai visto prima di allora.

    Scrutai Michael con gli occhi fuori dalle orbite.

    Si lasciò andare ad una risata alta e contagiosa, portandosi una mano sul viso per non svegliare nessuno e dandomi le spalle appoggiandosi alla parete con l'altra mano libera. Ripresi a scendere le scale con espressione imbronciata e lui mi seguì qualche secondo più tardi.

    Senza girarmi bofonchiai: «Non è colpa mia se sono una fifona...».

    Arrivati al piano terra Michael spense le luci del corridoio e ci dirigemmo in cucina. Michael continuò ad avere qualche spasmo di ridarella anche quando mi disse di sedermi.

    Presi posto su uno sgabello, uno accanto al bancone al centro della stanza. Estrasse dal frigorifero un cartone di latte, due bicchieri da un ripiano in alto e, dopo averli riempiti con cura, Michael mi venne incontro porgendomi la bevanda, sedendosi al mio fianco.

    Soltanto allora notai che non vi era quasi mai personale all'interno della casa. Solo ogni tanto, giusto lo chef e alcuni camerieri per prepararci o portarci i pasti principali. Una volta avevo notato anche tre donne delle pulizie.

    Michael non era una di quelle star che si circondava di molte persone, perlomeno non dentro la residenza abitativa; per quanto riguardava il parco giochi, lo zoo o anche la semplice manutenzione del ranch, be’, in quel caso vi era un via vai di persone inconcepibile. E dormivano tutti in un residence a sé stante.

    Per qualche minuto ci dedicammo ognuno al proprio latte in perfetto silenzio.

    Michael parlò in tono basso, picchiettando le dita sul bancone.

    «L'angelo della tua storia è l'Arcangelo Michele, non è vero?», mi osservò con serietà.

    Lo puntai confusa. Il mio angelo non aveva mai avuto un nome. Certo poteva sembrare un arcangelo, con il suo mantello rosso e la sua spada di Selenite...

    Sbarrai gli occhi.

    Aspetta, cosa?

    Michele... Michael... Michael Jackson?

    No, dai, impossibile.

    «Onestamente non ne ho la più pallida idea», borbottai avvampando. «Ma se fosse così, non...»

    «Non?»

    Fissai il bicchiere che reggevo fra i polpastrelli. Mi sentivo come una bambina sgridata dai suoi genitori.

    Sospirai pesantemente, evitando di concentrarmi sul bollore delle mie gote.

    «Se avessi saputo che l'angelo si chiamava Michele, non credo che te l'avrei fatta leggere», poggiai il bicchiere sul tavolo.

    «E perché?»

    Non ebbi il coraggio di ricambiare lo sguardo. «Be’, Michele... Michael...» pigolai timidamente, accigliandomi. «Questo genere di coincidenze mi mettono un po’ a disagio. Sembrano fatte apposta».

    «Non vedo il perché», disse risoluto. Lo fissai e Michael mi sorrise. Incrociò le braccia sul bancone e scosse la testa rimproverandomi affettuosamente. «Sei un tipo strano, davvero... certe volte non ti capisco proprio».

    Emisi uno spasmo di risata. «Benvenuto nel club!»

    Corrugò le sopracciglia con un accenno di sorriso enigmatico. «Non fraintendere, non voglio dirti che sei un caso perso...»

    «So cosa vuoi dire», ridacchiai.

    «Che cosa voglio dire allora?»

    Gli sorrisi. «Che non sono sempre facile da capire. Anzi, delle volte credo di essere peggio di un cruciverba!», gli feci la linguaccia.

    «Ti sbagli, io ti capisco perfettamente», disse sistemandosi meglio sullo sgabello. Notai una smorfia di dolore quando compì quel movimento; espirò faticosamente, cercando di ignorare il dolore che non voleva esibire ma che io avevo captato alla perfezione. «Solo che mi ci vuole tempo per poterti leggere con accuratezza...»

    Sollevai le sopracciglia. «Ahhh, perciò tu mi stai studiando?»

    Ridacchiò senza distogliere l’attenzione dalla sottoscritta.

    «Da un bel po’. E te ne sei accorta anche tu».

    Sorrisi.

    «Sì... me ne sono accorta».

    «La cosa ti dà fastidio?»

    «Mmh...», mugugnai a labbra strette mirando il soffitto. «Diciamo che mi imbarazzo facilmente quando vengo osservata a lungo, soprattutto da chi ha uno sguardo molto profondo come il tuo. Ma non mi dispiace, tutto il contrario. Mi onori, mi dimostri che non sono poi così noiosa come ho sempre creduto di essere».

    «Non sei affatto noiosa, credimi», mormorò. Gli sorrisi di sbieco mentre assumeva un'aria meditabonda. «Diciamo che sei mooolto più interessante di quanto credi».

    Sogghignai ironicamente.

    «Davvero, dico sul serio! Mi interessa molto capire come sei».

    «E perché?».

    «È quello che sto cercando di capire... fra le tante altre cose».

    Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere. Non saprei neanche descrivere l'emozione che provai. Perché qualcuno di “speciale” come Michael Jackson si interessava ad una “più o meno normale” come me?

    Raddrizzai le spalle e mi appoggiai a mia volta al bancone, umettandomi le labbra.

    «Sai, all'università mi chiamavano Moony. Non perché ero sempre con la testa fra le nuvole, non solo, ma perché ricordavo loro la Luna. La Luna è misteriosa, la sua presenza è delicata e silenziosa. Mi dettero quel nomignolo perché, per quanto potessi essere spontanea e amichevole, ero una persona molto segreta e riflessiva. Si dice che la Luna aiuti le persone a guardare dentro di loro con onestà, che bene o male è quello che ho sempre fatto. Quale nome più perfetto di quello?».

    Mi guardò con una serietà disarmante. «Meraviglioso».

    Sorrisi e lasciai che il discorso cadesse così.

    «Ho visto che Paris comincia a starti più vicino», le sue labbra si incurvarono verso l’alto.

    «Sì. Proprio oggi abbiamo deciso che formeremo un team. Sai, come le Cheetah Girls», proruppi allegramente.

    Meditò.

    «È molto bello ciò che stai facendo per lei, ti ringrazio...»

    «Non devi ringraziarmi. Lo faccio perché non voglio che si senta sola. Io ero figlia unica e non avevo amici – be’, forse qualcuno, ma tutte amicizie sporadiche destinate a durare poco. Se Paris vuole sarò felice di esserle amica nei momenti più opportuni».

    Abbassò il capo. «Mi dispiace costringerli a vivere in un ambiente non del tutto normale. Faccio il possibile ma non è sempre facile, perché la mia esistenza non è un'esistenza comune. Non potrò mai permettermi la normalità.

    Sono felice che siano al mio fianco. Mi hanno riempito la vita e le hanno dato un senso completamente nuovo. Sono tutto per me. In loro compagnia mi sento benedetto, ma credo che meritino di più. Mi sento egoista. Capisci che intendo?».

    «Saresti egoista se dicessi “Vorrei che stessero sempre con me, non importa se non vivono come gli altri bambini”. Invece ti preoccupi, addirittura ti senti in colpa. Per quei tre bambini sei il padre migliore del mondo. Li vedo molto uniti e questa è la cosa più importante».

    Rimase a pensare fissandosi le mani. Poco dopo i suoi occhi scivolarono nei miei. Sorrise inaspettatamente.

    «Sai sempre trovare le parole giuste, uh?»

    Alzai le spalle. «È il mio compito».

    Ignorai lo strano calore che ribolliva frizzantino nel petto.

    «Ti ringrazio. Sei una persona davvero speciale».

    Il suo volto era lo specchio dell'assoluta dolcezza. Mi morsi la lingua per evitare un sospiro triste e chinai il capo per nascondere la lieve commozione che mi offuscava la vista.

    «Non adularmi troppo. Mi commuovo facilmente quando una persona mi ringrazia così calorosamente per qualcosa che faccio. Non sono abituata».

    Era la prima volta che mi mostravo anche lontanamente vulnerabile con Michael.

    Le sue dita mi sfiorarono la guancia destra. Quando vi si poggiarono sopra il respiro si spezzò in gola. Mi guardava, ma non volli cercarlo.

    «Ehi...»

    Non risposi.

    Si allungò in avanti.

    Percepivo la sua aura invadermi fin sotto la pelle.

    Fece scivolare la mano dalla guancia al braccio. Lo accarezzò quasi impercettibilmente.

    «Spesso ti rintani in un mondo di fiabe e favole sperando che queste possano riempire tutto quello che non hai mai avuto a livello affettivo. Non è abbastanza. C'è bisogno di calore umano, per quanto uno dica che sta bene anche senza di esso. Donare quello che io avrei voluto ricevere di più nel momento del bisogno è una grande emozione, ma lo è ancora di più sapere che qualcuno vuole conoscermi per ciò che sono», mormorai con sguardo basso.

    «Ti capisco molto più di quanto non credi».

    Per quanto cercassi di trattenermi, parlare con Michael mi faceva stare bene. Condividere i miei segreti, i miei sentimenti e i miei pensieri era straordinariamente facile con lui. Aprire il cuore era la terapia per una malattia che mi portavo avanti da anni e che non ero mai riuscita a guarire.

    Sbadigliai ricordandomi di mettere la mano davanti alla bocca. Sogghignò.

    «Forse è meglio che andiamo a dormire. Sei cotta...»

    «Sì, hai ragione…», mi stropicciai gli occhi.

    Afferrò i due bicchieri vuoti e li portò al lavello. Lo fece con un gesto lento e faticoso; nel mentre lo studiai silenziosamente, comprendendo che ci fosse qualcosa che non andava e che non voleva dirmi. Quando notò le mie attenzioni tentò invano di sfuggirvi.

    «Ti fa male?», indicai la schiena con un cenno.

    Mi dedicò un'espressione inafferrabile. Annuì lentamente, ostentando una smorfia dolorante.

    «Non immagini quanto...», portò la mano sinistra sulla spalla opposta. Le mascelle si tesero dandogli una forma più dura e marcata del viso.

    Gli andai vicino. Prima che potessi fare o chiedergli altro mi voltò la schiena.

    «Avanti, andiamo. È tardi per te».

    Chiuse la luce della cucina e aspettò che lo seguissi. Inspirai a fondo e lo seguii senza dire una parola di rimando.

    Attraversando il corridoio mi chiese se avessi bisogno di tenere la sua mano, nel caso in cui avremmo rivisto qualcosa di strano nel bel mezzo del tragitto, ed io lo fulminai con gli occhi senza emettere un suono. Salimmo le scale e mi accompagnò davanti alla porta della mia camera.

    Prima di congedarmi ritornai sull'argomento, decisa a dire la mia nonostante tutto.

    «Secondo me devi cercare di stare a letto il più possibile, farti fare qualche massaggio... magari prendere una medicina, ma solo se è un dolore insopportabile. Troppi farmaci non fanno bene, anzi».

    Michael rimase di stucco, ma non proferì parola. Lo scrutai seria e irremovibile.

    «Magari leggi un buon libro o guarda qualcosa in camera tua. Non fare troppi sforzi, mi raccomando».

    Mi sorrise con amabilità. «Farò come mi hai consigliato».

    Prima che potesse avvicinarsi per abbracciarmi gli trattenni il petto con una mano.

    «Per me non sei un mostro...»

    «Pardon?».

    Inspirai profondamente ed arrossii sulle guance. Lo guardai ancora più intensamente di quanto non avessi già fatto poco prima.

    «Per me tu non sei un mostro. Sei una persona buona...»

    Lo lasciai sconvolto. Schiuse le labbra come se avessi detto qualcosa di incredibilmente anormale. Sbatté le palpebre più e più volte.

    Un istante e mi abbracciò forte.

    Assaporai la stretta chiudendo gli occhi, permettendomi di godere di una sensazione alla quale – con il tempo – mi sarei abituata.

    Michael ti stringeva in una maniera in cui sembrava metterci l'anima. Lo sentivi, eccome se lo sentivi, come se ti stesse regalando un pezzo di sé.

    Mi cinse più forte. Inalai il suo profumo con un brivido impercettibile.

    «God bless you, Sarah».

    Cortocircuito in corso.

    «Anche te, Michael».

    Indietreggiò per baciarmi la fronte. Fu soffice come i petali di un fiore.

    «Buonanotte, fai bei sogni».

    Rabbrividii, ma non demorsi. «Cerca di dormire, Michael, è importante...»

    Sorrise e retrocesse. Le mie guance erano calde come non mai.

    «Ci proverò».

    Si incamminò con passo delicato lungo il corridoio. Non si voltò indietro come io non lo guardai allontanarsi.

    Entrai in camera e chiusi la porta adagiando la fronte sul legno freddo per qualche istante. La mia mente restò vuota per un bel pezzo, prima di essere in grado di pensare nuovamente a qualcosa di sensato. Davanti agli occhi c’era il suo volto.

    Prima che potessi allontanarmi per scegliere quale pigiama indossare, udii un lieve bussare alla porta. Sobbalzai. Quando la riaprii - dopo un attimo di titubanza - lo rividi: Michael sorrideva imbarazzato, toccandosi la fossetta sul mento con il pollice e l'indice della mano destra.

    «Volevo solo dirti che domani la colazione è alle 7:30».

    «Oh, grazie, mi ero dimenticata di chiedertelo…»

    Ricambiò la cortesia con le estremità della bocca sollevate, ma queste calarono nel giro di un millesimo di secondo.

    «Ti volevo anche dire che...», piegò lo sguardo sulla mia collana elfica. Mi lanciò uno sguardo penetrante. «Vi volio bene».

    Mi calò la mascella.

    Michael ridacchiò imbarazzato.

    «Tu... come

    «Lo dissi ai miei fan italiani tanto tempo fa, durante uno dei miei concerti a Roma... me lo ricordo ancora», ammise spostando il peso su una gamba e poi sull'altra.

    Non mi sembrò il caso di dirgli che aveva sbaglio a dire "Vi" invece che "Ti". In quel momento non era importante fare la pignola e correggerlo.

    «Oh... be’, allora grazie», espressi la mia gratitudine in italiano, arrossendo e tenendomi sullo stipite con entrambe le mani. Chinai la fronte sui suoi mocassini. «Devi scusarmi, io non sono molto brava a esprimere i sentimenti a parole. Non offenderti...».

    «Non ti devi preoccupare», disse con voce ferma. «Mi stai dimostrando molto anche senza parlare. Sarà questione di abitudine, ne sono sicuro», si pose le mani nelle tasche.

    Sghignazzai adocchiandolo di sfuggita. «Non sarà facile».

    Si strinse in petto, rilassato come non mai.

    «Fino a quando continui a dirti che non sarà facile le cose non cambieranno mai, lo sai?», disse usando più o meno il mio stesso tono di quando lo rassicuravo, a mo’ di dolce presa in giro. «Ci sono io, ti aiuterò a sbloccarti. E ti farò anche cantare, fra le altre cose».

    Sbiancai provocandogli un ghigno maleficamente allegro.

    Era una persona incredibilmente bella.

    «A domani, Selenite», e mi arruffò i capelli, andandosene senza aspettare o osservare la mia risposta sgomenta.




    1 Confermo che l'angelo della storia è un riferimento indiretto all’arcangelo Michele, un angelo "che aiuta le persone risanando il loro coraggio, la loro forza interiore e la loro fiducia". Si dice che porti un’arma con sé, ossia una spada di cristallo. Questo cristallo si dice che sia la selenite. La selenite è una pietra che dovrebbe avere effetti curativi sull’uomo, aiutando l’individuo a liberarsi dalle sue paure o dai blocchi emotivi. “Selenite” è un riferimento a Selene, dea greca della Luna (il che riporta al nomignolo di Sarah, Moony). Altra piccola curiosità: il significato del nome Sarah è “principessa”.


    Edited by fallagain - 5/1/2021, 21:25
     
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    Capitolo Tredici: I Ricordi Sopiti

    Passarono dei giorni prima che potessi avere un altro dei miei “confronti diretti” con il padrone di casa.

    Lo incrociavo sempre - a colazione, pranzo e cena. Una volta perfino in bagno, quello comune, lui che usciva e io che entravo. Fu un po' imbarazzante vederlo in quella situazione, ma anche comico.

    Ogni volta che ci incontravamo sfoggiava un sorriso che andava da un orecchio all'altro, mi salutava e ci scambiavamo qualche parola di sfuggita. "Come stai?", "Dormito bene?", "Come è andata la lezione?" e cose così.

    Tra lunedì e mercoledì si fece vedere molto poco. Si palesava soltanto ad ora di cena, sempre ben disposto a passare del tempo con i figli per guardare un cartone o raccontar loro delle storie (momenti in cui mi eclissavo totalmente dalla situazione rintanandomi nella mia stanza).

    Quel giovedì, vedendolo girovagare in pigiama alla fine delle lezioni pomeridiane, capii.

    Scese in cucina per prendersi una camomilla, tenendo un libro ben stretto fra le dita e facendomi furbescamente intendere che mi stava dando retta. Non me ne resi subito conto, troppo allibita dall'averlo visto tranquillamente in pigiama e struccato. Non che la cosa mi irritasse, anzi, mi faceva sorridere perché non si faceva il minimo scrupolo in mia presenza, pur essendo io una dipendente come le altre.

    Stavo cominciando a sentirmi a casa sebbene non mi credessi ancora libera di fare tutto ciò che volevo – come prendere qualcosa da mangiare o bere senza chiedere il permesso, avere un pomeriggio tutto per me per scrivere, leggere o fare semplicemente una passeggiata al parco. Ma mi stavo adattando.

    C'era un clima così pacifico da sembrare irreale. Sia Michael che i bambini mi confermarono di essere persone tranquille, per nulla "strambe" o dalle manie eccentriche.

    Come di consueto sabato mattina Prince e Paris non avevano lezione. Quando li raggiunsi in salotto erano le dieci passate e avevo ancora un'aria da perfetta rincitrullita.

    Mi vennero incontro gettandomi sguardi e risolini eloquenti. Già intuivo cosa volessero chiedermi.

    «Sarah, giochi con noi?», Paris mi afferrò l'avambraccio con occhi sornioni. «Papà è uscito prima, ha detto che non può giocare con noi, oggi...»

    Oh, perciò non è qui...

    Non feci capire ai bambini che ero scontenta per quella notizia.

    Per quanto assurda fosse quell'emozione, stavo cominciando a sentirmi strana quando Michael era assente; come se sapere di averlo lì in casa mi rincuorasse. Anche se dalla chiacchierata della domenica precedente i contatti e gli sguardi fra noi erano diventati sporadici, e la cosa non mi aveva pesato per niente, avere la certezza che fosse lì mi rasserenava.

    «Per favore, Sarah!», Prince mi tirò per la manica.

    «D'accordo, lo farò» annuii con un sorriso. «Ma prima faccio colazione, ok?»

    «Te la prepariamo noi!», strepitarono.

    Con il mio aiuto preparammo un caffellatte buonissimo. Prendemmo un paio di biscotti dalla credenza e andammo a sederci in salotto per guardare i cartoni animati.

    «Papà ci dice di guardare questi e basta», Prince andò avanti e indietro, di canale in canale, come una furia. «Dice che il resto non si deve vedere per ora, perché siamo troppo piccoli... e che un giorno ci aiuterà a capire... però io vorrei saperlo ora...»

    «Nemmeno io capisco», borbottò Paris, fissandomi.

    Curvai lo sguardo prima su uno e poi sull’altra, comprendendo perfettamente perché fossero curiosi e perché Michael non facesse vedere altri canali al di fuori di quelli. In quel periodo in cui i giornali e i media lo accusavano continuamente di pedofilia era meglio evitare. Quelli che Prince mi stava mostrando erano canali per bambini accessibili a chiunque, mentre per il resto bisognava avere un codice.

    Decisi di reggergli il gioco.

    «Vostro papà ha ragione. Sono cose da adulti».

    Sbuffarono di risposta.

    «Perciò nemmeno tu puoi dirci niente come tutti gli altri?» chiese Prince guardando i Looney Tunes senza dar loro molta attenzione, imbronciato e con braccia conserte.

    «Per favore...».

    Sorrisi amaramente, dissentendo. «No. Se vostro padre ha dato le regole voglio il suo permesso prima di dire o fare qualcosa... non posso tradire la sua fiducia». Feci un bel respiro profondo e scompigliai i capelli ad entrambi, placando il loro malcontento. «Vedrete che vostro padre vi spiegherà tutto».

    «Quando?».

    «Non ne ho idea... ma abbiate fiducia, non vi lascerà a bocca asciutta per molto tempo. Sono sicura che sia dispiaciuto anche lui per questo».

    Li scrutai a fondo e vidi nei loro sguardi espressioni da bambini sensibili e intelligenti. Ricambiarono il sorriso annuendo, ritornando con l'attenzione sui cartoni.

    «Sì, anche papà era serio quando ce lo diceva» bisbigliò il piccolo. «Volevamo soltanto chiedere...», pigolò come per scusarsi.

    Gli accarezzai il capo. Prince mi fissò con aria scura e interessata.

    «Non c'è nulla per cui scusarsi, hai fatto – avete fatto – una domanda più che giusta». Massaggiai le cosce a entrambi. «Siete due bambini molto bravi».

    Ricambiarono con un riso mesto. Erano molto più svegli della loro età. Sapevano rispettare i limiti e le imposizioni e se talvolta facevano i capricci sapevano chiedere scusa e rendersi conto dei loro errori.

    Erano bambini molto più speciali di quanto si potesse pensare.

    *

    Passammo il resto della mattinata a divertirci.

    Ci svagammo con diversi giochi da tavola, con le bambole e con i giocattoli telecomandati. Quando cominciarono a stancarsi di ogni cosa ne proposi uno nuovo.

    Consisteva in un semplice gioco di ruolo: ognuno sceglieva un personaggio di un film, cartone o libro che amava e assieme si inventavano nuove storie e situazioni, createsi sulla base della propria fantasia. Potevamo fingere, ad esempio, che Paris fosse Ariel (avevo scoperto che era il suo personaggio Disney preferito) e che Prince fosse Luke Skywalker: si potevano inventare nuove pericolose avventure, sfide, duelli e incantesimi, trovando quel gioco come un ottimo modo per "recitare".

    Volevano a tutti i costi interpretare i personaggi di Peter Pan (tanto per cambiare). Prince e Paris litigarono abbastanza vivamente per scegliere chi fra loro avrebbe assunto il ruolo del protagonista e chi invece avrebbe fatto Capitan Uncino. Alla fine scelsi io: per quella volta Paris avrebbe fatto il pirata e la volta successiva i ruoli si sarebbero invertiti.

    «Al prossimo turno farò Tinkerbell insieme a te, ti va?», le pizzicai la guancia per toglierle il cipiglio immusonito dal volto.

    Non disse assolutamente di no.

    Mi proposero di fare Wendy, rapita dai pirati e costretta ad essere salvata prima che il coccodrillo la mangiasse, il tutto mentre Peter e Uncino si sfidavano con spade e coltelli invisibili in una lotta all'ultimo sangue.

    In un batter d'occhio mi ritrovai in piedi, sull'orlo di un muretto, facendo finta di avere il mare sotto di me e un grande coccodrillo feroce che voleva mangiarmi, ridendo come una pazza e allo stesso tempo fingendo richieste d'aiuto a un Peter che nemmeno mi calcolava: Prince era troppo occupato ad assalire la sorella, la quale correva avanti e indietro per non farsi prendere dal coltello inesistente di Prince. Stavamo facendo un casino infernale con le nostre urla e le nostre risate, tanto che temetti di disturbare il resto del personale.

    Per un attimo avevo addirittura pensato che Michael fosse ancora in casa, nel momento in cui ero stata rapita dal veloce fruscio di una tenda proveniente da una stanza sconosciuta al primo piano del villino.

    All'ora di pranzo Grace venne a chiamarci, Blanket sempre appresso e avvinghiato al suo collo. Quel piccolo l’adorava.

    «Grace ha il weekend libero, sempre», mi dissero i bambini a bassa voce, entrando in casa per mano, «tranne i giorni quando papà è fuori».

    Nel pomeriggio ci radunammo in salotto per rilassarci tutti insieme: Prince, Paris e Grace se ne stavano comodamente seduti a terra attorno al tavolino da salotto, disegnando allegramente mentre io e Blanket guardavamo il cartone Tarzan sul divano. Sapevo tutte le battute a memoria, o quasi, tanto da scioccare i piccoli Prince e Paris; solo quando Blanket prese sonno e la tata andò con lui nella camera da letto dei bambini iniziai a disegnare anch'io.

    Feci uno schizzo in stile manga giapponese avendo adottato – dopo anni di ossessione – una tecnica molto simile a uno dei miei miti, Rumiko Takahashi. Disegnavo sempre ragazze concentrandomi maggiormente sui loro volti, marcando occhi e capigliatura. In molti mi avevano detto che ero una persona molto artistica sotto ogni punto di vista, pure nel disegno, ma io pensavo tutto il contrario.

    Anche i bambini rimasero estasiati dal mio lavoretto e lo ammirarono a bocca aperta. Non mi ritenevo molto capace, ma ammettevo di non fare proprio pena. Promisi che un giorno avrei fatto un disegno per ognuno di loro.

    Mi ero appena messa a colorare con i pastelli, seguita a ruota da Prince e Paris, quando il film mostrò una delle mie scene preferite: era il pezzo dove Phil Collins cantava Strangers Like Me. Jane stava facendo un ritratto di Tarzan, il quale, affascinato da lei e dal suo modo di fare, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.

    Era la scena che amavo di più, sia per le parole utilizzate nella canzone, sia per gli occhi innamorati del protagonista. Magari un uomo avrebbe guardato così anche a me, un giorno.

    Every gesture, every move that she makes, makes me feel like never before
    Why do I have this growing need to be beside her?

    Appoggiai i gomiti al tavolo da salotto e restai a guardare il film come una bambina.



    Non avevo mai provato l'Amore con la A maiuscola. Ero stata innamorata, sì, ma mai così. Avevo avuto qualche storia, ma niente di duraturo. E non ero neanche così coraggiosa da farmi avanti con gli uomini, non era nel mio carattere: preferivo tenere il sentimento per me piuttosto che confessarmi e ottenere una delusione. Tuttavia l'amore (fra uomo e donna) non era mai stata la mia esigenza principale. Un fidanzato non era mai stato chissà che importante fino ad una certa età, pressoché dal college in poi, tempo in cui avevo cominciato a sentire la mancanza di una figura maschile nella mia vita. Al primo posto c'era sempre stata la carriera, al secondo la semplice amicizia.

    «Papà!».

    Prince e Paris scattarono verso il corridoio e per poco non mi fecero venire un infarto.

    Voltai la testa alla mia destra e, quando lo vidi, la mente si svuotò come per magia. Michael era proprio lì, sotto l’entrata ad arco con le mani nelle tasche. Non aveva gli occhiali da sole che gli coprivano gli occhi, non quel giorno, ed era vestito in modo un po’ più sobrio dell'usuale: jeans chiari (prima volta che glieli vedevo indosso) e una camicia pesante e nera.

    Guardò i bambini sorridendo e si chinò sulle ginocchia. Li cinse stretti, regalando loro buffetti e baci affettuosi. Poco dopo le sue iridi incandescenti si appoggiarono su me, scaltre e curiose.

    Sperai di essere in una condizione abbastanza presentabile. Con i miei pantaloni di tuta e il mio maglioncino crema non davo assolutamente l’idea di una maestrina ben curata; per non parlare dei capelli, tenuti alti da un chignon fatto alla veloce.

    «Ciao Sarah», soffocò il mio nome con un respiro, dopo aver preso in braccio i figli.

    Gli faceva male la schiena.

    «Salve, Michael».

    Borbottavo sempre quando mi capitava di dire il nome in sua presenza, anche solo per salutarlo. Mi credevo ancora una sconosciuta per lui, nonostante mi venisse naturale trattarlo come un mio coetaneo.

    Adagiai penne e matite sul tavolo non sapendo bene cosa fare. Notai subito che, anche se sorrideva, non aveva intenzione di guardarmi.

    Si approssimò al divano. «State guardando un cartone?», poi fissò la TV. «Ohhh, è Tarzan... mi piace!», esclamò due secondi più tardi e sedendosi a qualche centimetro dalla mia spalla destra.

    I due piccoli scivolarono a terra nel vano tentativo di ottenere l'attenzione del padre. Solo quando lo richiamarono tre volte Michael distolse l'attenzione dal cartone, ammirandoci come se fosse caduto dalle nuvole. Era più preso lui che io, Prince e Paris messi insieme.

    «Papà, guarda che bei disegni che stiamo facendo!», disse Prince sventolando in aria il suo.

    «Oh God... ma sono molto belli. Complimenti, Prince».

    «E guarda questo... ti piace?», Paris si allungò per donargli il suo.

    Michael rimase a fissarlo con espressione concentrata, enunciando un sottile: «Ohhh, è davvero bello! Brava».

    Nel frattempo cercai di nascondere il mio sotto i fogli bianchi sparsi per il tavolo, pregando affinché nessuno dei due bimbi nominasse la mia opera. Ero molto riservata, non mi piaceva vantarmi di ciò che facevo.

    Purtroppo le mie richieste non furono esaudite.

    «Guarda, daddy! Guarda che bel disegno ha fatto Sarah!».

    Michael mi puntò non appena la figlia pronunciò il mio nome, incuriosito. Mi fece uno dei suoi soliti check-up completi. Scostai gli occhi dai suoi spremendo ogni energia per apparire impassibile.

    Quand'anche Prince insistette affinché lo mostrassi, con nonchalance dissotterrai il disegno dalla pila di carte bianche. Lo porsi a Michael inspirando pesantemente. Quest’ultimo mi cacciò un'ultima occhiata sfacciata prima di esaminare lo schizzo. Neanche il tempo di decidermi se osservare o meno il cambio d'espressione del suo volto che aveva già emesso uno dei suoi tipici "Ohhh...!"

    Lo puntai di sottecchi, esitante.

    Stava contemplando il mio abbozzo con la testa inclinata di lato e le labbra schiuse. Guardai con attenzione i suoi zigomi marcati. Ad un certo punto si umettò il labbro inferiore, socchiudendo le palpebre con maggiore concentrazione.

    «Ti piacciono i fumetti giapponesi?», chiese senza smettere di osservare il foglio.

    «Sì, moltissimo!», dissi sorpresa.

    L'ultima cosa che mi aspettavo da Michael era che conoscesse i cosiddetti “manga”. Non credevo che tutte le star mondiali avessero una certa conoscenza in ambito di animazione giapponese.

    «Io amo molto i fumetti della Marvel» proferì tracciando con gli occhi ogni linea a matita. «A te piacciono quei tipi di fumetti?», mi adocchiò.

    «Uhm, in realtà leggo soltanto quelli giapponesi, niente Marvel... ma fra tutti i supereroi apprezzo molto Superman della DC Comics», dissi sollevando gli angoli delle labbra in un sorriso di scuse.

    Annuì lentamente. Poco dopo sorrise di rimando, scrutandomi con iridi sempre più vivaci e luminose.

    «Sei davvero molto brava, complimenti», lo disse con così tanto trasporto da farmi venire le guance scarlatte. Ancora.

    Ringraziai, mi porse il disegno e lo riadagiai sul tavolo. Prince e Paris si sedettero accanto al padre raccontandogli della giornata passata con la sottoscritta. Gli menzionarono il nuovo gioco che avevo insegnato loro. Michael se ne stesse ad ascoltare meditabondo e le mie orecchie si trasformarono in antenne.

    Continuai il mio disegno cercando di non sentirmi osservata, cosa che non mi riuscì facilmente. Sentivo Michael pungermi con insistenza, come se mi stesse invitando a guardarlo di rimando, ma non lo feci.

    Riuscii a terminare l'opera prima della fine del film. I bambini, che dopo aver finito di chiacchierare si erano messi a guardare il cartone spaparanzati sul divano, si avvicinarono per controllare il risultato. Li studiai di soppiatto e li vidi esultare soddisfatti.

    «Daddy, guarda!».

    Quest'ultimo si era chinato prima ancora del loro richiamo. Era molto vicino alla mia tempia destra.

    «Wow...».

    Sorrisi.

    «Ha detto che un giorno farà qualcosa per noi, sai?», Paris era tutta gongolante.

    Michael alzò un sopracciglio meravigliato, mostrandomi un cipiglio di finta disapprovazione. «Davvero?».

    Mi squadró con fare espressivo.

    Distesi la fronte ridacchiando.

    «Lo vuoi...?», glielo porsi.

    Michael sorrise affabilmente. Non se lo fece ripetere due volte e lo afferrò in men che non si dica.

    «Assolutamente. Ti ringrazio, Sarah».

    Lo fissò per un qualche interminabile minuto. Quand’anche l'ultima canzone del cartone finì, Michael si alzò dal divano dedicando una lunga occhiata a me e ai suoi figli.

    «Prince, Paris, mandate indietro la cassetta, mettetela nella custodia, sistemate queste cose e poi andate in camera. Vi raggiungo subito».

    Loro annuirono e sistemarono il tutto anche grazie al mio aiuto (dopotutto avevo disegnato con loro, era il minimo che potessi fare).

    Prima che potessi finire di mettere i pastelli e i pennarelli nelle apposite scatole, Michael mi chiamò da parte.

    Con l'indice mi fece segno di seguirlo e io non esitai.

    Quando raggiungemmo le scale s’immobilizzò sul posto. Io fissai lui e lui fissò me. Poi sorrise.

    «Ti ringrazio per aver fatto compagnia a Prince e a Paris, oggi. Di solito non manco mai nei weekend, ma avevo un impegno piuttosto importante».

    «Non ti preoccupare, è stato un piacere».

    Si sfregò le mani guardando a terra. Sollevò gli occhi di scatto facendomi intendere che aveva qualcosa di importante da dirmi. Si umettò le labbra.

    Titubò un istante. «Uhm, non credo che i bambini siano molto propensi alla favola della buonanotte stasera, così come non credo che lo sia anche tu... ti piacerebbe vedere un film? O fare una passeggiata?».

    Sbarrai gli occhi.

    Michael era leggermente impacciato, ma non allontanò le iridi dalle mie neanche per sbaglio. Si bagnò la bocca.

    «Ho bisogno di parlarti...», continuò senza lasciarmi rispondere, «ma se non ti va, non ti preoccupare».

    «Ma certo che sì!», non esitai. «Sono contenta che tu me l'abbia chiesto».

    Mi osservò sbattendo le palpebre. Sorrisi e annuii per rassicurarlo che aveva capito bene.

    «Oh...», osservò un punto vuoto alla sua destra. «D'accordo allora. Passeggiata?»

    «Prego?».

    Che rincoglionita.

    «Preferisci una passeggiata?», ripeté a ritmo cadenzato, arcuando le sopracciglia e sorridendo maggiormente.

    Le mie labbra formarono una linea sottile. Fissai terra.

    «Come va con la schiena?»

    «Pardon?»

    Lo studiai con austerità. «Come va con la schiena?»

    Scoprì un'aria pensosa. Si toccò la spalla destra con la mano opposta.

    «Mi fa meno male». Mi squadrò. «Ho seguito i tuoi consigli... ora non sento più niente».

    Ci scrutammo senza dire nulla. Non gli credetti molto e dovette capirlo immediatamente, perché mi palesò davanti una faccia da poker assurda.

    «Perché me lo chiedi?», spostò il peso del corpo su un piede e allacciò le braccia dietro la schiena.

    Alzai le spalle da finta tonta e lo evitai. «Non mi va che tu prenda freddo. Sei appena guarito, preferisco che non peggiori di nuovo. A mio parere è meglio un film».

    Michael era sbalordito.

    Emise una risata intenerita coprendosi la bocca una mano, sfiorandosi delicatamente le labbra. Nonostante quel gesto apparisse puramente innocente e bambinesco, la sfumatura nelle sue iridi nere come pece dimostrava tutto l’opposto.

    Scosse il capo. Il mio disegno, ancora stretto fra i polpastrelli dell'arto libero, era sempre al suo fianco.

    «Ti preoccupi per me?», sollevò un sopracciglio.

    Il suo sorriso fece risplendere ogni cosa.

    «Sì, molto!», risi. La mia brutale sincerità fece scemare il suo divertimento. «Non voglio che tu stia peggio, soprattutto per colpa mia! Mi dispiacerebbe da morire!»

    Si incupì e io feci altrettanto, cogliendo la severità nel suo volto.

    «Non è colpa tua. E non devi minimamente pensarlo nel caso in cui capitasse di nuovo. Mi succede spesso di avere questi dolori e ogni tanto rimango sveglio tutta la notte, sia per la mia insonnia che per questi...», disse picchiettandosi la spalla con le dita. «Non voglio sentirti dire “è colpa mia”, ok?».

    Mi stava linciando con austerità, a dispetto della voce dolce. Fu come se fossi stata appena sgridata da mio padre.

    Sospirai guardando altrove.

    Percepii una mano grande e calda posarsi sulla mia nuca. Ebbi un fremito lungo le gambe e le braccia. Gli rivolsi uno sguardo spaesato e notai che stava sorridendo teneramente.

    «Passeggiata?».

    Annuii controvoglia.

    Sollevò la mano e mi sorpassò a passo leggero, dirigendosi verso l'interno del salotto dove i suoi figli erano alle prese con un mini-battibecco.

    Mi osservò in lontananza, sghignazzando.

    «Ti piace giocare a fare la statua di gesso?»

    Inizialmente non capii, ma poi intesi che mi stava prendendo in giro per il fatto che non mi ero mossa di un millimetro da quando se n'era andato. Storsi la bocca e il naso e gli mostrai la lingua dandogli le spalle, ondulando la fluente chioma ramata e risalendo i primi gradini.

    Lo udii ridere di gusto.

    *

    Dopo cena, tornata nella mia stanza in attesa che Michael mi chiamasse per la fatidica camminata, approfittai per fare uno squillo a mia madre, Caterina Morris.

    Ci teneva che la contattassi almeno un giorno a settimana nonostante il fuso orario. Solitamente facevamo una volta ciascuna e si ricordava tutte le occasioni in cui mi ero dimenticata di cercarla, rinfacciandomelo ogni qualvolta la facessi arrabbiare con il mio atteggiamento un po' testardo e bastian contrario.

    Due squilli a vuoto e finalmente qualcuno rispose.

    «Pronto?».

    Voce profonda, moderata, a tratti leggermente roca. Eccola lì, mia madre.

    «Ciao mamma».

    «Sarah!», squittì abbandonando quella compostezza che la contraddistingueva. «Pensavo fosse tua nonna!».

    Sogghignai ironicamente. «Ti sta rendendo la vita un inferno anche oggi

    Dovete sapere, lettori, che mia nonna paterna non era affatto il tipo di nonna che ogni bambino desidera. Era una donna severa, rigida e critica - decisamente molto più di mia madre, pur avendo qualche tratto in comune. Aveva una certa "puzzetta sotto il naso", per farla breve.

    Fin da piccola non le ero mai piaciuta; se fossi esistita o meno non le avrebbe fatto alcuna differenza. Pendeva dalle labbra di un solo nipote, il suo ometto perfetto, il capostipite per eccellenza, mentre gli altri non erano calcolati nemmeno di striscio. Oltre a questa palese e marcata antipatia nei miei confronti si era sempre comportata male verso la mamma, fra l'altro l'unica in grado di distruggere ogni sua provocazione con una sola parola: erano come due leoni uno contro l'altro, da sempre.

    I miei rapporti con questa nonna cessarono molto prima che mi trasferissi in America. Su questo aspetto ero molto simile a mia madre: un tipetto piuttosto irremovibile, focoso per così dire, soprattutto di fronte alle mancanze di rispetto e all'ipocrisia.

    «Non più del solito, grazie a Dio. Inizio a pensare che chiudere il cancello con i catenacci e staccare il telefono sia l'unica soluzione possibile, pur di non averla fra i piedi. Tutta una vita a criticare gli altri e mai pensare ai cazzi suoi», sbottò stizzita.

    La mia famiglia aveva un amore innato per le parolacce - anche mia madre, nonostante l'aspetto elegante e composto che esibiva al mondo. Io non ero di certo da meno. A volte niente poteva esprimere meglio un concetto rispetto a una bella imprecazione.

    Caterina partì impettita per la tangenziale sfogando tutti i suoi malumori repressi. Mio padre doveva essere altrove, altrimenti non avrebbe mai parlato come un fiume in piena.

    Non lo aveva e non lo avrebbe mai ammesso, ma aveva bisogno di me.

    «Dopotutto», continuò, «è da anni che sa come la pensiamo, io e te».

    Come già detto, da adolescente decisi di interrompere tutti i contatti con la nonna. Smisi di andarla a trovare, di telefonarle, di portarle i dolci fatti in casa, di uscire e andare al mercato in sua compagnia. Non esisteva più per me. Fui irremovibile nelle mie decisioni, nonostante le velate persuasioni di mio padre, Richard Morris.

    Quest'ultimo amava immensamente la nonna. "La mamma era sempre la mamma", per lui. Era fin troppo buono, cieco anche. Non voleva accettare che quella donna fosse un tantino crudele.

    «Se tratta tutti di merda non può pretendere nulla», sottolineò con delicata finezza.

    Sicuramente lo aveva detto apposta, perché udii degli strani rumori provenire dalla parte opposta del ricevitore. Udii la voce irritata di un uomo, mio padre, e come al loro solito discussero. Caterina (o Cate, come la chiamava Richard) lo zittì con un secco e conciso "Sono al telefono con tua figlia, lasciami parlare".

    «Comunque, Sarah, tu come stai?»

    Sospirai. «Tutto bene, mamma... e voi?».

    «Dopo ti passo tuo padre, anche lui vorrebbe sentirti un po'. Io sto bene. Ti stai trovando bene con i figli del tuo nuovo capo?»

    Non le avevo ancora detto chi era il mio datore di lavoro. Mi aveva chiesto il suo nome e io le avevo risposto che si chiamava semplicemente "Jackson". Non perché temessi la sua reazione, ma perché c'era scritto sul contratto che dovevo rispettare la privacy di Michael. Tuttavia, anche se non fosse stato imposto da nessuna parte, mai mi sarei permessa di nominarlo senza il suo consenso. Visto il delicato periodo che stava passando preferivo essere evasiva. Conoscevo mia madre, sapeva fare fin troppe domande quando si metteva.

    «Mi sto trovando divinamente, lo ammetto. Quei bambini sono proprio educati e diligenti». Il viso di Michael mi passò davanti come se lo avessi di fronte. Trattenni un sorriso compiaciuto. «Pensa, abitano in una villa molto grande», un ranch, avrei voluto dire, «e mi hanno offerto vitto e alloggio. Ho accettato, anche se - »

    «Non dovevi accettare, Sarah, ti sei dimenticata l'educazione?», mi rimproverò duramente.

    Roteai lo sguardo al cielo.

    «Sì, mamma, lo so», sottolineai la parola "mamma" con decisione e un pizzico di risentimento. «Però ha fatto molte storie affinché acc – ».

    Qualcuno – chissà chi – bussò alla porta.

    Mi interruppi a metà frase, puntando l'uscio e assentandomi dalla conversazione.

    «Aspetta mamma, penso che sia...»

    «Sarah? Ma che ore sono?»

    Ovviamente non risposi.

    Mi avvicinai alla porta e aprii. Michael se ne stava in piedi e mi guardava con dubbiosità. Doveva aver udito il mio chiacchiericcio incomprensibile al di fuori della stanza. Corrugò la fronte e schiuse la bocca senza dire nulla. Sembrava dispiaciuto per avermi interrotto.

    «Aspetta un attimo, mamma», dissi in italiano. Misi la mano davanti alla cornetta, sperando che la donna non scoprisse che la voce del mio capo era quella di una persona davvero importante.

    Guardai Michael con un sorriso di scuse, che lui ricambiò con spaesamento.

    «Vuoi che...?», sussurrò mettendo un piede nella direzione opposta.

    «No, aspetta! È solo mia madre, le dico che la richiamo domani!»

    «Ne sei sicura?», chiese fissandomi con perplessità.

    «Certo, entra intanto!»

    Gli voltai le spalle riportando il telefono all'orecchio. Udii Michael che socchiudeva la porta.

    «Mamma, ti chiamo domani, devo andare...», dissi continuando a studiare Michael di sottecchi.

    «Come mai? È successo qualcosa?», chiese più curiosa del solito.

    «No, no! Ti spiegherò domani». Le avrei sicuramente detto una bugia, ma avrei avuto tutta la notte per pensarla. «Salutami papà, digli che gli parlo domani!»

    «No, aspetta», mi bloccò. «E questo Jackson che ti sta chiamando?»

    Sospirai ammirando al di fuori dalla finestra. Percepii lo sguardo interessato di Michael sulla pelle. «Sì, mamma. Ti spiego domani, ora devo proprio andare».

    E chiusi la conversazione dando gli ultimi saluti a mio padre che ricambiava da lontano.

    Ci fu silenzio e un continuo lanciarsi di sguardi tra me e Michael. Quest'ultimo strinse le labbra subito dopo essersele bagnate, dondolando il peso del corpo dalle punte ai talloni. Mi parlò con voce profonda e calda.

    «La tua famiglia?»

    Annuii. «Sì, mia madre».

    «Le manchi?», mantenne un'espressione sostenuta.

    «Sì... credo», modellai un mezzo sorriso ironico.

    «E a te manca?»

    Ci riflettei mentre appoggiavo il telefono sul comodino.

    «Sì... e no. Diciamo che vado a momenti».

    Annuì gravemente, calando i grandi occhi neri sul parquet. Feci lo stesso.

    «Sanno chi sono?»

    Scossi la testa.

    «Davvero?». Mi scrutò attentamente.

    «Sì. Oltre ad aver letto le clausole del contratto preferisco così. Sia per te e per la sicurezza dei tuoi figli, sia perché non sento il bisogno di raccontarle ogni cosa della mia vita. Posso dire che ho un rapporto altalenante con mia madre. Preferisco tenerla fuori dalle mie relazioni o dai miei affari».

    «Hai bisogno di un po' di privacy...»

    «Esatto».

    Assentì di nuovo. Successivamente mi esaminò con un fare non molto convincente.

    «Se dicessi loro chi sono sarebbero molto orgogliosi di te».

    Era una frase lanciata di proposito.

    Alzai le spalle. «Lo sono già, anche se non me lo dicono. Sanno essere persone molto severe, ma non mi hanno mai detto o fatto capire di essere una delusione – in termini professionali e di studio».

    Mi si avvicinò con le mani nelle tasche. «Temi che dicano in giro che loro figlia lavora per Michael Jackson?»

    Gli scoccai un'occhiata simbolica. Lui fece lo stesso, più autoritario di quanto mi aspettassi.

    «No, affatto. E anche se non approvassero sono io che decido con chi stare o per chi lavorare. Per adesso preferisco evitare che tu compaia sui giornali scandalistici o su tabloid italiani. Anche se mi fido di mia madre, ogni tanto ha la lingua lunga».

    Michael sbatté le palpebre lentamente e con celata soddisfazione.

    Distolsi lo sguardo, pentita per la durezza delle mie parole.

    «Scusa... preferisco che tu stia il più tranquillo possibile. Hai già le tue rogne». Meditai per qualche istante, pettinandomi i capelli all'indietro. «Ho fatto una promessa firmando quel – »

    Mi zittì adagiando il pollice sulle labbra: stavo parlando a vanvera.

    Lo adocchiai con fare confuso. Mi stava guardando con un'intensità pazzesca. Una sua occhiata sembrava trapassarmi da parte a parte. Non sapevo nemmeno se provasse riconoscenza, compassione o amarezza.

    «Ti ringrazio».

    Mi sorrise, ma qualcosa cambiò nel giro di un secondo; mi voltò le spalle e s'incamminò verso la porta della camera. Non mossi un muscolo fino a quando lui, inclinando la testa in mia direzione, non mi indicò di seguirlo.

    *

    «Non ti metti la giacca?».

    Il corridoio era fievolmente rischiarato. Un singolo lampadario sopra le nostre teste ci mostrava la porta principale.

    «No, perché?», adocchiò l'appendiabiti con perplessità.

    Lo puntai con uno sguardo così tetro che per poco non lo feci scoppiare a ridere.

    «Non ti preoccupare per la mia schiena, non prenderà freddo, sciocchina...», esclamò dolcemente.

    Posi le mani sui fianchi e piegai la testa di lato, lanciando continue occhiate di ammonimento alle sue spalle e al suo viso.

    Michael sogghignò con delicatezza. Roteò gli occhi al cielo stirando le labbra in un sorrisino compiaciuto e fingendo esasperazione. Si avvicinò all'appendiabiti e prese una giacca pesante e rossa; mentre la indossava mi adocchiò con aria furbescamente allegra. Non distolsi l'attenzione un secondo, mantenendo un sopracciglio ben alzato.

    «Felice?», chiese in tono sarcastico.

    Annuii severamente.

    Mi fece un cenno con il mento e mi guardò dalla testa ai piedi.

    «E tu non prenderai freddo con quella cosa addosso?»

    «Coprispalle», lo corressi incrociando le braccia al petto, sorridendo sorniona. Inconsapevolmente me lo strinsi sulle spalle: era molto bello, bianco e lavorato a maglia.

    Mi scrutò in silenzio. Dopodiché storse il viso in una smorfia contrariata e se ne andò.

    Lo seguii con occhi e bocca aperta, sussurrando un «Michael!» che non sarebbe stato in grado di udire.

    Sollevai le mani in aria, da sola, senza sapere bene che fare.

    Aspettai che tornasse indietro, ma non lo fece.

    Mi venne il dubbio che se ne fosse andato perché offeso. Sospirando mi voltai verso la porta d'uscita come se cercassi di aprirla con il pensiero, per scappare da chissà cosa.

    Non me ne accorsi perché sovrappensiero, ma improvvisamente due braccia mi circondarono dall'alto, prendendo dolcemente il coprispalle per due angoli estremi. Il mio istinto sarebbe stato quello di avanzare per difesa ed invece feci l'opposto. Il mio collo si irrigidì, mi guardai alle spalle e scorsi le grandi mani di Michael che tentavano di sfilarmi l'indumento con delicatezza. Roteai mezzo busto verso di lui, trovandomi a pochi centimetri dal suo viso, dalle sue guance, dai suoi occhi, da tutto... e per poco non persi un battito.

    Mi sorrise con aria machiavellica. «Tiratelo via».

    Abbassai lo sguardo ed eseguii il suo ordine, borbottando a dir poco contrariata.

    Nascosto dietro la schiena teneva qualcosa. Solo quando adagiai il coprispalle sull'appendiabiti Michael, sempre da dietro, adagiò una felpa sopra la mia schiena. Questa era color verde militare, con svariati punti bianchi sparsi qua e là e un cappuccio giallo vivo.

    Gli gettai un'occhiata di pura disapprovazione - sia per il gesto, sia per il pessimo gusto di quell'indumento.

    Sorrise e avanzò in direzione della porta.

    «Mettitelo su, altrimenti non usciamo». Trattenne una risata divertita. «Anche io non voglio che tu prenda freddo e quella giacca è abbastanza calda... di certo più di quello», indicò il coprispalle con iridi luccicanti.

    «Ma è fatto in maglia, scalda!», mi lamentai come una bambina, studiando meglio la sua felpa dal motivo decisamente discutibile. «E poi posso andare a prendere una mia. Non ti devi disturbare per me», pigolai.

    Esibì un ghigno ironico aggrottando le sopracciglia. «Disturbo? E secondo te disturbi per così poco? Mi disturbi di più se non dai retta alle mie parole, quando sono chiaramente preoccupato per la tua salute...»

    Lo incenerii con un'occhiata. Capii perfettamente dove stava andando a parare.

    «Vado a prenderne una mia».

    Avevo già fatto dietrofront e un passo verso le scale quando mi sentii bloccare sui fianchi. Mi stringeva senza farmi male. Nonostante la dolcezza aveva una forza che non ammetteva repliche.

    «Andiamo», mormorò vicino al mio orecchio destro. Mi provocò un senso di sconcerto momentaneo. «Altrimenti si fa tardi per te, Selenite».

    Lo cercai con un'espressione perplessa. Michael sorrise ignorando le mie attenzioni e mi cinse per il polso, accompagnandomi all'uscita. Aprì la porta silenziosamente e mi lasciò la mano.

    Mi fissò.

    La richiuse.

    «Non ti sei ancora messa la mia felpa».

    Sbuffai. Infilai le braccia nelle maniche e tirai la zip fino al collo. Lo guardai come dire "Contento adesso?" e Michael sogghignò bambinescamente, riaprendo la porta un istante più tardi.

    *

    «Perciò tua nonna non è stata molto gentile con te...»

    «No. Ha detto delle cose che poteva sicuramente risparmiare».

    Michael e io stavamo passeggiando più o meno da venti minuti.

    Seguimmo la sponda del lago fino al grande ponte e poi ci sedemmo su una panchina, ammirando come il pallido riflesso della Luna calante illuminasse le acque rendendole torbide e oscure. Attorno a noi vi era un profondo silenzio, ad eccezione dei canti dei grilli e delle nostre voci.

    Mi aveva chiesto come fosse la mia famiglia. Gli avevo descritto minuziosamente il carattere e l'aspetto dei miei genitori, le qualità e i difetti e anche il tipo di rapporto che avevo con loro. Michael disse che dovevo essere molto orgogliosa di loro ed io annuii senza rispondere. Quando il silenzio si era fatto dirompente mi ero confidata sulla chiacchierata avvenuta con mia madre, ritrovandomi a spiegare per ovvietà di cose il rapporto con mia nonna paterna.

    «Cosa ti diceva?», mi studiò con velata apprensione.

    Feci un sorriso per nulla simpatico. «Ci sarebbero così tante cose da dire. Diciamo pure che puntava molto alla mia autostima: facevo una cosa e non andava bene, quell'altra neanche. Non ero niente. Mi canzonava anche per il mio peso. Diceva che pesavo troppo, che dovevo fare ginnastica... ogni scusa era buona per scoccare una frecciatina. Neanche mia madre era la donna più incoraggiante e gentile del mondo, ma la nonna l'ha battuta alla grande!».

    Michael storse la bocca e il naso con sdegno.

    «Sai, ricordo veramente poco di ciò che riguarda il passato. Tendo a conservare soltanto qualche flash di lucidità e nient'altro, soprattutto quando chiudo definitivamente con una persona», continuai guardandolo. «Ma le emozioni rimangono, nonostante tutto».

    «Ad esempio?», chiese senza staccarmi gli occhi di dosso. «Cosa ricordi?»

    «Be’, un giorno stavo giocando in strada con delle bambine. La mia famiglia abita in una villa di campagna e mia nonna qualche casa più in là. Quel pomeriggio mi ero ritrovata con qualche ragazzina della mia età; correvamo e giocavamo come bimbe normali, ma mia nonna – da lontano – ci urlò: "Vergognatevi, zoticone poco di buono"».

    Mi venne quasi da ridere, ma studiando il volto di Michael mi passò la voglia. Mi analizzava in un modo tutto fuorché solare, con il naso e le labbra contratte in espressioni di schifo.

    «Vi ha detto così?».

    «Oh, sì!», annuii ridacchiando. «Io la prendo con leggerezza, tanto ormai quel che fatto è fatto». Michael aprì la bocca ma non disse nulla. «Ma ne ha fatte di peggio, molto peggio! Per esempio... uhm, ci fu un compleanno... andai a farle visita come di consueto e mi vestii tutta carina per lei, sai, per fare colpo. Avevo quasi dieci anni. Be’, indovina cosa mi disse?»

    Abbassò lo sguardo con aria pensosa. Mi puntò con incertezza. «Che eri vestita malissimo?»

    Risi di cuore, portandomi una mano sulla pancia.

    Negai con il capo. «No, molto peggio! La prima cosa che disse davanti a tutti fu: "Mio Dio, Sarah, sei ingrassata! Ma quanto mangi? Ti credo che non hai nessun amico, ancor meno un fidanzato!"».

    L'espressione di Michael era lo specchio della severità. In un primo momento pensai che non mi credesse; batté le palpebre a vuoto nella vana speranza che gli confermassi che la mia era soltanto una battuta. Quando comprese che non era così si stizzì notevolmente.

    «È spregevole. Come si può dire questo ad un bambino? Peggio se tuo nipote».

    I suoi occhi tradivano una scintilla di collera che non pensavo avrebbero provato. Mirò dritto di fronte a sé tenendo le mascelle serrate.

    «Non succedeva solo a me, ma anche a tutti gli altri nipoti. Ad eccezione di uno. Cercava il punto debole di tutti e poi sparava a zero senza badare alle conseguenze delle sue azioni».

    «Non ci posso credere. Per me è inconcepibile», era scioccato e adirato insieme.

    Sospirai pesantemente. «Il mondo è pieno di stupidi. La cosa peggiore? Nessuno disse mai niente per zittirla. L'unica che difendeva me e i miei cugini a spada tratta era proprio mia madre. A discapito di tutto posso confermarti che avevo un carattere davvero tosto e che non mi abbattevo per così poco. Purtroppo non tutti hanno la stessa personalità, c'è chi soffre di più e chi di meno».

    Michael si concentrò sui riflessi del lago per evitare di rispondere.

    «Il mio punto debole per lei era, evidentemente, il mio peso. Non che soffrissi di obesità, però all'epoca ero decisamente sovrappeso. Così mia nonna infilzava il coltello nella piaga molto volentieri».

    Michael era imperscrutabile.

    «Che c'è?», esclamai sghignazzando. Gli detti una lieve gomitata sul braccio. «Non sono morta, sono viva e vegeta e sto bene! Non ho nulla di grave come vedi». Mi guardai da capo a piedi. «Ero – e sono ancora – un po' in carne, ma non mi pesa più di tanto! Non ho una grande autostima, certo, ma non mi penso affatto insignificante come cercava di farmi credere che fossi! Quindi le sue cattiverie non hanno alcun effetto su di me!», scoccai la lingua al palato.

    Scosse la testa gioendo del mio tono buffo.

    «Sei fantastica, lo sai?»

    Lo osservai senza dire una parola. Michael si perse nei miei tratti.

    «Sei molto più forte di quanto credi».

    Sorrisi. «Sei gentile».

    «Dico davvero, Sarah». Il tono era basso e fermo. Cominciai a sentirmi in imbarazzo e perciò distolsi gli occhi dai suoi, infilando le mani nelle aperture laterali della felpa. «Solo una persona coraggiosa avrebbe superato queste situazioni mantenendo la sua personalità intatta. Non hai perso la tua innocenza e la tua bontà. Questo è l'essenziale. Non sottovalutarlo».

    Arrossii cercando di non tremare per la dolcezza delle sue parole. Osservai il lago distrattamente.

    La mente si svuotò da ogni pensiero, lasciando che le parole di Michael rimbombassero in testa fino a quando non le avrei ricordate a memoria.

    *

    Rimanemmo fuori fino a mezzanotte.

    Con calma ci alzammo dalla panchina e ci dirigemmo verso la piscina continuando a parlare ininterrottamente. Michael mi raccontò della sua infanzia, della fama, dei suoi successi e dei suoi insuccessi. Mi spiegò della Motown, dei numerosi album, dei concerti, dei fratelli e del padre violento.

    «Non immaginavo che vi picchiasse...», mormorai incupita.

    Sorrise amaramente, accarezzandomi la nuca. «Già... mi ha fatto male, ma io ero forte. Ho protestato, sai? Ero l'unico che cercava sempre di scampare alle sue botte».

    Increspai fronte e bocca. «Però te le beccavi lo stesso, forse anche più duramente degli altri».

    Joe Jackson, il padre di Michael e dei suoi otto fratelli e sorelle, fu il vero ideatore dei Jackson 5, il piccolo gruppo musicale il cui leader e figura principale fu proprio Michael stesso. Questo segnò l’inizio della carriera di Jackson, che proseguì per ben più di quarant’anni.

    Michael era un prodigio, un bambino dalla voce bianca, talentuoso sia nel canto che nel ballo. L’arte faceva parte di lui, era un dono naturale. Risplendeva di luce propria. Fu il suo dovere di cantante ed entertainer che lo portò a non avere una vera e propria infanzia, dedicandosi solo ed esclusivamente al lavoro per obbligo del padre. Quest’ultimo era severo, quasi al limite del crudele, e più di una volta non si era fatto problemi ad usare la cintura o minacciarli con questa durante le prove. Ambiva alla perfezione e al successo, quello che a lui non era stato concesso in gioventù.

    Anche se Michael ostentava positività e perdono in presenza mia o del mondo, quando ne parlava i suoi occhi si svuotavano da ogni sentimento felice.

    «Certo, le conseguenze per le mie azioni erano tremende... ma non si può tornare indietro, Sarah», si guardò le punte dei piedi. «Forse tutto ciò che ho vissuto ne è valsa la pena... è una cosa che mi chiedo sempre, fino allo sfinimento».

    Mollò la presa sulla mia nuca con aria assente.

    «Joseph non è mai stato un uomo affettuoso, è questo che mi è sempre mancato. Ho pianto e sofferto e non ero l'unico. Mancava a tutti i miei fratelli e le mie sorelle. Avere un padre gentile pronto ad amarci, abbracciarci e giocare con noi sarebbe stato magnifico. Ma forse è stato grazie a quello che ora voglio essere un padre diverso da ciò che era Joseph. Forse, se avessi vissuto esperienze diverse, non sarei stato così sensibile nei confronti dei bambini e dei miei figli».

    Guardai il sentiero debolmente illuminato. Michael mi camminava vicinissimo. Incrociai le braccia al petto, sospirando.

    «Posso capirti, anche se in minima parte. Credo che tutti ci poniamo questa domanda una volta nella vita: “Sarei stata una persona diversa, se non avessi passato quello che ho passato?”. Magari anch’io sarei diventata una ragazza superficiale senza tutte le mie esperienze negative».

    «Non tutti sono così».

    «No, non tutti...», mi corressi. «Però le esperienze dolorose possono insegnare tanto - sempre che una persona sia disposta a imparare da queste».

    Senza accorgermene Michael fuggì verso una panchina cementata, proprio a due passi dall'entrata di casa. Vi si sedette con fare tranquillo e batté insistentemente una mano sul cemento, invitandomi ad andargli vicino. Eseguii l'ordine come una marionetta comandata dal suo burattinaio.

    «Sai chi sono gli unici che mi hanno sempre visto per quello che sono? I bambini», sussurrò guardando le stelle sopra di noi. «Loro mi hanno sempre accettato e non mi hanno mai trattato come una star».

    Sorrisi.

    «Hai presente quel senso di beatitudine che ti pervade quando sei soltanto te stesso? La tua anima vola leggera, il tempo e lo spazio non esistono più. Quella è l'emozione che provo stando con i bambini... con tutti i bambini». Si zittì un secondo per umettarsi il labbro inferiore e prendere fiato a pieni polmoni. «Loro sono la vera immagine di Dio».

    Rizzai la schiena imponendomi di non commuovermi.

    «Tu comprendi quello che sento?», chiese.

    Mi ammirava con insistenza.

    Annuii molto lentamente. «Ricordo un episodio molto, molto particolare, in cui percepii l'emozione di cui tu mi stai parlando ora. Avevo diciassette anni, era estate, ed ero andata ad una festa di matrimonio con i miei genitori. Stare con gli adulti mi innervosiva. Di punto in bianco mi sono alzata e sono andata dai bambini presenti alla festa. Feci amicizia in poco tempo. Erano tre: un maschietto di dieci anni, una femmina di sette e un bimbo di quattro. Giocai con loro tutto il pomeriggio correndo sul prato a piedi nudi, saltando e ridendo come mai avevo fatto prima d’allora. Mi sentivo una di loro.

    Questo fatto è accaduto spesso nel corso degli anni a seguire; non riuscivo a capire come, ma i bambini erano sempre stati attirati dalla mia persona». Ridacchiai fra me e me. «Quando tornai a casa, quella sera, scoppiai a piangere. Piansi perché capivo che i bambini erano gli unici che mi facevano ricordare qualcosa che pensavo di dover perdere crescendo. Con quelli della mia età non mi trovavo bene, con gli adulti nemmeno, se non per qualche eccezione. Ero pervasa dalla stessa sensazione che tu hai descritto poco fa. Non riuscivo più a smettere di frignare, ma ero felice e finalmente avevo realizzato cosa volevo fare da grande: volevo stare con i bambini, semplicemente occuparmi di loro, giocare e soprattutto insegnare.

    È proprio questa esperienza di gioia e serenità che non mi ha mai permesso di abbandonare i miei sogni e le mie ambizioni, così come mi ha evitato spesso di sentire il vuoto della solitudine».

    Finii di gesticolare con occhi lucidi. Sorrisi nel tentativo di mascherare la mia commozione, ma non ebbi il coraggio di affrontare vis a vis la persona al mio fianco.

    Mi abbracciò improvvisamente.

    Mi lasciai andare senza opposizioni, non dopo un primo momento di sorpresa e rigidità.

    Percepivo il suo respiro fra i miei capelli mentre mi teneva il capo con una mano.

    «Possiedi un'anima bellissima, Sarah. Fossi stato uno di loro avrei fatto lo stesso: non ti avrei lasciata andare a casa facilmente».

    Una miriade di brividi inondò il corpo dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi. Non risposi, non ci riuscii, ma serrai le palpebre con forza, pervasa da un senso di gratitudine sconfinato.

    La presa durò poco. Quando si alzò in piedi, abbastanza frettolosamente a dire il vero, mi porse la mano per aiutarmi a tirarmi su. I suoi occhi brillavano come non mai, ma puntava altrove. Sembrava commosso.

    «Vieni, è ora di andare a dormire... immagino che tu sia stanca».

    «Un po’, ma posso resistere», mugugnai.

    Ridacchiò e scosse il capo.

    «No, per oggi hai resistito anche troppo. Domani è un altro giorno».

    Dovevo sperare mi avrebbe richiesto un'altra passeggiata?

    Uno di fianco all'altro ci incamminammo verso l'entrata di casa. Fu un tragitto silenzioso ma pacifico. Aprimmo la porta pianissimo, mi fece entrare per prima e la serrò chiudendola a chiave per ben due volte. Attesi che si togliesse la giacca per ridargli la felpa. M'osservò per tutto il tempo in cui me la sfilai.

    Quando gliela ritornai restò momentaneamente impalato a fissarla. Poi mi scrutò.

    «Grazie per la passeggiata, mi ha fatto bene parlare», sussurrai con la serenità dipinta nel cuore e nel viso.

    Ricambiò con espressione quasi severa. «No, grazie a te».

    Si accostò e con lentezza mi premette le labbra sulla fronte. Erano morbide, gentili, ma la forza con cui le adagiò sulla pelle – in quel momento – aveva qualcosa di... di strano, in senso positivo.

    Con i polpastrelli mi accarezzò i capelli e sospirò appena quando interruppe il contatto.

    Mi ci volle qualche secondo affinché potessi riprendermi e respirare. Sentire il suo calore era come sentire il sangue incendiarsi.

    «Buonanotte Sarah».

    Cercai di mantenere un tono calmo, cosa che mi riuscì abbastanza bene. «Notte...»

    Mi allontanai senza guardarlo e pettinandomi i capelli di lato. Tentai di non abbassare lo sguardo sui miei piedi. Accorsi verso le scale.

    «Ti voglio bene», lo sentii dire con voce più alta.

    Mi voltai. Mi stava guardando con il suo solito cipiglio imperscrutabile.

    Arrossii, sorridendo. «Anche io, Michael».

    Salii la rampa di scale. Percorsi il corridoio e mi chiusi in camera con la mente disordinata e offuscata dalle emozioni. Non sapevo cosa diavolo mi stesse succedendo, ma di una cosa ero certa: Michael cominciava a piacermi sul serio, molto più del dovuto e del necessario.



    Edited by fallagain - 16/1/2021, 12:26
     
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    Il giorno seguente fu una domenica abbastanza umida, con un cielo coperto da soffici nuvole grigiastre. La mattina, a colazione, Michael mi prese da parte, lontano dalle orecchie dei figli, e mi chiese se non fosse il caso che mi svagassi un po' altrove.

    Lo guardai confusa. «Cosa?»

    «Sono preoccupato», mi studiò con apprensione. «Non voglio in alcun modo che tu ti senta prigioniera di questo posto. Nessuno dei miei dipendenti deve sentirsi costretto a restare qui tutti i giorni, soprattutto tu, altrimenti –»

    «Ma, Michael», dissi fra le risa, «io non mi sento prigioniera!». Arrossii. «A me piace stare qui... mi sento in pace».

    Mi puntò senza dire nulla, leggendo la verità attraverso il mio sguardo.

    «Insisto. È meglio che tu prenda una boccata d'aria». Non avevo mai visto i suoi occhi così insistenti come in quel momento. «Non rinunciare alla tua libertà per questo posto. Per quanto bello e pacifico possa sembrare, ascolta il mio consiglio».

    E così feci. Assentii mal volentieri e dopo aver salutato i bambini mi cambiai e uscii da Neverland verso qualche ignota direzione.

    Michael voleva che non mi sentissi una reclusa. Se fosse stato lui al mio posto non avrebbe esitato a fuggire di lì; sarebbe scappato, avrebbe viaggiato lontano da ogni cosa che riguardava il "Michael Jackson" cantante e uomo di business famoso in tutto il mondo... da quel ruolo che, in un momento tanto duro della sua vita, era un vero e proprio cappio al collo. La sua era una maniera come un'altra per proteggermi e, al contempo, per vivere la sua libertà attraverso gli occhi altrui in un modo assai complicato da intuire.

    Decisi di recarmi in biblioteca e restituire tutti i libri che avevo preso in prestito quasi un mese prima. Ne scelsi uno nuovo che si chiamava The Bronze Horseman, in italiano Il cavaliere d'inverno.

    Poi, visto che si era già fatto mezzogiorno, pranzai in un ristorante fuori Santa Barbara, verso l'autostrada che portava a LA. Decisi di sostare in un parco a leggere e fare due passi in tranquillità, ma l'unico con un bel panorama vicino era in centro a Los Angeles, che distava almeno due ore da dove mi trovavo.

    Valutai il tempo a disposizione e, terminato il pranzo, decisi di fare quella pazzia - ma non dopo aver telefonato a mia madre, alla quale raccontai una balla bella e buona sul perché ieri avessi messo giù così in fretta e furia.

    Ritornai al ranch poco prima dell'orario di cena. Quando entrai in casa non vi erano né Michael né i bambini in giro, perciò decisi di farmi una bella doccia calda che mi togliesse di dosso quella fredda giornata inverno.

    Alle 18.30, puntuale come un orologio, scesi in sala da pranzo. I bambini stavano apparecchiando la tavola e nel vedermi mi sorrisero e mi vennero incontro. Mi trascinarono con loro per mano.

    «Oggi cucina papà!», disse Paris. «Lui cucina sempre quando non è troppo occupato, soprattutto durante il weekend!»

    Rimasi colpita da quelle parole, ma lo shock arrivò quando lo vidi arrivare dalla cucina con due piatti pieni di cibo e due visibili macchie di salsa sui vestiti, una sulla maglia e un'altra sui pantaloni. Mi venne da ridere perché ero esattamente come lui: mi sporcavo anche quando cucinavo il più semplice dei piatti.

    Quando mi vide mi sorrise, ma un appunto di malinconia gli incorniciò il viso.

    Il mio sorriso scemò di conseguenza e Michael fece finta di nulla, sorridendo ai suoi figli come se io non mi fossi accorta del suo malessere. Aiutai i bambini ad apparecchiare mentre Blanket giocava con le posate seduto sul suo immancabile seggiolino. Chiesi che cosa avesse cucinando lo chef quella sera.

    «Empanadas vegetariane, un piatto messicano», abbozzò un sorriso.

    «Oh...».

    Guardai la pietanza con curiosità. Vi erano tre porzioni per ogni piatto e il loro aspetto era decisamente invitante.

    Illusa.

    Michael sistemò un bavaglino azzurro di Blanket al collo. «Allora, pronti a mangiare?»

    I bambini annuirono veemente.

    Qualcosa non mi convinceva. Prince e Paris mi guardavano come se avessero architettato uno scherzo nei miei confronti. Michael invece era tranquillissimo, pur evitando di fissarmi per più di due secondi consecutivi. I miei occhi erano un vagare continuo tra i visi dei bambini e quello del padre.

    «Buon appetito!», esclamò Michael inforchettando alcune verdure dal piatto.

    Io e i bambini ricambiammo – perfino Blanket, facendo la sua parte con esilaranti urletti d'eccitazione – e infilai la posata in una empanada. Prince e Paris le presero agguantandole con le mani.

    Con tutta la spensieratezza che avevo li ignorai e assaggiai un pezzo

    Tre secondi e poi capii.

    Cazzo.

    Erano piccanti. Estremamente piccanti.

    Mi posi una mano davanti alle labbra e boccheggiai. La spalancai nel vano tentativo di respirare, indecisa se rallegrarmi per quello scherzetto bambinesco o seppellire le emozioni con nonchalance.

    Quei tre bambini – Prince, Paris e Michael incluso – esplosero in risate assordanti non appena colsero la mia espressione sconvolta.

    «Porcaccia... puttana!», sbottai in italiano.

    Avevo gli occhi strabordanti di lacrime e il viso rosso come un peperone. Le papille gustative erano andate a farsi benedire e la gola completamente a fuoco.

    Il cibo non era piccante... era troppo piccante, così tanto che credevo di aver mangiato un peperoncino intero!

    «Hai bisogno di acqua?», domandò Michael fra le risa.

    Lo fulminai arrabbiata e divertita assieme. Così facendo lo indussi ad abbandonare le posate sul tavolo e sganasciarsi letteralmente.

    Per non dargli gusto mi alzai e mi diressi in cucina con passo veloce. Ridevo, eccome se ridevo, ma dentro di me sentivo il dovere di fargliela pagare.

    Fra le lacrime presi un bicchiere dalla credenza, aprii il rubinetto e – dopo aver riempito il bicchiere completamente – inghiottii l'acqua in un sol colpo. Non sapevo che questa facesse peggio, perciò ingenuamente rifeci lo stesso procedimento una seconda e terza volta. Non mi voltai per vedere se gli altri tre mi stessero alle spalle: le loro esclamazioni di giubilo erano lontane alle mie orecchie.

    Solo dopo che ebbi bevuto un altro mezzo bicchiere e il mio stomaco si fu riempito di acqua, la mia gola smise di fumare. Lasciai il bicchiere sul lavabo e appoggiai tutto il peso sulle mani, le quali si stringevano forte al bordo del lavandino.

    Respirai a fondo. La sudorazione continuò ancora per molto.

    Chiusi gli occhi strizzandoli inutilmente. Percepivo le palpebre e il palato bruciare, ma non piangevo più.

    All'improvviso mi accorsi che le risa erano cessate.

    Due dita mi strinsero il maglioncino da dietro.

    «Sarah... ti senti bene?», era Paris.

    Tentai di non sghignazzare malvagiamente.

    Avrei potuto fingere una difficoltà respiratoria, un senso di vomito.

    La cosa mi sembrò inizialmente troppo crudele - li avrei spaventati a morte e per niente - ma volevo restituire il favore a colui che sicuramente aveva architettato ogni cosa. Alla fine optai per una reazione allergica.

    «No...», e, lentamente, appesantendo il fiato, iniziai la mia commedia.

    Mi morsi le labbra per non sorridere.

    Inspirai ed espirai con fatica esagerata. Mi sentivo ridicola, troppo, ma se il mio trucco avesse funzionato mi sarei data un Oscar prima di iniziare la mia carriera di futura attrice.

    «Sarah», Michael si avvicinò impercettibilmente. Per poco temetti che avesse scoperto la verità. «Cosa ti senti?»

    Sospirai a fatica e addentai l'interno guancia con forza.

    «Sono allergica al peperoncino...», biascicai incrinando la voce, cosa che pensai non mi fosse riuscita per nulla. «Non è la prima volta che mi succede...»

    Mi bloccai prima che fossi colta da uno spasmo di risata. Nascosi il viso fra le mani e mi piegai verso il lavandino. Soffocai quelli che parevano gemiti affannosi, quando in realtà stavo ridendo come una pazza.

    «Scusaci, io non... non lo sapevamo...».

    Pareva sul punto di chiamare il pronto soccorso.

    «Vuoi un po' di latte?», disse Prince che nel frattempo mi si era accostato silenziosamente.

    Annuii.

    Michael mi si pose a fianco con il piccolo Blanket in braccio che borbottava nervoso. Con i polpastrelli mi sfiorò i capelli, scostandomeli dalla faccia con delicatezza. Rabbrividii appena.

    Tutti mi osservavano muti come pesci, spaventati a morte.

    «Vuoi che chiami aiuto?», Michael si avvicinò così tanto che potevo sentire il suo respiro sul collo.

    «Credo che sia troppo tardi», indietreggiai e tolsi le mani dalla faccia. Li guardai e loro ricambiarono preoccupati. Ero serissima e fintamente provata. Esplosi in una risata allegra. «Perché vi ho giocato! HA

    Alzai le braccia in aria e risi del loro sbigottimento, osservando le loro espressioni che, sconvolte, parevano aver visto un fantasma. Alzai le sopracciglia con aria saccente e poggiai le nocche sui fianchi, guardando tutti con il fare di chi aveva appena conquistato un traguardo importante.

    Sogghignai in faccia a Michael, il quale non sapeva che rispondere. Era immobile come una statua di gesso. Non gli piaceva essere giocato e non gli piaceva che mandassero a monte uno scherzo ripuntando sulle sue stesse carte.

    «Ma nooo, non è giusto!», Prince pestò i piedi a terra con atteggiamento sconsolato, guardando il papà con labbra imbronciate. «Ci ha preso in giro!»

    Prima che Michael potesse parlare lo corressi. «No, Prince, sono stata veramente male quando ho mangiato quella roba. Ma mi è sembrato giusto ritornarvi lo scherzetto!», feci spallucce e gli feci l'occhiolino legando le mani dietro la schiena, dondolando sul posto.

    Prince sorrise mostrandomi i denti. Paris sbuffò amareggiata.

    Alzai un sopracciglio in direzione di Michael.

    Curvò lo sguardo a terra e scosse la testa, accennando un ghigno furbescamente compiaciuto. Poi scrutò i bambini con atteggiamento tutt'altro che rassicurante, stringendo meglio Blanket fra le braccia.

    «Stavolta siamo pari...», mi venne accanto spavaldamente, gonfiando il petto. «Ma io vinco sempre».

    Risi sarcasticamente. «Non credo proprio!».

    «No?», inarcò la fronte.

    Prince e Paris si avviarono in sala da pranzo parlottando indignati e affamati.

    Io e Michael rimanemmo da soli. Ci squadrammo senza dire nulla, sfidandoci con gli occhi. Michael sorrise malizioso.

    «Quando voglio una cosa la ottengo sempre». Mi regalò un'occhiata da capo a piedi. Qualcosa cambiò nei suoi occhi. Mi sorpassò, si umettò il labbro inferiore e mi indicò con l'indice. «Io non perdo mai, ricordalo».

    E se ne andò lasciandomi lì come pietra.

    *

    Quella sera mangiai poco a causa della gola ancora infiammata. Dopodiché la famiglia Jackson mi invitò a giocare a Monopoli in salotto.

    Non riuscimmo a completare neanche una partita. Michael e Prince risultavano i più abili, due imprenditori veri e propri, mentre io e Paris tutto il contrario. Dopodiché Michael mi prese nuovamente da parte, inducendo gli altri due ad andare in camera. Blanket dormiva già alla grande fra le sue braccia.

    «Ti sei divertita oggi?», mi chiese flebilmente, tenendomi con dolcezza un braccio prima che potessi sfuggirgli dalle mani e salire le scale.

    Lo guardai inizialmente spaesata, ma poi dissi: «Sì, diciamo di sì... sono andata a fare una passeggiata a Hollenbeck Park, mi sono dedicata alla lettura di un libro... sono quasi arrivata ad un quarto, ed è tanto, considerando che è una cosa enorme!», sottolineai con spiritosa enfasi.

    Ridacchiò e mi spettinò i capelli.

    Non disse nulla, sorrise e basta: mi baciò sulla tempia sinistra e risalì le scale senza continuare il discorso, lasciandomi immobile come una scema per la seconda volta.

    Si girò solo quando vide che non lo stavo seguendo. Non riuscivo a muovermi.

    Quando capì che non avrei fatto un passo in sua direzione, sghignazzò tentando di nascondere l'amarezza. «Buonanotte, Sarah... e ricorda di non leggere troppo, potresti trasformarti in un topo da biblioteca».

    Alzai un sopracciglio, godendo della sua risata e osservandolo svanire da oltre le scale.

    *

    La settimana seguente scorse tranquillamente.

    I bambini facevano progressi a vista d'occhio ed erano sempre attenti alle mie lezioni. Finita la scuola ci ritrovavamo con Michael e giocavamo, leggevamo storie o guardavamo cartoni. Alcuni pomeriggi andavamo in giardino ma il padre, poco dopo, ci incitava a rientrare per evitare il freddo. Grace si presentava solo qualche ora della giornata, magari quando Michael non c'era per lavoro o impegni imprevisti.

    Era una routine che apprezzavo nonostante il mio carattere piuttosto tranquillo e spesso asociale.

    Tutto scorse pacifico fino a quel venerdì pomeriggio, quando Prince dette segno di stare poco bene.

    Nel bel mezzo della lezione i suoi occhi si velarono di una patina di stanchezza. Temetti che non stesse capendo nulla di ciò che gli stessi spiegando, ma quando notai che anche ripetendo più e più volte il concetto risultava parecchio confuso, gli misi una mano sulla fronte e attorno al polso per sentire la febbre. Prince non protestò. Scottava.

    «Paris», la chiamai mirando il fratello, «va’ ad avvertire tuo padre che Prince non sta molto bene. Digli che è urgente».

    «Corro!», esclamò guizzando via come un fulmine.

    Mi sedetti sulla sedia accanto al bambino e gli accarezzai la mano. «Come ti senti?»

    «Male...», mormorò con voce rotta da quello che credetti fosse l’inizio di un raffreddore. «Non capisco nulla... mi gira la testa e mi viene da vomitare... io odio vomitare, sento che fra poco succederà... non mi piace...»

    «Senti il naso chiuso? Mal di gola?»

    «No...», mugugnò chinando il mento al petto.

    «Vieni qui», dissi battendo i palmi sulle cosce. «Ti tengo in braccio fintanto che aspettiamo il tuo papà. Vedrai che non vomiterai... andrà tutto bene, non ti preoccupare», e gli baciai una tempia non appena si fu seduto sulle mie ginocchia, nuca adagiata sul mio seno.

    Tremava come una foglia.

    Gli sfiorai i capelli biondi e lo tenni al caldo ignorando il fatto che avrei potuto ammalarmi anch'io.

    Comprendevo quando diceva di non voler vomitare. Io ne ero terrorizzata. Era una fobia vera e propria, lo avevo letto da qualche parte! Mi venne da sorridere pensando a quella assomiglianza di carattere.

    La porta si aprì di botto e comparve un Michael sottilmente preoccupato. Guardò prima suo figlio e poi me, poi di nuovo Prince. Ci venne accanto e lo prese in braccio.

    «Come stai?», sussurrò poggiando le labbra sulla sua fronte.

    «Sto per morire, papà...».

    Trattenni un risolino intenerito.

    «Andiamo a letto».

    Michael mi osservò con dolcezza.

    «Grazie...».

    Sorrisi.

    Quando Michael e Prince uscirono lasciando la porta spalancata, io e Paris ci guardammo. Ci capimmo all'istante.

    «Finiamo la lezione e poi giochiamo io, te e Blanket, ok?».

    Annuì e un'ora più tardi andammo a far merenda.

    *

    Quando Paris si stufò di guardare un film alla Tv – poco prima di cena – decise di andarsene in camera. Con Blanket sempre avvinghiato al mio petto le chiesi se volesse compagnia o avesse bisogno di qualcosa, ma Paris scosse la testa. Disse che si sarebbe messa il pigiama e che non aveva alcuna doccia da fare. Percepii il suo bisogno di essere più autosufficiente possibile in assenza del padre e del fratello maggiore.

    Blanket, invece, voleva ancora giocare in salotto. Gli feci piacevolmente compagnia e Michael sbucò da oltre il corridoio un quarto d'ora più tardi.

    «Ciao Sarah».

    «Ciao...», mi alzai in piedi. Scoccai una breve occhiata a Blanket seduto sul tappetto e ai supereroi stretti fra le sue piccole dita. «Prince come sta?»

    Evitò il mio sguardo bagnandosi le labbra. «Non tanto bene... anzi, per niente affatto bene. Sta cercando di evitare il vomito, la febbre sale a dismisura. Ormai ha raggiunto i trent'otto gradi e...». Sospirò trascinando una mano fra i capelli. «Sono preoccupato. Ho telefonato al medico e dice che ora è fuori città, con la famiglia. Riuscirà ad essere qui soltanto domani mattina. Pensa che sia un virus...»

    Gli andai incontro. «Andrà tutto bene, vedrai. Sono sicura che non è niente di grave. Tu potresti intanto bagnarlo con delle fasce impregnate d'acqua. Potrebbero essere utili al momento...»

    «Gliele sto andando a preparare», espirò adocchiando il figlio più piccolo. «Purtroppo ho lasciato il weekend libero a Grace...».

    Come già ho anticipato Grace non rimaneva spesso in famiglia. Arrivava e partiva a periodi, solitamente quando Michael aveva giornate piene di impegni uno dietro l'altro.

    «Vuoi che mi occupi io di Paris e Blanket?».

    «Te lo volevo proprio chiedere. Credo che sia meglio che io mi occupi di Prince... non ti farei carico di questo se non fosse urgente...».

    Mi guardava di sottecchi e capii che voleva evitare di chiamare la tata.

    «Non farlo, ci sono io». Sorrisi. «Non vedo il caso di chiamarla ora. Posso farcela, stai tranquillo».

    Mi regalò uno sguardo di sollievo e gratitudine. «Ti ringrazio, Sarah. Non so cosa farei senza di te, qui», mi puntò intensamente.

    «Non mi devi ringraziare», gli accarezzai un braccio per rassicurarlo.

    Squadrò la mia mano passando la lingua sulle labbra. Gli occhi fletterono verso il mio viso e, piegandosi leggermente in avanti con il busto, mi baciò la fronte.

    «Ti voglio bene».

    Fui circondata dai brividi. Abbassai le palpebre sugli occhi per godermi il momento e un attimo dopo scomparve dalla mia vista come un alito di vento.

    Io, Paris e Blanket aiutammo la cuoca di famiglia a cucinare ciò che potemmo. L'aiutammo anche a lavare i piatti e a sparecchiare la tavola, lasciando un po' di brodo in pentola nel caso in cui Prince e Michael avrebbero voluto cenare con qualcosa più tardi. Poi ci salutò e si congedò anche lei.

    Quella sera non riuscimmo a far addormentare Blanket facilmente. Piangeva e faceva i capricci dimenandosi come un pazzo. Paris e io provammo anche a canticchiare qualcosa insieme, facendolo divertire, ma neanche in quel modo riuscì a placare i nervi.

    «Quando fa così di solito vuole papà...», sbuffò Paris con esasperazione.

    Meditai.

    «Secondo te se suono qualcosa al pianoforte riesco a calmarlo?»

    «Una ninna nanna?», s'illuminò.

    Annuii. «Potrebbe funzionare. Sperando di non svegliare Prince...»

    E così andammo in salotto cercando di fare meno rumore possibile. In un angolo all'estremo della stanza vi era un grande pianoforte nero lucido. Non appena lo vedevo impazzivo dalla voglia di suonarlo: quel giorno ebbi finalmente l'opportunità di farlo.

    Paris si avvicinò al piano trascinando una poltrona grazie al mio aiuto. Quando si sedette le consegnai il fratello in braccio. Blanket mi adocchiava con aria incuriosita e le lacrime agli occhi, fronte un po' contratta dalla confusione e dalla rabbia repressa. Posai le mani suoi tasti bianchi e neri e feci un po' di riscaldamento, riflettendo su cosa potessi suonare per farlo stare meglio.

    «Conosci una canzone che potrebbe piacergli? Di un cartone, magari?»

    «Mmh...» mugugnò Paris stringendo il fratello che si allungava per raggiungere il piano. «Lui ascolta tutto, non fa differenze...»

    Sorrisi. Effettivamente non aveva torto. Blanket aveva solo un anno e mezzo, quasi due ormai.

    «Allora suoneremo un po' di tutto, vediamo se crolla. Tienilo stretto, così... perfetto... cominciamo con...»

    Il Gobbo di Notre Dame, il mio film Disney preferito in assoluto. Se dovevo fare un medley dovevo iniziare con stile.

    Chiusi gli occhi e mi lasciai andare. Aprii il cuore alla melodia che si innalzava sotto la pressione dei polpastrelli. Le immagini del film mi passarono davanti proprio come se lo stessi guardando in quel momento. Avevo pianto tantissime volte per quel cartone, così tante che ormai avevo perso il conto, e lo conoscevo praticamente a memoria.

    Successivamente transitai alla canzone A Whole New World di Aladdin, Part Of Your World de La Sirenetta, Reflection di Mulan e tante altre della Disney, fra cui Hercules, Il Re Leone, La Bella e la Bestia, Tarzan e Pocahontas.

    Quando terminai quel piccolo "concerto privato" aprii gli occhi e gettai uno sguardo ai bambini. Soffocai una risatina. Paris e Blanket si erano addormentati come sassi.

    Tolsi Blanket dalla ferrea stretta di Paris, facendo attenzione a non svegliare nessuno dei due. Lo portai in camera e successivamente tornai giù a prendere la piccola. Quando la presi in braccio si destò un poco, ma crollò definitivamente non appena l’adagiai sul suo lettino caldo e la avvolsi nelle coperte. Detti un bacio ad ognuno di loro e, seguendo lo stesso metodo che utilizzavano anche Michael e Grace, posi un Walkie Talkie vicino alla culla di Blanket e un altro me lo portai appresso, in cucina, dove rimasi accanto al lavello per dieci minuti abbondanti fissando il rubinetto chiuso.

    Il mio istinto mi diceva di aiutare Michael.

    Battei un piede a terra parlottando fra me e me fino a quando non ricordai un vecchio metodo naturale che utilizzavo sempre contro il vomito e le influenze: la limonata calda.

    Frugai nei ripiani in basso alla ricerca di un pentolino di piccola-media grandezza. Lo riempii d'acqua e lo misi a scaldare sul fornello a gas. Dopodiché aprii il frigo alla ricerca di un limone e di un pezzo di zenzero. Tolsi la buccia ad entrambi e li tagliai a spicchi. Quando l'acqua iniziò a bollire versai ogni cosa – limone tagliato, un cucchiaino di zenzero e anche una stecca di cannella per addolcire il tutto.

    Il dubbio cominciò a insinuarsi nella testa: dov'era lo zucchero? Lo avevo sempre visto sulla tavola o vicino al lavandino. Era praticamente sparito uno degli ingredienti fondamentali della limonata.

    Curiosai nei cassetti più alti.

    Feci per aprire un secondo ripiano ma, all’improvviso, un paio di dita affondarono nella carne del fianco destro facendomi sobbalzare di brutto. Reagendo avevo spalancato l'anta con violenza udendo un forte "stock" alla mia destra.

    Percependo le dita nella carne avevo tentato di urlare, ma ero stata bloccata da un grande palmo che aveva soffocato il mio gemito spaventato.

    Ovviamente quella beffa era opera di Michael.

    «Ouch... mi sa che devo evitare questi scherzi quando ci sono cose in giro che potrebbero farmi male...», sussurrò indietreggiando e mollando la presa sulla mia bocca e sulla mia vita, ridacchiando senza divertimento.

    Mi voltai e vidi che si stava massaggiando la fronte: si era preso una bella botta in testa, grazie a Dio evitando il bordo spigoloso dell'anta. La sua faccia mentre si toccava il punto dolente era così buffa – un miscuglio fra sofferenza e spento entusiasmo – che mi dovette rimettere la mano in viso per contenere la mia risata.

    «Shhh!», sussurrò ridacchiando e spalancando le palpebre. «Ti sentiranno se continui così! Vuoi che ti soffochi?»

    Mi liberò comunque.

    «Sei tu che mi fai ridere, fai quelle facce...!», dissi con il tipico sorrisino di chi si vuole contenere forzatamente.

    «Io?», si finse scioccato. «Mi dai anche la colpa?»

    «Dai...», scemo, «devo preparare...»

    «Cosa?»

    Arrossii. «Una limonata calda per Prince... be’, una specie. È una ricetta di mia nonna, quella famosa di cui ti parlo sempre. Sai, lei era una strega. E questo è un ottimo rimedio per digerire e far passare la nausea. Potrebbe non farlo vomitare».

    «Devo fidarmi?», chiese ironico. Lo linciai e lui ridacchiò abbassando il capo. «Comunque è un po' tardi...»

    Strabuzzai gli occhi. «Ha già...?»

    Annuì. Stirò un sorriso apparentemente pacato.

    «Tre volte ormai».

    Sospirai impensierita.

    «Sono preoccupato» bisbigliò sovrappensiero, «la febbre sta lentamente aumentando, varia tra i 38° e i 39°. Gli fanno male tutte le ossa... non so proprio dove l'abbia presa. Magari al parco pubblico con Grace, qualche giorno fa...».


    Sentivo che aveva bisogno di rassicurazioni.

    «Non ti devi sentire in colpa, Michael», mormorai comprensiva. «Può capitare a tutti, anche ai più sani. Guarda, io da piccola non uscivo molto spesso eppure mi ammalavo sempre! Basta poco».

    Michael mi puntò indulgente. «Dici?»

    «Di solito influenze come queste se ne vanno nel giro di tre o quattro giorni, sì».

    Inspirò profondamente. Dette la schiena al lavabo buttando il peso all'indietro e tenendosi al ripiano con le mani. Non si era ancora messo il pigiama: indossava pantaloni di tuta nera e una camicia di flanella nera e azzurra. I capelli, tuttavia, erano più disordinati del solito.

    «Me lo auguro. È sempre stato molto fragile, fin da quando è nato. Si ammala spesso».

    Nessuno dei due parlò per qualche istante. Continuai a scrutare l'acqua del pentolino e spensi il gas con un giro di leva, osservando il fumo salire e formare scie grigiastre come le fiamme di un minuscolo falò. Michael mi si accostò all'orecchio, silenzioso e scaltro come un felino.

    «Perché cercavi in mezzo ai cassetti, topolino curioso? Stavi cercando di svaligiare la cucina di soppiatto, in assenza del padrone di casa? Oh, anzi... ho capito! Stai cercando il forziere fantasma pieno di galeoni che ho nascosto... mi dispiace, qui non lo troverai mai».

    Era così vicino che sentivo il suo petto sfiorarmi il braccio. Profumava di dopobarba. Il suo basso e caldo sussurro fu come una scossa elettrica lungo la colonna vertebrale.

    Lo sgridai con una smorfia indefinita. Mostrò i denti con espressione sghemba e sicura.

    Gli risposi che non riuscivo a trovare lo zucchero. Mi mostrò dove lo avesse riposto e me lo consegnò.

    «Vado da Prince intanto che finisci qui...», mi fissò attentamente.

    Assentii. Mi dette le spalle e lo seguii con gli occhi pensando che non si sarebbe voltato, ma fu proprio l'occasione in cui lo fece. Colta sul fatto, le gote assunsero un colore rossastro e colpevole. Mi squadrò con un debole riso.

    «Non metterci troppo».

    Quando stette per fare un passo in avanti si immobilizzò per la seconda volta. Mi spiegò dove si trovasse la sua stanza.


    Pensavo che fosse una delle due camere accanto alla sala giochi, invece mi indicò tutt'altra direzione.1


    Annuii l'ennesima volta e lo ringraziai.

    *

    Bussai alla porta temendo di svegliare un Prince appena addormentato.

    Attesi con la tazza fumante di limonata in una mano e il Walkie Talkie nell'altra.

    Dieci secondi più tardi la porta si aprì con un cigolio sottile.

    Il volto di Michael si sporse dall'uscio facendo intravedere la fioca luce della stanza. Mi sorrise con fare spossato.

    Pareva che fossero passate ore dal nostro ultimo incontro in cucina, ore in cui sembrava aver fatto la notte in bianco.

    Guardò la tazza fra le dita e si scostò dall'entrata per lasciarmi passare.

    Non disse nulla e io neppure: gli lanciai soltanto un debole sorriso di rimando sperando che la mia presenza, quella che prima lo aveva rincuorato, non gli avrebbe dato fastidio.

    La camera era quasi del tutto avvolta dall'oscurità. L'unica fonte di luminosità proveniva da una lampada adagiata sotto il comodino. Non era una grande stanza come mi aspettavo che fosse, a discapito del letto che governava su tutto con la sua immensità.

    Non detti molta attenzione a ciò che mi circondava, poiché il mio sguardo fu subito rapito da Prince: se ne stava disteso sul fianco destro, rannicchiato su se stesso sul grande materasso a due piazze e mezza. Quel lettone lo faceva apparire ancor più piccino. Le coperte erano tre e spessissime; lo coprivano fino al mento e – steso sul cuscino – vi era un asciugamano bianco, dedussi nel caso avesse avuto l'immediato istinto di rimettere ancora.

    Mi avvicinai.

    Era pallido come un cencio, con gli occhi arrossati e socchiusi dalla febbre. Respirava affannosamente e la sua espressione descriveva a pieno lo sforzo che faceva per non singhiozzare dalla paura.

    Solo quando si accorse della mia presenza s'irrigidì, pur senza muovere un muscolo.

    «Ehi...», sussurrai amorevolmente. Mi sedetti sul bordo del letto e gli accarezzai i capelli madidi di sudore. Michael mi prese il Walkie Talkie dalle dita e lo poggiò sopra al comodino.

    «Come ti senti?». Capii nello stesso istante in cui feci la domanda che non avrebbe avuto l'energia per rispondere. «Ti viene ancora da vomitare?»

    Il piccolo annuì con un fiacco movimento del capo senza smettere di fissarmi. Delle volte guardava il papà per vedere se fosse ancora con lui. Anch'io guardai Michael e capii che, sebbene non lo desse a vedere, stava impazzendo dentro.

    «Ti ho portato una medicina... una medicina speciale», cercai di tirarlo un po' su di morale con il mio tono misterioso. Mi scrutò curiosamente, a dispetto del suo stato fisico e mentale. «La mia cara nonna apprese questa ricetta da una Fata dei boschi, così mi disse. Anni dopo lo tramandò alla mia mamma, infine mia madre a me. Non è niente di terribile, anzi, penso proprio che ti piacerà!».

    Valutai la paura nel suo volto. Per un attimo non mi curai minimamente della presenza di Michael e del suo sguardo attento su di noi. Prince studiò la tazza che tenevo sulla coscia con fare diffidente.

    «Con... con cosa è fatta?», emise in un bisbiglio.

    «Oh, be’, non te lo posso dire...». Mi chinai verso Prince sussurrandogli all'orecchio: «Non tutti lo devono sapere. Appena guarito ti prometto che ti insegnerò l'incantesimo... ricorda, si utilizza solo nei casi di assoluta necessità», gli scoccai un bacetto sulla guancia.

    Abbozzò un sorriso affaticato.

    Lo aiutai a sedersi. Michael – che nel frattempo aveva raggiunto il lato opposto – cinse il figlio per il busto e mi aiutò a tenerlo in posizione mentre io gli sostenevo la nuca delicatamente. Sfiorai la fronte bollente del piccolo e Michael estrasse il termometro da sotto il pigiama. Mi lanciò un'occhiata eloquente.

    «Bevi questo ora» gli pettinai i capelli lontano dalla fronte. «Vedrai che ti sentirai meglio. Te lo prometto».

    «Vomiterò ancora?», sussurrò.

    Michael e io ci adocchiammo di sfuggita.

    «Se la magia ha effetto non succederà. Anche io come te ho il terrore di rimettere, sai? Mi parte un attacco d’ansia al solo pensiero. Questa pozione mi aiuta ogni volta, ma prima di berla bisogna fare una cosa...».

    «Cosa?»

    «Credere alla magia delle fate. E tu credi in loro, vero?», sfruttai il suo amore per Peter Pan in senso benevolo.

    Annuì con tutte le forze che aveva. Sorrisi di rimando.

    Fui io a dargli i primi cucchiai di limonata. Soffiai su ogni sorso e glieli porsi rispettando i suoi ritmi. Quando fece i primi assaggi storse i lineamenti del viso con dubbiosità; solo dopo qualche cucchiaio bevve di gusto, sempre più rapidamente, e dopo una decina di sorsi passai la palla a Michael.

    Mi chiesi come avesse fatto Michael, in tutti quegli anni, ad essere una mamma e un papà insieme in quel modo che gli veniva così squisitamente naturale e spontaneo, come se il compito della sua vita fosse sempre stato quello di essere padre.

    Il punto era proprio questo: Michael amava i bambini e in special modo i suoi figli con ogni molecola di sé, più della sua stessa vita; era dolce, affettuoso, per non parlare del suo senso di protezione smisurato. Tutti e tre rappresentavano il suo Sole.

    Ammiravo il coraggio, la forza e la passione che ci metteva per essere un bravo papà. Non sapevo quasi nulla della sua vita privata, eppure in quei momenti credevo di conoscerlo da sempre. Per Michael curarsi di loro da solo non era un dispiacere o un peso. Qualcosa mi diceva che, in parte, era ciò che aveva sempre voluto fin dal principio.

    Non era un papà comune, ma non gli si poteva negare che non fosse un papà speciale.

    Ad un certo punto, poco prima che finisse la limonata, Prince sbadigliò. Decisi che era tempo di congedarmi e, mentre il piccolo chiudeva gli occhi per il sonno, lo baciai sulla fronte asciugandogli il sudore con le dita. Gli sorrisi e guardai Michael di riflesso; mi analizzava con un'espressione di silenzioso e provato interesse.

    Con un cenno del capo indicai la porta, sillabando un "Vado" a fior di labbra.

    Michael allungò una mano, come se volesse tentarmi a rimanere.

    Si bagnò le labbra.

    Annuì mestamente. Feci lo stesso e, senza emettere un suono, uscii.

    *

    Mi recai in camera stanca ma non troppo assonnata per riuscire a prendere sonno. Afferrai Il cavaliere d'inverno e lessi qualche pagina in salone, stravaccata sul divano e con lo schioppettio del caminetto di sottofondo, ormai in procinto di spegnersi. Dopo una buona mezz'ora – anche tre quarti abbondanti – mi avviai in cucina per farmi una camomilla.

    Picchiettando le dita sul lavello persi lo sguardo fra le minuscole bollicine dell'acqua che bolliva a malapena. Pensai a Prince, a Michael, al sonno che non provavo affatto. Sperai anche che Michael mi raggiungesse prima o poi, ma subito mi pentii per quel mio pensiero egoista.

    Quando la speranza mi aveva abbandonato da un pezzo sentii un leggero buffetto sui fianchi.

    Sobbalzai.

    Voltai la testa all'indietro e scorsi la figura di Michael illuminata dalla semi oscurità della cucina. Il cuore fece un piccolo salto in gola.

    I lineamenti del suo viso erano incavati come poco prima. I capelli scompigliati e gli occhi sorridenti mostravano segni di spossatezza.

    «Ti spaventi con poco, uh?», mostrò i denti.

    Lo guardai senza dire nulla. Mi sentii in colpa per averlo desiderato al mio fianco, ma anche sottilmente entusiasta all'idea di averlo lì.

    Puntò la camomilla. «Non riesci a dormire?»

    Annuii e alzai la tazza vuota.

    «È la stessa che hai fatto per Prince?»

    «No», scossi la testa. «Camomilla». Pausa. «Prince ha bisogno di altra limonata? Ne è rimasta ancora un po'... posso scaldarla».

    «No, non ti preoccupare, sta molto meglio adesso», annunciò con sollievo. «Non gli viene più da vomitare e sta dormendo da mezz'ora... ma devo tenerlo sotto controllo. Sono andato a controllare anche Paris e Blanket. Almeno loro dormono come sassi», disse scuotendo il Walkie Talkie.

    Michael andò a sedersi su uno sgabello accanto al bancone. Mi fissò imperscrutabilmente e si passò la lingua sulle labbra sbattendo le palpebre con lentezza.

    Lo osservai visibilmente perplessa, incrociando le braccia al petto.

    Michael sorrise. «Aspetto che tu faccia la camomilla».

    «Ahhh», inarcai la fronte con aria di chi la sapeva lunga. «Ne vuoi anche tu?».

    Negò col capo. «No, non ti preoccupare, sono abituato a fare le ore piccole. Sto sveglio la maggior parte delle notti».

    Non chiesi il perché. Spensi il bollitore e versai l'acqua calda nella tazza inzuppando la busta di camomilla; il liquido trasparente iniziò ad assumere lievi sfumature ambrate.

    «Anni fa amavo stare sveglia tutta la notte. Ancora adesso se per questo, soprattutto d'estate», sghignazzai mescolando distrattamente. «Sono una tipa notturna».

    «Davvero?», sussurrò incuriosito. Assentii di risposta. «Allora potresti farmi compagnia», scrollò le spalle inclinandosi in avanti, palmi saldi sulle ginocchia.

    Gli scoccai un'occhiata incerta.

    «Intendi durante le vacanze natalizie?»

    «No, intendo quest'estate».

    «Ahhh...».

    Mi sentii una perfetta idiota quando lo udii ridacchiare.

    «Certo che intendo le vacanze di Natale, sciocchina!», esclamò dondolando sullo sgabello, sorridendo con l'espressione di chi sembrava godere un mondo per le sue malefatte.

    Storsi le labbra di tutta risposta.

    «Non torni in Italia per Natale?»

    Percepii un lieve dolore al petto.

    Non gli risposi e non lo cercai con lo sguardo. Quando portai la tazza bollente davanti alle labbra, soffiandoci sopra per non ustionarmi la lingua, notai che aveva un'aria completamente inespressiva.

    «Non ne ho idea. L'ultima volta che ho passato il Natale con la mia famiglia sarà stato... mmh, credo due anni fa. Il periodo migliore per raggiungerli è l'estate, così da festeggiare il compleanno di mio padre e mia madre insieme, però... direi che dovrei parlarne prima con loro».

    «Tu vuoi tornare?»

    Dalle mie iridi spente e dal mio respiro sommesso trapelò il dissenso.

    Michael mi regalò un sorriso dolce.

    «Forse sarebbe meglio se passassi il tuo tempo libero con loro. Il Natale è una festa importante. Ma sappi che, nel caso in cui dovessi o volessi rimanere a Neverland, non daresti alcun fastidio. Saresti la benvenuta».

    Annuii e bevvi il liquido caldo dalla tazza. La sua frase, "Forse sarebbe meglio se passassi il tuo tempo libero con loro", continuò ad offuscare anche il pensiero più lucido.

    Non volevo tornare in Italia ma cos'altro potevo fare? Festeggiare con i Jackson pur non essendo un membro della famiglia?

    Bevvi ancora qualche sorso di camomilla in totale silenzio.

    Sbuffò spazientito. «Potresti farmi un caffè?»

    Alzai gli occhi a rallentatore e lo congelai sul posto. Ovviamente non lo avrei mai fatto, non se utilizzava quel tono.

    Rise di gusto unendo le mani a coppa e reclinando il capo all'indietro. Sapevo che mi stava prendendo in giro volutamente.

    «Ci tieni proprio alle buone maniere, uh?», le sopracciglia scattarono verso l'alto.

    Assunsi la sua stessa faccia. «Si è notato?».

    «Molto».

    Ricambiò l'occhiata con un sorriso beffardo.

    «Mi piace molto questo lato del tuo carattere. Sei tosta».

    Sollevai un lembo della bocca. «Mi aiuta ad affrontare i miei momenti peggiori, soprattutto nel lavoro. C'è sempre qualcuno che se ti vede troppo buono pensa automaticamente che tu sia malleabile come pasta frolla. Sono sempre stata una testa calda. Anche a costo di rimanere sola, nonostante potessi soffrirne, non mi lasciavo comandare a bacchetta da nessuno. Mia madre dice che ho un carattere come il suo, “freddo come l'acciaio”». Trattenni una risata alla sua smorfia di dissenso. «Il mondo del lavoro è pieno di avvoltoi che non vedono l'ora di cibarsi dei tuoi fallimenti», mormorai con aria scettica e mi sedetti sullo sgabello in parte a Michael.

    «Bella questa metafora».

    «Grazie», sorrisi. «Me ne sono sentita dire di tutti i colori nel corso degli anni. Pensa, all'università alcuni cercarono di rovinarmi la reputazione e la mia futura carriera dandomi della...».

    Lo adocchiai espressivamente. Michael corrugò la fronte.

    «...della poco di buono».

    Michael strabuzzò gli occhi. Storse il naso con un lieve moto di disappunto.

    «Non c'era materia in cui non fossi brava. Difficilmente tesso le mie lodi da sola, ma su questo non ho mai avuto dubbi. C'era un professore in particolare che mi adorava. Era una persona molto importante e in breve tempo diventai la sua pupilla. Diceva che c'era qualcosa nel modo in cui mi atteggiavo e nel mio modo di pensare che mi rendeva unica nel mio genere. Il bello era che non mi sforzavo affatto per esserlo, cercavo soltanto di dare il meglio di me. Fu lui che mi consigliò alla figlia della signora Taylor... aveva i contatti giusti».

    Le ossidiane lucenti che aveva al posto degli occhi s'incatenarono alle mie, intimandomi a continuare silenziosamente. Pareva assetato dalle mie parole.

    «Ovviamente non "vendetti il mio corpo", mai. Avrei vissuto nel fallimento per tutta la vita piuttosto che fare quello per un po' di successo in più», esibii una miscela di emozioni schifate, piegando lo sguardo sui due centimetri di camomilla che mi rimanevano da bere. «Certi dissero in giro che ero una "poco di buono", invece quell'uomo fu il mio mentore; è vero, stravedeva per me, ma chi ero io per rifiutare i suoi insegnamenti e la sua protezione? Non era un uomo stupido, bensì una persona di grande cultura, con un'intelligenza e un vissuto incredibile alle spalle. Non ho mai capito dove vedesse la mia unicità, ma la mia stima e la mia gratitudine erano sincere.

    Non ho mai indietreggiato di fronte alle parole della gente. Non ho mai abbassato la testa allontanandomi da quello che era il mio obiettivo, soltanto per farle contente. Il loro comportamento era una maniera come un'altra per ordinarmi di essere una persona "mediocre". Essere mediocre non è sbagliato, ma obbligare gli altri ad esserlo per forza, questo è scorretto. Se tu non vuoi essere ambizioso o conosci i tuoi limiti o ti accontenti di quello che hai, è perfetto. È perfetto perché sei fedele a te stesso e conosci i tuoi bisogni, lo dico davvero. Ma la tua scelta non giustifica a odiare gli altri e buttarli in un fosso sperando che smettano di fare quello che vogliono. Più qualcuno mi attacca, più io continuo per la mia strada, imperterrita».

    Silenzio.

    «Sei una donna interessante», strinse le palpebre senza smettere di guardarmi. Ricambiai il suo stravagante complimento con un sorriso accennato che nascondeva tutta la mia reale euforia. «Potrei dire che mi assomigli».

    Risi. «So già che è così».

    «Così cosa?», distese la fronte.

    Si umettò la bocca con fare compiaciuto.

    Finii la camomilla in un sorso. Lo esaminai attentamente. «Non sei tipo da farsi comandare a bacchetta, lo si vede lontano un miglio. Certo, sei una persona molto educata e gentile, ma vuoi fare sempre quello che vuoi come vuoi. E secondo me sei anche un bastian contrario, ma non lo vuoi dare a vedere a nessuno. O meglio, sembra che tu non voglia mostrare al mondo che sei più intelligente di quello che la tua bontà fa apparire», mi morsi l'interno guancia poggiando i gomiti sul tavolo, abbandonando la tazza vuota sul legno.

    L'intensità dei suoi occhi fu come un getto di acqua bollente sulla pelle. Per un attimo credetti di essere rimasta folgorata da quello sguardo; esaminava le mie labbra con uno strano bagliore nelle iridi nere ed io, paralizzata da quelle attenzioni, non riuscivo neanche ad arrossire.

    Guardò davanti a sé soffocando un risolino.

    «Teoria davvero...»

    «... interessante?», dissi sorridendo.

    Piegò il mento e lo sguardo verso il basso e ridacchiò teneramente.

    Ci alzammo in piedi e risalimmo al primo piano, in direzione delle nostre rispettive camere da letto. All'incrocio dove le nostre strade si sarebbero separate mi scoccò un bacio sulla tempia sinistra inspirando a polmoni aperti.

    Anche quando gli detti la schiena continuò ad osservarmi, fino a quando non sparii oltre l'angolo del corridoio.

    *

    Il giorno seguente arrivò il medico per Prince. Michael accorse alla mia porta qualche minuto dopo che se ne fu andato, alle 9.30, svegliandomi di soprassalto nel bel mezzo del mio sonno profondo.

    Cercai di mostrarmi felice, gioiosa e soprattutto sveglia, ma purtroppo mi ci volle parecchio per destarmi e comportarmi da persona lucida.

    Che fosse per le occhiaie o per i capelli aggrovigliati dietro la nuca - o per il pulcino che ero nel mio gigantesco pigiama bianco macchiato di fiori rossi - Michael dovette trattenere una grassa risata per tutta la conversazione.

    Prince sarebbe guarito in pochi giorni. L'influenza non era grave e tutto sarebbe passato con l'aiuto di alcuni medicinali e tanto riposo a letto.

    Insieme decidemmo di fargli saltare le lezioni fino all’arrivo del prossimo semestre, dato che mancavano pochi giorni all'arrivo delle vacanze natalizie. Paris avrebbe continuato e solo dopo l'assegnazione dei compiti per le vacanze sarei partita per tornare al mio paese natio.

    Ma ero davvero obbligata a festeggiare il Natale in Italia?

    Li, nonostante ci fossero i miei genitori, avrei dovuto convivere di nuovo con il caos di una famiglia mezza pazza e fuori dal comune, sopportare le chiacchiere dei vicini logorroici e quelle che sicuramente sarebbero state le pedanti ramanzine di mia madre. Avrei dovuto abbandonare la tranquillità e la pace che mi trasmetteva la famiglia Jackson, i bambini che giocavano, Michael che mi coinvolgeva, mi sorrideva, mi fissava.

    Passarono i giorni e non ebbi più l’occasione di fare una bella chiacchierata con Michael. Con la visita del dottore ritornò anche Grace, con la promessa che avrebbe avuto la Vigilia e il Natale liberi, oltre che a qualche giorno di ferie in più non appena Prince si sarebbe rimesso.

    L'unico contatto che mi restava con Michael era il suo silenzio, mentre analizzava insistentemente me e i suoi figli dialogare e stringere un legame sempre più forte.

    *

    «Hai capito? C'è qualcosa che vorresti chiedermi?»

    Prince scosse la testa. «Ho capito. Sono solo questi i colpiti per le vacanze?», chiese trovando una posizione più comoda sul divano.

    Annuii.

    Mi adocchiò perplesso. «Perché ce ne dai così pochi?»

    «Vuoi che te ne aggiunga altri?» chiesi fingendo ingenuità. Lui scosse violentemente la testa sbarrando le palpebre ed io ridacchiai in tutta risposta. «Ve ne ho dati pochi perché entrambi avete fatto un magnifico lavoro. Ovviamente avete bisogno di tenervi in allenamento, ma queste sono vacanze... e tutti e due dovreste riposarvi e divertirvi per un paio di giorni!»

    Sorrise entusiasta.

    La febbre gli era scesa completamente. In compenso aveva un voltastomaco che faticava a smettere.

    Credetti che fosse Michael la causa del suo continuo starsene a letto tutto il giorno. Scendeva solo per mangiare o guardare un film dopo cena, avvolto in così tante coperte da sembrare un mini burrito dai capelli platinati.

    Era sabato 20 dicembre.

    In mattinata avevo approfittato del tempo libero per chiamare i miei genitori e informarli del mio arrivo. Rimasero sotto shock.

    Sarei partita la mattina del 22 e mi sarei fatta venire a prendere a Venezia. Era tutto pronto, le valigie fatte: mancava soltanto dare la notizia certa al padrone di casa.

    Baciai Prince sulla fronte e uscii dal salotto. Michael era in piedi con la schiena appoggiata al muro, ancora in pigiama. Ricambiò la mia criptica occhiata con un sorriso. Abbassai gli occhi sul pavimento.

    «Hai consegnato i compiti, maestrina?» esclamò scherzosamente.

    Annuii mostrandomi tranquilla. Un guizzo di luce nel suo volto mi fece capire che aveva intuito che dovevo dirgli qualcosa. Se ne stette in attesa.

    «Parto all'alba del 22 dicembre. Tornerò il 3 gennaio, nel tardo pomeriggio...».

    Pausa meditabonda. Lo studiai di sottecchi e i suoi pensieri mi sembrarono inaccessibili. Le iridi scure erano vigili ma misteriose.

    «Ok, va bene. Grazie per avermi informato», sorrise gentile.

    Fu come se la mia partenza gli facesse piacere, come se il mio andarmene non cambiasse nulla di fatto.

    Mi abbracciò ed io ricambiai provando a mantenermi il più distaccata possibile. Fu impossibile non pentirmi della scelta compiuta.

    «Goditi l'Italia anche per me, mi raccomando».

    Si separò dandomi un buffetto sulla guancia e io assentii obbligandomi ad essere felice.

    Per impedirmi di stare male più del dovuto e del necessario trascorsi la maggior parte della giornata da sola. Mi rilassai in camera leggendo Il cavaliere d'inverno - quel libro mi aveva fatto piangere ormai due volte ed era semplicemente meraviglioso. Verso metà pomeriggio, spossata da quella lunga ed interminabile lettura, scivolai in cucina per incontrare Paris e fare uno spuntino con lei.

    Non mangiai niente se non due biscotti. Lo stomaco si era chiuso per l'ansia di dover tornare a casa.

    Giocai con Paris e le sue bambole fino al tardo pomeriggio, fin quando un sempre più acceso mal di testa mi avvisò che qualcosa non andava per il verso giusto.

    Ero scombussolata, mentalmente e fisicamente.

    Cercai di ignorare i sintomi ma durai poco meno di mezz'ora, fino a quando non compresi di aver raggiunto il "limite". Temendo il peggio accorsi nella mia stanza informando Paris che avevo mal di testa, chiedendole di avvisare tutti di cenare senza la sottoscritta.

    Quando fui in camera mi buttai a peso morto sul letto e chiusi gli occhi.

    Non mi tranquillizzai affatto.

    Il mal di testa si trasformò in lente pulsazioni concentrate sulle tempie. Sentii il freddo che mi invadeva le ossa e le stritolava in un abbraccio doloroso e tremolante.

    Mi rannicchiai su me stessa alla ricerca di calore. Mi pareva di essere nuda nel bel mezzo di una tormenta.

    Dentro di me ero consapevole di quel che stava succedendo.

    Un conato di vomito mi chiuse lo stomaco in una stretta.

    Vedi cosa succede? Vedi cosa succede quando credi di essere immune all'ammalarti?

    Il cuore batteva come impazzito.

    Volevo chiedere aiuto all'unica persona che sapevo sarebbe accorsa in fretta e furia per me, ma le labbra erano serrate e il corpo pietrificato in posizione fetale.

    Fu un momentaccio.

    Non capivo se stessi tremando per la paura di rimettere o per la febbre che continuava a salire a dismisura.

    Ansimavo obbligandomi di mantenere la calma per un qualcosa che non potevo controllare. Ero così frastornata che non sapevo più che momento del giorno fosse, ancor meno quanto tempo fosse passato da quando mi ero nascosta da tutti.

    E all'improvviso lo percepii.

    Accorsi in bagno, mi buttai in ginocchio a terra ed alzai la tavoletta del Wc con una velocità inaudita. Sputai fuori l'anima. A fatica repressi le lacrime causate dallo sforzo del vomito e dal panico.

    Quando terminai emisi un singhiozzo dalla paura. Tirai l'acqua.

    Mi girava vorticosamente la testa.

    Il corpo tremava e avevo un peso enorme sulla pancia pur non avendo mangiato quasi niente da mezzogiorno in poi. Vedevo tutto ovattato.

    Mi distesi sul tappeto del bagno, adagiando il capo sul marmo freddo. Avevo bisogno di recuperare la lucidità.

    Provai a ragionare sul da farsi, ma ero nel pallone. Ero stordita, confusa... totalmente priva di energia. Non riuscivo ad alzarmi in piedi. Nella mia testa chiedevo aiuto all'unica persona che non poteva sentirmi.

    Chiusi gli occhi reprimendo le lacrime.

    Mi stavo imponendo con tutta me stessa di non rimettere ancora. Non volevo, non avevo alcuna intenzione di sentire quell'orribile acidità in bocca e quel senso di soffocamento in gola.

    Il tempo scorse lento, fino al momento in cui l'aiuto finalmente arrivò.





    1 Prima della perquisizione del 20 novembre 2003 la stanza di Michael si trovava vicino alla sala giochi. Dopo l’intervento della polizia – come detto dallo stesso Michael nell’intervista con Ed Bradley 60 Minutes – la camera venne praticamente distrutta. Ipotizzando come si sentisse, ho fatto sì che nella storia Michael scegliesse un altro posto in cui stare.



    Edited by fallagain - 16/1/2021, 12:46
     
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    Ambra, ti prego, continua a pubblicare questa storia. A distanza di anni, torno qui sempre per leggerla e resta magica come allora. ❤
     
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    Ambra, ti prego, continua a pubblicare questa storia. A distanza di anni, torno qui sempre per leggerla e resta magica come allora. ❤

    Pian piano pubblico tutti i capitoli corretti e riscritti, lo prometto wub2 E se riesco (soprattutto se ho abbastanza ispirazione per andare avanti) riscrivo/continuo The Rebirth.
    Grazie per essere ancora al mio fianco e leggere questo racconto emoticon_piume in_love
     
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    Capitolo Quindici: La Dolcezza di Casper

    Distesa sul pavimento, in un luogo in cui i secondi avevano smesso di ticchettare, ignorai il lieve bussare alla porta della camera.

    Udii una voce in lontananza, ma ero troppo concentrata sul non vomitare una seconda volta per prestarci attenzione. La febbre saliva sempre di più, le ossa divenivano fragili come rametti sottili. Non avevo la forza di aprir bocca.

    Non ci fu bisogno di farlo.

    La porta si aprii con uno scatto. Una figura entrò in bagno avanzando veloce.

    Prontamente nascosi il viso sotto un braccio, evitando inutilmente di esibire il mio volto sfigurato agli occhi del mio salvatore.

    «Dio, Sarah...»

    Quel sussurro mi dette le vertigini. Sapevo benissimo che solo lui, in quella casa, aveva quel tipo di frasi nel suo repertorio quotidiano. Mi sentivo così male per la sua presenza che subito mi pentii di averlo chiamato col pensiero.

    «Riesci a tirarti su?».

    La sua voce era molto più vicina di quanto mi sarei aspettata, ma soprattutto più dolce e premurosa. Preoccupata.

    Scossi la testa lentamente.

    Era una cosa troppo imbarazzante. Una situazione che non sarebbe dovuta accadere.

    Sentii un'imprecazione sfuggirgli dalle labbra schiuse, fatto per il quale – purtroppo – non potei mostrare il mio stupore. Era la prima volta che lo udivo imprecare; mi aveva sempre dato l'impressione di uno che non diceva parolacce se non quando era furibondo, invece mi sbagliavo.

    Lasciai perdere il pensar troppo; tutto ciò mi faceva girare la testa ancor più vorticosamente, già di per sé appannata dalla febbre.

    «Vieni, aggrappati a me... ti aiuto».

    Provò a scoprirmi il viso e reagii con un suono a denti stretti visibilmente disperato. Un conato di vomito mi fece rabbrividire. La sua mano, ferma sul mio polso, lasciò la presa e risalì l'avambraccio.

    «Non ti devi vergognare... non con me...»

    Non mi mossi di un centimetro.

    Provai ad alzarmi da sola, tanto presto o tardi avrei vomitato di nuovo.

    Barcollai rischiando di cadere all'indietro e sbattere la schiena contro il pavimento, ma Michael mi cinse nell'immediato; con un palmo mi prese le spalle e con l'altro il gomito. Anche non volendo mostrai il viso, ma ignorai lo sguardo del mio eroe con tutte le energie rimaste.

    «Ce la fai?» chiese gentile.

    Le sue iridi erano diamanti nel buio. Scavavano fin sotto le ossa attraversando lo scorrere del sangue.

    Scossi il capo emettendo un suono basso. La smorfia che esibii fu un misto tra orrore, schifo e paura. Mi sentivo una completa deficiente.

    Lo percepii ancora, arrivò fino alla gola. Mi tenni una mano sulle labbra fino a che, con uno scatto, mi gettai sul water... e buttai fuori.

    Grazie al cielo i capelli mi avevano coperto il viso senza entrare nella tazza. Le dita tremavano e vedevo buio nonostante gli occhi aperti. La mia voce, durante l'atto, si incrinò dallo sforzo.

    Michael si mosse come un fulmine. Si pose al mio fianco e mi accarezzò la schiena. Non appena mi fermavo per prendere fiato tra un conato e l'altro mi diceva: «Respira... profondamente...», e quando tornavo a vomitare mi lambiva con più ardore. Mi raccolse i capelli ciocca dopo ciocca e li fermò dietro le spalle con due dita. Alla fine, quando terminai, liberai un singhiozzo e udii Michael bisbigliare: «Sei stata bravissima... ora respira, calma, è passato tutto».

    Tirai l'acqua prima che lui potesse alzarsi e farlo al posto mio, tastando alla cieca, e sospirando volli morire. Cessare di esistere , in quel preciso istante, dalla vergogna.

    Ingoiai la saliva e il gusto schifoso che rimaneva in bocca. La mia espressione era tutto un programma.

    Mi sentivo uno straccio. Una merda completa.

    «Andiamo a distenderci?» chiese Michael dopo alcuni secondi - forse anche minuti -, pettinando una ciocca di capelli ribelli e sudati all'indietro. Annuii. «Allora tieniti stretta a me».

    Non mi resi conto di ciò che stavo facendo fino a quando non fui a letto. Mi ero alzata e avevo cercato di non calcare tutto il peso su di lui, barcollando e vedendo fuligginoso. A piccoli passi avevamo raggiunto il materasso e mi ero distesa con fatica. La nausea era un po' passata, ma lo stomaco ballava la salsa.

    Michael mi disse di alzare il bacino verso l'alto, cosa che riuscii a fare soltanto quando lui mi aiutò reggendomi la curva della spina dorsale affinché potesse tirare giù le coperte. Prima che potessi infilare le gambe sotto di esse mi bloccò i piedi.

    «Hai un pigiama caldo?»

    Lo fissai con sguardo vacuo. Era deciso e impassibile. Assentii e con un'occhiata gli indicai il pigiama sopra la sedia accanto alla scrivania. Michael lo andò a prendere.

    «Ora devi metterti questi» mi scrutò eloquentemente. Lo guardai di rimando corrugando le sopracciglia. Sbarrai gli occhi un secondo più tardi. Michael continuò a puntarmi deciso. «Ti aiuto io. Terranno caldo, molto più dei vestiti che hai indosso».

    Negai con la testa e nel farlo fui sul punto di svenire. Avevo già vomitato di fronte a Michael, cosa già di per sé molto sgradevole... non mi sarei spogliata con lui che mi sollecitava a farlo.

    Inclinò la testa di lato guardandomi con lieve disapprovazione. Tentai di voltargli la faccia come una bambina che fa i capricci. La testa girava come una trottola.

    «Sarah...» lo udii chiamarmi. Si sedette sulla sponda del letto. «Non sono un maniaco e non intendo farti male o approfittare di te, se è questo che temi. Non ti guarderò, lo giuro. Se te la senti di farlo da sola prova, in caso contrario ti aiuterò io. Non accetto scuse».

    Mistosentendomale... mistosentendomale...

    Lo adocchiai con fare incerto. Era autoritario e intenerito insieme. Sapevo di potermi fidare di lui, il suo sguardo prometteva bene, ma... era difficile credere che non avrebbe dato una sbirciatina curiosa. Era un uomo dopotutto, io non ero abbastanza bella per essere apprezzata da lui. E se gli avessi fatto orrore con solo la biancheria intima addosso?

    Tutto d'un tratto mi stavo facendo paranoie per nulla.

    Priva delle energie necessarie per controbattere, accettai la sua proposta.

    «Bene...».

    Non fui abbastanza veloce da cogliere la scintilla d'imbarazzo guizzare nei suoi occhi.

    Prese i pantaloni del completo rosso e bianco. Con uno sguardo calmo ma indulgente mi studiò, cercando un'ulteriore conferma.

    Mi sbottonai i jeans con la lentezza di una tartaruga. Quando vinsi la battaglia issai il bacino verso l'alto, supportata da Michael, e con fatica guidai i pantaloni fino alle cosce. Lui fece il resto: prese delicatamente due estremità e le trascinò lungo le caviglie, sfilando l’indumento con tocco impercettibile.

    Grazie a Dio la ricrescita sulle gambe era agli inizi (qualche giorno prima avevo deciso di depilarmi grazie al mio intuito che, geniale come al solito, mi aveva suggerito di darmi una bella ‘spuntatina’ prima di partire. Ero stata astuta).

    Lo fissai per tutto il tempo con aria smarrita ed il suo viso era lo specchio della calma. Cercava di farmi capire che dovevo avere fiducia in lui, cosa che ottenne completamente, e scansò l’idea di guardare le mie gambe il più possibile - anche se non c'era granché da osservare con tanta ammirazione. Non vi era niente di sessuale nei suoi gesti.

    Mi aiutò a mettere i pantaloni del pigiama invertendo il procedimento utilizzato per i jeans. Quando afferrò la camicia del completo mi fece tornare seduta; notando la mia espressione nauseata tentò di fare il più veloce possibile. Con un rapido e meccanico gesto di dita mi tolse il maglioncino antracite sfilandomelo per le spalle.

    Percepii freddo al contatto con la sua pelle. Mi osservò intensamente.

    «Abbiamo quasi finito».

    La testa pulsava e l'acido pizzicava fastidiosamente le papille gustative.

    Restai in reggiseno di fronte a lui e subito mi coprii la pancia, atteggiamento che però non avevo compiuto quando mi aveva abbassato i pantaloni e mi aveva visto in mutande. Non mi preoccupai neanche del mio seno, il quale era tanto grande da riempire abbondantemente il reggiseno.

    «Tira su le braccia», mormorò Michael senza interrompere il contatto visivo.

    Obbedii e m’infilò la giacca del pigiama. Trovai le maniche guidata dalle sue mani e quando riuscii a inserirmele nelle giuste aperture la calò subito sotto l'ombelico.

    Michael aveva ragione, faceva più caldo così.

    Rabbrividii.

    «Distenditi, vado a prendere qualche coperta. Vuoi la limonata? Non credo che tu abbia voglia di mangiare...»

    Annuii con il capo e non parlai, abbracciandomi per tenermi più calda. Michael si rimise in piedi.

    Realizzai cosa mi aveva detto e fui presa dal panico. Michael non captò la mia espressione terrorizzata fino a quando non si voltò prima di uscire dalla porta.

    «Torno subito, non ti preoccupare», annunciò con un velo di premurosità.

    Il mio stato d'ansia non si appiattì.

    Michael tornò indietro e inglobò il viso fra i suoi palmi. Mi sorrise con un’amabilità indescrivibile, così tanto da farmi smarrire nell'oscurità delle sue iridi.

    «Ti fidi di me?»

    Assentii.

    Mi baciò la fronte imprimendo un segno più delle altre volte: una delicata pressione, un morbido calore che fu in grado di bruciare il punto preciso in cui aveva posato le labbra. Mi resse la nuca e mi aiutò a distendermi sul cuscino.

    Fece dietrofront e uscì come un lampo di luce. Tutto troppo in fretta, mentre il silenzio riempiva ogni cosa.

    Alzai lo sguardo verso il soffitto.

    Avevo paura, una paura enorme. E avevo sete, così tanta che non sarei riuscita ad attendere il ritorno di Michael prima di bere qualcosa.

    Mi posi di lato, in direzione del comodino. Mi sporsi per raggiungere un bicchiere mezzo pieno di acqua che avevo portato in camera qualche ora prima e ne gustai un piccolo sorso. Quando lo riposi al suo posto le palpebre si abbassarono sulla visuale.

    Respirai profondamente.

    Nel momento in cui Michael sarebbe tornato mi avrebbe trovato in un luogo molto distante da lì.


    *

    Mi ridestai nel cuore della notte. Nonostante gli occhi chiusi i miei sensi si erano quasi del tutto rinvigoriti.

    Mossi un piede per accarezzare le candide lenzuola e il soffice materasso, i quali mi cingevano il corpo in una stretta affettuosa. La febbre non era passata: mi sentivo frastornata e ovattata. Un solo e brusco movimento della testa e avrei rischiato un mancamento.

    Issai le ginocchia al petto assumendo una posizione fetale, posta nello stesso lato in cui mi ero addormentata.

    Cercai di capire se Michael fosse presente usando l'udito. Non mi sarei riaddormentata facilmente, non prima di aver constatato se ci fosse. Le coperte pesanti c'erano eccome, segno che di sicuro era tornato per mettermele sopra.

    La conferma arrivò prima del previsto.

    Un enorme palmo di mano, soffice e caldo, mi sfiorò la nuca. Due dita scivolarono lungo la mia tempia, scostando alcuni ciuffi fastidiosi da davanti gli occhi. Lo udii sospirare e darmi una leggera carezza. Era indulgente, indeciso se allontanarsi o rimanere a contatto con la mia pelle. Quando si separò il mio viso si contrasse. Volevo che continuasse.

    Mi faceva sentire protetta e al riparo. Per una volta potevo sentirmi fragile e malata come quando ero bambina.

    Era lì davvero.

    Ero stupita da tutto ciò, in particolar modo dalla sua dolcezza - un trattamento che pochi avevano riservato alla sottoscritta, soprattutto in casi come quelli.

    Sbattei le palpebre cautamente.

    Una fioca luce aleggiava nella stanza. Proveniva dalla lampada da comodino che Michael aveva sistemato sotto al tavolino come aveva fatto qualche giorno prima per Prince, temendo che la luce potesse darmi fastidio.

    Lo cercai con lo sguardo.

    Se ne stava a gambe incrociate su una sedia accanto al letto, libro sulle ginocchia e occhiali per vederci da vicino. Indossava pantaloni di una tuta nera e una camicia pesante a quadri, verde e bianca. I capelli erano straordinariamente ordinati e formavano dolci onde fino alle spalle; il viso era struccato quasi come ogni giorno in cui lo vedevo girare per casa.

    Non sapevo proprio come facesse a vederci con tutta quell'oscurità, onestamente.

    Quando i miei occhi catturarono i suoi mi sorrise.

    Si sporse in avanti. Buttò il peso su un gomito, poco distante dal mio braccio che fuoriusciva timidamente dalle coperte.

    «Ti ho svegliato?».

    Negai arrossendo per la preoccupazione che traspariva dal suo viso. Non parlai a causa del pessimo gusto che avevo in bocca.

    «Ti viene da vomitare?»

    «No...», sussurrai a denti stretti e voce impastata. «Non ho più sonno...»

    Mi sentivo un gattino indifeso e abbandonato a se stesso.

    Sorrise ampiamente. «Vorrà dire che faremo qualcos'altro».

    La sua attenzione si posò sul comodino e la mia fece lo stesso: stava esaminando una tazza, quella che considerai essere la limonata calda che aveva preparato.

    «Che ore sono?»

    Adocchiò l'orologio da polso. «Sono l'una e tredici minuti esatti». Lo adocchiai sbigottita e frastornata. Ridacchiò. «Hai dormito parecchio... quando sono tornato riposavi come un angelo. Non avevo il coraggio di svegliarti per farti bere la pozione magica», borbottò accigliandosi.

    Mi colorai di un tiepido rossastro.

    «Posso averne un po’?»

    Michael si ritrasse e prese la tazza fra le mani. Ponderò in silenzio fissando il liquido al suo interno e bagnandosi il labbro inferiore.

    «È fredda, direi che è meglio riscaldarla».

    Dissentii. «No... la bevo lo stesso».

    «Ma non ti farà bene come quando è calda».

    Sospirai.

    Non avevo voglia di fare la testarda, ma non avevo neanche voglia di farlo andare via. Volevo che restasse lì dubitando che mi sarei potuta riaddormentare... e non volevo. Non prima di averci parlato un po' ed essermi scusata per quello a cui aveva assistito poche ore prima.

    «Torno subito, dico davvero».

    Si alzò in piedi. Fui così rapida da sollevare il braccio scoperto e sfiorargli la manica della camicia. Fu un movimento doloroso, ma non tentennai. Michael mi osservò titubante.

    I nostri occhi rimasero incatenati a lungo.

    Espirai pesantemente, piegando il capo dalla parte opposta.

    «Ok...».

    Fece un passo verso la porta, ma strinsi quel lembo di tessuto ancora più forte.

    «Metti il pigiama», e non era una richiesta che ammetteva repliche.

    Michael lo capì e sogghignò con occhi scintillanti, disarmandomi e avviandosi verso l'uscita. Lo udii bisbigliare un sottile «Torno subito, non ti addormentare», andandosene senza fare rumore.

    Lasciai passare qualche minuto prima di muovermi.

    Avevo lo stomaco pesante e contratto. Le ossa e i muscoli del corpo dolevano come se mi avessero preso a badilate ogni dove.

    Puntai un gomito e spinsi la mano dell'altro braccio verso il materasso issandomi a fatica. Chiusi gli occhi per la stanchezza che mi pervadeva e inspirai profondamente solo quando riuscii a mettermi comoda. Avevo le vertigini e la nausea e il cuore che martellava come un trapano nelle orecchie.

    Rimasi così per parecchio, senza pensare e fare nulla.

    Scorsero altri minuti e finalmente lo udii tornare.

    Michael aprì la porta e sorpassò l'uscio come un gatto silenzioso, indistinguibile nell'ombra della notte, e quando la richiuse gli venne un collasso.

    «Sarah, cosa stai facendo?».

    Lo disse in un modo che pareva essere arrabbiato.

    Mi venne incontro nel giro di due falcate e lo studiai con gli occhi fuori dalle orbite. La sua aria era severa e scocciata. Sbuffò e si chinò sulla sedia con la tazza che fumava tra le dita.

    Mostrai una smorfia contorta, un misto di rammarico e confusione.

    Mi gettò un'occhiata da capo a piedi.

    Di punto in bianco scoppiò in una pazza risata.

    «Scusa, non riesco a trattenermi», esclamò coprendosi il volto con una mano. «Ci caschi sempre! Sei proprio un'ingenua!»

    Inizialmente non capii a cosa si stesse riferendo. Quando compresi che mi stava bonariamente prendendo in giro, m'imbronciai scottando in viso.

    Allungai debolmente i polpastrelli verso la tazza.

    Michael smise di ridere, ma quel stramaledetto sorriso non scomparve dalla sua faccia. Non avevo molta voglia di scherzetti e battute.

    «Ti prego, non dirmi che ti sei arrabbiata...»

    Con le dita gli intimai di consegnarmi la limonata.

    «Dai... è divertente!», mi dedicò un altro spasmo di ridarella issando le sopracciglia.

    Lo fulminai con fare indispettito.

    Michael ritornò serio e pensoso. Dopodiché, ignorando la mia silenziosa richiesta, posò la tazza sul comodino. Storsi le labbra e mi si avvicinò con la sedia. Mi rifiutai di guardarlo, rimanendo ad osservare il vapore della limonata che svaniva nel buio.

    «Sarah» disse con voce calda. «Guardami un secondo».

    Presentai un'espressione irremovibile. Con un dito mi alzò il mento e mi spinse a guardarlo in faccia. Troppo debole per rifiutare quel gesto, obbedii controvoglia. La luce nei suoi occhi era il calore di un tizzone ardente. Mostrò i denti.

    «Non devi essere permalosa, non ti faccio questi scherzi perché voglio offenderti. Semplicemente ti trovo divertente quando fai quelle facce».

    «Quali facce?», gracchiai indebolita.

    «Be’...» si strinse nelle spalle, «è proprio questo il bello: non so descriverle. Hai un modo tutto tuo per parlare attraverso il viso» fece strane smorfie, gesticolando.

    Divenni così rossa in viso da avere un capogiro.

    E non perché fossi offesa.

    Sorrise. «Sono un giocherellone, Sarah. Dovresti aver capito che adoro fare scherzi. Purtroppo sei una delle vittime che considero più allettanti. Sono un fantasma che sadicamente terrorizza i poveri esseri umani e se la gode».

    «Un fantasma un po’ seccante, fattitelo dire», brontolai.

    Michael rise abbandonandosi sullo schienale. Alzai un sopracciglio e mi rubò un sorriso addolcito, dovuto all’allegria che mi trasmetteva il solo vederlo felice.

    Il suo si paralizzò a mezz'aria, un mix di meraviglia e serietà. Non mollò il contatto visivo neppure per un secondo. Poggiò i gomiti sul letto e la testa sulle nocche. Gli angoli delle labbra si mossero all'insù.

    «Questo vuol dire che non sei più offesa...»

    Alzai le spalle.

    «Bene», disse ritirandosi e battendo i palmi delle mani sulle cosce. Mi adocchiò con fare vagamente malizioso. «E la nausea? Senti ancora il bisogno di rimettere?»

    Ci pensai su e feci segno di no con la testa. Anche se avevo lo stomaco sotto sopra non sentivo la tentazione di correre in bagno.

    «Vedi che questo ti ha fatto dimenticare tutto?», mostrò una bambinesca espressione compiaciuta. Guardò il comodino e ritornò su di me. «Te la senti di bere la limonata?»

    Assentii.

    Me la porse avvertendomi di non scottarmi le dita e la lingua. Quando i nostri polpastrelli si sfiorarono una scossa attraversò il mio e il suo corpo. Michael raddrizzò la schiena.

    Soffiai sulla bevanda e la gustai a piccoli sorsi – sempre sotto l'attenzione del fantasmino dispettoso al mio fianco - e ad un certo punto l’occhio scese sul libro che aveva riportato sulle sue ginocchia.

    «Harry Potter?», sussurrai con quel poco di voce che avevo.

    Michael ispezionò l'oggetto che stavo indicando. Mi sorrise.

    «Ricordo che me ne hai parlato quando cercavamo il racconto di tua nonna. Ti piace molto, uh?»

    «Lo amo» risposi entusiasta. «Lo amo da impazzire». Inclinai il capo a sinistra: il collo mi faceva male, ma ignorai la fitta con una smorfia. «È L'ordine della fenice, vero? L'ultimo che è uscito... riconosco la copertina».

    «Esattamente», lo accarezzò. «È la seconda volta che lo leggo. Proprio una saga incantevole».

    «Strabiliante».

    «Epica».

    «Unica!».

    Ed insieme...

    «Magica!»

    Ci regalammo un'occhiata d'intesa ridacchiando.

    Bevvi un altro po' di limonata mentre Michael si lambiva l'angolo sinistro della bocca con la lingua. Non disse nulla fino a quando non scorsi le sue sopracciglia corrugarsi e lo sguardo fissarsi nel vuoto. C'era qualcosa che voleva dirmi.

    «Vuoi che ti lasci dormire ancora?».

    «No, mi sento abbastanza bene», negai delicatamente. «Possiamo guardare un film?»

    Non proposi quale, lo sapevamo già.

    Michael mi puntò mantenendo la fronte bassa. Si umettò le labbra un'ulteriore volta. «Direi che è meglio rimandare a domani sera. Non possiamo scendere in salotto: hai la febbre ed è meglio che tu stia calda, molto calda».

    «La nausea e il vomito stanno passando...».

    Mi trapassò da parte a parte con aria meditabonda.

    Mostrai un'espressione che credetti imperturbabile, mentre invece ero la fotocopia di un cucciolo indifeso.

    «Non credo che sia bene farti prendere freddo. Non voglio che tu stia peggio».

    La mia ostinazione non vacillò.

    Michael, finalmente, rise. Scosse il capo con gli occhi bassi sulle sue dita mentre il petto danzava seguendo i lenti respiri.

    «Ti misuro la febbre. Se stai veramente meglio guarderemo un film... ma non scenderemo in salotto», mi avvertì con tono irremovibile.

    «E dove andremo?».

    «In camera mia».

    Michael mi fissò senza troppo scomporsi. In quel momento la cosa non parve strana neanche a me, forse per la febbre che confondeva la logica, perciò non osai fare domande, protestare o arrossire.

    Si alzò e si diresse verso la porta. Si girò e sorrise della mia espressione allibita. «Vado a prendere il termometro in camera».

    «Non puoi misurarmela direttamente lì?», mugugnai da finta tonta, gustando l'ultimo sorso di limonata.

    Arcuò un sopracciglio e un angolo della bocca. Ricambiai con aria innocente e malaticcia.

    «No, prima voglio vedere quanto hai».

    Non volevo rimanere in quella stanza a fare niente, anche se parlare con Michael non mi sarebbe dispiaciuto affatto; tuttavia era meglio dialogare con lui quando le forze mi sarebbero tornate e aprir bocca non mi sarebbe costata una fatica impressionante. Vedere un film era forse la cosa migliore che potessi permettermi.

    Emise un sospiro arreso e puntò le nocche sui fianchi; spostò il peso del corpo su una gamba e mi dedicò un sorriso teatralmente insoddisfatto.

    «Ti porto in camera mia», fece un passo verso il letto, «solo se guardiamo un film che duri meno di due ore. Harry Potter posso fartelo vedere domani. Sono sicuro che presto o tardi crollerai di nuovo».

    Alla fine lo avevo fatto arrendere. Una risata malefica rimbombò nella testa assuefacendo la febbre e la debolezza causata da essa.

    Con fatica immane riposai la tazza vuota sul comodino.

    «D'accordo, Casper, accetto».

    Michael strabuzzò gli occhi. Rise subito dopo, non appena capì il perché del suo nuovo soprannome. Mi venne accanto con la bocca aperta e le iridi luccicanti dal divertimento.

    «Vieni, dai, ti aiuto».

    Mi sollevò in piedi con la stessa cura di una mamma. Corrugai la fronte e serrai le palpebre per un capogiro improvviso, che mi colpì nell'esatto momento in cui infilai le pantofole rosse; doveva avermele portate accanto al letto quando stavo dormendo, perché quando avevo finito di vomitare non ricordavo di averle indossate.

    «Sei veramente una sorpresa, ragazza» disse con aria assente, infervorato e preso dalle sue riflessioni. Non arrossii perché troppo spossata. «Casper mi piace molto, sai? Lo metto nella lista dei miei nomignoli preferiti. Anzi, penso che ne farò una dedicata soltanto ai tuoi», mi sorrise di traverso.

    «Che onore», borbottai. Un altro capogiro mi fece sbandare. Michael mi tenne per la vita prima che potessi andargli addosso. «Quindi Casper è al primo posto in classifica temporanea?»

    Sentivo il suo profumo di pulito e dopobarba ovunque.

    «Senza dubbio».


    *

    «Sono passati dieci minuti?».

    Ero distesa sul letto di Michael, nello stesso punto in cui Prince aveva riposato per tutto il periodo di malattia, sotto coperte calde cambiate da poco. Tutto sapeva dell'essenza di Michael: dolce e legnosa assieme, una sostanza stupefacente che invadeva l'olfatto trasformandosi nell'ossigeno che respiravi.

    Avevo il termometro sotto il braccio da un paio di minuti.

    Mi aveva coperto con chissà quanti strati di stoffa che temevo di cuocermi al loro interno. Aveva portato un'altra tazza di limonata – nel caso mi sarebbe venuta voglia di vomitare ancora – e se ne stava seduto sulla piazza vuota del materasso al mio fianco. Nel frattempo si era tolto gli occhiali da vista e continuava a ridersela per le mie facce annoiate e per i sospiri che emettevo ad ogni minuto che passava interminabile. Quando stavo male ero peggio di una bambina.

    Osservò la sveglia sul comodino. «Manca poco... quattro minuti».

    Grugnii debolmente e Michael ridacchiò.

    «Dai, non fare l'impaziente», si umettò il labbro inferiore. «Scegliamo il film intanto. Nel caso in cui la febbre sia troppo alta – »

    Roteai gli occhi verso il cielo con quel poco di forze che avevo e sghignazzò nuovamente.

    «Be’, sentiamo, hai qualche proposta?»

    Lo esaminai con cipiglio incomprensibile. «Casper

    Fu Michael - in quel momento - ad alzare lo sguardo al cielo.

    «Sapevo che l'avresti detto... comunque sì, ce l'ho».

    M'incupii poco dopo, chinando le iridi sulla sua camicia a quadri.

    «Michael...»

    Mi guardò inarcando le sopracciglia, invitandomi a parlare.

    «Scusa...»

    Silenzio.

    «Per cosa?»

    Avvampai. «Per averti fatto vedere... per essermi fatta vedere in un momento del genere, prima... pensavo che sarei riuscita a controllare l'istinto del... quella cosa lì, insomma... e invece... scusa, è stato davvero orribile... sia per te che per me... non era mia intenzione».

    Silenzio ancora.

    Mi arruffò i capelli.

    «Sciocchina, ti sembrano cose da dire?», esclamò allegramente. Lo studiai allibita: Michael mi fissava come se avessi detto la cosa più ironica e assurda mai sentita. «La febbre ti sta portando fuori di testa».

    Abbassai il mento. Percepivo le gote esplodere dal calore.

    Eppure Michael non mi permise di guardare altro se non lui, afferrandomi le guance con due polpastrelli e sollevandole in sua direzione, con gentilezza. I suoi occhi erano seri e brillanti come un cielo stellato in piena estate.

    Di certo il mio cuore batteva più del suo.

    «Sii seria, Sarah. Pensi che io mi scandalizzi per questo? Per te che stavi male e vomitavi? No, ti sbagli, è una cosa naturale. Non puoi cercare di controllare qualcosa che non dipende da te. Anche io, sai? Sono un essere umano esattamente come te, vomito anch'io se sto male... pensa se non ci fossi stato. Avresti passato la notte lì... e avresti rimesso ancora», inarcò la fronte con aria eloquente.

    Rabbrividii imbarazzata dalla dolcezza del suo sguardo e dall'immagine di me, sola soletta, a rimettere per tutta la sera.

    Sorrise. «Sono felice di essermi preso cura di te, piccola e timida bambina che non è mai cresciuta».

    Quando vidi un bagliore di tristezza attraversargli il viso ebbi la tentazione di accarezzarlo, ma fui abbastanza debole da rinunciarvi.

    «Perciò grazie... per farmi sentire una persona normale», concluse con un sussurro basso e caldo, analizzando ogni mio tratto.

    Si chinò e mi baciò la fronte. Il suo tocco – leggero come una piuma – mi confuse esattamente come il suo profumo, che non smetteva di aleggiare nei polmoni.

    «Penso che tu possa tirarlo via ora...»

    Sbattei le palpebre e con un cenno del dito m'indicò il punto dove avevo messo il termometro.

    «Oh...».

    Lo tolsi piano. Tentai di darci un'occhiata veloce, ma Michael me lo sfilò dalle dita prima che potessi rendermene conto. Non fece neanche fatica visto la scarsa forza fisica che avevo. Si rimise gli occhiali da vista e mi diede la schiena per esaminare il termometro sotto la luce della lampada a comodino.

    Il silenzio durò più del necessario.

    Ritornò in posizione diritta e seduta. La sua faccia era incomprensibile.

    «37,7. Non ne hai molta».

    Strano, dissi fra me e me, perché mi sentivo un rottame da demolire.

    «Dev'essere scesa dormendo... forse...».

    «Forse».

    Fissava il termometro umettandosi il labbro inferiore con parsimonia.

    Aspettai che dicesse qualcosa. D'improvviso piegò gli occhi sulla mia figura e sorrise. Poggiò il termometro dalla sua parte del comodino e si rimise in piedi; giunse verso la sponda del letto dove stavo e si abbassò sulle ginocchia per aprire un cassettone pesantissimo. Da lì estrasse una cassetta. Il titolo era Casper.

    «Dovrai guardare il film inclinata verso di là», indicò la televisione con un movimento di testa, verso un ripiano mobile rialzato alla mia destra, ai pressi di un armadio guardaroba scuro. «Mi rendo conto che la postazione è parecchio fastidiosa...»

    «Va benissimo», sorrisi debolmente.

    Michael si diresse verso la Tv, sfilò la cassetta dalla custodia e la inserì nel videoregistratore. Prese il telecomando e mandò indietro il nastro nel frattempo che si distendeva al mio fianco. Non si mise sotto le coperte – per rispetto nei miei confronti, presunsi – e nonostante desiderassi dirgli di coprirsi per paura che prendesse freddo, nessun suono fuoriuscì dalle mie labbra.

    Mi rannicchiai su me stessa voltandomi sul fianco destro e piegando le ginocchia al petto, il capo appoggiato sulla spalla di Michael e un braccio sempre scoperto e disteso fuori dalle coperte.

    La sua mano avvolse la mia.

    Lo guardai con il cuore che aveva smesso di pompare.

    Mi fissava insistentemente il braccio.

    Dopo attimi di completo silenzio – nei quali io non riuscivo a smettere di studiare il suo viso e lui la mia mano – finalmente mi guardò.

    «Dovresti tenerti al caldo completamente», proruppe in un sussurro, cliccando "Play" per far partire la pellicola. La Tv emise un fioco brusio.

    «Non ho freddo...», mugugnai contrariata. «Sto per morire di caldo qui sotto...»

    Cosa che, effettivamente, era vera. Ero come una mummia in un sarcofago.

    Alla mia espressione rise beatamente.

    «D'accordo, te ne tiro via una».

    Si alzò in direzione della mia parte del letto mentre la pubblicità anticipava l'inizio del film. L'osservai compiere tutti quei gesti dolci e posati come ipnotizzata dalla sua figura, ma Michael non dette segno di preoccuparsi del peso del mio sguardo.

    «Non hai freddo?», sussurrai una volta distesosi accanto.

    Mi scrutò dubbioso.

    «Copriti... prendi freddo...», bisbigliai indicandogli la coperta che mi aveva tolto e riposto alla fine del letto.

    Michael la guardò. Mi sorrise.

    «Non ho freddo, stai tranquilla».

    Lo sgridai in silenzio.

    Emise un grugnito infantile e falsamente scontento. «Ok, va bene... hai vinto tu anche stavolta...»

    E il film iniziò ancor prima che potessi proferire un felice «Bravo», con un grande ma debole riso stampato in faccia.

    Una canzoncina dalla melodia cupa e tenebrosa s'innalzò nell’aria e Michael si sistemò al caldo al mio fianco con un respiro pesante.


    *

    Quando l'indomani mi risvegliai, mezza rintontita, non ricordai subito dove fossi.

    Avevo la voce intorpidita dal sonno e la vista annebbiata dalle palpebre calate. La spossatezza, crudelmente minacciosa, mi aveva mutato in un rottame. Una fitta mi stritolava la parte più alta della pancia, quel tanto da farmi pensare di essere sul punto di vomitare nuovamente; per mia fortuna capii che era solo un leggero languorino. In più dovevo andare urgentemente al bagno.

    Passarono cinque minuti prima che i sensi tornassero a funzionare.

    Ad occhi chiusi mi issai a sedere con una spinta delle braccia. Con le nocche mi strofinai le palpebre e quando le sbattei lentamente tutto ciò che vidi fu buio.

    Non ricordavo di essere tornata nella mia stanza, ragion per cui non potevo essere altrove se non nella camera di Michael.

    Mi allungai verso il comodino alla mia sinistra, dolorante, emettendo un verso spossato a labbra schiuse. A tentoni cercai una lampada. Non trovai nulla e mi arresi mollando la testa sul cuscino.

    Ricordai qualcosa. Ero certa di aver iniziato a guardare Casper in uno stato più o meno cosciente, ancora abbastanza "sveglia" da rimanere con lo sguardo puntato sullo schermo, ma alla fine avevo ceduto al sonno; le palpebre ero rimaste sollevate fino a quasi metà film.

    Tuttavia, in quella tipica fase REM di semi-coscienza, avevo udito una voce sussurrarmi all'orecchio, debole e soffice come un accordo di violino.

    «Posso tenerti con me?»

    Mi pareva di aver ascoltato quella scena ma di non averla vista. Quella frase rimbombava in testa come se una canzone, una melodia, mi avesse riportato per un attimo alla realtà... come se un tintinnio di campanelle di cristallo mi avesse parlato da un luogo senza tempo.

    E poi oscurità.

    Meditavo sul da farsi, su cosa poter dire a Michael per scusarmi del disturbo.

    Perché non mi aveva svegliato?

    Arrossii.

    Mi tirai su. Trascinai i piedi sul pavimento, infilai le ciabatte e mi drizzai in piedi ignorando i capogiri. La febbre mi pervadeva, ma con passi lenti e affaticati arrivai alla porta della camera. L’aprii senza far rumore e guardai fuori, strizzando gli occhi per la luce accecante che invadeva il corridoio. Non pensai nemmeno ad andare nel bagno di Michael per i miei bisogni. Uscii senza fare dietrofront.

    Arrivai in camera da letto sana e salva, a tentoni, senza che Michael o uno dei bambini mi avesse visto, accorrendo in bagno e richiudendomi al suo interno.

    Guardai il mio riflesso allo specchio: dovevo lavare i capelli – questo senza dubbio – perché si erano tutti annodati dietro la nuca; gli occhi riflettevano la tipica stanchezza che l'influenza procurava e il colorito del viso rifletteva quello di un cadavere. Ero ancora più pallida di quanto non fossi già naturalmente. In aggiunta due solchi neri marcavano la stanchezza sotto gli occhi. Facevo schifo, insomma.

    Mi bagnai il viso con l'acqua e una goccia di detergente, mi sciacquai la bocca due volte e mi lavai i denti. Legai i capelli in una coda alta per ridurre l'effetto "cespuglio". Quando uscii dal bagno avevo la testa bassa, le dita sul collo mentre tastavo per capire dove sentissi più dolore e il passo più lento di una lumaca. Non appena alzai lo sguardo sobbalzai.

    Michael se ne stava seduto sul materasso, gambe e braccia incrociate e fronte chinata, studiandomi diabolicamente sorridente.

    «Buongiorno. Che ci fai qui?», domandò apparentemente rassicurante.

    Spalancai la bocca senza far uscire una sillaba. Ingoiai il fiato con il cuore che batteva scosso dalla paura.

    «Dovevo andare in bagno...»

    «Ah», arcuò un sopracciglio. «E perché non volevi usare il mio?»

    «Perché disturbo...»

    «E perché credi di disturbare?»

    Michael si tirò su e mi venne incontro ponendosi le mani nelle tasche. Non notai, se non in quel momento, che non indossava il pigiama: portava gli stessi abiti della sera prima. La sua espressione era ironica ma severa.

    «Io...». Presi un bel respiro. Lo soffocai mirando altrove. «Non lo so».

    Il suo torace era sul punto di scontrarsi col mio. Mi pose due dita sotto il mento e mi obbligò a fronteggiarlo. L'incontro con i suoi cieli scuri annullò ogni preoccupazione. Quel sorriso era più abbagliante delle luci che avevo visto attraversando il corridoio.

    «La vuoi smettere di pensarti sempre un disturbo e fare quello che ti dico, una volta ogni tanto?»

    M'imbronciai. «Tu non mi hai detto di restare».

    «Ma non ti ho neanche detto di andare», distese la fronte con fare canzonatorio.

    Roteò gli occhi ed emettendo un finto anelito di esasperazione mi si posizionò di lato. Mi prese delicatamente per un braccio e mi aiutò a raggiungere il letto.

    «Se non ti avessi voluto ti avrei svegliato nel cuore della notte, finito il film... e ti avrei riportato in camera anche se fossi crollata fra le mie braccia, Sarah».

    Mi fece sedere. Quando mi fu davanti piegò tutto il peso sulle ginocchia, in modo tale da poter essere alla mia altezza. Lo mirai con fare incerto, inerme di fronte all'infinita e insensata bontà che provava nei miei confronti.

    I suoi occhi si persero nel vuoto. «Sei come una bambina, soprattutto quando ti ammali», mi sgridò affabile.

    Avvampai ma ignorai la sua constatazione.

    «E tu dove hai dormito?»

    «Per terra!», batté le mani sulle cosce. «Non hai idea di quanto si stia bene lì!»

    Sbarrai gli occhi e Michael rise di gusto.

    Scosse la testa e si addolcì.

    «No, ho dormito accanto a te... di solito dormo a terra, se ho ospiti che vogliono dormire nella mia stanza, ma tu non mi volevi mollare», mi lanciò un'occhiata indecifrabile.

    «Uhm?».

    Si grattò un punto della guancia con l'indice destro. «Diciamo che ti sei aggrappata alla mia mano e non l'hai più lasciata andare. La tenevi così stretta che non avevo il coraggio di toglierla. Temevo di svegliarti», gesticolò.

    Il suo modo di fare mi ammattiva.

    Non riuscivo ad immaginare una scena del genere. Era pazzesco. Innaturale. Non avevo mai fatto una cosa simile - tenere la mano a qualcuno nel sonno -, neanche a mia madre quando, da bambina, mi stava vicino perché avevo paura del buio.

    Davanti a quell'affermazione non ebbi più il coraggio di parlargli guardandolo in faccia. Michael, d'altro canto, non smise di analizzarmi neanche per un secondo.

    «Sinceramente», si bagnò le labbra bisbigliando, «non avevo neanche voglia di lasciarti andare».

    I miei occhi guizzarono nei suoi. Mostrava i denti, ma fu lui - in quel istante - a non avere più il coraggio di affrontare le silenziose domande che gli stavo ponendo.

    Sentii il mio stomaco contrarsi dalla fame, producendo uno strano borbottio di protesta.

    Ci scoccammo un cenno d'intesa.

    «Ora vado a prepararti qualcosa... non credo che resisterai ancora per molto» esclamò sogghignando, issandosi dalla posizione inginocchiata con un sospiro. «Va bene un po’ di pasta in bianco e qualche verdura?»

    Per un momento mi sembrò di udire il menù tipico di mia madre quando mi ammalavo. Annuii di risposta.

    Michael si umettò la bocca dedicandomi un'ultima e soffice carezza sulla nuca.

    «Tornerò fra un quarto d'ora, te lo prometto. Dopo pranzo potremmo guardare Harry Potter».

    «E i bambini?», chiesi perplessa.

    «Questo pomeriggio escono a fare un giro con Grace. Ho tutti i giorni che voglio per spendere tempo con loro. Ora hai più bisogno tu».

    Le gote si tinsero di cremisi.

    «Prince è molto preoccupato, sai?», s’incamminò verso la porta.

    Corrugai la fronte. «Perché?»

    «Pensa di essere la causa della tua malattia».

    «Ma non è vero...»

    Fece spallucce. «Lo so. Ho tentato di dirglielo, ma non vuole ascoltare... è tutta la mattina che prova a farti la limonata calda. Vuole fare tutto da solo, per farsi perdonare», si voltò ridacchiando e massaggiandosi la fossetta sul mento.

    «Oh...».

    Poggiò le dita sulla maniglia.

    «Ho promesso loro di venire a trovarti quando starai meglio. Non vedono l'ora di vederti».

    Sorrisi. «Ti ringrazio».

    Quei bambini erano così dolci che percepivo il cuore infiammarsi d'affetto.

    «E mi sa che dovrai scrivere un biglietto con la tua ricetta fatata», annunciò mentre stava per chiudere la porta dietro di sé. Mi scrutò con aria indefinita. «Prince non finirà di stressarmi fino a quando non avrà ottenuto il rimedio per aiutarti. Mio figlio è uguale a me anche in questo».

    *

    Quel pomeriggio Michael non mi lasciò un attimo.

    Dopo aver pranzato in camera mia – durante il quale lo convinsi a mangiare qualcosa, affermando che altrimenti non avrei ingoiato nulla, anche a costo di morire di fame – come promesso guardammo Harry Potter e la Pietra Filosofale nella sua stanza. Ma soltanto dopo essermi fatta una doccia, perché mi sentivo una pulce.

    Il tempo passò fra un mio sonnellino - dovuto alla febbre che si alzava e si riabbassava -, la lettura di un libro – io Il Cavaliere d'Inverno, lui Harry Potter e l'Ordine della Fenice – e una chiacchierata di tanto in tanto. Parlammo di libri, di film e di cinema.

    Era impressionante quanto Michael fosse devoto a tutto quello che riguardava la creazione di una pellicola: mi disse che, poco prima delle accuse di pedofilia, il suo piano era quello di costruire un immenso impero digitale e cinematografico. Era un progetto di grande scala, che però era stato posticipato a data da destinarsi.

    Parlammo addirittura della nostra passione in comune per i musical e mi confessò di averne prodotto uno, una volta, così come anche un film. Gli piaceva lavorare dietro la telecamera e mi confessò di aver trasmesso questa passione anche a Prince; lavoravano parecchio sui filmini fatti in casa, con la collaborazione di Paris che faceva l'attrice e i nipoti che talvolta venivano a trovarli a Neverland come comparse e co-protagonisti. Era un ottimo modo per passare il tempo divertendosi e istruendosi insieme.

    «Un giorno potresti fare d'aiuto a Paris e recitare con lei...», mi adocchiò sorridendo con l'aria di chi la sapeva lunga.

    Ma io scossi la testa, sogghignando divertita.

    «No, non sono portata per la recitazione. Stare sotto le telecamere mi piace soltanto per fare la cretina occasionalmente».

    Michael mi esaminò in silenzio. Fu indeciso se ridere per le mille espressioni che mostravo o se rimanere concentrato sul discorso.

    «Anche tu una regista, allora...»

    «Mmh, regista no. Sceneggiatrice sì. Scrivere la storia. Strutturarla».

    Si tolse gli occhiali da vista con un delicato gesto dei polpastrelli e li appoggiò sul libro che teneva aperto sulle gambe, seduto sull'altro lato del letto.

    «A quanto pare abbiamo molte più cose in comune di quanto credessi. Non lo avrei mai immaginato, e tu?»

    Gli sorrisi. «Nemmeno io».

    Ricambiò. Si alzò in piedi e poggiò gli occhiali sul comodino, inserendo un segnalibro rigido fra le pagine e richiudendolo con uno scatto. Lo andò a posizionare su una piccola libreria accanto al ripiano dal quale, la sera prima, aveva estratto la videocassetta di Casper. Mentre compiva tutti questi gesti dandomi le spalle continuò a parlare.

    «Sai... io, Prince e Paris avremmo idea di creare un filmino speciale per questo Natale», disse con voce tranquilla. «Sarà bello riguardarlo a distanza di anni» e si congelò sul posto, polpastrelli sulla copertina dello spesso volume. «Sarebbe stupendo se ti unissi».

    Mi incupii.

    «Mi piacerebbe molto... ma quel giorno sarò già in Italia».

    Lo dissi così lievemente che temetti non avesse udito la mia risposta.

    Invece capì molto bene, perché qualche istante più tardi mi fissò mantenendo un'espressione impenetrabile. I suoi occhi parevano due fuochi che ardevano, incandescenti e sfavillanti fra le palpebre ben aperte.

    «Penso che sia meglio che tu rimanga qui».

    «Non penso sia possibile», ignorai i segreti ben celati dal suo viso. «Ho già detto ai miei che – »

    «Non te lo posso permettere», disse serio. «Devi rimanere qui».

    Lo guardai allibita.

    Schiusi la bocca per replicare, ma non mi uscì nulla.

    Michael si umettò il labbro inferiore incrociando le braccia al petto e accarezzandosi l'arto destro con la mano.

    «Sei troppo malata per partire. Starai qui, al caldo, e riposerai a dovere».

    Sapevo che quelle parole non erano un consiglio, ma un ordine.

    Restai muta come un pesce, fredda come pietra, la febbre improvvisamente azzerata per colpa di un fastidio che man mano appannava il cervello come densa foschia.




    Edited by fallagain - 15/2/2021, 22:34
     
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    Capitolo Sedici: La Fuga dalla Gabbia

    Lo squadrai dall'alto in basso.

    Non sapevo se essere più arrabbiata per l'ordine che mi aveva imposto – pur sapendo quanto mi dessero noia questo tipo di situazioni – o per la sfacciata tranquillità con cui me lo aveva detto.

    «Cosa?».

    Michael capì. Mi venne incontro e si sedette sul letto sfiorandomi le gambe coperte. Mi lanciava occhiate impenetrabili.

    «Come tuo datore di lavoro, ti chiedo di rimanere qui e curarti dei miei figli».

    Questa è bella.

    Era una balla grande come una casa. Sapevamo tutt'e due che non servivo lì.

    «Oh. Bene», mormorai.

    Sospirò senza staccarmi gli occhi di dosso. Drizzai un sopracciglio più di un altro, mirando altrove.

    Perché doveva fare così? Perché doveva sfruttare il nostro rapporto di lavoro quando poteva semplicemente parlare con me in un altro modo? Non mi interpellava, prendeva decisioni che spettavano a me. Che cosa sarebbe successo se invece fossi stata io a farlo? Ne sarebbe stato contento?

    «Sarah, so cosa stai pensando». Lo mirai con distacco, pur attratta dall'intensità del suo sguardo. «Ma devo farlo. E tu devi rimanere. Conoscendoti torneresti in Italia anche con la febbre a 39°, soltanto per orgoglio, e non dirmi che non è vero perché non ti credo».

    Arrossii.

    Mi irritai maggiormente e non trovai niente con cui poter ribattere.

    Aveva ragione, non potevo dargli torto, ma questo non era il modo per farmi cambiare idea. Avrebbe dovuto fare una conversazione seria e poi avremmo deciso. Insieme.

    Al mio silenzio imperterrito sbuffò. Lo vidi assumere un'aria stizzita e irrigidire i muscoli del viso.

    «È meglio che ti lasci sola», si alzò.

    Nonostante fosse camera sua non mi stava cacciando: era Michael che mi voltava le spalle e se la svignava. Ignorò il mio fare perplesso e si diresse alla porta. Non mi salutò neanche: uscì senza degnarmi di ulteriori giustificazioni.

    Espirai pesantemente e con un grosso mattone sullo stomaco, torcendomi le dita e mordendo l'interno guancia con fare assorto.

    Avrei voluto prendere un cuscino e gettarglielo in faccia, chiedendogli di tornare indietro subito. Dirgli che il suo atteggiamento era immaturo e che lasciarmi lì così non sarebbe servito a nulla.

    Era la prima volta che mi ritrovavo ad essere “offesa” con Michael. Ed era anche la prima volta in cui lui lo era con me.

    Arrabbiati per cosa, poi?

    Avrebbe potuto dire "Ciao ciao Sarah, ora parti e goditi le ferie in Italia” e io lo avrei fatto senza esitare... e addio a tutte quelle notti in cui avremmo potuto parlare, leggere, passeggiare o guardare un film vicini. Addio alla felicità che, per un momento, mi aveva fatto scoppiare il cuore all'idea di festeggiare con Michael e i suoi bambini.

    Ma io volevo compiere le mie scelte da sola, no?

    Nessuno poteva obbligarmi a fare qualcosa che non volevo fare, giusto?

    In realtà avevo una fifa tremenda, per quello mi stavo aggrappando a scuse e testardaggine insensate. Temevo che il nostro rapporto – che per me stava divenendo una solida amicizia, non più freddo contratto di lavoro – stesse oltrepassando il limite. In qualche modo mi sentivo in dovere di limitarlo e limitare le libertà che aveva con me.

    Ero io la bambina infantile che pestava i piedi a terra.

    Mi vergognai per ciò che avevo detto – anche solo per averlo fulminato con lo sguardo – e una contrazione allo stomaco mi fece venire voglia di vomitare una seconda volta.

    Avrei voluto che Michael e i suoi figli mi stessero meno a cuore di quanto non lo fossero realmente. Desideravo essere felice all'idea che me ne sarei dovuta andare, non triste.

    Avrei voluto che Michael tornasse indietro per potergli spiegare chiaro e tondo quello che pensavo.

    Ma non tornò. Neanche quando mi alzai, uscii dalla stanza e mi avviai verso camera mia. Avrei tentato di dormire, rodendomi il fegato da sola, girandomi e rigirandomi tra le coperte fino a quando non sarei crollata.

    *

    Quando mi svegliai ebbi l'impressione che la mia influenza fosse stata un miraggio, un sogno durato quasi due giorni. La febbre era scesa notevolmente, mi sentivo - quasi - completamente rinata.

    Non ero guarita del tutto, lo sentivo dalla schiena distrutta e dalla poca voglia di mangiare che avevo, ma mi stavo riprendendo piuttosto velocemente.

    Feci le mie cose con la stessa allegria di un vecchio brontolone - andai in bagno, mi lavai il viso e le mani, mi cambiai e indossai vestiti sportivi e puliti. Estrassi una valigia mezza vuota da sotto il letto, con la schiena che scricchiolava dalla spossatezza che non mi aveva totalmente abbandonato, e tirai fuori dagli armadi i vestiti necessari in caso di imminente partenza. Ero così ammattita da credere che Michael mi avesse già preso un biglietto per cacciarmi via a calci nel sedere.

    Stavo per riporre le ultime cose in borsa quando la porta si socchiuse. Una testa corvina di mia conoscenza si sporse al di là della soglia.

    Alzai il capo. Persi un battito.

    Quando ci fissammo, il suo sguardo era al limite fra lo stupore e il dubbio.

    Avvampai e abbassai il mento, esibendo falso disinteresse.

    Entrò in camera rimanendo con una mano ferma sulla maniglia della porta.

    «Che stai facendo?».

    Il fiato mi si bloccò in gola.

    Michael mi studiò da capo a piedi con sopracciglia increspate. La sua espressione lasciava trasparire uno stato confusionale in grado di abbattere ogni teoria precedentemente costruita sulla base delle mie paranoie.

    Aprii la bocca senza far uscire un suono. Scrutai il maglione che tenevo stretto fra le dita, immobile a mezz'aria.

    «I bagagli».

    «E perché?», chiese venendomi vicino, richiudendo la porta.

    Lo adocchiai di soppiatto. Era indeciso se ridere o preoccuparsi seriamente per la mia sanità mentale. Si mordeva le labbra per trattenere un sorriso mentre la fronte si distendeva in attesa di una mia risposta.

    Sentivo le guance bollirmi come non mai, colta da un istantaneo moto di vergogna. Mi credevo un'idiota, soprattutto un’ingenua per aver pensato che Michael potesse buttarmi fuori di casa in quella maniera. Forse la febbre non era scesa come credevo.

    «Perché dovresti partire?»

    Mostrò i denti affogando le mani nelle tasche della felpa rossa.

    «Credi che ti rispedirò in Italia con la forza?»

    Colpita e affondata.

    Percepii il fumo uscirmi dalle orecchie.

    Per tutto il tempo non osai guardarlo, i suoi occhi erano fissi su di me. Credevo che fosse sul punto di ridere.

    «Silly, non hai capito nulla!», borbottò a mo' di presa in giro.

    I brividi mi avvolsero dalla testa ai piedi.

    Lo osservai. Michael non faceva altro che sorridere.

    Mi prese le mani sollevate a mezz'aria e posò il maglione sul copriletto. Successivamente afferrò la sedia vicino alla scrivania e la trascinò fino a quel punto, mentre io mi lasciavo cadere sul materasso con un sospiro.

    Si sedette fronteggiandomi. Chinò la testa e ammirò i suoi palmi adagiati sulle gambe semiaperte. Notai che era vestito con un paio di pantaloni neri e una felpa pesante e scarlatta, la quale risaltava l'ampiezza delle sue spalle e la vita stretta. Si umettò le labbra e mi attraversò con uno sguardo.

    «Ti chiedo scusa», sussurrò, «non sono felice per come mi sono comportato, ma non avevo altra scelta... penso di conoscerti abbastanza bene da reputarti un'ostinata cronica». Arrossì un po’ sulle guance. «La verità è che non voglio che tu te ne vada. Non voglio che tu ti senta privata di quello che io, fossi in te, non esiterei a fare, ma per questo Natale ti vorrei qui», fece spallucce con aria sincera.

    La sua confessione creò uno strano sfarfallio nello stomaco.

    Contraeva e rilassava le dita spasmodicamente, muovendole in aria man mano che il discorso si faceva più enfatico. Le sue parole fecero svanire ogni traccia di amarezza, rabbia o tristezza provata fino a pochi minuti prima, donandomi una sensazione di eccitata serenità.

    Non mi costava fatica credergli.

    «Dovevi dirmelo», dissi con dolcezza, «se mi avessi detto che volevi che restassi, e se mi avessi detto ciò che mi hai confessato ora, ti avrei detto sì». Poi soffocai una risata divertita. «Ok, avresti dovuto insistere un pochino, cocciuta come sono... ma posso ingoiare l'orgoglio quando si tratta di... di un amico», gesticolai.

    Michael si sorprese. «Un amico?»

    Annuii piano.

    Silenzio.

    «Anche tu sei mia amica», mormorò spiazzato. Lo puntai come se stessi per scoppiare di gioia. «Perciò non saresti partita?».

    Scossi la testa con il viso in fiamme.

    Gli angoli delle labbra modellarono il suo volto in un sorriso compiaciuto.

    «Te la senti di scendere per cena?», mi analizzò con più attenzione del solito. «Mi sembra che tu stia meglio ora».

    «Sì, in effetti sì», sussurrai. «Ma mi sento ancora distrutta».

    «Grazie alle medicine starai un po’ meglio, vedrai».

    Si sollevò dalla sedia e mi porse una mano.

    Aveva un palmo grande, morbido, e mi sentivo protetta anche solo quando mi capitava di sfiorarlo. Quel pensiero mi fece comprendere perché – la sera prima – non avevo voluto lasciarlo andare neanche durante il sonno.

    «Penso che faresti meglio a chiamare i tuoi... e mettere via queste cose, che ne dici?», suggerì ridacchiando.

    Io annuii, viso chinato sulle sue scarpe, mantenendo un'espressione di eloquente imbarazzo.

    *

    Quella sera cenai con Michael e i bambini.

    Furono molto entusiasti all'idea di vedermi, soprattutto Prince, il quale si sentiva chiaramente in colpa e non nascondeva il pentimento per avermi "attaccato la febbre": era lui che mi faceva la limonata – avevo dato la ricetta a Michael e quest'ultimo aveva sempre finto davanti al suo bambino di non saperla fare. Riuscii anche a rassicurarlo quando gli dissi che stavo meglio per merito suo.

    La sera guardai anche un film con loro in salotto. Guardammo Koda, Fratello Orso: sia i bambini sia Michael – lui soprattutto – rimasero sopraffatti nel vedermi piangere a dirotto. Quando mi saliva la febbre diventavo molto emotiva.

    Dopo che Michael ebbe mandato a letto i figli, leggendo loro una storia, questo mi raggiunse in camera e mi avvisò che il giorno dopo avrebbe passato la mattinata con i figli. Grace sarebbe arrivata nel pomeriggio.

    Stavo meglio, la febbre era scesa a 37.3°, e con una buona dormita se ne sarebbe andata completamente. Almeno speravo, perché il giorno dopo mi ero prefissata un impegno importante, un appuntamento che non potevo rimandare assolutamente: uscire per comprare i regali per Prince, Paris e Blanket. E per Michael.

    Mi sarei alzata, Michael avrebbe detto ai suoi figli che avevo avuto una ricaduta e silenziosamente sarei guizzata fuori casa, in direzione di qualche negozio di giocattoli nelle zone.

    Non potevo non far loro un regalo - ed ero in grandissimo, imperdonabile ritardo. Se lo meritavano, soprattutto per l’affetto che riuscivano a darmi con così tanto ardore.

    Dovevo far loro un regalo.

    *

    Perciò l'indomani, quando mi svegliai, andai a cercare Michael. Non lo trovai da nessuna parte.

    Prince e Paris – che cercavano di far ridere Blanket con le loro scenette comiche – mi dissero che si era assentato perché aveva avuto "l'ispirazione", quella particolare scintilla che colpisce gli artisti nel momento più imprevisto della giornata alla quale non si possono sottrarre. Entrambi mi dissero che lo faceva di tanto in tanto.

    Solo a mezzogiorno si fece vivo, felice come una pasqua, e pranzammo mangiando toast cucinati da egli stesso. Cercai con tutte le mie forze di attirare l'attenzione di Michael, aspettando che i figli si allontanassero quel tanto che bastava affinché non udissero le mie parole, ma ciò non avvenne: quando stavano tutti e quattro insieme era come se fossero uniti da una catena. Neanche quando Grace venne a farci visita, alle quattro di pomeriggio, i figli si staccarono dal padre.

    Decisi allora di fare a modo mio, fingere un malessere come da programma; mi sarei diretta in camera e avrei lasciato un biglietto a Michael ben individuabile sopra il materasso, che spiegasse il perché della mia fuga.

    Sapevo che era un piano ridicolo, privo di senso e in grado di essere scoperto facilmente, ma sarei tornata molto tardi, verso mezzanotte, quando tutti dormivano e non avrebbero udito neanche un rumore di passi. In più i bambini – e pure Grace – non entravano mai in camera mia; avevano molto rispetto della privacy e con me che fingevo di stare male l’unico che poteva visitarmi era soltanto il padre. L'unica complicanza sarebbe stata uscire di casa senza essere vista, ma dovevo provare.

    Misi in atto il piano falsificando giramenti di testa e freddo, attirando la preoccupazione di Prince e Paris e la perspicace attenzione di Michael, fuggendo in camera. Chiusi la porta a chiave.

    Indossai jeans neri e un maglione traforato color vinaccia, presi una giacca pesante che praticamente non usavo mai e una sciarpa bianca, misi le mie scarpe da ginnastica preferite e qualche banconota da 50 dollari in tasca, assieme ai documenti necessari per guidare.

    Presi un foglio di uno dei tanti block notes sparsi per la scrivania e vi scrissi in grande: "Sono andata a cercare i regali per i bambini. Ho tentato di dirtelo, ma non ci sono riuscita. Arriverò tardi, di' loro che non scenderò per cena perché sto poco bene. Grazie, Sarah". Lo posizionai dove ero sicura che lo avrebbe notato (al centro del letto) e uscii dalla stanza con passo leggero.

    Guardai in lungo e in largo e sentii i bambini parlare dal corridoio opposto alle scale. Non aspettai oltre e mi fiondai giù in un batter d'occhio.

    Mi sistemai il giubbotto e la sciarpa sul collo e misi mano alla porta d'ingresso.

    Era chiusa.

    Maledizione.

    «Cerchi la chiave, topolino fuggitivo?»

    Mi voltai a rallentatore.

    Michael mi fissava con un ghigno divertito, la fronte aggrottata in segno di disapprovazione. Gli occhi erano ridenti. In mano teneva la chiave e me la mostrava con aria furbina, ben distante da me nel caso gli fossi saltata addosso per prenderla.

    Arrossii. «Devo uscire, puoi aprirmi?»

    «Mmh...». Mi venne vicino e io tenni le orecchie ben aperte, fissando le scale. Ero allarmata e Michael lo sapeva bene. «Prima dimmi perché stavi cercando di scappare con le tue condizioni di salute», s'accostò a trenta centimetri dal mio volto, «non mi piacciono questi misteri».

    «Non posso parlare ora, Michael, è una storia lunga!», bisbigliai sempre più in ansia. Lui non fece nemmeno un passo per indietreggiare o darmi la chiave: anzi, alzò un sopracciglio per la curiosità sempre più grande. «Dai, ti prego! Ti spiego tutto quando torno, c'è un biglietto in camera mia!», gesticolai.

    Michael rifletté in silenzio, guardandomi impassibile.

    Nell'atto di sbuffare esasperata mi afferrò il polso. Si guardò indietro e tese l’orecchio in direzione delle risate dei bambini. Quando mi osservò di nuovo mi studiava con una strana luce negli occhi che non prometteva nulla di buono, sorridendo altrettanto furbescamente.

    «Vieni con me».

    Mi trascinò verso le scale. Prima che potessi dire di fermarsi, Michael svoltò a sinistra, verso una minuscola porta ben celata a occhi curiosi, situata proprio nel sottoscala. La aprì e mi fece entrare per prima. La richiuse soltanto quando fu dentro anche lui e per un po' ciò che vidi fu solo buio.

    A tentoni cercai la parete alle mie spalle. Ciò che percepii furono tessuti di vario tipo, dai più ruvidi ai più lisci: eravamo in uno sgabuzzino.

    Per un attimo credetti che stesse giocando a chissà quale passatempo per farmi venire un collasso. Non lo sentii emettere un sospiro per diversi secondi – minuti, forse.

    «Michael?», lo chiamai titubante.

    Il suo sussurro mi sfiorò l'orecchio destro. «Dimmi...».

    Santo Cristo.

    «E la luce?», cercai di capire dove fosse.

    Non mi mossi neanche di un centimetro, preoccupata per il fatto che – con il minimo movimento – avrei potuto scontrarmi con il suo corpo.

    «Non c'è», mormorò. «E abbassa un po’ la voce, potrebbero sentirti».

    Il cuore balzò in gola e non fiatai. Era proprio di fronte a me, immobile come una statua; lo percepii quando mi spostai in avanti, andando a sbattere contro il suo petto con il seno. Una strana ma eccitante angoscia mi stritolò le viscere. La voce era più bassa e calda del solito.

    «Soffri di claustrofobia?».

    Rabbrividii.

    «No».

    «Allora ok», bisbigliò. «Spiegami tutto... a bassa voce».

    Trovai il respiro. Mi feci coraggio. «Devo andare a prendere qualche regalo per Prince, Paris e Blanket... ho finto di star male per non dare sospetti, ho calcolato ogni cosa! Sapevo che tu avresti potuto avere qualche dubbio, perciò ho lasciato un biglietto in camera mia per farti capire il perché della mia assenza...»

    «Perché non mi hai avvisato?»

    «Ci ho provato! Ma i bambini erano troppo vicini. Non avrei potuto chiamarti da parte, avrebbero capito», continuai impettita. «Non avevo altra scelta...».

    Mi parve di sentirlo rabbrividire. Il suo torace tremò a contatto con il mio.

    «Sarah...», soffiò un roco sussurro, incespicando. Mi strinsi ai vestiti alle mie spalle con entrambe le mani, cercando di non badare al buio e alla stramba situazione in cui eravamo. «Non puoi uscire, stai ancora poco bene. Potrebbe risalirti la febbre».

    «Non importa», brontolai. La febbre sarebbe salita se non si fosse mosso di lì. «Io vado lo stesso».

    «E come fai? Dimentichi che siamo chiusi in questo sgabuzzino... e io ho la chiave anche di questo», ridacchiò.

    Non sapevo se stesse cercando di prendermi per i fondelli o se avesse intenzione di rimanere lì, con me, per un bel pezzo.

    «E i bambini? Cosa penseranno della tua assenza improvvisa?», borbottai alzando un sopracciglio.

    Michael non lo vedeva, ma il rossore sulle mie guance cominciava a scottare. Ero un uccellino in gabbia. Il suo respiro che sfiorava fronte e capelli di sicuro non aiutava a mantenere la concentrazione su pensieri casti, sono onesta. Mi sta mettendo in soggezione, pensai, vuole prendermi in giro apposta.

    «C'è Grace».

    «E secondo te non verranno a cercarci?»

    «Non qui», ribatté prontamente, «non se restiamo chiusi dentro...»

    Le ginocchia si fecero molli.

    Cominciai a escogitare tutti i possibili modi per rubargli la chiave; la mia mente contorta cominciò a pensare a cose così tanto perverse che scoppiai a ridere da sola.

    Non ero mica normale.

    «Perché ridi?».

    Immaginai la sua espressione confusa per quel mio tiro di matto e provai a contenermi per non farmi sentire dai bambini.

    «Niente, niente...» sogghignai, arrossendo, «fammi uscire, te ne prego! Non fare il fantasma dispettoso... si insospettiranno!»

    Silenzio.

    «Michael...?», lo chiamai ridendo.

    «Non è detto che io voglia».

    Eh?

    Un altro sospiro basso e profondo.

    «Non è detto che io voglia lasciarti uscire» sussurrò. «Non prima di...»

    Ero un blocco di cemento.

    Corrugai la fronte. «Di...?»

    Silenzio.

    «Prima di avermi fatto una promessa, ossia di lasciarmi venire con te».

    Ripresi a respirare.

    Non avrei mai immaginato quel tipo di domanda, dato che ero la tipica persona che leggeva i doppi sensi anche quando non ce n'erano.

    Tuttavia quel sollievo fu sostituto da un’immediata preoccupazione. Michael mi aveva accennato, durante le nostre chiacchierate, che a malapena riusciva a fare shopping senza essere assalito da masse e masse di gente che urlavano il suo nome; non poteva andare al cinema, non poteva andare in libreria e nemmeno fare una passeggiata, se non nascosto da un travestimento ben congegnato (che funzionava il 10% delle volte).

    «Ti assaliranno...»

    Dette un buffo spasmo di risata, ma quando rispose la sua voce era traballante.

    «Tu non preoccuparti».

    E io invece mi preoccupavo parecchio.

    «Ti prego... lasciami venire con te». Fece un passo indietro. «Pensalo come il tuo regalo di Natale per me! Non chiedo altro se non questo», sorrideva.

    «D'accordo... d'accordo», bisbigliai esasperata. «Ma ti devi travestire bene. Molto bene. E mentre lo fai, ti aspetto in macchina... cosa ti inventerai per tranquillizzare i bambini?»

    Silenzio.

    «Dirò che mi hanno chiamato per un impegno improvviso. A volte capita, non è una cosa nuova per loro. E darò l'ordine di non disturbarti mentre riposi», disse con una certa sicurezza nella voce. «In cambio mi sa proprio che dovremo fare qualcosa per farci perdonare».

    «Potremmo preparare il cenone di Natale! Anche se dubito che la cucina possa rimanere intatta», dissi con altrettanta allegria.

    Michael rise in modo strano – così strano che pareva lo stesse facendo sotto sforzo – e aprì la porta dello sgabuzzino. Quel maledetto mi aveva mentito: non l'aveva affatto chiusa a chiave.

    Una lama di luce lo colpì di sfuggita. Mella penombra intravidi i suoi occhi brillare. Cercò di non farsi notare e rimanere all'oscuro, spostandosi di lato.

    «Vedrò di fare più in fretta che posso», mi lanciò la chiave della porta principale - che riuscii a prendere al volo - e mi lasciò andare via.

    Non mi voltai per capire se fosse uscito o meno da quella stanzetta oscura. Tuttavia, il mancato suono di una porta che si chiudeva alle mie spalle mi fece intuire che era rimasto lì.

    *

    Ci dirigemmo a Los Angeles non appena fummo fuori dal ranch.

    Mi aveva raggiunto in parcheggio vestito con un paio di jeans, una felpa larghissima con cappuccio, un giubbotto di pelle nera, sciarpa, occhiali da sole, baffi, barba e sopracciglia finte; aveva però mantenuto i suoi mocassini e iniziai a credere che da quelli non riuscisse a separarsi mai.

    Non appena salì in auto mi spanciai dalle risate, dicendogli che non riuscivo a prenderlo sul serio. Michael si era finto offeso e io avevo fatto partire la macchina continuando a sghignazzare fra me e me.

    Dovetti farlo stendere nel bagagliaio per uscire dal ranch senza che le sue guardie facessero storie. Una volta lontani dai cancelli era tornato sul sedile anteriore al mio fianco.

    Mi aveva indicato un paio di negozi da visitare, tutti a LA, e in centro c'erano troppe persone. Non volli rischiare. E purtroppo neanche Santa Barbara non soddisfò le mie richieste.

    Chiesi a Michael un suggerimento su qualcosa da regalare ai suoi figli, ma lui scosse la testa e giustamente disse che dovevo scegliere io.

    «Sei di grande aiuto, sai?» gli scoccai un'occhiata fulminante, in direzione di Santa Monica.

    «Sempre a tua disposizione, darling», sorrise maliziosamente.

    Scossi la testa e alzai gli occhi al cielo.

    Michael mi fissò senza dire una parola. Quando lo intercettai con la coda dell'occhio sorrideva dolcemente.

    Mi accarezzò un ciuffo di capelli e me lo pose dietro l'orecchio, facendomi vibrare il fiato mentre mi sforzavo di mantenere l'attenzione sulla strada.

    «Grazie per avermi portato con te. Ne avevo bisogno. Non sai quanto necessiti di aria pulita».

    «Lo so, Michael». Le sue occhiate continue mi distraevano. «Ma questo non significa che ti porterò in centro a Los Angeles, mai e poi mai».

    Ridacchiò ammirando il panorama al di fuori del finestrino, arricciando il naso con aria poco soddisfatta. Non mi contraddisse.

    Arrivammo a Santa Monica e lì chiesi indicazioni su qualche negozio di giocattoli nelle zone. Finalmente ne trovai uno decente, vi entrai e vi girai in lungo e in largo con Michael. Quest'ultimo mi stava sempre alle calcagna, esaminando i giocattoli decisamente più estasiato di me. Fu costretto dal mio sguardo truce a non emettere una sillaba.

    Eravamo due bambini irrecuperabili. Forse era proprio per questo che il nostro rapporto si rafforzava ogni giorno di più. Ci capivamo, avevamo parecchie passioni e gusti in comune, e ci leggevamo nella mente senza parlare.

    Ci aggrappavamo a cose bambinesche, sperando che queste potessero riempire la nostra età adulta e quella mai vissuta.

    A Prince comprai un personaggio di Star Wars che non aveva nella sua collezione - me lo ricordavo perché mi aveva detto che lo desiderava da tempo - e rinunciai a un piccolo set per giovani registri, dato che il padre aveva già provveduto.

    A Paris dedicai un set per piccole make-up artists, con trucchi vari da applicare al busto di una barbie a grandezza naturale. Qualche settimana prima mi aveva visto con eyeliner, mascara e fondotinta e mi aveva chiesto se potessi insegnarle come fare.

    A Blanket comprai un completo blu e arancione, più un tenero peluche dal cartone Monsters & Co.. Michael se la rise sotto i baffi udendo le parole e i versi che emettevo non appena vedevo i mini completini per neonati; tentò di trattenersi e per questo rischiò di soffocarsi.

    Alla fine, prima di andare, chiesi timidamente a Michael se desiderasse qualcosa in particolare. Lui mi scrutò intensamente. Immaginai che da sotto le lenti scure i suoi occhi fossero spalancati come quelli di un pesce palla.

    «Dai, ti dovrò pur fare un regalo!» gli sorrisi dandogli un piccolo buffetto sul braccio. «Io me lo faccio sempre a Natale, sai? Mi compro qualche cianfrusaglia o qualche vestito. Stavolta prenderò un giocattolo!».

    Michael mi si accostò all'orecchio, dicendo che non aveva bisogno di nulla. Di tutta risposta lo ignorai e mi aggirai per l'ennesima volta in negozio.

    Le cassiere, impazienti, aspettavano che ce ne andassimo; se non avessi trovato qualcosa nell'immediato ci avrebbero sbattuto fuori a calci. Comprensibile, visto che era orario di chiusura.

    Michael mi seguì e continuò a sussurrarmi che non importava, che non gli serviva un regalo, ma io me ne infischiai volutamente. Quando fu sul punto di sbattermi la testa contro uno scaffale per farmi ragionare, il suo sguardo si bloccò su un strano oggetto, verso uno degli scaffali più nascosti del locale. Lo seguii con gli occhi e capii.

    Su quella mensola ci stavano tanti cuccioli di animali, dai volatili ai mammiferi, da quelli esotici ai più comuni. Sembravano fatti di pelo vero.

    Michael avanzò e prese un elefantino in posa, seduto sulle zampe posteriori con la proboscide rivolta allegramente verso l'alto: gli occhi dell’animaletto sfavillavano di luce, neri come il carbone, e la sua pelle era liscia come velluto. Io, al contrario, fui attratta da un cerbiatto dagli occhi grandi e nocciola; se ne stava retto su tre zampe, ammirandoti con la sua aria dolce e il musetto inclinato verso destra.

    Michael girò e rigirò l'elefantino fra le dita con dedizione e accuratezza. Si abbassò gli occhiali con un polpastrello e mi scrutò con un sorriso stirato.

    Non ci fu bisogno di dire altro.

    *

    Quando uscimmo erano le otto meno un quarto e prendemmo la cena ad un take away. Sostammo a Malibu, su una ripida scogliera a forma triangolare. Era un posto appartato con la fortuna di una vista diretta sul mare. Michael approfittò per togliersi occhiali, barba, baffi e sopracciglia finte. Mangiammo seduti su alcune in rilievo rocce, ascoltando la melodia dell'oceano.

    «Amo il mare» Michael guardò distrattamente l'orizzonte. «La sua vastità e il suo profumo... ascolto il rumore delle onde e divento parte del mondo, dell'universo intero. Mi sento una cosa sola con la Terra, con l'acqua, con tutti gli esseri viventi. Respiriamo tutti la stessa aria, Sarah, e siamo tutti parte di uno stesso infinito».

    Le onde si scagliavano contro le rocce creando deboli tonfi. La brezza massaggiava i nostri visi ghiacciando naso e guance. L'odore della salsedine mi fece dimenticare i minuti che passavano. Gli insetti cantavano, suonavano le loro eterne melodie, accompagnando la voce di Michael.

    «Davvero pensi questo?» domandai dopo aver riflettuto sulle sue parole. «Sì, insomma, che siamo una cosa sola?».

    Lui adocchiò il cielo stellato sopra le nostre teste. Inspirò profondamente. Storse le labbra in un sorriso crucciato ed io lo studiai aspettando la sua risposta.

    «Io penso di sì... e tu?».

    Fu il suo turno di osservarmi e il mio di ammirare il cielo blu notte.

    «Sì, credo di sì. Probabilmente ce lo dimentichiamo perché siamo tutti troppo presi dalla vita di ogni giorno. Però con questa scusa mi pare che la gente se ne approfitti, e che il mondo giri sempre più vorticosamente al contrario...»

    «Sono d'accordo» sussurrò umettandosi il labbro inferiore, analizzandomi. «Ma come fai a ricordare chi sei veramente con tutto il buio che ti circonda?»

    Trassi un profondo respiro, fissandomi i piedi.

    «Io credo che – per quanto la vita ti possa mettere alla prova – una parte di te rimane intatta. In alcuni casi di più, in altri di meno. Magari è soltanto una scintilla di coscienza, ma per non dimenticarla una persona deve essere forte. Deve volere con tutta se stessa di rimanere fedele a se stessa. Capisci che intendo?».

    Annuì. Guardò dinanzi.

    «Tu pensi che io ce l'abbia ancora, qui dentro?».

    «Oh, se ce l'hai!» proruppi emozionata. Michael mi squadrò sbattendo debolmente le palpebre. Ricambiai con un sorriso enorme. «Hai una luce che non riesci a immaginare. Ti sei perso, sei circondato da persone cattive che ti mettono a dura prova, ma non credo affatto che la tua luce sia scomparsa. Penso che tu sia un leone».

    «Dici?» si bagnò la bocca.

    Annuii solennemente. «Solo una persona luminosa e piena d'amore guarderebbe i suoi figli come fai tu. Lo vedo qualche volta, che ti emozioni anche solo vedendoli sorridere. Tu sai chi sei e rimani chi sei, a discapito del male che ti viene fatto», mi strinsi nelle spalle.

    Puntò lo sguardo verso una direzione ignota, esaminando le oscure acque salmastre con le iridi coperte di lacrime. Si torse le dita delle mani ondeggiando le gambe a destra e a sinistra.

    L'unica luce che mi permetteva di osservarlo di soppiatto era quella della Luna, ma lo lasciai libero di piangere senza che il mio sguardo indagatore rimanesse puntato su di lui. Magari sarebbe stato meglio spingermi verso di lui e abbracciarlo, ma l'unica cosa che mi venne da fare fu fingere tranquillità.

    Fu Michael a prendermi la mano e portarsela sulle labbra di punto in bianco. Si chinò sul palmo e gli dedicò un lungo bacio, prima di intrecciare le dita con le mie e portarsele sulla coscia.

    Gli rivolsi un'espressione sorpresa mentre le tempie pulsavano al suo contatto.

    Quel gesto fu capace di mandarmi su di giri in meno di mezzo secondo. Improvvisamente credetti che la febbre mi fosse salita a dismisura.

    Mi strinsi nella sciarpa e nel cappotto.

    Michael rafforzò la presa.

    «É meglio tornare a casa. Stai prendendo freddo», non mi guardò, ma lo intravidi sorridere furbescamente. «Non è che tremi per qualcos'altro?»

    Arrossii. «È soltanto un brivido passeggero».

    «Mmh...». Mi adocchiò il collo scoperto dalla sciarpa. Lo coprì facendo uso della mano libera, scaturendomi dolci pulsazioni sulla zona occipitale della nuca. «Meglio se ti copri».

    Una folata di vento guidò il suo profumo nei polmoni. Era buono e maschile come al solito, con una nota floreale che non gli avevo mai sentito addosso. Anche il mio gli arrivò sotto il naso – nonostante ne avessi messo soltanto una goccia – poiché si allontanò espirando profondamente.

    Michael riprese il discorso adocchiando il mare sotto di noi. Mi chiese come avevo ritrovato la luce nei momenti più neri.

    «Non è che l'abbia proprio fatto», sussurrai. «Mi definisco più "un lavoro in corso". Sono nel bel mezzo di un lungo viaggio, un percorso in cui sto cercando un qualcosa che metta d’accordo me con la mia vita. Provo a vedere la gioia nelle piccole cose, che siano minuscoli progressi o semplici momenti di gratitudine quotidiana, e queste riescono a mettere in pace le mie insicurezze almeno per un attimo».

    «Quali insicurezze?»

    Il respiro si annodò in gola.

    Esibii una spensieratezza che non provavo. Tuttavia, gli occhi di Michael furono capaci di penetrare quella facciata.

    «Ad esempio, anche se non sembra, tendo a buttarmi giù facilmente, sai, a sottovalutarmi. Ora molto meno di un tempo, sono decisamente più forte e sicura di me. L’età e l’esperienza aiuta. Eppure una volta crollavo al primo sassolino che incrociavo sul cammino; il minimo intoppo o rifiuto mi mandava in crisi e mi faceva chiudere a riccio nei confronti del mondo intero. E poi ho cominciato a focalizzarmi maggiormente sulle cose che andavano, molto di più rispetto a quelle che non lo facevano, sottolineando e complimentando le mie vittorie, grandi o piccole che fossero, personali o professionali».

    «Non ti sentivi mai sola?». Il suo tono era soffice e nostalgico. «Non hai mai avuto bisogno di essere salvata da qualcuno, ma quel qualcuno non arrivava mai? Eppure una parte di te non voleva chiedere aiuto, preferiva farcela da sola... capisci che intendo?».

    «Oh sì, eccome», mormorai alzando le sopracciglia e puntando l’oceano. «Tenti di rialzarti, desideri farlo con le tue stesse forze. Non accetti che qualcun altro lo faccia al posto tuo. Al contempo vorresti che qualcuno si sforzasse di starti accanto incondizionatamente, senza che tu glielo chieda, anche se sei la persona più complessa e contraddittoria di questo mondo. Un po' come farsi desiderare, augurandosi di non far allontanare nessuno a causa dei tuoi soliti meccanismi di difesa o il tuo caratteraccio».

    La melodia delle onde riempì il silenzio.

    «Come fai...»

    «Mmh?».

    Lo osservai e mi abbassai la sciarpa sul collo per poter parlare con più facilità. I suoi occhi parevano infuocati.

    «Dimmi come fai a capirmi dentro in questo modo».

    Scostai lo sguardo. «Abbiamo passato situazioni diverse ma i sentimenti sono gli stessi, credo...». Dondolai avanti e indietro con il busco e infilai la mano libera in tasca. «Anni e anni cercando di trovare la persona giusta per darsi la zappa sui piedi da soli, che idiozia. Se penso che mi chiudevo al più piccolo segnale che qualcosa non stava andando per il verso giusto o come volevo io, mi viene da ridere. Pian piano ho allontanato tutti… avevo paura, tremendamente paura».

    «Con l'immenso bisogno di sentirti amato e talvolta adorato». Strinse le mascelle e guardò avanti. «E alla fine ti fidi sempre delle persone sbagliate. Ti chiedi sempre quando il dolore - compresa la tua stupidità - finirà...»

    Le iridi di Michael si confusero dal pianto. Un’altra goccia salata spuntò dal suo occhio destro e la vidi scintillare sotto la candida e opaca luce lunare. Lo evitai con il naso che pizzicava.

    Sentii l'improvviso bisogno di sfogarmi. Iniziai a parlare a vanvera senza che lui mi avesse fatto una vera e propria domanda, senza che Michael mi avesse detto che gli importava conoscere quel lato di me. Fu la prima e vera volta in cui riuscii a confessare le mie paure e la mia fragilità a qualcuno di mia spontanea volontà.

    «Spesso mi sono sentita inutile», bisbigliai commossa, perdendomi nella notte con fare assente, «anzi, mi sono sempre sentita così, umanamente parlando. Bravissima negli studi, per carità, ma nei rapporti personali una frana. Una ragazza con nulla di speciale da offrire. In tutti ho sempre visto delle qualità che difficilmente riesco a trovare in me stessa.

    Penso che sia questo l'obiettivo della mia vita: credere che posso donare qualcosa di buono a questo mondo e che posso cambiare qualcosa. Credere in me stessa, sapendo che ho molto da offrire e che sono speciale così come sono. Ero convinta di aver risolto tutto, sai, ignorando le mie paranoie, invece non mi hanno lasciato in pace neanche un secondo. Non lo fanno neanche ora.

    Non riesco ad avvicinare nessuno come vorrei. Mi chiedo se sono troppo esigente o se sono un pesce fuor d'acqua. Mi sento una straniera per la maggior parte del tempo. Cerco un luogo a cui appartenere, anche se in realtà desidero persone con cui sentirmi a casa. Non dico di essere una perla rara, anzi; desidero soltanto che qualcuno mi guardi e dica: “Io ti conosco, so chi sei, ti adoro per tutto ciò che sei e so che vedi lo stesso in me”.

    Mi facevo – e mi faccio ancora – tanti problemi perché non credo di poter amare davvero. Sono diventata ancora più fredda negli ultimi anni, incapace di lasciarmi andare... non riesco a esprimere le mie emozioni. Ho sempre paura che la mia felicità non possa durare a lungo, esattamente come è successo in ogni mia relazione o amicizia. Delle volte mi è davvero difficile abbracciare qualcuno con naturalezza. Non sono mai stata capace di dire anche un semplice “Ti voglio bene” perché nessuno me lo ha mai insegnato – i miei genitori mi amano, ma non me lo hanno mai detto apertamente. È come se si aspettassero il mondo da me, così tanto che non credo di meritarmi questo tipo di dimostrazioni. E la mia timidezza non ha di certo aiutato». Scoppiai a ridere. Era una risata sardonica, priva di allegria. «Dico di non volermi fidare di nessuno, ma alla fine ne parlo con te...»


    I polpastrelli di Michael mi avvolsero sfiorando la pelle con dolci carezze. Mi fissava e mi lasciava parlare. E io parlavo, parlavo e basta, come un automa che ripete sempre le stesse identiche cose.

    Sospirai facendo scemare l’allegria.

    «Da piccola cercavo qualcuno che mi chiedesse che cosa provassi... o che me lo tirasse fuori. Che rimanesse ad ascoltare le mie parole e che mi avrebbe capito nel profondo, senza giudicare e senza limitazioni di alcun tipo. Io stessa ho provato a comportarmi così con gli altri, ma vedendo che non era un sentimento ricambiato ho iniziato a pesare il mio affetto. Ho smesso di dare il mio amore incondizionato a chiunque. Quando hai un problema e gli altri pensano che le tue siano solo "futili preoccupazioni" è il momento di farsi due domande... a meno che tu non sia veramente una pigna rompiballe». Ridacchiammo. «Sono grata di essere nata e cresciuta senza problemi di salute, come di essere l’erede di una famiglia benestante e ben messa. Sono una donna fortunata, ma sento comunque un vuoto.

    Chi vuole ignorare la mia freddezza e scavare al di sotto della mia corazza? Chi è pronto ad accorrere per me? Non è una cosa che posso pretendere, ma spesso mi sono chiesta: “Perché io no?”».

    «Sarah...».

    Sfuggii ai suoi occhi e mi strofinai le palpebre per cancellare le lacrime. La gola mi faceva male, come se avessi finalmente sputato un nodo che non mi permetteva di respirare da anni.

    «Sarah, guardami».

    Lo feci. Aveva le iridi arrossate e una postura rigida.

    «Sarah, tu non sei inutile».

    «Lo so...».

    Sollevò le sopracciglia. «No, tu non lo sai».

    Mi sembrò di aver già vissuto quella scena o di averla vista in qualche film che non ricordavo.1

    «Dimmi, eri inutile quelle volte che mi sei stata vicino quando ho pianto? Eri un'estranea e non mi hai mai abbandonato. Ti sembra poco questo?»

    Chinai lo sguardo sulle nostre mani abbracciate. «No...».

    «Appunto. Come non sei inutile per me, non lo sei neppure per i miei figli, che ti vogliono bene e che non vedono l'ora di giocare con te quando ti vedono. Ti credono loro amica. E tu pensi che donare amore ai miei figli sia niente? Per questa famiglia e per molte altre tu sei o sei stata una figura importante. Hai così tante belle qualità dentro di te che non posso neanche descriverti... sei dolce, buona e comprensiva... e sensibile... e speciale.

    E poi non è vero che sei fredda. Sei solo impacciata nel manifestare i tuoi sentimenti. Pensi di non riuscire a mostrare nulla, ma in realtà riesci a dare tanto. Con me lo hai fatto. I tuoi gesti e la tua presenza hanno espresso ogni “Ti voglio bene” che non hai mai detto a voce alta. Hai soltanto bisogno di qualcuno che ti aiuti a lasciarti andare. Forse non te ne sei accorta, ma inconsciamente lo stai facendo e stai avendo fiducia in qualcuno, in me. E questo, per quanto possa valere, mi riempie il cuore. Sono fiero di essere quel qualcuno che ti permette di liberarti da un peso così grande».

    Sorrisi torturandomi nervosamente i capelli. Sperai che non cogliesse la tristezza che non mi aveva abbandonato.

    Perché, per quanta felicità potesse donarmi, quello era un blocco di cemento che portavo sulle spalle e dentro la testa da anni.

    Mi posò un bacio sulla tempia. «Sei più forte di quanto credi».

    Mi abbracciò e timidamente infossai il viso fra i suoi capelli. Tutto sapeva del suo inebriante profumo e di quello salmastro del mare. La sua presa scuoteva il cuore come un martello pneumatico. Il naso pizzicava tanto da prudermi. Le lacrime mi sbavavano la vista.

    Io non volevo essere sempre forte.

    «Grazie...», emisi a fior di labbra.

    Me l'ero sentito dire da tutti. Da tutti coloro che venivano da me e mi chiedevano aiuto, da tutti quelli che – egoisticamente o per colpa mia – preferivano non guardare oltre le apparenze.

    Non riuscii a ricambiare l'abbraccio.

    «Sarah...».

    Percepii una voragine farsi sempre più profonda nel petto.

    Mi scostò afferrandomi le spalle con le mani. Puntai un mare che non riuscivo più a definire.

    «Cosa c'è?»

    Silenzio.

    Scossi la testa serrando le labbra con forza.

    Non ero solo triste: ero completamente pervasa dal suo affetto. Tutto questo rendeva la situazione a dir poco insopportabile.

    «Sarah», Michael mi accarezzò la testa. «Ascoltami».

    Non volevo mostrarmi debole.

    Negai ancora più energicamente.

    Michael mi circondò le guance con i suoi tiepidi palmi. Con un po’ di sforzo mi avvicinò a sé. Sebbene fossi in grado di ammirarlo soltanto di sottecchi, notai che la sua faccia era contratta dalla comprensione.

    «Lascia andare. Lascia andare tutto».

    Non una parola.

    Non una risposta.

    Il mondo si appannò. Smisi di respirare per un lungo, indefinibile istante.

    Mi allontanai con un brusco movimento del capo facendolo rimanere a bocca aperta. Voltai il capo verso l’oscurità, dove Michael non avrebbe potuto guardarmi in faccia, e pregai affinché potesse scomparire da lì.

    Le labbra fecero sfuggire un cupo spasmo di pianto.

    Espirai pesantemente, rabbrividendo.

    Quel magone che avevo conservato gelosamente, in solitudine, colò dalle iridi e decorò le guance di un nero invisibile. Mi faceva mancare l'ossigeno, il controllo, per non parlare del violento pulsare del sangue nelle tempie. Le dita tremavano e non riuscivo più a vedere nulla.

    «Sarah!»

    Michael urlò non appena mi alzai dallo scoglio e accorsi in direzione della macchina.

    Soffre già abbastanza per le accuse di pedofilia, non ha bisogno del mio dolore, pensai inizialmente. In realtà stavo solo giustificando il mio comportamento infantile, causato da una cosa così normale come piangere.

    Non lo stavo facendo per lui. Semplicemente non credevo di essere pronta ad esporre così apertamente le mie emozioni.

    «Sarah, fermati!»

    Mi arrestai e le gambe furono sul punto di cedere. Annaspai come se stessi affogando nello stesso oceano che avevamo ammirato fino a poco fa.

    Tanti ricordi risalirono in superficie. Ricordi dell'infanzia, di quando venivo presa in giro o me ne stavo nel mio cantuccio preferito, in giardino, con le mani appese alla rete metallica del recinto guardando i campi verdi e non coltivati pregando affinché potessi volare. Ricordi della mia insipida adolescenza, ricordi dei litigi con i miei genitori per la mia partenza in America. Ricordi di tutti i sacrifici che avevo fatto per mostrare a tutti che potevo farcela da sola. Da sola, come sempre. E sì, ricordi degli amori che non erano durati, delle amicizie superficiali e di quelle sporadiche ma sentite. Ricordi della gente a cui avevo voltato le spalle e della gente che le aveva voltate a me. Ricordi dei legami che erano morti con la distanza e di quelli che ancora rimanevano, ma che non erano abbastanza intimi da lasciarmi un segno nel cuore. Ricordi del vuoto che avevo sentito e che non era stato ancora riempito.

    Avevo bisogno di affetto, questa era la verità. Di donarlo, sì, e anche di riceverlo. Un amore che non avevo mai ritrovato in tutte le mie ricerche, forse per mia estrema pignoleria o per mia innata selettività. Un amore che non esisteva, forse. Comprensione, risate, o magari, semplicemente, una mano stretta nella mia. E che durasse per sempre.

    Quel luogo che cercavo, quello che volevo disperatamente trovare, era una persona.

    «Sarah, non ignorarmi...»

    Mi fermò per l'avambraccio sinistro e tremai di riflesso.

    Affondai il viso in una mano e mi lasciai andare al pianto - uno di quelli che non avevo mai osato iniziare per paura di non riuscire a smettere.

    «Vieni qui...», mormorò.

    Mi voltò dolcemente ed io non osai protestare. Mi sfiorò il capo con carezze delicate e lo guidò verso l’incavo del suo collo, dove trassi riparo; continuai a piangere, a piangere e a piangere. Mi faceva perfino male il cuore, non soltanto la gola.

    «Sfogati...» sussurrò. Mi strinsi spasmodicamente alla sua giacca pesante. «Non trattenere nulla, butta fuori... ci sono io... respira...»

    Sebbene stessi male, mentre dolore e solitudine rimbombavano nel cervello regalandomi forti giramenti di testa, sentivo una nuova emozione dentro di me. Qualcosa che avevo smesso di provare da... da parecchio. Ma quella volta era un po' diversa. Più forte... più... più strana. Strana e basta.

    Michael mi baciò la nuca senza smettere di pettinarmi i capelli con le dita, abbracciandomi forte. Come una vera ragazzina di ventotto anni, piccola e impaurita, nelle braccia del suo saggio angelo custode.

    C'era Michael per tutte le persone che non c'erano mai state.

    *

    Quando mi calmai, seppur lentamente, Michael non fece nulla per lasciarmi andare. Mi tenne stretta a sé per un'interminabile quantità di tempo.

    Dal momento in cui separò il mio viso dal petto, cullandolo fra le dita solide e morbide, asciugandomi le gote con i polpastrelli, desiderai non incrociare le sue iridi scure per sviare l'imbarazzo di quella situazione.

    Michael sorrideva.

    «Stai meglio?»

    Assentii.

    Anche le sue guance erano state rigate da alcuni rivoli salati.

    «Penso che sia ora di tornare all'Isola che non C'è».

    Acconsentii e pigramente ci incamminammo verso l'auto.

    Allacciai una mano a quella di Michael.

    Fui io a cercarlo e non ebbi il minimo tentennamento nel farlo. Egli ricambiò stringendomi più forte ed io, in tutta risposta, avvampai.

    Lo guardai di sottecchi. Puntava dritto di fronte a sé, sicuro e composto.

    Sciogliemmo la presa, io per andare al posto guida e lui per sedersi in quello accanto. Accesi il motore e guardai l'ora: era passata un'ora e mezza da quando ci eravamo seduti lì. Con le guance arrossate per la consapevolezza che Michael mi stesse ancora osservando, accesi la radio.

    «Posso cambiare o te la lascio?».

    Non conoscevo affatto la canzone che stava suonando, ma non mi piaceva granché. Lui – che mi studiava soprappensiero – inarcò la fronte.

    «Fai pure». Mi guardò le dita mentre mi apprestavo a cambiare frequenza. «Vuoi che faccia io?»

    «Sì, grazie, altrimenti non ci muoviamo più da qui...».

    Premetti l'acceleratore e seguii l'autostrada principale, la Pacific Coast Highway. Continuò a cambiare canale senza fermarsi, fino a quando non udii una delle mie canzoni preferite e gli chiesi di arrestarsi: Strangers in the night di Frank Sinatra.

    Canticchiai senza emettere un suono, sillabando le parole senza cimentarmi in gorgheggi vari. Michael mi teneva d'occhio e il suo interesse s’infilzava in corpo come tanti spilli gentili.

    «Ti piace Frank Sinatra?».

    Notai che sorrideva a labbra strette. Ricambiai.

    «Sì, moltissimo, ma preferisco ascoltarlo durante il periodo natalizio. L’atmosfera diventa ancora più dolce con la sua musica».

    «Davvero? A me fa venire voglia di ballare sotto la Luna» disse sistemando il capo sul poggiatesta. Guardò in direzione della piccola sfera luccicante sopra le nostre teste. «È la compagna delle mie notti solitarie. Ha ispirato molte delle mie creazioni...»

    Pensai al nomignolo che mi avevano dato al college, Moony. Che strane coincidenze, uh?

    «È meraviglioso» mormorai tenendo lo sguardo sulla strada, «anche a me fa pensare ad un ballo sotto la Luna».

    «È un tuo sogno?»

    «Mmh, ci sei quasi». Ridacchiai enigmaticamente e i suoi sguardi interrogativi non mi lasciarono via di fuga. Sapevo di averlo incuriosito. «Quello che sto per dirti non l'ho mai confessato a nessuno fino ad ora... è una cavolata imbarazzante, oltremodo sentimentale, ma...»

    Sbatté le palpebre delicatamente. «Racconta».

    Abbassai appena i finestrini per cambiare l'aria.

    «Un giorno, quando non so, ballerò questa canzone sotto la Luna, con la persona con cui spenderò il resto della mia vita insieme. Magari indosserò uno di quei magnifici abiti principeschi, quelli che si vedono nei film in bianco e nero – uno di quelli lunghi lunghi, che si aprono quando giri, hai presente?».

    Arrossii e mi morsi la lingua, sogghignando. Rivelare i miei sogni d'amore non era facile, non se continuava a lanciarmi quel tipo di occhiate.

    «È un sogno davvero bello».

    Silenzio.

    «E non è affatto una cavolata imbarazzante. Sarei felice per te se si avverasse. Il prescelto sarà sicuramente un uomo fortunato».

    Risi e per un momento - per un fugace e intenso momento, in cui il buon senso mi abbandonò del tutto - sperai che Michael mi chiedesse di fermare la macchina in parte alla strada, per ballare con lui le ultime note della canzone. Grazie a Dio l'illusione finì prima che potesse diventare una speranza vera e propria.

    «Ti ringrazio», le guance erano pennellate di rosso.

    La melodia successiva non piacque a nessuno dei due, perciò cambiammo frequenza. Si fermò sull'unico canale decente che beccammo.

    Inaspettatamente una canzone che conoscevo bene mi fece drizzare le orecchie. Cominciai a ripetere "Nooo! Che bella questa!" con fare bambinesco, occhi fuori dalle orbite e dita che tamburellavano sul volante.

    «Perché ridi?» chiese l'altro con un sorriso dubbioso.

    «Hai mai visto Saturday Night Live? C'è uno sketch dove appare questa canzone, What Is Love? di Haddaway».

    «Uhm, un duo che muove la testa in modo buffo in un auto, vero?».

    Lo guardai sconvolta. «Oh mio Dio, sì! E c'è anche uno sketch in cui sono in tre, con Jim Carrey presente! Jim è uno dei miei attori preferiti da sempre! Ma come... non dirmi che seguivi Saturday Night Live

    «No, ma ho visto quella scena molto anni fa, non so dirti in quale situazione. Ho un ricordo molto vago» esclamò ridacchiando e grattandosi la nuca con due dita.

    «Non sai quante volte mi sono messa in macchina a fare il loro stesso movimento di testa! Non puoi capire che dolori al collo...». Michael sogghignò. «Ho guardato quel programma e Living Colour quasi esclusivamente per Jim Carrey».

    «È un grande attore, sì. Immagino che tu abbia visto Ace Ventura? O Una settimana da Dio, no? Sono dei capolavori di comicità», picchiettò le dita sul poggiolo a ritmo, mostrando i denti.

    «Oh sì!», sgranai gli occhi mirando la strada. «Adoro la scena quando grida "I've got the power!"»

    Si spanciò per la mia perfetta imitazione di Carrey, unendo le mani e portando il busto avanti e indietro. Non sapevo più se ridere per il film o per la risata di Michael.

    «E ti ricordi quando il giornalista – il rivale - comincia a impazzire durante la diretta? E c'è lui che lo manovra da dietro le quinte?»

    «Oh boy, sì!», la sua ridarella aumentò volume.

    Colta dal desiderio di ravvivare la situazione e togliermi di dosso il pianto residuo, alzai il volume. Lanciai una rapida occhiata a Michael e vidi che mi stava osservando con le sopracciglia inarcate.

    Gli feci un cenno del mento. «Avanti, facciamo anche noi come Jim Carrey! Sei pronto? Il movimento inizia da sinistra!».

    Dissentì allegramente. «Tu sei pazza, ragazza... ma mi piace!», drizzò le spalle sgranchendosi il collo e mi squadrò con pupille sorridenti. «E mi piaci anche tu».

    Senza dar retta alle sue parole, gli angoli delle labbra si sollevarono maggiormente.

    «Ok, pronto?»

    «Pronto!».

    «Via!»

    E cominciammo a ondeggiare la testa a destra e a sinistra come due bambini, canticchiando il ritornello con due sorrisi inebetiti. Il canto si trasformò poi in una serie di urla gasate e in mosse di testa sempre più scatenate. Ci osservammo nello stesso istante e ridemmo a più non posso.

    Ad una certa, sempre lungo il tragitto, percepii Michael inclinarsi in direzione del mio profilo. Abbassò il volume della radio.

    «Smile thought your heart is aching. Smile even known it's breaking. When there are clouds, in the sky... you'll get by...»

    Stava cantando.

    Gli dedicai un'espressione interrogativa.

    Guardò fuori, continuando a sorridere e fischiettare felice.

    C'era qualcosa di eccentrico in lui. Più passavano i giorni, più quest'idea si confermava e si riconfermava in testa. Ti catturava. Aveva il potere di acchiappare una persona con lo sguardo, con la sua presenza, con tutto ciò che era. Ti attirava a sé e tu capivi che improvvisamente il centro dell'universo era lui e lui soltanto. Credevo che quest’emozione lo esaltasse, segretamente.

    «Si chiama Smile» sussurrò. Si passò la lingua sulle labbra. «È di Charlie Chaplin. È una delle canzoni che amo di più».

    «Ha delle belle parole».

    Si rilassò sul poggiatesta. Mi parlò del suo amore per Chaplin, dei film che adorava e di quanto si sentisse simile a quell'attore... e poi ritornò a canticchiare allegramente, per tutto il pezzo di tragitto mancante.

    *

    Quando arrivammo a Neverland dormivano tutti.

    Ci liberammo delle giacche abbandonandole sull'appendiabiti e salimmo le scale leggeri come piume. Da vero gentiluomo mi condusse alla mia stanza.

    Esitai prima di lasciarlo andare. Avevo le spalle contro la porta e Michael di fronte. Lo fissai mordendomi l'interno guancia con un velo di tensione.

    Mi puntò con aria incuriosita, mani nelle tasche dei pantaloni, privo di qualsiasi travestimento, in attesa che dicessi qualcosa.

    «Grazie», gli lanciai un’occhiata obliqua. «Mi sei stato molto vicino, oggi. Sei... sei un amico, un amico vero. Grazie di cuore».

    Michael si accigliò appena. Emise un debole ed intenerito "Oh" e mi abbracciò nel giro di un istante.

    «Ne sono felice», sussurrò penetrandomi l'orecchio sinistro con un brivido. Lo percepii inspirare a fondo e immaginai le sue palpebre chiuse, la fronte corrugata e la bocca delineata in un sorriso. «Grazie a te per non aver smesso di cercarmi».

    Inconsapevolmente mi strinsi alla sua camicia.

    Il cuore mi stava letteralmente fuggendo dal petto.

    Michael era un vero amico e non mento quando lo dico. L’affetto che sentivo per lui era come una fiamma – una fiamma dai meravigliosi colori dell'arcobaleno, calda e prorompente – che si aggrappava al cuore, lo incendiava e lo serrava in una morsa di incontenibile esultanza.

    Michael non sapeva per quanto e quanto a lungo avevo cercato una persona esattamente come lui, capace di scoprire la parte più profonda di me senza alcuna difficoltà. Senza che io avessi il desiderio di sottrarmi alla luce che emanava il suo essere, abbagliante ed incandescente.

    Finalmente capii.

    Capii perché non avevo mai smesso di guardarmi intorno e perché ero rimasta in attesa per tanto tempo, aspettando che quel momento divenisse realtà, e che quella persona lasciasse un tatuaggio indelebile nella mia vita.

    *

    La vigilia di Natale passò tra le risate e la farina.

    Quella mattina Michael e i bambini mi svegliarono alle otto precise – con mio grande "entusiasmo" – affinché li aiutassi a preparare il dolce per il giorno dopo. Pensando alle mie origine italiane avevano puntato subito al tiramisù.

    Per il pranzo di Natale saremmo stati solo io, Michael, i bambini e alcune delle sue guardie del corpo, perlomeno fino ad una certa ora (e non chiesi il perché). Michael e i bambini sarebbero andati a trovare i parenti nei giorni seguenti, visto che alcuni di loro non lo festeggiavano quell'occasione.

    Perciò in mattinata ci occupammo del fantomatico dessert e nel pomeriggio della pulizia completa della cucina. Per il resto se ne sarebbe occupato lo chef privato.

    Sarebbe stato bello dire che Michael e i bambini non cercarono assolutamente di macchiarmi i vestiti e di mettermi il mascarpone fin dentro le ciabatte, ma così non fu. Michael iniziò una delle più grandi lotte di cibo che avessi mai fatto: cominciò lanciandomi semplici manate di zucchero – che io ricambiai con sguardi torvi – e di seguito si aggiunsero anche i bambini. Ce la ridemmo come scatenati, correndo avanti e indietro per la stanza inseguendoci l'un con l'altro. Michael, più di tutti, aveva uno sguardo malizioso che incuteva timore.

    Il risultato fu un dolce squisito e quattro bambini – perché né io né Michael potevamo essere considerati adulti – sporchissimi, macchiati di impasto ovunque. L'unico calmo e beato era Blanket, seduto sul seggiolone, che di tanto in tanto rideva e lanciava le prime cose che gli capitavano sottomano.

    La notte, dopo aver fatto compagnia ai bambini con un film di Natale, io e Michael ci dirigemmo in salotto e posizionammo i regali sotto l'albero. Bevemmo un bicchiere di latte caldo parlando di cosa avremmo fatto il giorno dopo; infine lo ringraziai per avermi fatto giocare con il cibo, confessandogli che non lo avevo mai fatto prima d'ora.

    Michael mi scompigliò i capelli.

    «Speravo di farti ridere... sei molto bella quando sorridi».

    Arrossii e mi congedai. Mi seguì fino a metà corridoio, quello che divideva la mia stanza dalla sua, e fui io, quella sera, a dargli la buonanotte con un affettuoso bacio sulla guancia.

    Fui veloce come un lampo e lo presi in contropiede: afferrai la manica della sua camicia a righe, mi sollevai sulle punte e gli sfiorai la guancia sinistra nel momento esatto in cui mi fissò stupito. Quella fu la prima volta che lo vidi avvampare sul serio.

    Gli detti la buonanotte e scomparii nell'oscurità con l'allegria stampata in faccia.

    *

    La mattina dopo, come il giorno prima, i bambini accorsero per svegliarmi presto.

    Indossavano abiti degni di due regali: Prince sfoggiava un completo nero e una camicia verde smeraldo – e mocassini lucidissimi! -, mentre Paris un enorme vestito con gonna a cerchio, maniche lunghe, rosso e stracolmo di brillantini dorati. Persino i capelli di entrambi erano stati pettinati e ordinati alla perfezione.

    Saltarono sul letto pregandomi di scartare i regali con loro. Michael non era presente e non lo vidi nemmeno quando arrivai giù, avvolta nel mio pigiama di flanella bianco panna ridefinito di rosa. Doveva essere con Blanket.

    In compenso c'erano due guardie del corpo. Indossavano abiti non molto formali - semplici jeans e camicia tinta unita. Erano due omoni alti, uno scuro di pelle e l'altro caucasico. Il primo teneva i capelli rasati, i lineamenti tipicamente afroamericani e due occhi neri e osservatori; il secondo, invece, corti e castani, fisico decisamente più longilineo del collega e un atteggiamento molto più spigliato.

    «C'è anche qualcosa per te, Sarah!», esclamò Prince con un sorriso che partiva da un orecchio all'altro.

    Lo adocchiai con fare interrogativo. Paris mi consegnò un pacchetto argentato ornato da nastro bianco.

    Lo aprii sotto l'insistenza dei due piccoli, i quali cominciavano a scuotermi vigorosamente di fronte alla mia rigidità e alla mia visibile confusione.

    Seduta a terra, con le ginocchia puntate sul tappetto e Prince e Paris appollaiati sulla mia schiena, scartai il dono.

    Schiusi appena le labbra: era l'animaletto che io e Michael avevamo comprato due giorni prima. Ma non il mio cerbiatto, il suo elefantino.

    E con esso un adorabile messaggio di "Babbo Natale".




    1 Riferimento al film Will Hunting – Genio Ribelle.



    Edited by fallagain - 14/6/2021, 20:59
     
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    Capitolo Diciasette: Lo Scambio

    Guarda, impara, ama.

    Osservai il biglietto di carta bianca sottile, la sua calligrafia disordinata e quelle lettere poco calcate, diversamente da come usavo fare io ogni qualvolta scrivessi. Per quanto ci ragionassi su il messaggio era semplice, chiaro e limpido come l'acqua; niente significati sottintesi, solo tre parole.

    «Cosa c'è scritto?», Prince mi saltò in braccio.

    «Vuoi leggere?», gli porsi il biglietto con un sorriso.

    Paris si sporse per vedere meglio. Il fratello maggiore contorse il viso in una smorfia concentrata.

    «C'è scritto... guarda, impara e ama...»

    Annuii. Mi fissarono ridendo.

    «Guarda, impara, ama!» urlarono.

    «Perché gioite così tanto?».

    Michael, osservato a distanza dalle sue guardie del corpo, si incamminò verso l'interno del salotto.

    Era vestito con pantaloni di velluto nero e una camicia altrettanto sfarzosa, verde e ricamata d'oro, proprio in perfetto stile natalizio. I capelli erano lisci e neri come al solito, lunghi fino alle spalle, e non era truccato se non per il solito accenno di fondotinta che aveva. Era più bello quando puntava sull'"acqua e sapone".

    Avanzò così sicuro e tranquillo che attrasse subito il mio sguardo interrogatorio. Michael non lasciò trasparire alcun segno di timidezza o imbarazzo; mi scoccò un'occhiata fulminea e impenetrabile, per poi scivolare amabilmente sui figli. In braccio teneva Blanket, anche lui vestito di tutto punto: indossava il completo che gli avevo regalato io.

    Aveva un'espressione serena, gli zigomi un po' induriti che designavano un sorriso beffardo.

    Le guardie del corpo, immobili e serene, mantennero la distanza dal nostro quadretto.

    «Babbo Natale ha regalato qualcosa a Sarah! Guarda, papà!» Paris gli corse incontro.

    Quest'ultimo venne trascinato dalla piccola al mio fianco, piegò il busto in avanti e abbassò la testa proprio sopra la mia. Tenevo il piccolo elefantino fra le mani, biglietto compreso, ed egli guardò il tutto con finta meraviglia. Lo squadrai e Michael non fece una piega. La tranquillità che il suo corpo emanava era intensa e continua.

    «Direi che è veramente bello», sussurrò bagnandosi le labbra. «C'è anche un biglietto di Babbo Natale, no?», mi puntò.

    Sì, certo, un Babbo Natale con capelli neri, occhi scuri, senza barba, renne e slitta. Riuscivo anche ad immaginarlo scendere giù dal camino.

    Annuii.

    Ci guardammo e soffocammo una risata complice.

    *

    La mattina di Natale proseguì con risate e giochi da tavolo. Una guardia del corpo filmava ogni cosa, per cui tentai di fronteggiare la telecamera il meno possibile e, per ovvietà di cose, evitai di giocare. I bambini non si preoccupavano più di tanto se volessi unirmi a loro o meno; al contrario Michael mi lanciava sguardi incomprensibili, possibilmente quando apparivo distratta.

    Pranzammo con numerose pietanze. Feci anche amicizia con una delle due guardie, il più anziano e con l’espressione più dura, scoprendo che in realtà era più allegro di quanto apparisse. Michael non mi mollava quasi mai, occhi cioccolato fondente fissi sulla mia figura.

    Nel pomeriggio i bambini testarono i regali di Natale e colsi l'occasione per mettere Blanket a dormire, sulla culla a rotelle situata appositamente in salotto per quell'occasione speciale, in modo tale da non lasciarlo da solo in camera dei fratelli.

    Era bello vedere Neverland in clima natalizio, soprattutto scorgere la felicità di quella famiglia. I bambini erano scintille di gioia multicolore e Michael li osservava con orgoglio.

    In quel preciso istante ebbi un'idea.

    Avvisai Michael che mi sarei ritirata per fare gli auguri alla mia famiglia. Non sospettò nulla, per mia fortuna.

    Quando mi recai al piano terra, soltanto una decina di minuti più tardi, nessuno scorse la verità attraverso la mia espressione da finta tonta.

    *

    «Sarah, vuoi vedere il nostro spettacolo?», Prince e Paris si alzarono da terra con un balzo.

    «Fate uno spettacolo?».

    Lanciai un'occhiata fuggevole a Michael. Sghignazzava con una mano sul mento, seduto sul divano a gambe aperte e oscillanti. Non riusciva proprio a stare fermo sul posto.

    Come un automa mi sedetti accanto a lui.

    «Sì, balliamo e cantiamo! Ci ha insegnato papà!».

    «Oh, allora sì che voglio vedere!», rivolsi un'occhiata eloquente a tutti i membri.

    Michael mi squadrò con aria divertita.

    I due chiesero alle guardie di accendere la musica, insistendo con un brusco cenno di mano per il quale furono ripresi dal padre. Li avvertì di non dimenticarsi mai di dire "Per favore" e "Grazie".

    La musica si alzò nell'aria. Molleggiarono sul posto seguendo un ritmo natalizio, ondeggiando a destra e a sinistra: era una di quelle tipiche canzoni che si cantano a Natale, come "Gesù bambino" o "Stella del Ciel". Gesticolavano le parole delle canzoni alzando le braccia sopra le loro teste, o scuotendole dietro alla schiena per fingere di avere le ali; inoltre canticchiavano, Prince molto energico e Paris concentrata rispetto al fratello scatenato.

    Risi di cuore, seguita a ruota da Michael. Un bodyguard riprendeva tutto con un gran riso sulle labbra, l'altro sogghignava seduto su una poltrona appartata.

    A volte – in momenti come quelli – sentivo la mancanza della mia infanzia, ma soprattutto della mia famiglia.

    A fine concerto tutti scoppiarono in un fragoroso applauso, guardie del corpo comprese. Con un sorriso a trentadue denti i bimbi si inchinarono ed accorsero sul divano, saltandoci sopra e abbracciando il padre. Lasciai loro lo spazio per intrufolarsi e Prince, inaspettatamente, si lasciò cadere sulle mie ginocchia.

    Paris si voltò verso la sottoscritta, braccia strette al collo di Michael e occhi furbetti. «Ci canti una canzone, Sarah?»

    Impallidii. Michael mi lanciò uno sguardo di sfida.

    Ma anche no.

    «No, Paris. Io non so cantare», mi strinsi nelle spalle.

    «Non è vero! A lezione canti sempre!», disse Prince. Le guance bollirono e Michael issó un sopracciglio con fare provocatorio e sorpreso. «Per favoreee!»

    Sospirai e guardai la Tv picchiettando le unghie sulle cosce. Mi mordicchiai un labbro.

    Gli occhi scivolarono sulla telecamera stretta fra le mani del bodyguard ed ebbi un'illuminazione, la seconda di quel giorno. Quell'idea mi avrebbe portato direttamente sotto terra dalla vergogna, ma poteva funzionare.

    Sfoderai un sorriso raggiante.

    «Non canterò per voi, ma posso farvi vedere una cosa carina: una piccola me all'età di quattro anni».

    Michael raddrizzò le antenne.

    «Ho una cassetta di ricordi d'infanzia dove, con molto ardore», sottolineai l’ultima parola avvampando, «canto i Queen con il mio papà. Sapete, era così pazzo di loro che trasmise quell'amore anche a me! Può andare come compromesso?», incrociai le dita.

    Tra gli oggetti-ricordo che portavo sempre con me c'erano due videocassette. Una racchiudeva i momenti speciali di quando avevo 2-5 anni, un'altra quelli del college. Le tenevo custodite gelosamente, così tanto che per non rovinarle le guardavo assai di rado. L'ultima volta che avevo visto la cassetta datata 1977-1980 era stato circa 2 o 3 anni prima.

    I bambini si mostrarono interessati. Non completamente soddisfatti, ma incuriositi. Michael non vedeva l'ora ovviamente; mi donò un altro di quegli sguardi profondi che era tutto dire, passandosi la lingua sulle labbra.

    «Direi che possiamo cominciare subito, no?»

    Si rivolse a me, poi a Prince, a Paris e infine alle guardie del corpo. Quest'ultime erano presenze taciturne, ma ascoltavano tutto o rispondevano con qualche breve battuta. A volte non sapevo neanche che fossero lì con noi.

    I bambini mi incitarono a prendere la cassetta, perciò mi alzai e mi diressi in camera per la seconda volta. Quando li raggiunsi avevano già acceso la Tv e il videoregistratore. Mi osservavano impazienti e immobili come soldatini.

    Sicuramente sarei morta per l'imbarazzo. Eppure, se ciò mi avesse permesso di non cantare davanti a Michael Jackson, quella sarebbe stata una condanna più che sopportabile.

    Prince e Paris se ne stavano abbracciati al loro papà, tutti e tre nella stessa posizione in cui li avevo lasciati. Le guardie del corpo tenevano la distanza, una seduta sulla poltrona e l’altra sul poggiolo di questa.

    «Daiii, guardiamola!», Prince mi obbligò a far veloce.

    Per tutto il tempo speso ad inserire la cassetta nel videoregistratore e ritornare sul divano, lo sguardo di Michael era un mattone sulla mia testa. Inutile dire che stavo arrossendo come non mai.

    Mi rintanai in un angolino isolato del divano, giusto per morire di vergogna in solitudine. Prince mi passò il telecomando e con l'approvazione del padre presi le redini del televisore.

    «Se non ricordo male la cassetta dovrebbe iniziare con me che canto. Non vedo questo video da anni, credo». Quando si udì il leggero "toc" del registratore capii che il nastro era tornato indietro del tutto. Espirai rumorosamente, il cuore che batteva fortissimo dall'emozione. «Ci sarà da ridere».

    «Assolutamente», sussurrò Michael.

    Lo fissai e vidi che scrutava intensamente lo schermo. Le sue gambe scalpitavano.

    Cliccai "Play" e sorrisi imbarazzata.

    Un rumore sordo e immagini sfuocate. Un tappeto elegante. Poi una voce femminile.

    «Siamo pronti?»

    Era mia madre. Stava sistemando lo zoom della telecamera e mirava il pavimento. Poco dopo puntò un pianoforte e con esso un uomo e una bambina, entrambi seduti sullo sgabello rettangolare di fronte allo strumento.
    Si trovavano in un salotto enorme: ricordava molto una villa in stile settecentesco e strabordava di spirito natalizio. La qualità delle immagini era quella che era, ma sicuramente molto meglio di quanto ricordassi.

    L'uomo – mio padre – borbottò qualcosa sul come tenere meglio la telecamera, gesticolando veemente. Era un uomo alto, leggermente in carne, con capigliatura e barba folta brizzolata. Indossava occhiali da vista dalla montatura nocciola. I suoi occhi erano scuri - diversamente da quelli della bimba - e pareva un uomo dall'aspetto bonario, anche se tutto d'un pezzo.

    In parte a lui c'era una bambina di 4 anni dai capelli lunghi e mossi; la frangetta perfetta le incorniciava il visino tondeggiante e i suoi occhi erano grandi e verdi. Era minuta, silenziosa, e vestiva una tutina bianca e arancione. Ero io.

    La piccola ammirava il padre e la telecamera osservando il tutto senza scomporsi troppo. Il suo sguardo era acuto, indagatore, e ammirava come le dita del padre scorressero veloci sul piano in fase di riscaldamento.

    Mamma mi aveva trasmesso la passione per l'insegnamento, ma papà quella per la musica.

    «Pronta, Sarah? Bohemian Rhapsody?»

    Il padre le sorrise e lei assentii. Era concentratissima. L'uomo emise un «Bene» soddisfatto e iniziò ad intonare una melodia che conoscevo a memoria.

    Subito mi misi una mano davanti alla faccia, lasciando scoperti solo gli occhi. Il sorriso si era congelato in volto e non se ne andava, le iridi erano lo specchio della vergogna. Non guardai Michael neanche per un secondo, sapendo che se solo ci avessi provato avrei avuto la tentazione di scappare in bagno e affogarmi nella vasca.

    Is this the real life? Is this just fantasy?
    Caught in a landslide, no escape from reality.
    Open your eyes, look up to the skies and see...

    La bambina aveva iniziato a cantare seguendo la voce del padre. Quest'ultimo la guidava nei cori ma, quando la voce Freddie risaltava su tutti, la lasciava procedere da sola. A volte, senza emettere un suono, muoveva le labbra per aiutarla a tenere il tempo e non perdersi. Quando la figlia aveva preso confidenza con la canzone – già dopo l'intro acapella – l'uomo era rimasto a guardare il pianoforte e la figlia ridacchiando.

    Morii dentro e fuori.

    Letteralmente.

    Quella pulce di soli 4 anni non era male, anzi; per essere così piccola seguiva il ritmo molto bene. Era giovane, perciò la sua voce risultava acuta e delicata. Ogni tanto non beccava le note manco morire e quando succedeva mi sbaccanavo nascondendo il viso fra le mani.

    Fin da piccola ero stata una performer mancata.

    Mama, just killed a man... put a gun against his head,
    pulled my trigger, now he's dead

    Udii la risatina di Michael.

    L'occhio roteò su di lui. Fissava lo schermo come incantato e un sorrisone gli partiva da un orecchio all'altro. Le iridi esplodevano di meraviglia.

    Prince mi guardò perplesso.

    «Non è una canzone molto allegra».

    Risi lasciando cadere la testa all'indietro.

    «Purtroppo no, hai ragione!».

    La bambina era totalmente immersa nella sua interpretazione, tanto che la sua serietà faceva quasi paura. Dondolava il capo a destra e a sinistra, cantando con una passione che a soli 4 anni era difficile pensare possibile. Sembrava che capisse davvero le parole della canzone.

    Mama, oh, oh... I don't want to die.
    Sometimes wish I'd never been born at all!

    Mentre sogghignavo del "Anyway the wind blows" di mia madre, Paris mormorò amareggiata.

    «È una canzone triste...»

    Scossi la testa presa dagli spasmi di ridarella. «Adesso arriva il bello!»

    Mentre il padre si dilettava in un assolo di pianoforte, questo disse alla giovane cantante di prendere gli occhiali da sole. Lei lo puntò elettrizzata e scese di corsa, quasi inciampando su se stessa. Prese un paio di occhialini rosa dal comò e se li mise su con finta altezzosità. Tornò vicino al suo papà – stavolta in piedi – annuendo convinta.

    Michael rise ad alta voce e a sua volta lo fecero anche i bambini e le guardie del corpo.

    Mi tappai la bocca con un palmo. Avvampai furiosamente.

    Un cambio di melodia, da più soave a scandita. Padre e figlia si esaminavano intensamente. L'uomo cantò con lei la parte di "opera" della canzone, intervenendo solo negli acuti e nel coro.

    I see a little silhouette of man.
    Scaramouch! Scaramouch! Will you do the Fandango?
    Thunderbolt and lightning, very very fightening me!

    Inutile dire che da quel pezzo in poi tutti esplodemmo in sonore risate.

    Io mi gettai sul fianco sinistro del divano, nascondendo il viso sul cuscino – non mi serviva vedere niente, ricordavo ogni scena a memoria. Michael si lasciò pervadere da una ridarella incontenibile – una delle sue – tant'è che temetti non riuscisse più a smettere; Prince, Paris e le guardie si contennero di più. Se Michael non avesse limitato il volume della sua voce, probabilmente avrebbe svegliato Blanket.

    Quella bambina era convinta – anche troppo. Oscillava la nuca seguendo il ritmo del pianoforte, stonacchiando nelle parti dove la voce non arrivava e cercando di interpretare più ruoli in un sol colpo. In più quegli occhiali da sole la facevano sembrare una mosca.

    Perfino la madre, una donna posata e di poche manifestazioni di giubilo, scuoteva la telecamera a forza di ridere.

    La melodia sfumò pochi istanti più tardi e la clip terminò con la bimba che guardava il suo papà intonare qualche verso della strofa iniziale, esattamente come Freddie nel brano originale. Ci fu un applauso da parte dei due genitori e la bimba, con un sorriso sornione, salì sopra le ginocchia del papà.

    Ero veramente una ruffiana.

    Anche Michael applaudì asciugandosi le lacrime. Mi donò un sorriso splendente.

    Quel ricordo datato 19/12/1979 svanì e ne iniziò un altro. Nessuno ci prestò attenzione.

    «Eri convintissima!».

    «Hai visto, Prince?», alzai le sopracciglia. Le guance erano ancora accaldate per l'emozione. «Ne è valsa la pena, direi».

    «Un giorno la cantiamo insieme?», chiese Paris scavalcando il padre. «Ti preeego! Eri troppo divertente!»

    Risi e guardai Michael. Fissava lo schermo con un'espressione così seria che mi preoccupò. Mi voltai.

    Quella bambina dagli occhi verdi aveva ancora 4 anni. Stava guardando la televisione e reggeva alcuni mattoncini di lego fra le dita. Era silenziosa. Non distoglieva gli occhi dalla Tv, nello specifico da una figura che ballava in smoking nero e camicia bianca. Era scuro di pelle e aveva i capelli afro e corti.

    «Ti piace, Sarah? Un giovane affascinante, non è vero?»
    «Mmh-mmh».
    «Sai come si chiama?»

    La bambina scosse la testa ignorando la madre.

    «Michael Jackson»

    Il mio cuore si fermò. Il sorriso s'incenerì all'istante.

    Cosa?

    «Chi?»

    Beata innocenza.

    La bambina non aveva capito il nome del cantante e scrutava la donna con fronte increspata. Quest'ultima glielo ripeté con un risolino.

    La figlia non si scompose. Ritornò al video musicale chiamato
    Don't stop 'til you get enough1 e dopo qualche istante di riflessione ritornò ai suoi mattoncini. Il video musicale era già terminato quando lei si alzò per rincorrere la nonna materna, sedutasi su una poltrona rosso bordeaux.

    Avvampai.

    La mascella era letteralmente calata.

    «A Sarah piace papà!», Paris urlò. «Hai detto che è affascinante!»

    Affogai nel rossore ancora di più. Aprii la bocca per rispondere, ma non fui in grado di parlare.

    Era stata una scena breve, di quasi mezzo minuto, svanita con l'entrata in scena della mia cara nonna. Dimenticai perfino di avere il telecomando in mano e che potevo benissimo fermare la cassetta: ad ogni modo, non lo feci. Preferivo guardare la televisione e ascoltare rumori a caso, piuttosto che rimanere in silenzio.

    Sentimmo Blanket frignare dalla culla.

    Tempismo divino.

    Percepii Michael alzarsi dal divano – non lo avevo ancora guardato in faccia – e passarmi davanti come se fosse un fantasma. Allora – e soltanto allora – fermai la videocassetta. Pigiai il tasto per farla uscire dal videoregistratore senza mandare indietro il nastro.

    Mi vergognavo da morire, anche se non ne avevo ragione.

    Avevo sempre detto a Michael che sì, avevo sentito parlare di lui, ma che non mi ero mai appassionata alla sua musica e alla sua persona. Non credevo di averlo lì, fra i ricordi più importanti della mia vita, ma sentivo l'assurda convinzione di avergli mentito.

    Mi sollevai come un automa. Estrassi la cassetta e la rimisi nella sua custodia.

    «La riporto al suo posto, in camera...», borbottai. Facendo così dovevo proprio apparire colpevole.

    «Non c'è fretta, lascia pure lì. Fra poco ceniamo».

    Mi volsi. Michael, il quale teneva in braccio il piccolo Blanket, mi studiava in modo incomprensibile.

    «Di già?».

    Sorrise piano. «Di già. Dobbiamo vedere un film al cinema e non possiamo tardare».

    Anche i bambini furono sorpresi dalla sua esclamazione. Gli saltarono immediatamente addosso, tartassandolo di domande senza lasciargli il tempo di rispondere. Michael rise come se niente fosse, io no.

    «Andiamo a vedere il nuovo film di Peter Pan, siete contenti?».


    Ah Sant'Iddio, bastaaa. Siete ossessionati, porca miseria!

    «Davvero papà?», Paris si strinse alla sua camicia rossa. «Davvero guarderemo Peter Pan? Un film nuovo?»

    «Sì, Paris».

    «Andiamo, papà, ti prego! Andiamo subito!», lo pregò Prince.

    «Prima mangiamo e dopo – ».

    Non fece tempo a finire la frase che il telefono che aveva in tasca squillò. Lo estrasse e guardò il numero sullo schermo con aria imperscrutabile; non capii se quella chiamata gli provocasse piacere o fastidio.

    «Scusatemi un attimo, torno subito».

    Girò le spalle e uscì in corridoio con Blanket.

    Emisi un sospiro stanco e osservai il resto del gruppo, bodyguards compresi. «Intanto andiamo a lavarci le mani, che dite?».

    *

    Il tempo passò e Michael non tornò.

    Per i primi cinque minuti io, i bambini e le guardie pensammo che si stesse curando di Blanket. Cercammo di trattenere la nostra fame e la curiosità parlando del più e del meno. Ci accomodammo a tavola e i piccoli rubarono furtivamente qualcosa dai loro piatti.

    Ma altri quindici minuti passarono e Michael non si fece vivo.

    Quando i due uomini si tirarono su dalle sedie, Michael riapparve sulla porta con il figlio più piccolo in braccio. Guardando le nostre facce impensierite, sorrise.

    La cosa che notai subito era che non osava guardarmi neanche per sbaglio.

    Era arrabbiato con me?

    «Che c'è?», chiese scrutando tutti noi ironicamente.

    «Ci hai messo tantissimo, stiamo morendo di fame!», Paris puntò i gomiti sulla tavola e lasciò cadere la testa fra le mani con un sospiro esasperato. «Il film inizia...»

    «Il film non inizia senza di noi, non ti preoccupare», disse sedendosi vicino a lei. Il mio sguardo non lo abbandonò un attimo. «Abbiamo tempo. Sono solo stato trattenuto al telefono, tutto qui...». Fece una pausa e lo vidi gettare un'occhiata alle mie mani appoggiate sul tavolo. Poi guardò i bambini. «Joanna vi saluta tutti, vi augura buon Natale».

    I due sorrisero. Le guardie del corpo si scambiarono un'occhiata d'intesa.

    Mi sono persa un pezzo, chi è Joanna?, avrei voluto chiedere.

    Guardai a destra e a sinistra alla ricerca di qualcuno che mi notasse e che rispondesse alla mia silenziosa domanda. Nessuno rispose e Michael sistemò il bavaglino a Blanket.

    Probabilmente era qualcuno di loro intima conoscenza, ma non ci pensai troppo a lungo. Anche altri parenti e amici avevano chiamato durante quel giorno di festa - addirittura dei fan! -, perciò non mi crucciai più di tanto.

    Cenammo tranquilli, con Prince che canticchiava mentre mangiava e io che me la ridevo per i suoi muti gorgheggi. Finita la cena le guardie del corpo si congedarono per spendere il resto della serata in libertà, sotto continua richiesta del capo. Uscimmo dalla residenza e ci avviamo verso il trenino che ci avrebbe portato al cinema.

    E Michael si tenne a distanza dalla sottoscritta per tutto il tempo.

    *

    Dettero un bacino al padre con le palpebre semichiuse: erano stanchi, erano le dieci e qualcosa e la giornata era stata spossante per tutti. Michael li abbracciò e tirò su le coperte fino a coprir loro il mento. Mentre distendeva Blanket sulla culla, a mia volta mi apprestai a dare due baci sulle fronti dei bambini.

    Il film era finito da un pezzo ed era piaciuto a tutti. Diciamo che era una versione romantica della storia originale, ecco. Paris si era già innamorata del protagonista.

    «Ti vogliamo bene, Sarah» mugugnò Prince.

    Io sorrisi, gli accarezzai i capelli biondi e detti un buffetto alla sorella.

    «Anche io ve ne voglio».

    Stetti per dire "tanto", ma mi trattenni.

    Michael mi dedicò un'occhiata penetrante e si diresse fuori con il suo inseparabile Walkie Talkie; Blanket l'avevo già salutato poco prima, augurandogli la buonanotte sul trenino mentre si addormentava fra le mie braccia. Seguii Michael e chiudemmo la porta con un ultimo augurio della buonanotte.

    Una volta fuori piombò il silenzio.

    Michael mantenne la presa sull’impugnatura della porta, squadrandomi da capo a piedi. Mi sentivo d'intralcio fra la sua autorevole presenza e il corridoio. Gli augurai sogni d'oro e con un mesto sorriso cercai di scampargli.

    «Hey», mi richiamò. Lo guardai. Con un cenno della testa mi indicò di andargli dietro. La sua faccia diceva tutto e niente. «Ti devo parlare...».

    Mi dette le spalle e s’incamminò verso il senso opposto. Lo seguii impassibile, quando in realtà mi stavo ponendo le domande più insensate e paranoiche al mondo.

    Mi portò in camera sua. Mi invitò ad entrare e richiuse la porta alle sue spalle.

    Non appena mi voltai raggrinzò la bocca in un riso malizioso; le iridi scure luccicavano come cristalli preziosi. Con l'indice mi invitò a raggiungerlo. Il movimento del polpastrello pareva muoversi a rallentatore.

    Mi avvicinai desiderando apparire tranquilla.

    Mi tenni distante almeno un metro, incrociando le braccia al petto e sviando l'attenzione dalla sua figura. Michael mi ordinò impazientemente di farmi ancora più vicina, accigliandosi. Sbuffai e feci come mi aveva richiesto.

    Due o tre passi in avanti. Ci separavano solo trenta centimetri di vuoto – niente in confronto all'essermi chiusa in uno sgabuzzino, al buio, con Michael quasi appiccicato al mio seno. L'uomo dai capelli lisci e neri si posò le mani sui fianchi umettandosi il labbro inferiore e indirizzando lo sguardo sulla sottoscritta con devoto interesse.

    Quella postura gli risaltava le spalle ampie e la mascella squadrata, per non parlare del collo. La cosa mi donò quel pizzico di quella che definii semplicemente “euforia".

    Mostrò i denti.

    «Com'è che mi hai fatto un regalo di Natale?»

    Caddi dalle nuvole.

    Sorrise maggiormente.

    Se non avessi risposto a breve mi avrebbe dato della scema.

    «Com'è che mi hai fatto un regalo di Natale?», ripeté scandendo le parole con dolcezza, arcuando la fronte.

    Ahhh. Ora mi è tutto chiaro.

    Aggrottai le sopracciglia. «E perché tu mi hai regalato l'elefantino?»

    Trattenne una smorfia e si morse un labbro.

    «Com'è che tu non hai risposto alla mia domanda?»

    «E com'è che tu non hai tenuto il mio regalo?»

    Alzò gli occhi al cielo. Eravamo cocciuti come muli.

    Oscillando sul posto mi rivolse un'occhiata di rimprovero e scoppiammo a ridere in sincrono. Incrociò le braccia al petto a sua volta ed io sbuffai passandomi le dita fra i capelli.

    Borbottai contrariata. «Te lo avevo regalato io, era il mio dono per te...»

    «Te lo avevo detto che non volevo regali. L'unica cosa che volevo era uscire con te», sorrise candidamente, posando il peso sulla gamba opposta.

    Negai con il capo. «Non era abbastanza».

    Ci tenevo che custodisse il mio dono, l'elefantino, e non ci sarebbe stato nulla che mi avrebbe fatto cambiare idea; ma poiché non potevo ammettere che quel dono fosse suo di fronte ai bambini, avevo pensato ad un'altra opzione: portarglielo in camera di nascosto.

    Michael si incamminò verso il materasso agguantando il pacchetto disfatto in una mano e un biglietto nell’altra. All’interno del pacchetto, il mio cerbiatto.

    Io avrei tenuto il suo elefantino e lui il mio cervo: era uno scambio più che equo, no?

    Accarezzò l'animaletto dagli occhi vispi con un dito, come se ne stesse sfiorando uno vero e proprio. Successivamente alzò al biglietto, lo lesse e mi agganciò con uno sguardo.

    Le parole che avevo scritto erano cinque: “Ti voglio bene, Babbo Natale".

    Sorrise. «Anch’io ti voglio bene».

    Ridacchiando sciolsi la catena che partiva dai suoi occhi. Era molto importante avergli confessato quelle parole, anche solo attraverso un foglio di carta.

    «Però», sussurrò fissando l'animaletto, «c'è qualcosa che ho bisogno di chiederti...»

    «Dimmi».

    La luce dei suoi occhi si ravvivò come una fiamma.

    «Davvero mi trovavi affascinante?», distese la fronte falsificando sorpresa.

    Inghiottii il respiro.

    Rise come non mai.

    «Io non sapevo che...»

    Arcuò un sopracciglio con un fare spavaldo. «Mmh?»

    Mi dondolai sulle punte dei piedi e mi guardai intorno, sospirando pesantemente come una bambina indispettita. Mi pettinai nuovamente i capelli all’indietro e mordicchiai un labbro. Fissai un punto a caso della stanza.

    «Non ricordavo che tu fossi in uno di quei video», dissi in tono brontolone. «Sembra che lo abbia fatto apposta! È troppo imbarazzante... per tutta la serata ho pensato che tu fossi arrabbiato con me per quel motivo!». Arrossii. «Non ne avevo idea».

    Dire quelle parole mi fece cedere le gambe per un secondo. Ma mi venne spontaneo, naturale, per nulla forzato. Era quello che sentivo nel cuore.

    Mi osservò sbigottito. Per un momento rimase impalato come uno stoccafisso.

    Due secondi più tardi Michael ridacchiò nervosamente e osservò il pavimento sotto alle sue scarpe. Si grattò la nuca e lo vidi accaldarsi appena, come un adolescente a cui viene fatto il primo vero complimento da una ragazza. Mi puntò con il mento abbassato regalandomi un'espressione contemporaneamente maliziosa e bambinesca.

    «Ti credo», enunciò con voce calda. «E credo che spesso ti fasci la testa con un nonnulla».

    Arrossii mentre sorrideva teneramente.

    Si umettò la bocca venendomi accanto. «Eri una bambina veramente talentuosa. Sai, dovresti farmi sentire come canti, giusto per vedere se sei migliorata o meno!», cantilenò alzando le spalle.

    Gli risi in faccia. «Oh no, te lo sogni!»

    «Perché?», sfoderò una noncuranza spassionata. «Lo vuoi anche tu in fondo. Magari inciderai qualcosa con me! Sai che ho già qualche idea?»

    Scossi la testa con forza. «Scordatelo! Quel giorno dovrai...»

    «Dovrò?».

    Aprii la bocca e non risposi.

    «Dai, dimmi! Cosa dovrei fare per farti cantare?», mi dette un buffetto sul braccio sghignazzando.

    Si accostò così tanto alla mia faccia che potevo percepire il suo respiro fra i capelli. Un brivido serpeggiò e strizzò la parte più bassa della pancia.

    Gli tenni testa senza deviare lo sguardo.

    Arcuai le estremità della bocca all'insù. «Quel giorno dovrai costringermi con la forza, bloccarmi braccia e gambe! Cosa che non ti sarà molto facile, visto che ho dei muscoli come quelli di Jeeg Robot d'Acciaio!», e dicendo questo gli mostrai la lingua, nocche puntate sui fianchi e una smorfia fintamente arrogante.

    Michael sogghignò a voce bassa, tonalità decisamente più sensuale dell’usuale. Andò a posare cerbiatto e biglietto su uno scaffale vicino con l'elegante compostezza di una pantera. Incrociai le braccia al petto e lo osservai compiere quei movimenti in assoluto silenzio, in attesa che mi degnasse di una risposta. Ma quella non arrivo e Michael mi si pose di fronte, ancora, braccia conserte dietro la schiena e cipiglio per nulla convincente. Mi sorrise perfidamente.

    Uno scatto. Un semplice movimento d'occhi da parte sua e compresi che era la fine.

    Mi si gettò addosso.

    Si allungò per afferrarmi i polsi e di tutta risposta scoppiai a ridere nervosamente. Indietreggiai, palpebre sbarrate dallo shock e adrenalina esplosa in sangue come dinamite.

    Cercai di scampargli in tutti i modi e fu un’impresa. Pur non avendo una corporatura robusta, i muscoli li aveva eccome. Più mi dimenavo più mi stringeva forte – esibendo un ghigno sghembo come pochi –, tant'è che finii per sbattere il fondoschiena contro il comò. Dalle labbra mi uscì un urletto disperato.

    «Moll... no, mollami!», strepitai. «Per favore... HA

    Senza sapere come mi liberai, corsi verso la porta, ma prima che potessi abbassare la maniglia Michael mi intrappolò fra le sue braccia. Nel momento in cui fui sul punto di sfuggirgli mi strinse i polsi, mi voltò in sua direzione e la mia schiena si scagliò contro il legno. Era alto, molto più alto di me, perciò dovetti sollevare la testa per guardarlo.

    Il suo respiro era ritmato dalla fatica che aveva fatto per ingabbiarmi, ma non sorrideva. Mi fissava intensamente.

    «Ho vinto io, non credi?», si accigliò.

    Le iridi verdi guizzarono su quei tratti che mai prima d'allora avevano osservato così da vicino. Mi fermai sulla mascella squadrata, sulla fossetta scolpita sul mento, sul naso all'insù, sulle sopracciglia ben delineate, sulle labbra perfette e infine sugli occhi, grandi e scuri.

    C'era una profondità – in quegli oceani torbidi e illeggibili - che mi facevano viaggiare in un'altra dimensione, un posto che solo attraverso quel contatto potevo raggiungere. Era un tunnel buio, talvolta saccheggiato, sofferto e posseduto da un’indefinibile tristezza. Eppure in loro vi era una scintilla, un qualcosa che mi ossessionava, che mi faceva desiderare di scavare ancora più a fondo, nella sua anima. Ero rapita da quel bagliore. Nessuna maschera reggeva di fronte a loro, nessun segreto restava inviolato: mi aprivo alla loro bellezza, al loro incanto, e tutto il resto sfumava. Tutto il resto smetteva di esistere. Il tempo si fermava.

    Qualche volta desideravo scappare, per ignorare così sentimenti che mi impedivo di provare.

    «Stai barando», mormorai sorridendo e ansimando insieme. «Non è leale quello che stai facendo».

    Michael si bagnò un angolo della bocca. Mi lasciò andare incupendosi.

    «Hai ragione...»

    Con un cenno del capo tirò indietro alcuni ciuffi di capelli che gli erano caduti sulla fronte. Si posò una mano sul fianco e fece un passo indietro. Le rifiniture dorate sulla sua giacca rosso Natale sfavillavano sotto la luce della lampada a soffitto.

    «Se vuoi... se vuoi posso provare lo stesso». Mi puntò ed io mi accaldai nell'immediato. «A cantare, dico. Ma ti assicuro che non ho alcun talento per quest'arte!», sogghignai. Mi detti una spinta con la schiena e mi separai dalla porta.

    Stirò un sorriso, ma i suoi occhi erano inquieti.

    «Allora penso che domani sia il giorno migliore».

    «Domani?», strabuzzai gli occhi.

    «A-ha», scrutò una zona indefinita del parquet. «Vedrò di aiutarti a superare questo blocco».

    «Oh... grazie».

    Gli andai vicino timidamente. Lo abbracciai senza dargli il tempo di spalancare le braccia ed accogliermi: aggrappai le dita alla sua schiena e inspirai a pieni polmoni. Il suo profumo era così forte e buono che mi girava la testa.

    Lo percepii molto impacciato, così tanto da essere d'ingombro a se stesso, e non ricambiò la stretta.

    «Quello che ho scritto sul biglietto è vero».

    Mi scostai fissando il basso per non fargli notare il rossore sulle guance. Sorrisi e agitai una mano in segno di saluto: Michael mi osservava sconcertato, fermo a braccia aperte.

    Mi arrestai poco prima di aprire la porta. Mi girai verso di lui.

    «Prima mi hai chiesto se ti pensavo affascinante...».

    La luce nei suoi occhi si accese.

    Sorrisi furbescamente. «Sì, ti pensavo affascinante. E lo penso tutt'ora. Credo che con uno smoking bianco lo saresti ancora di più».

    Sbatté le palpebre ed io sghignazzai fra me e me.

    «Buon Natale», lo salutai, «e non giocare troppo a fare la statua di cera. Non riuscirai mai ad essere più bravo di me in questo», lo punzecchiai riferendomi alla battuta che mi aveva fatto qualche settimana prima.

    Accennò uno spasmo di risata.

    «Buon Natale...», mormorò.

    Dopo aver rinchiuso la porta abbandonai schiena e testa sul legno scuro senza far rumore, osservando il soffitto. Il cuore batteva forte, soffocava e strideva, ma io non riuscivo a comprendere - e non volevo comprendere - cosa stesse dicendo.

    Non ci sarei riuscita facilmente.

    *

    Il giorno dopo attesi in vana gloria che Michael scendesse. Certo, desideravo cantare quanto sparire dalla faccia della Terra, ma in ogni caso non si fece vedere.

    Grace ci fece una visita inaspettata. Strano, mi dissi, perché la famiglia Jackson sarebbe dovuta andare da alcuni parenti quel giorno. Insieme facemmo compagnia ai bambini, i quali, con una certa irrequietezza, si chiedevano dove fosse loro padre.

    Grace ci comunicò che Michael l'aveva chiamata la mattina stessa, per un impegno di lavoro urgente di cui si era dimenticato.

    Tutto ciò non mi convinceva. Doveva essere una cosa abbastanza grave per non aver potuto avvisare i suoi figli. Perfino Blanket sembrava nervoso, come se anche lui sentisse che c'era qualcosa non andava per il verso giusto.

    Grace ed io portammo i ragazzi al parco giochi di Neverland e, quando rientrammo per il pranzo, incontrammo una guardia del corpo che usciva dalla residenza principale. Questo ci comunicò che il sig. Jackson non si sentiva bene e che aveva chiesto a tutti di lasciarlo riposare. Si vedeva lontano un miglio che non stava dicendo tutta la verità.

    I figli, ancora più agitati di prima, pranzarono con poco e niente e non spiccicarono una sillaba per delle ore. Nel pomeriggio nessuno ebbe il coraggio di andare in camera di Jackson per capire come stesse. Né io né Grace parlammo di quel fatto.

    Jackson era solito avvisare quando se ne andava, credevo succedesse lo stesso quando stava male.

    La giovane tata convinse i bambini ad uscire per andare a fare un giro al centro commerciale di LA. Mi chiese se avessi intenzione di andare con loro, ma dissentii col capo.

    Nell'istante in cui i piccoli Jackson se ne andarono mi diressi in camera di Michael. Anche se mi era stato praticamente ordinato di non farlo, onestamente non me ne importava. Aspettai cinque minuti per convincermi a bussare.

    Lo feci.

    «Michael?».

    Accostai l'orecchio alla porta e aspettai. I secondi passarono, ma non ottenni risposta. Sentivo un lieve brusio di sottofondo.

    Magari la guardia del corpo aveva detto il vero...

    Battei ancora una volta le nocche sul legno, questa volta più forte.

    Il nulla.

    Non lo chiamai più. Me ne andai a sguardo basso.

    Proprio mentre stavo per svoltare l'angolo del corridoio, percepii un debole schiocco alle spalle. Mi girai a rallentatore.

    La porta si era socchiusa.

    Indietreggiai di un passo e chinai la testa all'indietro, per vedere se il suo corpo fosse visibile attraverso la fessura della camera. Non c'era nessuno.

    Tornai indietro.

    Aprii la porta con visibile preoccupazione.

    L'ambiente era completamente privo di luce, se non per il debole chiarore della lampada a comodino che sfumava tutti i contorni della stanza, tratteggiandola con un non so ché di allarmante. La tv era accesa e la luce colorata variava a seconda delle immagini che passavano sullo schermo.

    «Michael...?»

    Un corpo, il suo, se ne stava acquattato verso un'estremità del letto, tutto raggomitolato su se stesso. Ne distinsi i capelli, rischiarati dai riflessi bluastri e giallini del televisore, che gli nascondevano il viso come una voragine oscura. Era così immobile che pareva non respirare.

    Pensai che stesse male e gli corsi accanto in un battibaleno, chiudendo la porta alle spalle con il cuore che scalciava come un pazzo. Mi placai non appena lo udii sospirare pesantemente.

    «Michael...» Il mio tono si addolcì. «Che succede?»




    1 Sarah è nata il 25 gennaio 1975. Bohemian Rhapsody è uscita nel 1975 e Don't stop 'til you get enough nel 1979.



    Edited by fallagain - 21/3/2021, 21:43
     
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    Capitolo Diciotto: La Spalla

    Ci mise parecchio a rispondermi.

    Il viso era affondato nella federa del cuscino. Nonostante apparisse immobile come pietra, il petto si alzava e si abbassava profondamente. Era sveglio, le sue dita stringevano e mollavano la presa sulle coperte come se avesse un tic. I capelli neri come l'inchiostro lo coprivano fino al collo, dando l'impressione che una grande quantità di petrolio si fosse rovesciata sul cuscino.

    Puntando le mani sul materasso si tirò su, emettendo un gemito di fatica. Fissava il basso. Non voleva farsi vedere in faccia, non riuscivo a capire il perché.

    Ebbi la voglia di scostargli qualche ciuffo disordinato dagli occhi, giusto per capire cosa trasmettessero, come stesse, che cosa non riuscisse a raccontarmi. Ma mi trattenni.

    «Ho fatto un'intervista...»

    Il suo sussurro biascicato mi arrivò pianissimo, come un disperato mormorio. Trascinava le parole, ma era cosciente.

    Sospirò e continuò con la voce spezzata. «Mi hanno chiesto delle accuse, Sarah... le solite stupide domande... se ho mai violentato un bambino, se mi diverto a tenerli nella mia camera da letto per piacere, se do loro alcool e droga... e io ho dovuto rispondere per difendermi, difendere quello che sono, come sempre, come se già tutto questo non fosse abbastanza... i lividi continuano a farmi male, notte e giorno».

    Michael si lasciò cadere puntando i gomiti sul materasso. I palmi delle mani gli coprivano la faccia; la schiena leggermente ricurva doveva fargli male sul serio, poiché – dopo neanche un minuto passato in quella posizione – fece cadere il peso sul letto e la testa sul cuscino, ignorando il mio sguardo preoccupato.

    Cercai più e più volte di dire qualcosa di sensato, eppure rischiavo di ripetermi soltanto. Sapevo che non potevo starmene a guardare e che dovevo rendermi utile in qualche modo, ma non avevo proprio idea di come agire. Mi feriva vedere quanto le accuse lo stessero devastando.

    Gli eventi che ci causano una ferita profonda non se ne vanno facilmente. Lo scorrere del tempo aiuta fino ad un certo punto: quel dolore rimane sempre con noi, nella nostra testa, come un ronzio disturbante e costante di sottofondo.

    Mi sedetti sul bordo del letto.

    Diressi una mano verso la sua nuca. Mi fermai prima che potessi entrare in contatto con i suoi capelli.

    E se gli avesse dato fastidio? Se fosse stato sconveniente?

    Nell'attimo in cui lo toccai lo sentii fremere. Serrò i polpastrelli avvinghiando la fodera ed espirò profondamente, portando la gamba sinistra più vicina al petto. Ero così intimorita dal fatto che lo potesse seccare quel semplice atto di dolcezza da parte mia, che ebbi l'immediato istinto di allontanarmi; così separai il palmo dal suo capo e una sensazione di acuto ma silenzioso sconforto mi si avventò contro.

    «No», proruppe usando un tono pregante. Mi raggelai con la mano a mezz'aria. Sospirò. «Rimani qui».

    Sebbene non avessi fatto il minimo movimento per issarmi dal materasso, non obbiettai.

    Le dita scivolarono un'ulteriore volta sui suoi capelli e colsi l'occasione per sistemargli un ciuffo nero lontano dagli occhi e dalla fronte, in modo che non gli desse fastidio. Michael non fece nulla per impedirmi ciò, rimanendo glaciale come il silenzio di quella stanza.

    «Chi c'è in casa?» bisbigliò.

    I suoi occhi fissavano il vuoto, ma le sopracciglia erano lievemente contratte. Se non era felice di essersene andato senza aver avvertito i figli, figurarsi essersi rinchiuso in camera senza averli degnati di minima attenzione. Conoscendolo, doveva proprio stare male per non volerli accanto.

    «Nessuno... i bambini sono usciti con Grace. Torneranno entro cena, credo».

    Chiuse gli occhi. Corrugò la fronte mordendosi le labbra.

    «Mi... dispiace...»

    «Per cosa?».

    Inspirò e trattenne il fiato per un paio di secondi, prima di riaprire le palpebre. Dall'opaca illuminazione della lampada a comodino potei scorgere le iridi coperte da lacrime.

    «Non sono un bravo padre...»

    Era impressionante quanto Michael si preoccupasse dei suoi figli e dell'opinione che avevano di lui. Se stesso non contava, contavano soltanto loro; il suo male era minore rispetto a quello che Prince, Paris e Blanket potevano provare. Era un suo pregio speciale, che purtroppo si trasformava facilmente in senso di colpa e paranoia.

    Sorrisi dolcemente. «Se tu non sei un buon padre, io sono Titti di Gatto Silvestro. Non è vero, non stai agendo così per ferirli. Sei un papà fantastico. In qualche modo troveremo qualcosa da dir loro per tranquillizzarli, non temere. Ti amano... fra tutte le cose che si possono mettere in dubbio, le tue qualità di padre non si devono proprio toccare».

    Attesi una sua risposta e questa non arrivò. Posai la mano sulla sua spalla e la massaggiai con cura, compiendo piccoli centri concentrici, ordinando a me stessa di trovare una soluzione per aiutarlo a uscire da quell'incubo ad occhi aperti.

    «Ti fa tanto male la schiena?», mormorai.

    «Non solo quella...» sussurrò di rimando. Respirando faticosamente decise di cambiare posizione e si voltò a pancia insù. Aveva il viso incavato, come se non avesse mangiato da giorni. Fissò il soffitto fino al momento in cui, poco dopo, si osservò le braccia sovrappensiero. «Mi fa male anche qua...»

    Indicò l'avambraccio destro e immediatamente mi sporsi per accarezzare l'arto. Mi scrutò come un cucciolo sperduto e per un istante fui presa da un grande senso di colpa: il movimento della sera prima, quello fatto per abbrancarmi alla porta, doveva avergli causato molto dolore.

    «Non dovevi fare quelle mosse per tenermi ferma, ieri... ora ti fa ancora più male...»

    Mi studiò valutando e soppesando le mie parole. Per la prima volta lo udii abbozzare uno spasmo di risata. Triste, ma sempre una risata.

    «Non sei tu la causa dei miei mali». Pausa, e successivamente la scomparsa del sorriso. «È la brutalità della polizia che mi ha ridotto in questo stato...»

    Corrugai la fronte. «Cosa intendi dire?»

    Michael mi guardò a lungo, ma non pronunciò una sillaba. I miei occhi continuarono a chiedergli più e più volte di rispondere alle mie domande, eppure per quanto mi sforzassi e cercassi di capire cosa nascondesse dentro, era impenetrabile. Era sciupato, straziato, triste... troppo triste. Un guscio vuoto. I suoi occhi non erano più gli stessi.

    Sospirai rattristata e posai il mio sguardo sulle sue mani, che teneva dolcemente appoggiate sulla pancia. All’improvviso ne alzò una verso il ciondolo di Arwen che tenevo al collo; con delicatezza lo prese fra le dita, lo girò e rigirò ammirandolo accuratamente. Un secondo dopo e il suo sguardo si legò al mio, vagando su ogni angolo delle mie iridi.

    I polpastrelli abbandonarono il ciondolo scintillante passeggiando verso il collo nudo. Mi fece rabbrividire in maniera impercettibile. Dopodiché si spostarono sulla guancia destra, dove contemplò la morbidezza della mia pelle. Strofinò le dita su di essa e mi sistemò un ciuffo castano rossiccio dietro l’orecchio. Sorrisi fra me e me, percependo la sua mano talmente grande da coprire tutta la parte destra del volto. Il cuore fece un doppio salto mortale nel petto.

    Si mosse piano verso il centro del materasso e pose una mano sullo spazio vuoto che aveva lasciato. Batté qualche colpetto sul letto – giusto per farmi capire cosa dovevo fare – e attese la mia mossa. Mi distesi al suo fianco con uno sprazzo di timidezza, a pancia in giù, tenendo il busto e la testa rialzata con la pressione degli avambracci.

    Mi immobilizzò con una rapida carezza sul mento.

    Lo puntai e compresi che voleva che rimanessi così.

    La sua bocca, così ben delineata, si schiuse. Respirò a fondo e mi osservò molto più a fondo di quanto non facesse solitamente. Aggrottò la fronte e gli estremi delle sue labbra si sollevarono.

    «Hai due occhi estremamente grandi».

    Arrossii e soffocai un risolino imbarazzato. Inclinai il capo verso la spalla destra – accennando un inudibile «Grazie» – e lo guardai poco dopo, non appena sentii che il rossore era più o meno sparito. Me lo dicevano in tanti, dovevo esserci abituata, ma detto da lui era tutt’altra cosa.

    Strinse le palpebre in una fessura. «E non sono solo verdi. Hanno anche un’altra sfumatura, sbaglio?»

    «No, non sbagli», esclamai sorpresa. «Sei il primo che lo nota. Ma quando – »

    «Davvero?», sorrise.

    Era vero. Era l’unico che aveva captato quel dettaglio. Tutti pensavano che il colore fosse verde chiaro e basta. Doveva averli analizzati da tempo, per essere arrivato a quella conclusione.

    «Sì...», mormorai incredula. «Il colore predominante è il verde, ma sotto il Sole si possono vedere delle sfumature bluastre attorno all'iride, quasi azzurro mare a dire il vero. Pensa che non lo avevo mai notato, almeno fino a qualche anno fa», sogghignai.

    «Non ti sei guardata abbastanza a fondo, allora», rispose teneramente. Fu il primo vero sorriso che gli vidi fare in tutta la giornata. «Gli occhi sono lo specchio dell’anima, sai? I tuoi sono speciali». Lo fissai meravigliata. Michael scrutò le mie mani distese sul cuscino. «E comunque, anche se tu non te ne saresti mai accorta, ci sarei stato io a farlo».

    Sorrisi.

    Ne ero convinta. Michael avrebbe tirato fuori il meglio di me in ogni occasione. Mi avrebbe analizzato come un codice antico, una pergamena dal linguaggio sconosciuto e criptico, e poi mi avrebbe stupito con numerose e incredibili constatazioni. Perché lui era fatto così, ti guardava dentro e con una dolcezza disarmante sottolineava le belle cose di te.

    Gli volevo bene davvero.

    Il suo sguardo e il mio navigarono ancora l’uno nell’altro per una quantità di tempo indeterminato. Pian piano cominciavo a non provare più timore per quelle iridi profonde. Il silenzio che mi riempiva echeggiava prepotentemente nelle viscere del corpo.

    Eppure sentivo... sentivo dentro di me uno sconfinato vortice di emozioni che lottava nel tentativo di placarsi.

    Interruppe il contatto visivo, colto da un improvviso moto di tristezza. Le iridi divennero lucide, le labbra si assottigliavano nel vano tentativo di non piangere. Mi colpì come un pugno nello stomaco.

    «Prima o poi tutto questo finirà, ne sono certa» mormorai accarezzandogli una guancia con il dorso di una mano. Chiuse gli occhi con aria sofferta. «Sai che non sono la persona più giusta per aiutarti, ma... io ci sono. Qualunque cosa succeda. Non ti chiederò di parlarne – non voglio sforzarti – ma se vuoi piangere, fallo. Se vuoi che ti faccia compagnia in silenzio, hai trovato quella giusta».

    Non appena dissi quelle parole portò le mani al viso e un singhiozzo mi dette la conferma che stava crollando. Mi trascinai più vicina al suo viso, gli accarezzai amorevolmente i capelli e cercai di allontanare i suoi palmi dalla faccia.

    «Michael» sussurrai, «non ignorarmi...»

    Usai le stesse parole che mi aveva rivolto quella notte alla scogliera.

    Quando le tolse, anche se restio a farlo, mi diresse un’espressione indescrivibile: gli occhi erano spenti, il volto plumbeo, la pelle bagnata.

    Mi abbracciò. Rabbrividendo dall’emozione, ricambiai tentando di non buttare tutto il peso su di lui: affondò la faccia nell’incavo del collo e singhiozzò, masticando frasi su come gli avessero fatto male e su come tutto quello che aveva passato fosse stato terribile. Pianse tutto il dolore che le accuse gli stavano infliggendo, ancora una volta.

    Non seppi come riuscii a non piangere di conseguenza, ma non barcollai.

    Ci sono persone che sentono il dolore a fondo, molto più intensamente di altri. Sono fragili, delicate come ceramica pregiata, possono rompersi con un nonnulla. Non sono soggetti facili da capire, decifrare, perché nel profondo del loro cuore si nasconde una personalità molto più complessa ed elaborata di quanto si possa immaginare: come minuscole cellule del corpo, nascondono sentimenti invisibili a occhio umano, emozioni che pochi riescono a percepire almeno una volta nella vita: sensazioni come amore e dolore si ingigantiscono. Eppure dentro il loro corpo giace una forza enorme, messa a dura prova dalla vita e dalle numerose e intricate vie che seguiamo, strade costruite su rocce appuntite, sabbie mobili e arido deserto.

    Michael era così, vulnerabile e una forza della natura contemporaneamente; era coraggioso, resiliente, ma capace di rompersi al minimo alito di vento. La tempesta era alle porte e forse per quello si sfogava prima dell’ora: sapeva che dopo avrebbe dovuto mantenersi in piedi e non avrebbe potuto piangere; perché, se fosse scivolato, la caduta sarebbe potuta costargli la vita.

    Entrambi eravamo certi che volesse continuare a vivere; più per i suoi figli che per se stesso, ma era comunque una giusta causa.

    Ci sono qui io, volevo dirgli, non ti preoccupare.

    Ma le mie labbra si serrarono e non fui più in grado di parlare.

    *

    Parecchie ore più tardi Grace e i bimbi tornarono al residence. Le loro voci che salivano su per le scale del primo piano sembravano il rumore di campanelle al vento. Ci stavano cercando, sicuramente speravano di rivedere il loro papà.

    Michael si allontanò da me con gli occhi arrossati, guance rigate da scie di lacrime quasi del tutto asciutte. La bocca si schiuse leggermente, come se si fosse appena risvegliato da un sogno ad occhi aperti.

    Fissò la porta sospirando demoralizzato.

    «Vuoi che vada a dir loro qualcosa?».

    Non rispose nell'immediato.

    «Potresti dir loro che sto poco bene, per favore?». La voce era più flebile e trascinata di prima. «Di' loro che sono andato dal medico, questa mattina… di’ loro che mi sono preso la febbre, per favore... e che voglio loro molto bene...»

    Annuii e mi alzai. Prima di andarmene mi abbassai verso la fronte di Michael per dargli un leggero bacio sulla tempia: le sue palpebre si chiusero e inspirò a fondo nell’istante in cui poggiai le labbra sulla sua pelle che, effettivamente, era bollente.

    Quando fui sulla porta dissi: «Ti porto anche qualcosa da mangiare». Lui scosse la testa mettendosi a sedere a fatica. Posi le nocche sui fianchi a mo’ di rimprovero. «Devi mangiare qualcosa».

    «Non ho fame, grazie...»

    Ci guardammo a lungo, uno più serio dell’altro: sembrava deciso a non voler mangiare, ma io non lo avrei lasciato a stecca fino l’indomani. Alzai le spalle, palesando una faccia indifferente.

    «Ti porto da mangiare lo stesso, non si sa mai».

    Mi volsi e uscii dalla stanza.

    A passi veloci accorsi al piano terra, dove vidi Prince e Paris giocare assieme e molto più felici di quella mattina. Nel momento in cui mi videro mi corsero incontro sorridendo, ma quel dolce sorriso divenne lieve quando s’accorsero che loro padre non era dietro di me.

    «Il vostro papà mi ha informato che ha la febbre. Sta davvero male. Questa mattina è andato dal dottore, non voleva farvi preoccupare…». Le mie labbra formarono una linea diritta. «Ci teneva a dirvi che vi vuole molto bene, e – »

    «Non possiamo andare a salutarlo?», domandò Paris sottilmente.

    Scossi la testa, mi chinai sulle ginocchia. «No, non ancora. Non vuole che vi prendiate l'influenza. Però potete aiutarmi a cucinargli qualcosa di buono, per farlo star meglio... sono sicura che comincerà a sentirsi in forze grazie al vostro sostegno, che ne dite?»

    Acconsentirono solennemente e, prima di cenare, preparammo un delizioso brodo e qualche verdura cotta con l’aiuto della cuoca fidata. Mangiammo insieme e subito dopo salutai i bambini, dicendo loro che sarei rimasta con Michael fino a quando non sarebbe stato un po’ meglio e la (finta) febbre non gli sarebbe passata. Promisi che sarei tornata per leggere loro qualcosa e dar loro il bacino della buonanotte assieme a Grace.

    «Perché tu vai a vederlo?», domandò Prince aggrottando la fronte.

    Sorrisi. «Io non sono sua figlia. E, se vi devo confidare un piccolo segreto, be’, sappiate che siete la sua vita, il suo pensiero fisso. Non dimenticatelo mai», poggiai le mani sulle loro spalline minute.

    Sorrisero debolmente e scoccai loro due baci. Detti anche un bacione a Blanket e ringraziai Grace al posto di Michael, la quale si era ben offerta di badare ai bambini per tutta la notte. Era una persona a modo, sinceramente devota al suo lavoro; tuttavia, in quel momento mi lanciò uno sguardo quasi severo.

    Salii le scale con un vassoio in mano, con una lentezza da far paura alle lumache mentre cercavo di non rovesciare alcuna pietanza. Bussai alla porta di Michael e un lieve «Sarah?» mi dette la conferma che era ancora sveglio. La aprii e mi sporsi con la testa. Guardai il letto e poi la luce che si intravedeva dal bagno privato di Michael: mi stava osservando con fare stanco, ma sorpreso dal mio arrivo improvviso.

    «Vado un secondo in bagno, tu entra pure...» e neanche mi dette il tempo di rispondere che chiuse la porta.

    Arrossii e tentai di non scoppiare a ridere per l’imbarazzante dubbio di averlo interrotto in un momento cruciale. Spalancai la porta con un piede e vi entrai a piccoli passi, la richiusi e sistemai il vassoio sulla scrivania. Mi sedetti sul bordo del letto in attesa che finisse ciò che doveva fare e guardai la TV distrattamente: c’era il telegiornale.

    Michael uscì pochi minuti più tardi e mi esaminò dall’alto in basso con espressione ambigua. Sfoderai la mia mitica faccia da poker e il suo sguardo si posò sul vassoio. Mi rivolse un’occhiata penetrante e apparentemente scocciata, ma vedevo che rideva sotto i baffi. Solo allora mi accorsi che aveva acceso entrambe le lampade dei comodini, evidentemente per dare più illuminazione all'ambiente.

    «Ti avevo detto che non volevo niente da mangiare...», borbottò spossato, venendomi incontro.

    Assunsi un cipiglio indefinito. «E io non ti lascio qui denutrito. Puoi anche mangiare più tardi».

    Sbuffò alzando gli occhi al cielo con quella poca allegria che aveva. Mi si sedette accanto. La schiena era piegata per il dolore.

    «Davvero, Sarah, sei gentile, ma non ho fame»

    «Michael». Lui mi studiò senza fiatare. «Non voglio che tu ti indebolisca. Fare lo sciopero della fame non ti aiuterà».

    Sorrise e la cosa mi lasciò di stucco. Negò con la testa.

    «Ti preoccupi troppo, dico sul serio. Non diventerò uno scheletro se per una sera non mangio. Semplicemente non ho appetito, capita qualche volta». Una pausa. Uno scambio di sguardi e un forte respiro. «Ti accontento... ma solo un po’ di brodo, non ho voglia d’altro».

    Michael tentò di issarsi.

    «No, fermo qua! Te lo porto io se fai fatica», mi alzai a seguire.

    Ridacchiò osservando il pavimento con aria vacua. «Sarah, ho male alla schiena e alla braccia, non sono spazzatura, riesco a sollevarmi. Mi farà bene fare qualche passo».

    «Io non ne sono molto sicura».

    Michael mi gettò un’occhiata guardinga e sghignazzò per la mia smorfia contrariata. Nonostante lo facessi ridere, era palese che la sua voglia di divertirsi fosse inesistente.

    Dondolò fino ad arrivare sulla sedia accanto alla scrivania, dove si fece cadere con smorfia di visibile dolore.

    Non sapevo se uscire dalla stanza o restare a guardarlo cenare, ma temendo che potesse buttare tutto nella spazzatura optai per la scusa di dover andare in bagno. Si voltò verso la mia parte, girando con cautela la schiena, e mi disse che potevo usare il suo. Sentii l'improvvisa voglia di abbracciarlo e mi ripromisi che l'avrei fatto.

    Quando uscii dal suo enorme bagno privato lo vidi giocherellare con il cucchiaio della minestra come un bambino piccolo; i suoi occhi erano assenti.

    Mi avvicinai. «Non mangi?»

    Michael sibilò un respiro stanco. Non osava guardarmi, ma in compenso squadrava il brodo con aria schifata, come se fosse nauseato da qualsiasi pietanza avesse sotto gli occhi. Schioccai la lingua sul palato.

    «L'hanno preparata Prince e Paris...»

    A quella frase mi esaminò stupito. Se io non ero in grado di aiutarlo, allora era meglio provocarlo con i giusti mezzi di cui disponevo.

    Le sue palpebre erano spalancate dallo sbalordimento.

    «Hanno insistito tanto per farti una cenetta con i fiocchi... in realtà sono stata io a proporre loro di aiutarmi, ma non immagini quanto amore ci hanno messo per preparare il tutto».

    Michael rimase in attesa di ulteriori dettagli. Le mie iridi luccicarono dalla commozione e egli lo scorse; chinò l’attenzione sulla sua cena e ingoiò la saliva.

    «Ti amano davvero, Michael».

    Dette un’altra mescolata alla minestra.

    «Lo so...» mormorò. «Mi dispiace deludere le loro aspettative... però... posso mangiare un pezzettino di pace... giusto un pezzo...», disse cadenzato e spossato.

    Sorrisi e lo scrutai separare una minuscola quantità di pane con due dita, questo adagiato su un bellissimo piatto di porcellana. Prese la mollica e la portò alla bocca. La masticò lentamente e con leggera fatica ingoiò il boccone.

    I suoi bimbi erano in grado di fargli cambiare idea su tutto. Di sicuro erano molto più capaci di me, e questo mi rendeva le cose più difficili del previsto: se a malapena riuscivo a farlo mangiare, come sarei riuscita a distrarlo? Io non ero brava in quel genere di cose, o così pensavo.

    «Non serve che mangi tutto adesso, Michael» dissi vedendo la sua espressione pensosa. «Quando sentirai di avere un po’ d'appetito, staccherai un altro pezzo di pane, o mangerai qualcos'altro».

    Coprì il piatto della minestra con il coperchio, affinché non uscisse il calore. Senza darmi retta si sollevò dalla sedia e si diresse verso il letto. Si distese e prese il telecomando della tv cambiando canale, il tutto in silenzio tombale; il telegiornale stava finendo con le previsioni del meteo e l'imminente arrivo della pubblicità, perciò cambio canale. Poco dopo, vedendomi impalata a fissarlo, mi disse di sedermi accanto a lui. Obbedii e ci accomodammo vicini con gambe distese sul materasso e schiena appoggiata contro la parete.

    «Aspetta, fermo!».

    Tornò indietro di un canale e vidi Celine Dion, una mia diva della musica. Stavano facendo vedere una sua esibizione. Era in concerto – anche se non riuscii a capire quale – e cantava All By Myself.

    «Una canzone giusta per suicidarsi...», mormorai assumendo una smorfia rassegnata.

    Michael mi scoccò un’occhiata veloce e ridacchiò, ma non cambiò. Rimase ad ascoltare quella voce d'usignolo.

    «Michael... se posso essere onesta, anche a me piace da morire Celine Dion, ma non vedo il caso di ascoltare una canzone del genere in un momento come questo» borbottai incrociando le braccia al petto.

    Fece spallucce. «A me piace».

    Emisi uno sbuffo a fior di labbra. La canzone era ancora all'inizio, perciò avremmo dovuto sopportare una lenta e delirante tortura; delirante più per me che per lui, poiché in molte altre occasioni avevo rischiato di rompere qualcosa imitando Bridget Jones mentre cantava sul suo divano di casa1.

    Una piccola lampadina mi si accese intesta: se l'unico modo per distrarlo era farlo ridere, perché non afferrare la palla al balzo?

    Arrivò il secondo ritornello. Oscillai sul posto, a destra e a sinistra, muovendo le labbra in sincrono perfetto con quelle di Celine. Nella parte strumentale mi sciolsi e mi lasciai andare alla pazzia fingendo di suonare il pianoforte - come stava succedendo veramente nel live - sotto l’espressione confusa di Michael; non lo calcolai minimamente e mi preparai per l'esplosione canora in playback, che avrei dovuto affrontare di lì a pochi secondi.

    When I was young I never needed anyone.
    Making love was just for fun.

    Those days are gone.

    Michael cominciò a preoccuparsi seriamente.

    Ero concentrata. Fissavo il volto di Celine Dion tentando di calarmi nella parte della ragazza sofferente. In mente, però, avevo Bridget.

    Michael mi studiò incerto se ridere o spaventarsi. Mi stavo rovinando l’immagine per lui e solo per vederlo sorridere!

    Ancora il ritornello. Si stava avvicinando uno dei più potenti acuti della canzone e perciò mi posi in ginocchio sul materasso, tenendo una mano sulla gamba di Michael per evitare di catapultarmi giù dal letto di punto in bianco. Gli rubai anche il telecomando dalla mano. Per lo shock non fece nemmeno una piega.

    All by myself... don’t wanna be!
    All by myself... anymore!

    Quando la nota arrivò dovetti fingere di cantare con tutto il fiato che avevo in gola; inarcai la schiena all'indietro, portando il telecomando distante dalla bocca come anche la cantante alla TV stava facendo.

    Michael scoppiò in una fragorosa risata - parecchio sadica a dire il vero - e quasi non cadde dall'altro lato del materasso per la potenza degli spasmi. Il primo acuto terminò e mi rimisi in posizione diritta, presentando un'espressione di serietà inimmaginabile: neanche se fossi stata posseduta da Celine Dion in persona avrei doppiato così bene!

    Michael era così senza fiato che dovetti mordermi le labbra per non scoppiare a ridere anche io.

    Finsi di tranquillizzarmi un po’ scuotendo i capelli con una mano, ma alla seconda nota alta fui riconquistata dall'entusiasmo, e così continuai per i successivi (finti) gorgheggi vocali, usando il telecomando non solo come microfono ma come bacchetta per suonare la batteria. Lanciai una gamba verso l'alto e mi strinsi forte a quella del mio compagno: egli si raggomitolò su se stesso a causa delle grasse risate.

    L'ultimo e decisivo acuto lo raggiunsi a fatica, visto che era praticamente diverso da come Celine lo aveva intonato nella canzone originale, ma conclusi con un energico «Woo» di soddisfazione.

    Michael restò con la testa affondata nel cuscino. Le spalle erano scosse dai tremori; la risata si alzava e si abbassava a momenti, ma ad un certo puntò toccò dei picchi così alti che mi venne il dubbio fosse sul punto di morire. Gli ci volle una leggera pacca sulla spalla e un paio di minuti per riprendersi.

    «Tu... tu!», mormorò col fiato corto, ritornando a sedere composto e guardandomi con occhi lucidi. Mi puntò con espressione ridente e allibita. «Tu non sei normale!».

    Alzai gli occhi al cielo. «Te l’avevo detto che dovevi cambiare canzone! Ora sai quanto sono brava in playback», gli feci una boccaccia e scossi il capo ruotando i capelli a destra e a sinistra, atteggiandomi da finta smorfiosa.

    Mi guardava e sorrideva. Le mie guance stavano bollendo dall'imbarazzo, tuttavia non mi sentivo ridicola per ciò che avevo fatto: l’idea di avergli regalato anche solo un pizzico di felicità mi trasmetteva adrenalina allo stato puro.

    «Oh Dio... Dio ti benedica, Sarah», si asciugò gli occhi, «mi hai quasi ucciso».

    «Ne sono contenta». Mi incupii e ignorai la sua espressione meditabonda. «Ringrazia il mio mito, è lei è che mi ha ispirato».

    «Celine?»

    «Bridget Jones», sentenziai. Le sopracciglia di Michael si aggrottarono per il dubbio e io spalancai le palpebre. «Non conosci Bridget Jones? Il film Il Diario di Bridget Jones

    Alzò un sopracciglio. «Sono un uomo, ragazza, non seguo molto le commedie femminili. Ne ho sentito parlare, ma no, non l’ho mai visto», negò con la testa.

    «Commedie femminili?», lo ripresi offesa. «Bridget Jones è l'idolo di ogni donna un po’ fuori forma, potenzialmente schizofrenica e specialmente single. Una donna che parla senza pensare, impacciata e goffa, completamente sfigata nelle relazioni con il sesso opposto», gesticolai.

    I suoi occhi furbi e penetranti invasero la mia privacy. Un altro sorriso comparve sulle sue labbra.

    «E tu ti ritrovi nel suo personaggio?»

    «Ovvio!», assentii. Inclinai la testa e mi corressi. «Be’, sì e no. Nessuna delle mie relazioni è durata a lungo o ha funzionato veramente. Schizofrenica a momenti, fuori forma non parliamone», ridacchiai, «Ma la protagonista è molto più estroversa di me!»

    Michael mi osservò misticamente. Si umettò il labbro. «Tu non sei fuori forma».

    Sghignazzai intimidita. Nella mia risata c’era un sottile sarcasmo e lui lo percepì. Presi un respiro e sorrisi in maniera più carezzevole.

    «Be’, non sono magra. Lo avrai sicuramente constatato anche tu. Ho la mia pancetta, le mie gambe un po’ robuste, spalle larghe (anche se quella è genetica)». Mi strinsi nelle spalle increspando le labbra. «Modestamente la cosa che mi salva è avere una vita stretta. Insomma, guardami!», ridacchiai mostrandogli i palmi.

    Mi pentii di ciò che avevo detto nello stesso istante in cui lo dissi.

    Michael lanciò lunghe e silenziose occhiate a tutto il corpo, da capo a piedi. Iniziò dalle caviglie e proseguì verso l’alto, fino alle cosce; rimase a guardarle con attenzione, socchiudendo appena le palpebre, e risalì fino alla pancia. Fece tutto molto lentamente, per poi arrivare al seno, alle braccia e, infine, al mio viso. Mi sentii spogliata, privata dei miei vestiti, nuda di fronte a lui e più impotente di quanto avrei voluto essere.

    «Non vedo dove tu sia grassa».

    «Non lo sono infatti, sono solo un po’ formosa», ribattei.

    Fece una smorfia scocciata. Non gli era minimamente piaciuto il commento che avevo fatto a me stessa.

    Fuggii da lui e dalle sue iridi severe fino a quando non lo sentii richiamare la mia attenzione con un sussurro esageratamente debole.

    «Hai avuto brutte esperienze in amore?».

    Quando lo puntai era straordinariamente curioso, anche se insicuro della domanda proferita.

    «Sì» annuii. «Non ho mai avuto molte relazioni, sono onesta. Molti erano flirt temporanei (con persone con cui non ho mai avuto niente di fisico, tra l’altro). Non sono quel tipo di persona che lo fa e poi si dimentica degli altri, purtroppo per me. Di relazioni "serie" ne ho avute solo due».

    Guardò in basso e corrugò la fronte. Arrossii.

    «Eri innamorata?».

    «Sì», mormorai. «Mi hanno fatto perdere la testa».

    Mi si pose di fronte incrociando le gambe a farfalla, proprio come un bambino, stringendo appena la mandibola dal dolore alla spalla.

    «Parlamene», domandò in tono affettuoso.

    Sfuggii ai suoi occhi. Gli spiegai del primo, Luke, un compagno di università, e di Shane, conosciuto qualche anno più tardi quando facevo la gavetta in un locale accanto alla mia sede universitaria, per potermi pagare le rette senza usare soltanto i soldi dei miei.

    Luke seguiva i miei stessi corsi di letteratura e l’avevo conosciuto tramite un’amica. Ero appena arrivata in America e lui fu come un fulmine a ciel sereno - e, ripensandoci adesso, non ero proprio il suo tipo. Era più superficiale di quanto credessi. Fingeva di essere una persona a modo e sensibile, ma era tutta una facciata. Voleva soltanto farsi delle esperienze, come un normale ragazzo di 20 anni. Mi corteggiò subito: era rispettoso e audace come piaceva a me. Un mese dopo il nostro primo incontro cominciammo a uscire regolarmente e la relazione nacque improvvisamente, senza un perché o un quando. Durammo 9 mesi – che non è molto, lo ammetto – ma per me fu una relazione intensa, la prima dopotutto. Mi lasciò quando scoprii che mi tradiva con un’altra.

    Quando arrivai a spiegargli questo passaggio, Michael non disse nulla: spalancò di poco le labbra e non proferì parola. Gli raccontai di tutte le fisime che mi ero fatta, di tutte le volte in cui avevo pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato in me, solo a causa di uno stupido coglione. Come era normale pensare, mi convinsi di essere io la colpa di tutto: io non sapevo amare e non ne valevo la pena. Non mi davo pace. Mi sentivo sola, terribilmente sola, e mi odiavo profondamente. Quel tradimento mi segnò, pur facendomi lavorare su me stessa in maniera indelebile.

    Successivamente gli raccontai di Shane, un ragazzo molto più buono e maturo rispetto al precedente. Quando lo conobbi stava per iniziare il terz'ultimo anno di università e aveva le idee chiare riguardo al suo futuro. Mi innamorai di lui lentamente, ma non per questo fu una cotta superficiale. Tutt’altro. Shane era un abile corteggiatore, ma lo faceva lontano dagli occhi di tutti. Stetti con lui tre anni e mezzo, fino a quando non terminò l’università e si trasferì lontano. Sapevo che quella relazione non avrebbe avuto futuro, ma ci provai comunque. Gli volevo bene, davvero tanto, e il dolore che ho provai per lui fu decisamente maggiore: Shane mi amava, ma non abbastanza da rinunciare ad un lavoro in Canada. Dopotutto io non avevo mai desiderato che rimanesse con me e non glielo chiesi mai, non volevo una relazione costruita sui rimpianti: lo lasciai andare perché lo amavo. Ma quando ci mollammo, entrambi soffrimmo.

    Sorrisi divertita, sospirando di sollievo per quello sfogo. Michael mi osservava come se lo avessi stregato. Le pietre scure che aveva al posto degli occhi brillavano. Mi stiracchiai e allungai le braccia verso l'alto.

    «Per quello delle volte sono scettica riguardo a quello che posso donare agli altri. Ma quei momenti capitano, no? Un giorno ti svegli e ti domandi cosa ci sia di bello in te da far rimanere così tanto una persona al tuo fianco. Poi comprendi che solo tu puoi darti una risposta. E ti senti solo, proprio perché in quei momenti non riesci a vedere nulla di meritevole in te. Niente che valga la pena e che faccia restare qualcuno abbastanza a lungo da sentirti sicuro, per una volta, della tua felicità».

    Improvvisamente lo guardai e sfoderai uno dei miei migliori sorrisi.

    «Alla fine la cosa che ci tiene in vita è l’amore. L’amore per noi stessi, per gli altri, ma soprattutto l’amore per la vita. Non credi anche tu? Tutto ruota intorno all’amore».

    Con una mano tremante accarezzai il viso di Michael: era come se mi stesse richiamando. La poggiai delicatamente sulla sua gota liscia e lo sentii irrigidirsi sotto il mio contatto.

    «Tu sei amato», sussurrai, «e sarai sostenuto da chi ami per sempre, fino alla fine dei tuoi giorni e anche oltre».

    Michael chiuse gli occhi e mi venne incontro a braccia aperte. Mi strinse a sé. Non fu necessario guardarlo in viso per leggere ciò che aveva nel cuore: posò una mano sulla mia guancia destra e la spostò di lato, affinché potesse darmi un bacio. Il cuore fece un giro della morte sulle montagne russe che avevo in petto.

    «Ti voglio bene», sussurrò al mio orecchio. «Ti voglio tanto bene».

    Si separò trattenendomi un ciuffo di capelli fra le dita. Lo accarezzò a lungo con i polpastrelli e mi indirizzò uno sguardo profondo.

    Era talmente vicino. Potevo vedere la sua pelle appena truccata, le iridi grandi come non mai, le mascelle scolpite come il marmo, le labbra carnose. Per un attimo mi parve di essere di fronte all'uomo più bello che avessi mai conosciuto.

    Piegai i lembi della bocca all'insù. «Anch'io ti voglio bene, Michael».

    *


    Dopo il mio momento “rivelazioni” avevamo deciso di seguire il resto concerto di Celine Dion. Terminò una mezz'ora dopo. Talvolta Michael chiudeva gli occhi e muoveva i piedi su e giù, mentre io ripetevo le parole di ogni canzone a memoria.

    Quando questo finii, proposi di guardare un film o un cartone divertente, ma lui mi chiese se potessimo guardare Fantasia. Amava la musica classica e questa, nei peggiori momenti della sua vita, riusciva a zittire il caos che aveva in testa.

    Mi alzai dal letto al posto suo per evitargli sforzi fisici. Mi disse di guardare dentro lo scaffale dove teneva le cassette, in alto a destra. Inserii Fantasia nel registratore e feci partire la riproduzione. L'inizio non mi elettrizzava molto e per poco non rischiai di addormentarmi; ero stanca morta ed era mezzanotte inoltrata.

    «Ho sempre amato queste scene, dove compaiono tutte le fate» sussurrò Michael con aria infantile, gesticolando faticosamente.

    Lo guardai alzando il mento all'insù. Mi aveva costretta ad appoggiare il capo sul suo torace.

    Quella posizione non mi dispiaceva affatto, ma sapevo che era lui quello che avrebbe dovuto abbracciarmi, non il contrario.

    «Le fate sono creature meravigliose. Piccole e magiche con poteri strabilianti. La loro dimensione non conta, vista la capacità delle loro azioni. Le donne sono le creature migliori per incarnare questi esseri...». S'interruppe. «E le streghe».

    Scoppiai a ridere. «Soprattutto le streghe, credi a me! Di fate ce ne sono poche».

    Abbassò il capo verso la sottoscritta. «E tu? Ti consideri una fata o una strega?»

    Non si lasciava mai sfuggire la possibilità di mettermi alla prova.

    «Mmh...» mugugnai. «Nessuna delle due».

    Le sue dita mi sfiorarono i capelli e io rabbrividii. Trattenni il respiro per un millesimo di secondo; la sua voce s’infiltrò dolcemente nel mio orecchio.

    «Bene, perché per me non sei nessuna delle due. Secondo me sei una vera e propria regale».

    Non osai guardarlo ed arrossii vistosamente, ma la belva egocentrica che risiedeva in me schiamazzò di gioia: sebbene mi mostrassi imbarazzata, qualche volta all’interno del mio corpo quella bestia oscura se la godeva a dir poco.

    «Sarah, stai dormendo?» sussurrò Michael durante la famosa scena dei cavalli alati. Non riuscivo più a tenere gli occhi aperti.

    «Eh, ci manca poco...» borbottai scontenta.

    Lo udii ridacchiare. La mano che pochi minuti prima mi aveva sfiorato la nuca si addentrò tra la massa di capelli rossicci: mi accarezzò il cuoio capelluto con dolcezza.

    Se c'era una cosa che mi mandava in estasi, be’, era proprio quella: qualcuno che mi massaggiava i capelli. Cominciavo a non capirci più nulla.

    «Dormi, allora».

    «No... resto sveglia anche io».

    Il mio corpo era tutto un fremito. Avevo la pelle d'oca.

    «Zucchettona, non fare la ribelle», sogghignò a voce bassa e io corrugai la fronte per quello strano nomignolo. «Dormi...»

    «E tu intanto guardi il soffitto contando le pecore, maledicendo la sottoscritta per averti lasciato solo» mormorai senza dare un freno alle parole.

    La sua mano raggiunse la mia schiena e le punte dei capelli.

    «Tu mi stai facendo più compagnia di quanto pensi. Non so come ringraziarti. Ora dormi. Mi basta sentirti qua, va tutto bene...»

    Chiusi gli occhi ed emisi un grugnito di fastidio. Michael inspirò ed espirò a fondo ed immaginai che si stesse umettando il labbro inferiore proprio come faceva sempre. Mi dette la buonanotte e io ricambiai con un mormorio.

    «God bless you...». Prese fiato. «I love you».

    Ma la sottoscritta era troppo impegnata a sprofondare in un sonno profondo per dargli retta, anche quando mi parve di sentirlo canticchiare.

    *

    Un istante dopo era già mattina.

    Mi alzai scoprendo la parte vuota del letto al mio fianco.

    Silenziosamente sgattaiolai in camera – giusto per darmi una ripulita e poter indossare qualcosa di più comodo rispetto a jeans neri e un maglione pesante. Scesi per far colazione e scorsi Michael seduto al bancone in legno, in pigiama e con Blanket in braccio, assieme a Prince e Paris che lo tormentavano di parole e risate.

    Ci scambiammo uno sguardo di sfuggita, sorridendo appena.

    Lasciai loro il resto della giornata senza disturbare. Anche Grace, a cui Michael aveva chiesto di restare comunque, si eclissò dalla situazione.

    Michael e i bambini stettero tutto il tempo in camera del padre. Guardarono cartoni e giocarono sotto gli occhi stanchi ma attenti di Michael. Se ne andavano soltanto per pranzare o cenare, per poi ritornare spediti come razzi. Solo la sera, verso le 21, ritornarono nella propria stanzetta accompagnati da Grace e me. Lessi loro una storia come la sera prima e – una volta data la buonanotte – andai da Michael. Passammo la nottata a leggere e vedere un altro film.

    Desiderò che dormissi con lui anche quella notte, perciò non protestai.

    Anche il giorno dopo mi svegliai sola.

    Mi alzai barcollando, occhi semichiusi e vista appannata. Era buio, ma mi abituai presto all’oscurità. Mi permisi di alzare la serranda della finestra, esattamente come avevo fatto la mattina precedente poco prima di andarmene. Il mio sguardo si adagiò sul comodino, sopra il quale notai un foglio di carta bianca strappata. Lo presi con titubanza.

    Sono andato dal dottore (questa volta per davvero).
    Canale CBS, programma “60 Minutes”, 10:45 a.m. Capirai tutto.
    God bless you, Michael

    Guardai l’ora: 11.02.

    Presi il telecomando e accesi la tv con una certa fretta.

    Vagai fra tutti i canali alla ricerca della CBS. Appena la trovai, la figura di un uomo baffuto e pelato mi comparve dinanzi agli occhi. Stava leggendo un documento che riguardava quelle che subito capii fossero le accuse di pedofilia verso Michael: stava dicendo che, secondo fonti vicine alla famiglia, la madre della “presunta vittima” aveva il sospetto che Michael servisse alcolici a suo figlio tredicenne.

    Il ragazzo in questione si chiamava Gavin Arvizo. Come molti bambini che visitavano il Neverland Ranch, anche Gavin era un malato terminale. Michael dette a lui e alla sua famiglia tutti gli agi del mondo, oltre che un angolo di svago e ristoro nella speranza di dare al ragazzino una via di fuga dalla morte.

    All’inizio sembrava che Gavin si fosse realmente affezionato a Michael – così come tutti gli altri membri della famiglia, i fratelli e la madre del ragazzo – e nella famosa intervista Living with Michael Jackson Gavin confermò il suo amore e la sua ammirazione per l’artista. Fu quella sottospecie di documentario – costruito dal giornalista Martin Bashir, apposta per screditare la personalità di Jackson e raffigurarlo come un uomo dagli atteggiamenti più che discutibili – che scatenò la scintilla del disastro.

    Tutta la famiglia Arvizo si scagliò contro Michael pochi mesi dopo l’uscita del documentario, accusando il performer di servire alcolici ai bimbi e di aver abusato di Gavin. Quest’ultimo sostenne di essere stato violentato, “fatto prigioniero” e ricattato per tutto il tempo in cui si era trovato nelle vicinanze di Jackson. Dimenticarono tutti gli elogi e gli aiuti che Jackson aveva dato loro e cambiarono la loro versione della storia di punto in bianco.

    Non era così difficile credere che Michael Jackson potesse essere colpevole: già nel 1993 un bambino di nome Jordan Chandler accusò Michael di pedofilia. La questione venne zittita con il denaro e Michael venne torchiato dalla polizia fino ad allora, alla ricerca di una minima traccia di prova che potesse condannarlo e sbatterlo in cella. Le testimonianze date da Jordan – la descrizione dei genitali di Jackson in particolar modo – si dimostrarono false, scoprendo poi che era stato il padre del bambino, Evan Chandler, ad aver obbligato il figlio ad accusare Michael.

    Niente, assolutamente niente, venne trovato in dieci anni di indagini. Niente che testimoniasse che Jackson fosse veramente un pedofilo. L’uomo continuò a circondarsi di bambini – forse ingenuamente, forse per un stupido istinto di ribellione infantile – e a fare quello che amava fare: aiutare.

    La verità era che la famiglia Arvizo – esattamente come i Chandler – era un disastro. Loro e il loro sporco, miserevole tentativo di spillare soldi inventando molestie e abusi. Michael non fu l’unica “money-machine” da cui cercarono notorietà o benessere, per di più approfittando di una malattia grave come il cancro. Vivevano un’esistenza povera, ma ricca di menzogne e ipocrisia.

    Michael e il suo amore per i bambini erano l’unico modo per ottenere qualcosa da lui, anche se questo richiedeva sporcarsi le mani di sangue e bugie. Troppo strano che un adulto – maschio e nero – si circondasse di bambini e si divertisse con loro; troppo anormale che un uomo che aveva vissuto la sua vita senza infanzia si circondasse di innocenza e giocattoli, quando l’unica cosa che gli adulti volevano da lui erano soldi e soltanto soldi. Troppe le bugie che i media urlavano ai quattro venti, troppi i fatti che non venivano riportati e dimostravano dove si nascondesse la verità.

    Era chiaro che Michael non fosse un essere perfetto; non era un angelo caduto dal cielo, non era un essere incapace di sbagliare: era testardo e incurante dei rischi, non ascoltava nessuno, ma non era mai stato un molestatore.

    Mi sedetti sul letto come un automa, affondandovi con tutto il peso, e seguii l’intervista senza staccare gli occhi dal televisore.

    Le scene cambiarono. Lo sceriffo e successivamente il procuratore distrettuale parlarono. Quest’ultimo fece una battuta poco spiritosa. Un Michael piuttosto giovane apparve in Tv, il quale passeggiava tranquillo sotto il mirino delle telecamere, mentre in sottofondo la voce del giornalista parlava di come la fama e la carriera dell’artista fossero messe a dura prova. E poi eccolo di nuovo, Michael, così come appariva recentemente: aveva le manette e veniva accompagnato all'interno di un edificio bianco scolorito. Una sua foto recente (che mi parve decisamente modificata rispetto al suo vero aspetto) apparve sullo schermo e in seguito anche lui, vestito con una maglia azzurra dai ricami blu e un viso triste.

    Era più truccato di quanto lo avessi mai visto. Troppo, direi.

    Gli occhi erano spenti e tormentati.

    Alle domande dell’intervistatore su come lo avessero trattato i poliziotti, il mio respirò si annodò nei polmoni.

    Parlò del braccio che gli faceva male.

    «La mia spalla è lussata, letteralmente. E mi fa molto male. Sto soffrendo ancora, da tutto questo tempo. È questo, vedi questo braccio? Questo è quanto posso raggiungere. Stessa cosa con questo lato qua...»

    Vennero anche mostrate alcune foto delle lussazioni: un grande e visibile segno rosso e bluastro sull’avambraccio. Strinsi le mani nello stesso punto che faceva male anche lui, come se sentissi il suo stesso dolore.

    «Poi una volta ho chiesto di usare il bagno. E loro risposero: “Certo, è proprio dietro l’angolo”. Una volta in bagno mi hanno chiuso dentro per quasi 45 minuti. C’era cacca, feci gettate su tutte le pareti, il pavimento, il soffitto. E puzzava tanto. Poi uno dei poliziotti è venuto vicino alla finestra e ha fatto un commento sarcastico. Ha detto, “Odore – c’è abbastanza buon odore per te là? Ti piace come odore? È buono?” E io ho semplicemente detto: “Va tutto bene. Va tutto bene”. Allora mi sono seduto lì, ad aspettare...»
    «Per 45 minuti?»
    «Sì, per 45 minuti. Circa 45 minuti. E dopo – un poliziotto – è venuto e ha detto: “Oh, sarai fuori in un secondo. Sarai fuori in un secondo”. Dopo si sono aggiunti altri dieci minuti, poi altri quindici. Lo hanno fatto apposta»

    Trattenni le lacrime e con esse un peso lancinante tra stomaco e petto.

    Non seppi come riuscii a seguire il programma fino alla fine, ma lo feci.


    Il nulla mi riempì la testa e la contrasse in una stretta tanto forte quanto opprimente. Quello che provavo non aveva parole e non creava rumore. Mi sentivo svuotata da ogni cosa.

    Ma quello non era niente per me. Era nulla, in confronto all'inferno a cui Michael stava cercando di scampare da diversi anni a quella parte.

    *

    Pranzai con i bambini tentando di mostrare serenità. Sembravano tranquilli e non volevo turbarli con il mio palpabile malumore, eppure notarono in un batter d'occhio il mio stato.

    «Che succede, maestra Sarah?» chiese Prince prendendomi per mano mentre guardavamo un cartone alla Tv. «Ti stai ammalando anche tu?»

    Sorrisi. «No, sono solo tanto stanca...»

    «Anche papà è stanco?».

    Forse la tenerezza dello sguardo di Paris – o forse il sapere la reale condizione del padre – mi offuscò la vista.

    «Sì, ma oggi è andato a fare un'altra visita». Notai che Grace mi fissava con la coda dell'occhio. La ignorai. «Sono sicura che presto o tardi si farà vivo».

    Ma, per un altro paio di ore, di Michael neppure l'ombra.

    Mi stavo tormentando al punto tale da diventare paranoica. Alla fine smisi di fissare la porta del corridoio e mi congedai, dicendo ai bambini che sarei andata a riposare. Non riuscii a leggere, a scrivere, a suonare, a fare nulla. Pensavo a cosa dire a Michael quando sarebbe tornato, ma niente mi sembrava adatto.

    Andai anche a fare una doccia, giusto per togliermi la tensione di dosso. Rimasi a lungo sotto il getto d’acqua bollente, mentre il suo caldo tepore mi massaggiava le spalle. Ricordai le sensazioni che avevo provato vedendo l’intervista di quella mattina. Mi si torsero le viscere dal dolore.

    Mi mancava il fiato.

    Ricordai il suo volto, i suoi occhi, e crollai senza un perché. Le lacrime mi bagnarono le guance assieme all’acqua della doccia, infiammandomi il viso nonostante tentassi di allontanarle con rapidi gesti della mano.

    Non era un bugiardo, in quel momento ne fui assolutamente certa. Gli credevo. Lo conoscevo abbastanza da essere sicura che non fosse un pedofilo. Lo avevo visto con i suoi figli. Lo avevo visto in tormentati pianti e gioiose risate. Lo avevo sentito parlare in modo saggio, intelligente, ma soprattutto era stato l’unico che aveva avuto l’intenzione di donarmi un po’ d’amore quando io stessa mi consideravo, ormai da tempo, un’anima incapace di provare affetto. Mi stava insegnando come gestire i sentimenti e sì, mi stava anche aiutando a liberarmi da tutta la solitudine che avevo vissuto in passato. Era triste, era abbattuto, ma era un’anima grande. Generosa e altruista.

    Non capivo perché Michael dovesse essere vittima di tante cattiverie e non l’avrei mai capito.

    Uscii e mi asciugai i capelli, senza dare retta a ciò che stavo facendo veramente. Mi vestii con pantaloni caldi e felpa magenta, mi legai i capelli in una coda bassa e uscii dalla stanza per andare a mangiare qualcosa.

    Quando scesi i bambini mi corsero incontro felici come non mai. «Papà è tornato! È venuto a salutarci!»

    Mi piombò il mondo addosso. «Cosa?»

    «È tornato!» squittì Prince. «Ora è in camera che riposa!».

    Lasciai perdere il cibo, ma bevvi un bicchiere di acqua fredda per non andarmene così di fuga e non dare inutili ansie ai bambini.

    Corsi su per le scale salendo due scalini alla volta. Il cuore batteva all’impazzata.

    Con il fiatone bussai alla porta della camera di Michael: non mi accorsi nemmeno della strada che avevo seguito, né quanto tempo ci avevo messo per percorrerla. Curvai lo sguardo sulla maniglia della porta e scoprii che era già aperta, appoggiata sullo stipite.

    Entrai e tutto si immobilizzò nel tempo.

    Michael era seduto sul bordo del materasso, viso affondato fra le mani.

    Alzò il capo a rallentatore. Le gote erano solcate dai segni del pianto.

    Si sollevò traballando ed io lo osservai immobile come una statua. I nostri sguardi urlarono in silenzio, ci abbracciarono, mentre le nostre mani si legavano in un contatto invisibile.

    Le nostre fronti si contrassero in sincrono ed io strinsi le labbra per non commuovermi.

    Chiusi la porta alle mie spalle e gli andai incontro.

    Tutto ciò che avevo sentito nell’intervista alla Tv non aveva più importanza.

    Lo strinsi a me cercando di non fargli male e Michael ricambiò con più forza. Era fragile come la foglia in mezzo all'uragano; percepivo il suo dolore attraverso la sua pelle, l'angoscia attraverso il suo respiro tremulo.

    Gli avvolsi le gole con le dita e mi legai a quegl’occhi, preganti e stanchi, che mi chiedevano di regalargli un po’ di affetto. Con tutta la mia anima – e con tutta la capacità d’amare che possedevo – tentai di fargli capire che gli volevo bene veramente.

    Non riuscivo a capire quale sentimento stessi provando. Era come se mi fossi scontrata contro un muro ma ero felice di averlo fatto, pur sapendo che non lo avrei distrutto.

    Perché molte volte basta un gesto, un sorriso, una carezza, e le parole scompaiono. Basta un bacio sulla guancia per scottare la pelle, uno sfiorarsi di polpastrelli per pervadere il corpo dai brividi, un semplice abbraccio per capire che il Sole non è poi così distante da dove risiedi tu; un naufragare nello sguardo dell'altro e improvvisamente esistete solo voi due; un sospiro e ogni paura scompare.

    Le parole rimangono soltanto parole. Se c’è qualcosa che va oltre, questo è proprio l'amore. Può distruggerti, può farti volare, può rigenerare un’anima ferita: è un flusso che ti cattura senza chiedere il permesso eppure, per un istante, per un semplice fulgido istante, l'amore ti dimostra che il tempo si può fermare, che un cuore può ritornare a battere dopo anni e anni di deturpante inverno, ma soprattutto che è in grado di amare anche se ha sempre pensato di non esserne mai perfettamente in grado.

    «Voglio andare via di qui...», sussurrò piangendo.

    «Allora andiamo via». Lo abbracciai più forte. «Ci sono io, stai tranquillo».

    E finalmente ritorna la primavera e i ghiacciai che avevi al posto degli occhi si sciolgono, percorrendo le tue pallide e infreddolite guance sotto forma di copiosi ruscelli d’acqua salata. Tutto ritorna in vita, anche quella luce nell’anima che da troppo tempo si era spenta.





    1 Per chi fosse interessato, la scena è questa.



    Edited by fallagain - 21/3/2021, 21:39
     
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    Il trenta dicembre fu un giorno speciale. E non solo perché mancavano meno di 48 ore all’inizio del nuovo anno.

    Paris mi passò il vestito per la bambola che teneva fra le mani.

    «Pensi che questo le stia bene?», studiò l’abitino celeste, lungo e con il pizzo bianco.

    «Sì, divinamente», annuii. Katie, così si chiamava la bambola, aveva una folta chioma dai riflessi dorati, tenuti alla perfezione dietro la nuca con fiocchi e nastri bianchi. «Ha anche gli occhi azzurri, meglio di così!»

    Paris annuì con serietà e mi consegnò il vestitino principesco. Lo feci indossare a Katie, stando attenta a non rovinarle l’acconciatura, frattanto che la piccola s’occupava di prendere il castello delle bambole. Quella mattina mi aveva chiesto se avessi voglia di giocare con lei e io avevo accettato veloce come un missile. Non avrei potuto dire di no.

    «Sarah» mi chiamò mentre l’aiutavo a cercare tutti i suoi amici animali, «ti piace stare qui con noi? Con me, papà, Prince e Blankie?».

    Mi fissava intensamente. Stesso sguardo intelligente del padre.

    «Certo che mi piace» sorrisi. «Siete una seconda famiglia per me».

    Arrossii e mi resi conto che, dopo tanto tempo, avevo detto una cosa così profonda senza la minima difficoltà. In passato enunciare una frase del genere mi sarebbe stato impossibile. Probabilmente mi venne naturale dirla perché avevo di fronte Paris, e non suo padre.

    Ogni istante, in quei tre giorni, la figura di Michael m’appariva chiara e nitida in testa, nonostante tentassi di tenerlo alla larga dai miei pensieri il più possibile. Ma non riuscivo a porre resistenza al ricordo dei suoi occhi. Erano passate circa 48 ore da quando avevo visto l’intervista a Michael – 48 ore di inferno - eppure, per qualche ragione, ancora sentivo male al cuore.

    Paris sorrise di rimando e mi si avvicinò. Mi abbracciò. «Ti voglio bene Sarah...», sussurrò con il capo affondato fra i miei capelli. «Posso chiamarti zia?»

    Il cuore si fermò e la osservai stupita.

    Si allontanò dal mio collo e attese, fremente per una mia reazione. Dio solo sapeva quanto quella domanda fu in grado di emozionarmi e di farmi vibrare l’anima in milioni di scosse d’affetto.

    «Certo che puoi chiamarmi zia», sussurrai emozionata. In quel momento fu la gioia ad offuscarmi la vista. «Mi farebbe un grande – ma che dico? – enorme piacere! Ti ringrazio, sei una bambina preziosa, Paris».

    Lei ridacchiò furbescamente e batté le mani eccitata.

    «Ok, allora da adesso in poi sei zia Sarah! Non vedo l’ora di dirlo a papà, ne sarà felice!»

    La felicità scemò nonostante non glielo diedi a vedere.

    Paris mi prese la mano. «Andiamo a mangiare qualcosa?»

    «Sì, andiamo!».

    Mi alzai e la seguii fuori dalla stanza dei giochi. Per l’ennesima volta la mente fu rapita dal pensiero di Michael e dalla stretta che mi stritolava lo stomaco ogni qualvolta lo pensassi.

    Paris si fermò in mezzo al corridoio.

    «Zia Sarah...» Mi guardò con una maliziosa luce negli occhi e rimasi interdetta. «Ti piacciono i fuochi d’artificio?»

    Immediatamente pensai ai fuochi del 31 dicembre. «Sì, molto!».

    «Quanto molto?», domandò stringendomi la mano con forza.

    M’avvicinai al suo visetto e le scoccai un bacio sul nasino, facendola ridere. «Da morire!».

    Lei rise e proseguì la camminata fin giù per le scale, trascinandomi senza più dire una parola. Quando le chiesi perché me lo avesse domandato, pur sapendo che non mi avrebbe risposto, chiuse definitivamente il discorso dicendo che era solo una curiosità innocente.

    L’immagine di Michael mi tormentava.

    Da due giorni ci eravamo allontanati e io non riuscivo a darmi pace.

    Anzi, lui si era allontanato... e non mi aveva spiegato il motivo.

    Due giorni prima io e Michael eravamo distesi sul suo letto, a pancia in su, fissando il soffitto in legno. Era appena tornato dal dottore, mi aveva abbracciato e il silenzio si era impossessato di noi e della stanza, avanzando a piccoli ma veloci passi, incorporandoci nel suo manto impenetrabile. Gli avevo tenuto la mano, gli ero stata vicino, e lui mi aveva osservato a lungo.

    «Mi sei di grande aiuto, Sarah», aveva detto. «La tua vicinanza mi è essenziale, ora più che mai...». Io avevo fatto una smorfia incerta, mostrando quanto poco mi sentissi importante in un momento come quello, e Michael mi aveva stretto le dita fra le sue. Il cuore aveva perso un battito mentre lui aveva accennato un sorriso triste e mi aveva detto: «Va tutto bene».

    Ma nulla andava bene.

    Forse aveva capito che io non avrei potuto aiutarlo abbastanza. Forse aveva capito che le mie erano solo parole e un’inetta come me non sarebbe mai stata capace di farlo risalire in superficie, donandogli un briciolo di speranza... perché di colpo si era alzato, mi aveva detto che sarebbe andato a giocare con i suoi figli e mi dette modo di congedarmi nella mia stanza per circa due giorni.

    «Vorrei giocare coi miei bambini, loro mi tireranno su il morale di certo... ne ho il bisogno, Sarah», aveva cercato di scusare il suo comportamento.

    Ma io ero felice per lui. Avevo annuito sorridendo dolcemente e me ne ero andata. Perché non c’era da offendersi per quella constatazione; era comprensibile che i suoi figli, con la loro splendida innocenza e il loro sincero amore, sarebbero stati in grado di aiutarlo. Era giusto e a me bastava soltanto che fosse sereno. Ed infatti sapevo che, al posto di Michael, probabilmente avrei agito nella stessa maniera.

    E per due giorni non ci cercammo più.

    Mi evitò, completamente, fingendo che non esistessi. Non solo durante i pasti principali, ma in generale.

    La verità era che ero io il problema, perché stavo sognando ad occhi aperti in modo sconsiderato.

    Dopotutto avevo sempre sognato di trovare il migliore amico. Una persona con cui condividere tutto – gioia e dolore. Era normale ricadere nelle mie illusioni, nelle mie insensate fantasie, soprattutto se davanti avevo Michael Jackson, la cui aura era così magnetica e incantevole da trarmi in inganno e farmi rifare gli stessi errori del passato, forse anche peggio. Ma nonostante tutto, vedevo Michael come quella persona, “la mia persona”1. Lo credevo perché Michael era speciale. E io desideravo essere importante per lui quanto lui lo era per me... così importante da non abbandonarsi nel bene o nel male. Essere l’unica – questo chiedevo –, almeno per una persona. Essere capace di rendere un’anima davvero completa con il mio amore che, ancora, stavo cominciando a pensare che fosse imperfetto e “mai abbastanza”.

    Il problema era che mi affezionavo troppo velocemente e poi, in tutta risposta, mi trasformavo in un automa incapace di provare emozioni se venivo delusa. Michael non mi avrebbe impedito di inciampare nei miei stessi piedi per l’ennesima volta. Standogli vicino, nei giorni passati, quel bene che sentivo per lui era diventato qualcosa di più intenso, me ne rendevo conto: una conoscenza che credevo potesse diventare un legame grandioso, una amicizia speciale. Ecco cosa chiedevo... amicizia. Vera amicizia. Era tanto? Perché, a quanto pareva, stavo coltivando un qualcosa di nettamente più profondo, rispetto a quello che provava Michael.

    E poi, perché Michael avrebbe dovuto fare affidamento su me? Perché avrebbe dovuto ricambiare la forte emozione che sentivo per lui? Quello non era amore. L’amore non era pretendere. E, in parte, non avevo intenzione di provare sentimenti che non fossero di puro affetto. Di certo non sarei stata io, con la mia scadente capacità d’amare, a dargli ancor più problemi.

    Perciò, come sempre, mi sarei allontanata sia per non illudermi sia per non ricadere negli stessi errori di sempre.

    Eppure Michael scomparve prima ancora che potessi farlo io. Come se avesse capito subito cosa fosse giusto fare, quasi avesse letto le intenzioni del mio cuore prima che potessi studiarle al microscopio della mia coscienza. E questo mi fece male.

    Non avemmo più la scusa di incontrarci l’uno nella camera dell’altro. Durante i pasti me ne stavo in silenzio, ascoltando e osservando Michael e i suoi bambini come se fossi rinchiusa in una bacheca di vetro invisibile, al lato opposto della stanza. Quelle poche volte che lo incontravo in corridoio o in qualche altra parte della casa, per sbaglio, o lui cercava di non guardarmi o io lo facevo di rimando. Non avemmo più neanche l’opportunità di parlarci a quattr’occhi, visto che passava la maggior parte del tempo coi suoi figli e io, per non essere una fastidiosa presenza, mi ero allontanata da tutti loro, chiudendomi in me stessa. Nel giro di due giorni, mi ero trasformata in una estranea.

    Probabilmente Paris mi aveva chiesto se mi piacesse stare con lei e il resto della famiglia proprio perché aveva notato la mia freddezza. I bambini sono capaci di leggerti dentro senza che tu parli.

    Ero immobile in una fitta coltre di nebbia, una nebbia così spessa, formata da ombre di diffidenza e disillusioni sempre in agguato. Non mi piaceva fare la vittima della situazione, soprattutto non mi piaceva fare scenate, perciò preferivo isolarmi e non avere a che fare con nessuno di loro – perlomeno con Michael, che era la persona che mi faceva star male di più.

    All’improvviso, mentre io e Paris mangiavamo alcuni cracker durante la merenda, dalla porta della cucina entrò proprio lui, Michael. Lo osservai e lo stomaco divenne di nuovo pesante. Mi passò la fame in un batter d’occhio.

    Il suo corpo si bloccò sullo stipite della porta e mi osservò. I suoi occhi erano impenetrabili, mentre i miei sapevo che non erano in grado di fingere indifferenza.

    Non ero mai stata capace di fingere.

    «Papà!»

    Paris scese dallo sgabello, lasciandomi il suo cracker in mano, e si diresse verso le braccia del suo papà. Questo si scosse e la issò sorridendole dolcemente. Accennai un debole sorriso – non rivolto lui, ma a Paris.

    «Lo sai che Sarah mi ha dato il permesso di chiamarla zia? Zia Sarah!», esclamò tutta eccitata, indicandomi.

    Lo sguardo di Michael mi raggiunse e io mi concentrai solo sul mio cracker, quello che stavo per addentare poco prima che lui arrivasse. Feci finta di non aver sentito, ma soprattutto di non aver notato i suoi occhi su di me. Paris era presente e non dovevo mostrarmi offesa, arrabbiata, triste e neanche troppo assente o menefreghista.

    «Oh» disse Michael in tono carezzevole. «Davvero?»

    Lo guardai con la coda dell’occhio e vidi che sorrideva leggermente. Ricambiai fingendo che la sua presenza non mi appesantisse.

    «Sì, è vero, da oggi sono zia Sarah» e mi alzai dalla sedia, per mettere il mio bicchiere vuoto sul lavello della cucina.

    «Be’...», disse poco dopo, raggiungendo le mie orecchie come un sussurro lontano. «Volevo informarvi che oggi ci occuperemo noi delle pulizie di casa. Ho mandato alcuni domestici a casa, penso che sia giusto che anche loro si godano l’ultimo dell’anno come si deve...»

    Mi voltai di scatto, sorpresa. Michael che faceva le pulizie di casa? Cioè, dovevo immaginarlo con il grembiule da casalinga e uno straccio per la polvere? O con un aspirapolvere? Per poco non scoppiai a ridere, rischiando di cadere a terra senza forze.

    Quell’immagine di lui in versione uomo delle pulizie mi stava facendo mancare il respiro, tant’è che dovetti inspirare a fondo e voltargli le spalle, mordendomi le labbra per non impazzire.

    «Sììì! Puliamo!», esclamò Paris, alzando le braccia al cielo.

    Quando mi volsi in loro direzione, Michael mi osservava allegro ed esitante assieme.

    «Ti piacerebbe darci una mano...?». Mi ci vollero alcuni secondi per capire che stava parlando con la sottoscritta. Le sensazioni scaturite dalla sua voce mi fecero venire i brividi. Lui alzò le sopracciglia e accennò ad un sorriso divertito. «O la cosa ti disturba...?»

    Scossi la testa. «No, no, mi piace fare le pulizie. Vi aiuto volentieri».

    Lui annuii piano e strinse le labbra in un’espressione debolmente soddisfatta, guardando in basso. Per un attimo non volli sapere a cosa la sua dannata testa stesse pensando.

    «Ok, allora a questo pomeriggio», disse adagiando Paris per terra. Notando il suo visetto crucciato sorrise, scoccandole un bacio a stampo. «Ho un impegno per pranzo, ma tornerò presto, verso le quattro del pomeriggio massimo. Te lo prometto. Fra poco arriverà Grace e vi darà una mano, in attesa del mio ritorno. Voi inizierete comunque senza di me...»

    Drizzò la schiena in posizione eretta e mi scoccò un’ultima occhiata. Questa durò pochi secondi: un debole rossore sul viso lo indusse a non guardarmi più. «Vi voglio bene, ad entrambe».

    Lo fissai senza lasciarmi andare esplicitamente ad alcuna emozione. Ciò nonostante il mio cuore si esibì in una doppia capriola all’indietro.

    «A dopo, buon appetito».

    «Buon appetito papà!», disse Paris salutandolo con la mano.

    Lui indietreggiò, ma non varcò la soglia.

    Sospirai piano, adocchiando la sedia che stavo rimettendo al suo posto. «Buon appetito...»

    Mi fissò e mi stupii che fosse riuscito a udire qualcosa del mio mormorio. Annuì sofficemente e se ne andò, lasciandoci sole. La porta di casa si chiuse dieci secondi più tardi.

    *

    Subito dopo aver pranzato io e i bambini – con Grace e Blanket a monitorare allegramente la situazione – ci mettemmo d’impegno nelle pulizie di casa. Ci vestimmo adeguatamente – con abiti comodi –, prendemmo tutto il necessario da uno sgabuzzino al piano sotterraneo e cominciammo a pulire l’enorme villino da cima a fondo. Ci sarebbero volute ore per sistemare ogni cosa.

    Decidemmo di dividerci i compiti. Io iniziai ripulendo il piano terra – il salotto, la sala da pranzo, ecc. – togliendo la polvere dai mobili. I bambini, invece, con l’aiuto di Grace e del piccolo Blanket, si occuparono del piano di sopra: aprirono tutte le finestre della casa, per cambiare l’aria; in particolar modo sistemarono le loro camere da letto, la stanza dei giochi e quella dedicata all’apprendimento scolastico – sempre riordinando giocattoli, vestiti e oggetti vari. Spendemmo due ore abbondanti solo per fare quelle cose.

    Quando ci scambiammo di piano, scoprii che molte stanze della casa erano vietate all’accesso, fra cui la vecchia camera di Michael. I bambini rimisero a posto tutti gli oggetti in disordine del piano terra, passando la scopa devotamente. Io invece mi occupai di passare l’aspirapolvere nelle camere di Prince, Paris e Blanket e – ovviamente – nella mia stanza (e di fare anche la polvere in quest’ultima).

    Finii la camera dei bambini e arrivata nel mio piccolo angolo di paradiso presi il mio lettore CD per ascoltare un po’ di musica. Era la prima volta che lo utilizzavo da quando mi ero trasferita.

    I bambini non mi avrebbero chiesto aiuto, c’era la tata con loro.

    Michael non era ancora tornato.

    Erano più o meno le tre del pomeriggio. Mancava ancora un’ora al suo arrivo.

    Fui attratta da uno dei CD recentemente acquistati, Justified di Justin Timberlake. Quel ragazzo aveva talento e la sua musica era molto piacevole da ascoltare. Presi lettore e cuffiette, inserii il disco e feci partire la prima canzone: si chiamava Señorita.

    Passai l’aspirapolvere incantata da quella melodia che ricordava la musica sudamericana, tanto da ascoltarla per tre volte consecutive. Arrivata a Like I Love You stavo già spolverando e sistemando gli oggetti della mia stanza. Interruppi le pulizie per danzare.

    «Just something about you, the way I'm lookin' at you whatever.
    You keep lookin' at me. You gettin' scared now, right?
    Don't fear me baby, it's just destiny.

    It feel good right?
    Listen

    La porta era aperta.

    Mi tolsi una cuffietta. Non sentivo nessuno gridare “Papà è tornato”.

    Non erano le quattro, potevo stare tranquilla.

    Appoggiai la porta sullo stipite – senza chiuderla del tutto – così, nel caso in cui fosse arrivato qualcuno, avrei potuto scorgerne almeno l’ombra. Alzai il volume al massimo. Like I Love You era una delle canzoni più belle dell’album, a mio parere.

    Ben presto la mia attenzione venne completamente rapita dalla musica, piuttosto che dalla porta socchiusa, a discapito delle mie iniziali preoccupazioni. Mi feci trasportare da quei ritmi cadenzati ma pieni di sensualità chiudendo gli occhi, abbassando le palpebre con nonchalance e facendo schioccare le dita a ritmo. Improvvisai anche qualche passo di danza moderna che avevo imparato durante la mia gavetta universitaria, quando lavoravo nel locale sempre pieno di persone devote al ballo. Ad alcune avevo chiesto di insegnarmi qualcosa e rimasi piacevolmente soddisfatta nel vedere che mi ricordavo ancora dei passi.

    Il suono della batteria e della chitarra cullavano il mio corpo trasportandomi in uno stato di estasi totale; la mia anima diventò un tutt’uno con la musica. Mimando le parole della canzone, sempre ad occhi chiusi, un sorriso mi si dipinse in volto.

    Andai avanti così fino al secondo ritornello, dove la musica rallentava e potevo ondeggiare i fianchi con più lentezza: slittamenti del bacino verticale orizzontali, piccoli e grandi “otto” con le anche, a seconda di come mi guidava l’istinto. Prima lenta, poi veloce. Di tanto in tanto battevo le mani per enfatizzare il ritmo, sussurrando le parole della canzone con enfasi.

    «If you give me that chance to be your man
    I won't let you down baby
    »

    Non si sarebbe mai detto di una come me, ma amavo i balli dove potevo tirare fuori la sensualità di donna. E non trovavo necessario fare movimenti eccessivamente sessuali o esagerati: credevo che si potesse essere attraente anche facendo il minimo indispensabile. Sapevo di avere potenziale. Sapevo di avere e mostrare sex appeal, se volevo.

    Iniziò la parte rap della canzone e smisi di ballare, ma non di canticchiare. Quando aprii gli occhi il mio sguardo puntava verso il basso. Presi un elastico che avevo allacciato attorno al polso sinistro e mi feci una coda alta. Ero così presa dalle parole della canzone che, quando mi voltai, urlai dallo spavento.

    Michael era sulla porta.

    Con una mano al petto lo fissai, tentando di fermare il batticuore. Arrossii immediatamente.

    E ora?

    *

    Se ne stava sullo stipite in legno, appoggiato con la schiena, e mi osservava divertito. Aveva le sopracciglia inarcate. Le labbra formavano un sorriso stirato che, in realtà, era uno dei suoi tentativi per non scoppiare a ridermi in faccia. Le braccia erano incrociate al petto e con le dita teneva il ritmo della canzone, palesemente udibile attraverso le cuffiette, da tanto era alto il volume. I suoi occhi erano più abbaglianti del solito.

    Volli morire.

    Subito l'istinto mi consigliò di dire qualcosa – qualsiasi cosa – che potesse aiutarmi a sciogliere la tensione.

    Mi tirai via una cuffietta e lasciai che la musica continuasse a riempire il silenzio imbarazzante.

    «Ciao», dissi, piuttosto cupa.

    Michael ridacchiò e alzò un sopracciglio rispetto all'altro. «Ciao».

    Espirai a fondo. «Da quant’è che sei qui?»

    Dissi quella frase incrinando la voce più del normale. Cercai di essere indifferente. Sapevo benissimo che non riuscivo a mascherare la vergogna. Le guance si scaldavano sempre di più.

    Michael mi adocchiò per qualche secondo e successivamente proruppe in una grande risata. Lo osservai a lungo – con la bocca spalancata dallo stupore e dalla timidezza – mentre lui si dondolava su e giù, con una mano davanti alle labbra e l’altra sulla pancia.

    Mi uscì il fumo dalle orecchie e non capii se fossi più imbarazzata per il fatto che mi avesse visto ballare o se fossi offesa per la sua risata a crepapelle. Gli facevo così schifo?

    «Oh, girl... be’, da un po’ in realtà» sussurrò non appena si fu ripreso. Il mio sguardo gli chiese da quanto precisamente e lui lo intuì. Fu sul punto di scoppiare nuovamente. Si umettò il labbro inferiore e fece finta di nulla. «Da un minuto o più...»

    «Wow...», borbottai. «Potevi anche interrompermi prima…», cominciai a farfugliare a vanvera, senza guardarlo.

    Lui sogghignò e fece un passo in avanti. Appoggiò una mano sulla porta e la chiuse. «Perché mai? Sei una ragazza così piena di sorprese… sembra che la musica scorra attraverso il tuo corpo e la tua anima».

    Ripensai ai movimenti sensuali che avevo fatto poco prima e mi misi le mani davanti alla faccia, emettendo un sospiro esasperato.

    Qualcuno mi fulmini, ora.

    «Sul serio, dico davvero», affermò con voce gioiosa. «Sei molto, molto brava...»

    Un attimo di silenzio.

    «Justified di Justin Timberlake?»

    Annuii togliendomi le mani dal viso, cercando di ricompormi. «Lo conosci?»

    «Sì», disse annuendo serenamente. «Mi piace ascoltare musica di nuovi artisti. Lo trovo illuminante». Pian pianino si avvicinò alla sottoscritta. «A te piace da morire, non è così?», sorrise maggiormente.

    «Si è notato, per caso?».

    Sghignazzò delicatamente. «Sì, molto».

    Si fermò a venti centimetri dal mio corpo.

    Guardai il lettore CD con insistenza. La sua aura pulsò intensamente a contatto con la mia, conducendomi verso uno stato di quasi totale incoscienza. C’era qualcosa di così straordinario in lui che non sarei mai riuscita a spiegarmi.

    La frustrazione che avevo provato per quel distacco tra me e Michael scomparve in meno di un secondo.

    «Perché non continui a danzare?»

    «Indovina...», dissi alzando una mano in aria, ridacchiando nervosamente.

    Michael la fermò, inglobandola fra le sue dita. I miei occhi scattarono su di lui. Michael si umettò le labbra. Sembrava più affascinante del solito; quasi totalmente acqua e sapone, con le labbra e le guance naturalmente marcate, e un profumo borotalcato e legnoso che si sentiva lontano un miglio. Indossava pantaloni neri e una camicia azzurro cielo che gli risaltava le spalle.

    «Ti va se riascoltiamo la canzone appena finita? Mi piace molto»

    Feci spallucce, evitandolo.

    Pochi centimetri e mi sarei scontrata con il suo torace.

    Mi prese il lettore CD e la rimise da capo. Gli offrii la cuffia che mi ero tolta ed egli la incastrò goffamente nel suo orecchio.

    Poco dopo Michael mosse i piedi a terra, sbattendoli con insistenza e seguendo il ritmo della chitarra e della batteria. Il capo cominciò a muoversi su e giù, sempre più rapidamente, accompagnato dalla musica. Pian piano la melodia scorse attraverso le sue gambe e, infine, attraverso il bacino.

    Si bagnò il labbro inferiore, ancora, mentre io gli sorridevo con un sopracciglio alzato, allacciando le braccia al petto.

    Accostò le labbra al mio orecchio.

    «Non balli se ci sono io con te?».

    Non riuscivo a muovermi.

    Le sue labbra erano così vicine che mi sembrò di aver udito quella voce direttamente dal mio cervello, piuttosto che dall’esterno. Delicati ma intensi fremiti mi avvolsero la nuca. Sentivo nitidamente il suo profumo dentro i polmoni.

    Ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Era più vicino di quanto non lo fosse mai stato, o forse la lontananza di quei due giorni sembrava aver cancellato il ricordo della sua presenza nella mia memoria.

    Ridacchiai. «No, purtroppo… dovresti aver capito che io sono molto timida e tu sei molto bravo».

    «Allora fai finta di essere sola», sfoderò un sorriso disarmante.

    Mi mancò il respiro quando sentii la sua mano libera scivolare sulla mia vita. Distesi le braccia lungo i fianchi. Il mio seno si accostò al torace di Michael. Mi strinsi alla sua camicia con una mano, d’istinto. Mi stava inducendo a ballare con lui e mi toccava con una dolcezza innata. I suoi occhi erano seri, in confronto al resto del viso.

    «Lasciati andare, come hai fatto prima».

    «Eh, mica facile!», borbottai arrossendo e ridendo al contempo.

    Michael ampliò il sorriso, alleviando la presa delle dita e scendendo più in basso: quello che percepivo era solo una lieve carezza, un delicato e tenue calore che faceva mancare la sensibilità a quella parte del corpo che stava sfiorando. L’altra mano, quella sospesa in aria, era ancora stretta al lettore CD.

    Il bacino cominciò a muoversi da sé, prima che potessi dare loro l’input di fermarsi. Michael mi diceva quando velocizzare il movimento e quando rallentarlo.

    Di botto mi lasciai sopraffare da una risata divertita. I nervi si rilassarono e improvvisamente la tensione scomparve. Chiusi gli occhi, tentando di credere di essere veramente sola. Michael danzava con me. Mi parve di diventare una sola cosa con lui, con la musica e tutto il resto, tanto da perdere la cognizione del tempo. Era una cosa stupida, pensai di primo impatto, ma non vidi più nulla di imbarazzante in quel ballo. Niente di niente.

    Udii Michael ridacchiare – o almeno così sembrò di primo impatto – e in seguito trattenere il respiro. Spalancai le palpebre. Mi fissava intensamente. I suoi occhi erano splendenti, ma i lineamenti delle labbra e delle guance erano irrigidite rispetto a prima.

    Storsi le labbra in un sorrisetto malizioso.

    Nessuno dei due smise di danzare.

    Abbassai lo sguardo in direzione del suo torace. Aveva le spalle ampie. Fissai il colore della maglia che indossava.

    Non chiusi più gli occhi, ma seguii la musica e ogni sua nota, perdendomi in e con essa. Mi lasciai andare ad un canto in playback con un sorriso stampato in faccia, lasciandomi cullare dalla musica.

    Improvvisamente Michael chinò il capo verso il mio orecchio sinistro.

    «You’re a good girl and that’s what makes me trust ya».

    Rabbrividii e ridacchiai una seconda volta.

    La canzone era praticamente finita, poiché la melodia cambiò subito dopo la frase di Michael. Quest’ultimo si allontanò dal mio viso e mi lasciò il fianco, indietreggiando di un passo.

    Un sorriso soddisfatto apparve sulle mie labbra.

    Osservai Michael e notai come stesse intimamente esplorando ogni dettaglio del mio viso, indugiando sulle mie iridi verdi. Mi sentivo più leggera, soprattutto perché avevo trovato il coraggio di lasciarmi andare di fronte a lui, ma il cuore batteva ancora forte.

    Mi diede il lettore CD e la cuffietta.

    «Be’», esclamai felice e sorpresa. «È… è stato divertente».

    Michael mi gettò un’occhiata di soppiatto, sorridendo appena. «Vedi? Lo sapevo che non avresti fatto fatica...». Il riso si restrinse e, smettendo di parlare, mi sistemò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio. Rimase a fissarlo a lungo. Il sangue mi pulsò nelle tempie. «Hai solo bisogno di essere tentata».

    «Uh?»

    Mi squadrò seriamente. «Hai bisogno che qualcuno ti induca a lasciarti andare. Succede anche a me».

    Sorrisi e alzai le spalle. «Sì, è vero».

    Un ultimo scambio di sguardi e si allontanò da me, avanzando all’indietro e alla cieca.

    «È meglio che vada a mettermi qualcosa di comodo. Non posso lasciarvi fare tutte le pulizie senza di me», mormorò facendo un cenno alla porta, in riferimento ai suoi figli.

    Annuii. Michael si voltò, aprì la porta salutandomi con un rapido movimento della mano e sparì.

    Per un attimo mi parve di vederlo arrossire.

    *

    Durante il resto del pomeriggio sembrò come se io e Michael non avessimo passato dei giorni ad ignorarci.

    Probabilmente furono le sue continue birichinate durante le pulizie ad impedirmi di allontanarmi da lui, come ad esempio il mettersi in mezzo coi piedi fra la scopa e il pavimento per impedirmi di pulire, oppure il far finta di lanciarmi delle cose in porcellana da prendere al volo.

    Cercava in tutti i modi di farmi impazzire e di farmi perdere la pazienza, riuscendoci sempre.

    Faceva di tutto per rompermi le scatole, ma soprattutto tentava di farmi ridere.

    La reazione tipica alle mie facce sconvolte o fintamente offese era esplodere in una fragorosa risata, scagliandomi continue occhiate da bambino giocherellone che ricambiavo con spazientite linguacce. Non capivo cosa ci fosse di così divertente nel vedermi esasperata, ma lo lasciai fare.

    Alla sera, quando eravamo tutti affamati e affaticati, Michael propose di andare a prendere la cena ad un fast-food, accompagnati dalle inseparabili guardie del corpo e da Grace. Ci lavammo, ci cambiammo, prendemmo un SUV e uscimmo in incognito. Ci avviamo verso un take-away che a loro doveva essere parecchio conosciuto. Mangiammo in macchina, in direzione di Neverland Valley, parlando del più e del meno coi bambini.

    Fu una cena tranquilla, del tutto diversa dalle altre.

    Eppure mi sentivo appesantita. Sentivo che c’era qualcosa di non chiarito tra e me Michael e quel pensiero non mi dava pace: lo guardavo, lo studiavo, e mentalmente mi chiedevo quale fosse il momento più adatto per parlargli... se ne avessi avuto il coraggio, però.

    Per quanto fossi angosciata e frustrata e avessi una gran voglia di chiedergli perché ci eravamo raffreddati, avevo paura; paura che lui mi dicesse che voleva prendere le adeguate distanze da me. Temevo che mi avrebbe dato la conferma che, sotto quella sua tenera amichevolezza, in realtà non desiderasse illudermi più del necessario.

    Ma allora perché quel ballo di prima?

    Non riuscivo a capire il perché di molti dei suoi comportamenti... se voleva allontanarmi per difendersi da me o da se stesso, se voleva proteggermi da chissà quale cosa, o se voleva dare un freno all’amicizia che stavamo instaurando… perché non si atteggiava di conseguenza? Magari mi sbagliavo io, e il suo era un atteggiamento che aveva con tutti.

    Eppure volevo sincerità da parte sua.

    Arrivammo al Ranch che avevamo già terminato la cena da un pezzo.

    «Daddy» disse Prince, scendendo stancamente dalla macchina. «Dopo ci leggi una fiaba?».

    Blanket si era addormentato fra le mie braccia e così lo consegnai a Grace.

    «Mmh... penso che per stasera sia meglio che andiate a dormire presto» mormorò il padre. Scesero anche Paris, Grace con Blanket e le due guardie del corpo; aspettai che Michael scendesse ma mi fece cenno col capo di andare per prima. Ringraziai con un timido sorriso. «Abbiamo fatto abbastanza, per oggi...».

    Scesi a terra e Michael fece lo stesso poco dopo.

    «Ma domani sera non dobbiamo andare a dormire presto, vero?», continuò il piccolo.

    Il padre del bambino si immobilizzò. Paris fu espressiva, dette una piccola spinta al fratello e lo fulminò con gli occhi. Quest’ultimo mi lanciò un’occhiata spaventata e arrossì.

    Mi ritrovai a scrutare ognuno dei soggetti – anche le guardie del corpo che se la ridevano sotto i baffi – e in particolar modo Michael, immaginando che avesse dei piani tutti suoi per Capodanno e si fosse dimenticato di dirmeli. L’unica in grado di fingere indifferenza fu Grace, ma ero a conoscenza che del fatto che sapeva ogni cosa. Mi evitò completamente.

    Michael mi lanciò uno sguardo penetrante, poi ridacchiò.

    «Torniamo in casa, è meglio».

    Prince e Paris avanzarono in prima fila e si parlarono all’orecchio, lei che lo sgridava e lui che si difendeva dicendo che non l’aveva fatto apposta. Grace li rimproverò come una vera e propria mamma, sempre attenta a non svegliare Blanket. Le guardie del corpo furono subito dietro loro, sghignazzando. Mentre io avanzavo veloce dietro questi, mi sentii prendere per un lembo della giacca.

    Mi girai di scatto e vidi che Michael mi puntava con fare severo. «Posso parlarti in privato, non appena rientriamo?»

    «Sì, certamente…», annuii.

    Accennò ad una lieve risata e mi guardò la bocca. Si morse un labbro e socchiuse gli occhi, aggrottando la fronte. «Sei leggermente sporca di ketchup...».

    Spalancai le palpebre, presa in contropiede, e mi misi una mano sulle labbra non appena me lo disse. Le gote s’infiammarono per l’imbarazzo. Perciò strofinai le dita a lungo le guance e Michael scosse la testa, sorridendo.

    «No, non sulle guance...».

    Prese un fazzoletto di seta dall’interno della sua giacca e, senza porgermelo in mano, ne prese un lembo e s’avvicinò al mio volto.

    Chinò il capo da una parte, corrugando la fronte per concentrarsi. Con una mano mi alzò il mento e con l’altra pose il fazzoletto sull’angolo destra della bocca: strofinò per qualche secondo e poi smise. La sua espressione sembrava esitante.

    Si era messo poco fondotinta quella sera, tant’è che potei scorgere qualche piccola macchiolina di vitiligine sulla fronte. Mi sembrò bellissimo comunque, anzi, forse più bello del solito.

    «Mmh...». Mise il fazzoletto in tasca. Mi spostò dolcemente il mento verso destra, dove la luce di un lampione mi colpiva in piena faccia. I suoi occhi mi catturarono e rimasi a guardarlo senza dire nulla, lasciandolo fare. Sollevò le sopracciglia. «Non se ne vuole andare».

    Sollevò la mano libera, quella che non mi teneva il mento, e con l’indice mi sfiorò l’estremità delle labbra. Lo sentii muoversi sofficemente, strofinarmi la pelle con cura e con lentezza destabilizzante. Cominciai a sciogliermi sotto il carezzevole gesto delle sue dita.

    Si allontanò con un’ultima carezza, rimanendo a fissarmi con sopracciglia aggrottate. Schioccò la lingua al palato; per tutto quel tempo lo rimasi a fissare come ipnotizzata.

    «Ora non c’è più», disse con voce bassa.

    Non mi convinceva per nulla.

    «Grazie».

    «E di cosa?», chiese accigliandosi.

    Arrossii. Sorrise e con un lieve movimento della nuca mi indicò di entrare in casa. Lasciò che lo sorpassassi.

    Fra una chiacchiera e l’altra, il gruppo entrò in casa e si diresse in salotto. Mi ci volle poco per accorgermi che Michael era rimasto indietro. Mi volsi indietro: guardava il basso camminando a piccoli passi, assorto nei suoi più intimi pensieri. Non appena sentì i miei occhi su di lui, come a chiedergli il perché se ne stesse da solo, accennò un sorriso poco divertito.

    Mi fermai in mezzo al corridoio, senza seguire gli altri, e attesi che mi raggiungesse.

    Si avvicinò piano, sollevando le sopracciglia con fare stupito, e io alzai gli occhi al cielo. Sbuffai e Michael mi studiò senza capire il perché della mia esasperazione. Gli guardai la mano distesa sul fianco e, molto coraggiosamente da parte mia, gliela presi. Le sue palpebre si spalancarono maggiormente.

    «Avanti, andiamo», mormorai arrossendo, guardando dinanzi con espressione imbronciata. «Non penserai che ti lasci solo soletto con te stesso, no?»

    Aumentai il passo ed egli fu costretto a seguirmi di corsa, fino a quando non raggiungemmo gli altri in salotto. Una guardia del corpo ci scorse prima degli altri e, prima che potesse guardarci, gli lasciai la mano. Lo feci velocemente, ma non così tanto da non essere ripresa un secondo più tardi: fissai Michael con notevole stupore mentre mi riprendeva le dita vigorosamente, senza avanzare verso il palmo della mano.

    Il cuore fece un salto fino alla gola. Il suo sguardo era puntato dritto davanti a sé e faceva finta di nulla, sebbene si stesse mordendo nervosamente le labbra e i suoi occhi fossero accesi da una luce ardente.

    I suoi bambini accorsero verso di noi.

    Un pizzico di paura - e il ricordo di ciò che era avvenuto nei giorni precedenti - mi strappò da Michael una seconda ed ultima volta; non volevo avvinarmi troppo, se si sarebbe presto allontanato… e non volevo peggiorare le cose, né per me, né per lui.

    Indietreggiai e mi lasciai isolare un po’; allontanarmi da Michael non era ciò che volevo, ma neanche tenere la sua mano mi avrebbe fatto sentire protetta da ipotetiche delusioni. Non avevo altra scelta, perché lui avrebbe fatto l’allegro bambino per poi, come un fulmine a ciel sereno, ritornare sulle sue, così come aveva fatto nei giorni scorsi.

    Se dovevo stare attenta e non sbagliare ancora, dovevo prendere la distanza. Almeno – se Michael avesse capito che le mie intenzioni non erano quelle di ferirlo o addirittura andare oltre una normale relazione di lavoro – forse avrei potuto godere comunque del suo sorriso e della sua presenza tutti i giorni.

    Bastava solo quello per rendermi serena.

    Michael mi lanciò uno sguardo titubante e io ricambiai con un debole sorriso. Egli voltò il capo verso i suoi figli e io fissai le deboli luci del salotto, angosciata all’idea di doverci parlare faccia a faccia più tardi, senza avere il mezzo per scampargli.

    *

    Michael dette la buonanotte a Prince, Paris e Blanket. Grace andò a dormire nella stanza accanto. Le guardie del corpo si congedarono. E io, al contrario, fuggii e rimasi in camera mia, a leggere.

    Prima che salissi, però, Michael mi sussurrò ad un orecchio: «Parliamo più tardi, ok? Addormento i bambini e poi vengo da te». Avevo annuito piano e mi ero volatilizzata nella mia stanza, non prima di aver salutato i piccoli.

    Ma alle dieci spaccate lui non si fece vedere.

    E neanche una mezz’ora dopo.

    Mi alzai dal letto sospirando, chiudendo il libro che stavo leggendo e poggiandolo sul comodino. Ebbi il timore che avesse cambiato idea e la rabbia che provai, sapendo che non mi aveva nemmeno avvisato, non rese le cose più facili.

    Forse i bambini facevano fatica a dormire, o forse non aveva avuto il coraggio di deludermi ancora e se ne era andato in camera sua, pensando che avrebbe fatto bene a lasciarmi come un’idiota ad aspettarlo. O si era dimenticato dell’appuntamento. O magari era passato e io non lo avevo sentito.

    Senza sapere cosa stavo per fare mi avvicinai alla porta. Mi lasciai prendere dalla paranoia, la aprii e guardai fuori, aspettandomi che sbucasse davanti ai miei occhi da un momento all’altro. L’unica cosa che notai fu solo un biglietto ai miei piedi: lo presi in mano e lo aprii, sollevata.

    Sono in sala di registrazione, voglio farti sentire una cosa.
    Mettiti pure in pigiama e poi raggiungimi, è al piano inferiore.
    Scusami se non ti ho avvisato a voce.
    Segui la cartina che ti ho disegnato e non ti perderai.
    A dopo. God bless you.

    Chissà quando me lo aveva scritto.

    Lo rilessi più e più volte, cercando di decifrare bene ogni sua parola.

    Non si era dimenticato di me. Idiota io che mi facevo troppe fisime per nulla.

    Mi sistemai un po’ d'aspetto, fiera del mio bellissimo pigiama color panna, indossai le ciabatte e accorsi al piano terra. Seguii una scala che portava al piano inferiore, proseguii per un corridoio tempestato da quadri, statue e manichini e bussai alla porta nera che, secondo le indicazioni, era quella dello studio di registrazione. Nessuno rispose, ma abbassai la maniglia della porta e questa si aprì senza difficoltà.

    Michael se ne stava chino su una specie di mobile nero e liscio, dinanzi a tantissimi tasti e bottoni luccicanti e levette di tutti i tipi, tipici degli studi delle case discografiche. L'arredamento era quasi tutto in legno, tranne per una vetrata oscurata e una porta che sembrava in acciaio: dalla vetrata si poteva scorgere una camera insonorizzata con vari microfoni. Michael batteva il piede a terra lentamente, scuoteva la testa avanti e indietro e canticchiava una melodia soave e dolcissima. Stranamente non indossava gli occhiali da vista.

    «Michael?»

    Lo chiamai leggermente e lui scattò drizzando la schiena. Si voltò con le labbra socchiuse. Ma prima che mi avvicinassi, Michael prese i fogli sul tavolo e li raggruppò velocemente, mollando la penna sul tavolo e nascondendoli all'interno di un quaderno nero e dorato. La sua rapidità di gesti mi fece intendere che non era disposto a condividere quello che stava scrivendo.

    «Ciao» mormorai impacciata.

    Michael respirò a fondo e mi fissò smarrito. «Ciao».

    Mi guardai intorno curiosamente.

    «Siediti...», richiamò la mia attenzione in modo pacato.

    Avanzai titubante, dopo aver chiuso la porta. Mi sedetti su una sedia girevole accanto a lui e studiai i pulsanti del regolatore di suono. Avevo sempre sognato di visitare una sala di registrazione. Continuai a guardarmi intorno silenziosamente.

    Michael mi stava addosso con gli occhi.

    «Hai letto il mio biglietto solo adesso, vero?» domandò ondeggiando avanti e indietro col busto.

    «Mmh-mmh...».

    Si umettò il labbro inferiore e sospirò, fissandosi le ginocchia. «Capisco...»

    Silenzio.

    «Sto sistemando alcune canzoni da inserire nella nuova collezione che pubblicherò il prossimo anno» disse con la solita voce calma e pacata. «Ne vuoi... ne vuoi ascoltare qualcuna?».

    Pareva chiedermi scusa.

    M'illuminai. «Sì, certamente!».

    Morivo dalla voglia di sentirle.

    Michael mi esaminò. Si diede da fare con lo strano marchingegno che aveva sotto mano, troppo complicato da capire per un’inesperta in materia come la sottoscritta. Prima che cominciasse ad attaccare la musica si bloccò: gli occhi erano persi nel vuoto, ma non erano assenti.

    «Quella canzone che stavo scrivendo...».

    Lo osservai umettarsi le labbra nervosamente.

    «Scusa se non te l’ho fatta sentire... io sono un perfezionista, e quella è solo una bozza... e inoltre... è dedicata ad una persona molto speciale. Penso che sia giusto renderla accettabile, prima di farla ascoltare».

    Le sue gote si arrossarono di botto. Mi inclinai verso di lui, sorridendo sinceramente: la mia curiosità si accese e la fantasia mi portò subito a pensare che sotto sotto ci fosse una qualche trama amorosa. Non c’era niente di più bello.

    «Davvero? È fantastico!» esclamai.

    Michael mi sganciò un’occhiata di sottecchi.

    «Riguarda... una lei, vero?»

    Esitò. Qualche istante più tardi annuì.

    Mi morsi le labbra e tentai di formulare la successiva domanda nel modo più educato possibile. «Tu – scusa, non voglio essere impicciona, se vuoi puoi non rispondere – ma... ma tu sei innamorato

    Michael mi puntò sbigottito, come se avessi detto la cosa più sconvolgente al mondo. Vidi il suo pomo d’Adamo sobbalzare per la saliva appena ingoiata e fece vagare le iridi verso il basso. Intrecciò le dita delle mani e si umettò il labbro inferiore. Era dolce quando si imbarazzava.

    «Sì...».

    Il suo sussurro mi investì da cima a fondo.

    La prima emozione che mi colpì fu allegria, un’adrenalina allo stato puro.

    Unii i palmi delle mani, esaltata per quel meraviglioso sentimento che stava provando: sapere che lui fosse innamorato mi dava una gioia immensa. Grazie a Dio, forse, l’amore di una donna lo avrebbe aiutato e incoraggiato a non arrendersi nei momenti più bui della sua vita.

    «Dio...» esclamai estasiata, sorridendo come una cretina. «Ma è stupendo, Michael!»

    Il sguardo catturò la mia esultanza e ne controllò l’autenticità. Il modo che aveva di analizzarmi era serio, ma anche molto interessato. Evidentemente aveva visto poche persone che scoppiavano di contentezza nel saperlo innamorato, almeno così credetti.

    Continuai a sorridere e lui ricambiò piano. Scostò gl’occhi dalla mia figura e attese qualche altro istante prima di cambiare definitivamente argomento. Non sapere chi fosse la ragazza e non conoscere i dettagli della loro storia d’amore mi lasciava l’amaro in bocca, ma sapevo che non potevo sforzarlo a parlarne.

    Ero proprio scema a non arrivarci da sola.

    Un giorno avrei ritirato fuori il discorso, se la nostra amicizia sarebbe divenuta più intima. A quel pensiero, tuttavia, sentii un nodo in gola. Dovevo allontanarmi da quell’idea.

    «C’è una canzone che inserirò in questo album, registrata tanti anni fa, che mi ricorda te...»

    Lo fissai, sbigottita. Fece lo stesso. Ero confusa ed eccitata assieme.

    «La vuoi sentire?».

    Emisi uno spasmo di risata imbarazzata. «E secondo te direi di no? È un onore per me! Sì, per favore!».

    Sentii le mie gote avvampare e Michael rise sotto i baffi. «Allora stai pronta...».

    Un click e dolci note invasero l’intera stanza. Tutto l’ambiente circostante venne inglobato da un ritmo lento, calmo, soave; era una melodia paradisiaca, che portava verso un luogo sconosciuto ma perfettamente sereno, pacifico, con un pizzico di malinconia di sottofondo.

    Michael batteva i piedi a terra e muoveva la testa nascondendo una leggera tensione.

    «I’m so undemanding ‘cause they say love is blind
    I’ve lived this life pretending I can bear this hurt deep inside
    The truth is that I'm longing for love that’s so divine
    I’ve searched this whole world wishing she'll be there time after time
    »

    Alzai un sopracciglio e guardai il vuoto. Poggiai un gomito sul tavolo nero e con una mano mi tenni il viso. Ascoltavo la limpida voce di Michael mentre mi accarezzava l’udito e lo spirito. Tirava fuori le parole che io non gli avevo mai detto, ma che lui era comunque riuscito a comprendere nel mio silenzio.
    «I’ve lived my life the lonely, a soul that cries of shame with handicapped emotions
    Save me now from what still remains.

    I'll be your story hero, I'll serenade in rhyme,
    I'm just needing that someone, save me now from the path I'm on
    »

    Passato il ritornello, strinsi le labbra per trattenere una risata imbarazzata; le parole di quella canzone mi leggevano dentro, svuotandomi da ogni pensiero perfettamente concreto e ragionevole. Ero sicura che anche lui si sentisse così, come me. Tutto ciò mi portò a meditare sul mio profondo desiderio di essergli amica che, in quei giorni, avevo provato a seppellire con forza.

    «When you say we will dance 'til the light of day,
    It's just like the children in earth's joy
    When we pray will you promise me you'll always stay?

    It's because I'm needing that someone»

    Feci un mezzo sorriso e la vista si ovattò di lacrime. Lo sguardo di Michael non mi aveva mollato nemmeno per un secondo.

    Quando la canzone terminò, i miei occhi lucidi lo ringraziarono più delle parole che emisi.

    «È meravigliosa, davvero».

    Sorrise. «Grazie...».

    M’umettai la bocca, trattenendo la commozione e Michael inclinò la testa, accostandosi al mio volto e issandomi il mento con un dito.

    «Stai piangendo?»

    «In realtà sto cercando di non farlo!», emisi una risatina imbarazzata e tesa. Guardai in ogni direzione che non fosse la sua. «Non so veramente come fai...»

    «Come faccio a fare cosa?», sussurrò. La sua mano scivolò dal mento ai miei capelli. Lo fissai e la sua espressione era la quintessenza dell’amore. «Spiegamelo...»

    «Be’, mi leggi dentro. Cioè, con questa canzone mi hai letto dentro... e non so come fai...». Una buona dose di silenzio interruppe lo scorrere delle mie parole; dagli occhi spuntò una piccola lacrima e sorrisi ironica, cercando di sdrammatizzare la questione. «Be’, non c’è molto da dire, effettivamente... solo grazie, ecco...»

    Michael si bagnò il labbro inferiore accuratamente, allontanandosi. Portò entrambe le mani sulle mie, le quali si agitavano frenetiche sul tavolo liscio e nero; le strinse avvolgendole con le sue e le portò sulle mie ginocchia. Chinò il busto verso di esse e rimase a pensare, osservandole: il senso di completa protezione sotto la sua solida stretta mi faceva mancare il respiro.

    «Ti ho fatto sentire questa canzone non solo perché ho pensato a te, ascoltandola...», mormorò. «Speravo che, attraverso queste parole, potessi farti capire quanto è stato strano, per me, trovare una persona come te».

    Corrugai le sopracciglia, confusa.

    Sospirò e i suoi occhi tornarono sulle nostre mani. «In questi giorni mi sono allontanato parecchio... e ti sei allontanata anche tu. Penso che sia stato a causa mia. Ti sei sentita un po’ un’estranea in questa casa in questi giorni, vero?»

    Alzò il viso. «Tu sei probabilmente l’unica che, in questo periodo, mi sta accanto in maniera così consistente», sorrise mesto, «sei sempre disposta ad aiutarmi, anche solo facendomi compagnia e anche se questo non ti sembra importante... ti sbagli.

    Nella mia vita pochi mi sono rimasti vicino. Pochi sono stati disposti ad abbracciarmi e tenermi la mano quando cadevo. Certo, alcuni ancora mi sostengono, ma... molti sono capace di dire buone parole, ma non capiscono quanto sia importante per me un abbraccio, una stretta di mano, o una carezza...

    Tu non puoi capire ciò che sto vivendo completamente, perché non hai passato una situazione così nella tua vita, e io mi auguro che non ti succeda mai. Ti demolisce dentro. Ma non è perché non lo hai vissuto che non piangi con me. Cerchi di capirmi disperatamente. Pensi che il tuo silenzio sia un peso, che la tua vicinanza non sia abbastanza, ma per me è più carico di sentimenti questo – il tuo silenzio – che qualsiasi altra parola. Tutto ciò che dai è più che abbastanza».

    Una lacrima scivolò lungo la mia guancia e Michael mi accarezzò i dorsi delle mani. I suoi occhi, insistenti come non mai, intrappolarono i miei e mi annebbiarono i pensieri; fece scivolare due dita sulla mia gota per raccogliere la lacrima appena scesa. La sua attenzione indugiò a lungo su di essa. Le labbra schiuse si lasciarono fuggire un lungo respiro.

    «Mi sono allontanato da te perché credevo fosse la cosa giusta per entrambi. So che lo hai capito. Temo che prima o poi te ne andrai anche tu, proprio come tutti gli altri, e ho paura di vivere con questa angoscia. Non sono abituato a un affetto come il tuo, non in un momento come questo, ed è strano averci a che fare. Pensavo che non ti avrebbe dato fastidio il mio modo di agire, e invece mi sono accorto che di giorno in giorno, di ora in ora, sei divenuta sempre più fredda. Ti sei allontanata da me, dai bambini, dicendo che avevi altro da fare...». Mi fissò e io ritrassi la schiena per la profondità di quell’occhiata decisa. «Ho notato ogni tuo sguardo, anche quando non te ne accorgevi, e notavo quando la luce nelle tue iridi si affievoliva. Sei un libro aperto, perfettamente limpida, riesco a capirti facilmente, e in qualche modo penso che la cosa sia reciproca...»

    Era la prima volta che lo sentivo così diretto e sincero. Le mie sopracciglia si corrugarono, arrossii e la visuale riperse di nuovo il suo fuoco.

    Sorrise. «Quando poco fa mi hai stretto la mano, dicendomi che non mi avresti lasciato da solo, sono rimasto sconvolto. Hai un’anima sensibile. Sei tornata indietro a riprendermi... in molte altre occasioni ti sei mostrata attenta a come reagivo alle varie situazioni. E io sono rimasto ad osservarti agire – soprattutto nei piccoli gesti – per godermi questa tua bontà d’animo. Non mi fido più di nessuno, non come una volta. Sto soppesando tutti i miei rapporti personali. E tu sei una certezza.

    Ho dovuto tastare il terreno a lungo prima di avvicinarmi a te, comprendimi, ma non mi hai mai dato modo, finora, di credere che tu non sia sincera e buona. Inoltre, ballando con te questo pomeriggio, mi sono reso conto che mi avevi perdonato; forse non del tutto, ma non ho visto diffidenza quando ho fatto il primo passo per venirti incontro. Soprattutto hai creduto in me, hai avuto fiducia, e ti sei lasciata andare. Penso di essere abbastanza intelligente e consapevole, se dico che la tua anima è davvero bella»

    Silenzio.

    Lo guardai senza dire una parola e lui fece lo stesso con me, attendendo la mia reazione.

    Chinai gli occhi. Il naso pizzicò brutalmente e le lacrime iniziarono a scendere da sole.

    «S-scusa...»

    Mi abbracciò. Mi strinse prima che me ne potessi accorgere. Alzandosi in piedi, dirigendosi rapido in mia direzione, aveva appoggiato la testa sopra la mia nuca.

    Mi sentivo amata. E quella sensazione sa essere devastante, quasi quanto il dolore per una perdita.

    Le lacrime continuarono ad uscire copiosamente.

    «Mi spiace, davvero… non vorrei essere così... sei la prima persona dopo anni che mi dice queste cose... non sono ab-abituata... scusa... mi sa che sto diventando troppo vulnerabile», emisi una risatina mista ad un singhiozzo.

    «Tu non sei vulnerabile» mi rimproverò, ridendo appena per la mia voce balbettante e il mio modo di gesticolare. «Sei soltanto troppo candida per un ambiente come questo...».

    «Come te, mi sembra...» bisbigliai, tirando su con il naso.

    Appoggiai la fronte sul suo petto e sentii questo alzarsi e abbassarsi lentamente, seguendo dei respiri profondi. Non mi ero mai sentita al sicuro in vita mia come in quel momento. E il suo amore sapeva proteggere più gli altri che se stesso.

    «No, Sarah» mormorò tristemente. «Il mio cuore sanguina da tanto tempo... se sono stato puro, quel momento non è mai durato a lungo»

    Mi allontanai da Michael e lo guardai imbronciata. Le lacrime smisero di scendere, nonostante il viso fosse completamente bagnato. «Penso proprio che ti sbagli. Essere puri non significa non aver mai sofferto».

    Michael mi fissò in silenzio, serio e attento. I suoi occhi sorrisero. Successivamente si sedette e mi rivolse un’espressione soddisfatta e quasi orgogliosa.

    «Dici sempre cose profonde» sorrise. «È anche per questo che credo in te».

    Arrossii e boccheggiai dall’emozione. Michael esplose a ridere, adagiandosi sullo schienale della sedia girevole. Storsi la bocca.

    «Lo fai apposta. Sai che mi emoziono con poco…»

    «Sì, hai ragione...» disse smettendo pian piano di sghignazzare. La sua espressione divenne maliziosamente divertita. «Potresti montarti troppo la testa, se ti faccio troppi complimenti tutti in un colpo. Non vorrei mai che le tue funzioni celebrali ne risentissero».

    Spalancai le labbra, scioccata. Michael ebbe il coraggio di ridermi in faccia una seconda volta, atteggiandosi come un vero e proprio bambino. Mi finsi indispettita e sollevai un sopracciglio.

    «Ma quanto sei simpatico, vecchietto».

    Compresi che il suo divertimento primario consisteva nel farmi arrabbiare, con l’obiettivo principale di farmi fare smorfie strane. Un burlone come lui non lo si trovava facilmente in giro. Era come quei bambini che, per attirare l’attenzione, facevano i dispetti.

    «Ora è meglio andare a dormire, penso che tu sia parecchio stanca, con tutti i balli e le pulizie che hai fatto» Mi puntò furbescamente. «A meno che tu non voglia cantare...».

    «No no, oggi no, graaazie!» e velocemente mi alzai, correndo verso la porta d’uscita salutandolo con un cenno della mano. Lui ridacchiò e mi seguì.

    Non mi accompagnò di sopra, perché voleva continuare a lavorare su altri pezzi.

    Mi abbracciò un’ultima volta, respirando il mio profumo. Io feci lo stesso e impercettibilmente. Quando si separò da me mi sorrise e mi disse “Ti voglio bene, Dio ti benedica”.

    Ricambiai e mi incamminai lungo il corridoio.

    Mi lanciò un fischio sottile, per attirare la mia attenzione. Mi girai.

    «Ah, domani abbiamo un impegno importante. Un piccolo viaggetto. Partiremo nel pomeriggio, perciò ti consiglio di svegliarti presto e preparare le valigie… ma porta poca roba». Esitò, ma sorrise enigmaticamente. «Sono sicuro che ti piacerà».




    1 Ho utilizzato l’espressione “la mia persona” ispirandomi alla serie televisiva Grey’s Anatomy. Penso che sia il concetto che più esprime quelli che sono i sentimenti di Sarah: trovare qualcuno solo per lei, che possa ricambiare questo sentimento. “La mia persona” si riferisce a quel qualcuno che non potrà essere sostituito da nessuno, non importa cosa accadrà.




    Edited by fallagain - 3/4/2020, 00:42
     
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    La mattina dopo, pimpante e allegra, mi svegliai di buon ora per fare le valigie, così come mi aveva detto di fare Michael la sera precedente; mi cambiai, mi lavai il viso e scesi per la colazione, prima di mettermi al lavoro.

    I bambini erano ancora a letto e la casa era avvolta in un silenzio straordinario. Fuori il tempo era sereno, con qualche nuvola bianca sparsa qua e là nel manto azzurrino del cielo, e i raggi solari battevano fiochi sulle finestre, illuminando il parquet della cucina. L’atmosfera che la mattina dava a quella casa era magica, forse anche più della notte.

    Andai verso la finestra e l’aprii piano, cercando di non fare troppo rumore. Presi una boccata d’aria fresca e chiusi gli occhi, sentendo il vento invernale colpirmi il viso, risvegliandomi completamente. I cinguettii degli uccellini mi portarono un sorriso sulle labbra.

    Richiusi la finestra e mi diressi al bancone. Tirai fuori una tazza, il latte dal frigorifero e lo scaldai un minuto nel forno microonde. Presi alcuni biscotti dalla credenza e mi sedetti su uno sgabello al bancone di legno liscio e levigato, assaporando la mia colazione immersa nei pensieri, osservando distrattamente come il latte bagnasse la sostanza di cui erano fatti i biscotti e come, al palato, risultassero deliziosi. Guardai fuori dalla finestra e sospirai.

    Non sapevo nemmeno fino a quando sarei stata via da Neverland con Michael e i bambini, figuriamoci cosa mettere in valigia. Di sicuro abbondare non faceva male, e nel caso sarebbero stati più di tre giorni – cosa che non credevo – mi sarei fatta bastare quelli che avevo ad ogni modo.

    Sperai che Michael sbucasse da oltre la porta, ma così non fu. Non solo gli avrei chiesto per quanti giorni saremmo stati via, ma lo avrei anche rivisto e lo avrei salutato con un caloroso “Buongiorno”... sempre che non fosse ritornato nel suo guscio.

    Misi tutto apposto e mi avviai al piano di sopra, salendo due scalini alla volta e riuscendo quasi ad inciampare nella salita degli ultimi tre. Mi chiusi la porta della camera alle spalle e tirai fuori dall’armadio un piccolo trolley. Passai tutta la mattinata così, scegliendo i vestiti da portare via, con qualche immancabile trucco o crema che utilizzavo ogni giorno.

    Poco dopo scesi al piano terra e vidi i bambini giocare nei panni dei personaggi di Star Wars.

    Sorrisi loro. «Buongiooorno!»

    «Ciao zia Sarah, buongiooorno!», esclamarono entrambi venendo ad abbracciarmi. Li strinsi forte fra le braccia e scoccai loro un bacino ciascuno. «Hai già fatto le valigie, zia?», mi chiesero.

    Mi sorpresi che Paris non avesse detto nulla al fratello per farlo star zitto.

    «Sì, ho preparato tutto, e voi?»

    «Papà ci ha aiutato fino a poco fa! Si sta occupando delle ultime cose per Blankie!», disse Paris.

    Sorrisi. «Oh, bene, e quando si parte di preciso?»

    Si guardarono, poi osservarono me. «Non lo sappiamo...»

    «Oh». Assunsi un’aria perplessa e mi raccolsi i capelli sulla spalla con la mano destra. Dovevo farmi dire dove saremo andati, altrimenti sarei impazzita. «Vostro padre è nella vostra camera?»

    «Penso di sì», mormorò Prince, guardando la sorella in dubbio.

    Lei ricambiò l’occhiata alzando le spalle.

    «Ok, grazie mille», sorrisi e li salutai con la mano, dirigendomi ancora una volta sopra le scale. Loro ricambiarono il saluto e tornarono a giocare tranquillamente.

    Camminai verso la stanza dei bambini e bussai.

    «Sì?»

    La sua voce oltrepassò la porta in legno con un tono incuriosito. Gli acuti versi e le parole confuse di Blanket risuonavano allegramente per tutto l’ambiente.

    «Sono Sarah...»

    Un secondo di silenzio. «Entra pure!»

    Entrai cautamente. Per terra c’erano due valigie aperte, contenenti vestiti, giocattoli e quant’altro; abiti ben piegati se ne stavano incolonnati sopra il letto di Prince. Le finestre erano socchiuse, le saracinesche erano alte e davano al Sole il permesso di infilarsi nella stanza con la sua candida luce. Michael stava chinò su uno dei due trolley, in ginocchio e con fare pensoso, mentre il piccino se ne stava sulla sua culla, in piedi e aggrappato alle sbarre di legno.

    Non appena Blanket mi vide sorrise e pregò affinché potesse venirmi in braccio. Sorrisi di rimando. Mi avviai verso di lui, salutandolo amorevolmente, e ormai abbastanza abituata a prenderlo in braccio senza chiedere il permesso lo issai e lo tenni stretto al petto. Guardai Michael e lo vidi osservarmi con un’espressione persa.

    «Ha sempre avuto un debole per te», mormorò piano, «fin da quando sei arrivata...»

    Sghignazzai allegramente e baciai il bimbo sulle guance, il quale fiondò subito le manine sulle mie gote. «Ha uno sguardo dolce... ha i tuoi occhi...»

    «Davvero?», chiese inarcando un sopracciglio. Fissò il bimbo con occhi luccicanti d’orgoglio paterno. «In effetti non sei l’unica che me lo dice».

    «Ti assomiglia», e dicendo ciò pettinai i capelli di Blanket all’indietro, mentre quest'ultimo esplodeva in una cristallina risata.

    Mi voltai verso Michael. «Come stai?».

    «Bene, molto bene davvero!» esclamò sorridendo e fissò le valigie. «Provo sempre una grande gioia quando devo partire per nuovi posti, soprattutto mi piace fare le valigie con i miei bambini. È un ottimo modo per passare del tempo assieme, divertirsi e contemporaneamente insegnar loro ad essere autonomi».

    S’incupì di botto, poi mi fissò intensamente. «Più i tempi corrono, più genitori e figli si lasciano sfuggire momenti come questi, e in un batter d’occhio i figli diventano grandi e si allontanano da casa, ottenendo la loro indipendenza. L’amore di una famiglia è importantissimo, e se non godiamo di questi attimi di gioia lasciamo sfuggire il tempo dalle nostre mani... è veramente triste...».

    Lo fissai meravigliata, pendendo dalle sue labbra.

    «Hai ragione», mi sedetti e poggiai Blanket sul pavimento, il quale batteva i piedi a terra tenendosi in piedi sulle mie manine. «Sono cose apparentemente prive di senso, ma in realtà saranno i nostri ricordi per sempre...»

    Il silenzio prese posto tra di noi, interrotto solo dagli strilli eccitati di Blanket che ondeggiava a destra e sinistra e compiva qualche passo alla cieca. Improvvisamente lo sguardo mio e di Michael s’intrecciarono. I suoi occhi, persi nei miei, mi avvolsero e mi fecero perdere la cognizione del tempo. Sorrise piano e guardò le mie mani, allacciate a quelle del suo bambino.

    «Sei adatta a fare la madre».

    Il cuore si fermò in gola non appena i suoi occhi mi sorrisero di tenerezza.

    «Hai scelto bene la tua professione, il diventare maestra intendo. Penso che ogni bambino con cui hai avuto a che fare ti abbia preso in simpatia, compresi i miei figli...»

    Sorrisi imbarazzata e scostai lo sguardo. «Grazie...». Pausa. «Sì, penso anche io di aver scelto la professione giusta, anche se inizialmente ero indecisa su due strade ben diverse».

    «Che cosa avresti voluto fare?»

    «La psicologa».

    Lo guardai e si accigliò.

    Scoppiai a ridere. «Sì, lo so, alla fine sarei diventata più matta dei miei pazienti, conoscendomi, ma mi interessava la materia... la psicologia umana, la mente. Come anche mi ha sempre affascinato criminologia. Sono sempre stata considerata la psicologa perfetta, da tutti coloro che mi circondavano... i miei, in parte, l’avrebbero preferito. Secondo loro avrei fatto più carriera così».

    «E una maestra non può fare carriera?»

    «Non negli Stati Uniti, secondo loro. In realtà era solo una scusa per non farmi allontanare dall’Italia. L’idea che io potessi studiare all’estero, in un college parecchio importante, probabilmente li spaventava. Anche se fossi diventata avvocato e avessi avuto più successo, la cosa li avrebbe fatti star male, proprio perché comunque sarei stata lontana». Sorrisi amaramente. «Come tu ben sai io non ero molto estroversa. Non ero una tipica persona di mondo, ecco. Perciò premevano su questo tasto per dire che andare negli Stati Uniti mi avrebbe – come dire – creato un certo “shock”.

    Ma io non li ascoltai, inviai la mia proposta alla Harvard e mi accettarono, visti i miei voti alti in tutte le materie e le buone parole che ci misero i miei zii. Non che la cosa mi facesse piacere, ma non sarei mai potuta arrivare là grazie a loro. Anche i miei zii studiarono alla Harvard e mi appoggiarono in segreto. Quando arrivò la risposta positiva saltai dalla gioia, e non appena lo dissi ai miei questi s’arrabbiarono. Mia madre litigò con me, inventando la scusa che non glielo avevo nemmeno accennato – cosa vera – e che non se lo sarebbe mai aspettato da parte mia. Poi da lì uscirono questioni mai risolte del passato che mi avevano fatto un po’ male nel corso degli anni. La provocai ben sapendo che avrei peggiorato le cose e non ci parlammo per mesi. Fu un periodo tremendo... vivere nella stessa casa con lei che faceva finta che io non fossi sua figlia», alzai le sopracciglia ed emisi un risolino sarcastico.

    «È terribile...», mormorò Michael, fissandomi dispiaciuto ma interessato. «E cosa vi siete dette?»

    «Be’, io dissi che volevo la mia libertà e la mia indipendenza. Mia madre mi chiese perché non potevo cercare la mia indipendenza anche in Italia e io dissi che volevo starmene per i fatti miei, allontanarmi da quel Paese per un periodo indefinito. Inoltre volevo andarmene di casa perché il clima si faceva sempre più pesante: i miei non vanno d’accordo da anni. Sono sull’orlo della separazione da tempo, in effetti. Comunque mia madre disse che non avrei fatto carriera, che sicuramente sarei tornata a casa nel giro di un anno, e me lo disse con un tono così amareggiato e tuttavia arrabbiato che istigò la mia irascibilità. Divenni velenosa come non mai. Le dissi con tutto il fiato che avevo che ce l’avrei fatta anche senza il suo aiuto, che lei – nonostante mi avesse protetto numerose volte – mi aveva sempre tenuta chiusa in una gabbia. Per una volta volevo fare le cose come andavano a me: volevo fare i miei errori, i miei sbagli, e crescere da sola, senza che qualcuno mi dicesse cosa fare... anche a costo di stare male... ma lei la prese sul personale, facemmo una sfuriata tremenda e non ci parlammo più per un po’».

    «E ora ci parli senza rancore?».

    Blanket si sedette a terra e gattonò verso le valigie, pronto a disfare tutto. Michael lo afferrò e se lo pose sulle ginocchia.

    Annuii tranquillamente. «Sì, adesso sì. Diciamo che risolvemmo la questione qualche giorno prima che partissi. Fu la prima volta che mi disse che le sarei mancata. Era fermamente convinta che avessi sbagliato a prendere quella decisione e a dirle quelle cose, ma alla fine mi lasciò andare. Io invece non sentivo il minimo senso di colpa. Sono fiera della strada che sono riuscita a percorrere fino ad oggi, ma sono conscia che non sarei qui se non fosse per mio padre – che bene o male convinse mia madre a lasciarmi andare -, per i miei zii e sì… anche per la mamma».

    Michael m’afferrò una mano e io lo guardai. I suoi occhi erano attenti, vigili, ma la loro dolcezza mi avvolse come se mi stesse abbracciando. Non provavo più dolore per ciò che era accaduto fra me e mia madre, e anche se fosse la vicinanza di Michael mi fece dimenticare ogni brutto ricordo.

    Mi strinse le dita della mano. «Sei stata coraggiosa... in molte cose a quanto pare, ma in questa ti sei superata. Non è facile tenere la testa alta e non mollare, quando tutto il mondo sembra essere contro di te».

    Arrossii di poco e sorrisi. «Grazie».

    Scoccai un’occhiata curiosa a Michael e lui drizzò un sopracciglio, inclinando di poco la testa.

    «E tu che avresti voluto fare? Hai sempre desiderato fare il cantante o...?»

    Ridacchiò. «Domanda difficile. Credo che se tornassi indietro non cambierei nulla della mia carriera. Non vedo altro mestiere adatto a me se non questo... faccio quello che amo – cantare, ballare, comporre musica e canzoni – e aiuto il mondo. Dono molti dei miei ricavati ai bambini, a chi è solo e senza amore, con la speranza che abbiano un futuro più bello. In più rendo i miei fans felici, perciò tutto ciò mi fa sentire completo. Amato. Ma a volte vorrei essere stato un uomo normale, fare le cose che fanno tutti…».

    Annuii piano e sorrisi.

    Mi puntò. «Sai, credo che se non fossi quello che sono – se Dio non mi avesse permesso di esserlo – avrei comunque dedicato tutto me stesso ad aiutare gli altri. È una cosa che sento dentro, aiutare e amare. Tutti quanti, nessuno escluso... tutti meritano un po’ d’affetto e una mano.

    Da piccolo desideravo soltanto ballare e cantare, perché nel cuore sentivo che era la cosa che mi rendeva più felice al mondo. Non lo facevo per soldi, non lo facevo per essere parte dello show business, ero solo un bambino che voleva godere della sua infanzia e rendere me e chi mi circondava felice. Volevo divertirmi, fare ciò che Dio – attraverso me – voleva che facessi. Poi mio padre ha formato i Jackson 5, il gruppo musicale composto da me e dai miei fratelli maschi, e abbiamo fatto successo. In poco tempo abbiamo girato il mondo»

    «Hai iniziato così presto...».

    «Sì, sono più di trent’anni di carriera ormai. Ho perso molto, ma sono comunque riuscito a dare tanto... più di quanto mi sarei mai aspettato».

    Il silenzio calò. L’ammirazione che provavo per Michael non faceva che crescere, ora per ora, minuto per minuto.

    «Il tuo sogno di cambiare il mondo è stupendo. Sono sicura che hai portato amore ovunque andassi e che continuerai a farlo. Penso che molti ti siano o ti saranno sempre riconoscenti».

    Ridacchiò piano, abbassando gli occhi. «Ora sei tu che mi imbarazzi...»

    «È la verità!», dissi ridendo.

    Pensai a lui in un ospedale, ad abbracciare le persone impossibilitate a muoversi o con gravi malattie, o in un orfanotrofio, a dare affetto a quei piccoli che non avevano genitori: quella visione di Michael era quella che più rispecchiava il suo animo, ne ero sicura.

    «Sei pronta per l’arrivo del nuovo anno?», chiese di punto in bianco.

    Lo guardai e lo vidi sorridere sotto i baffi in maniera per nulla convincente.

    «A proposito!», dissi illuminandomi. «A che ora si parte?»

    «Partiremo questo pomeriggio, verso le 15.30. Sai, il viaggio è parecchio lungo...», e mi studiò con un ghigno divertito, soddisfatto per la mia voglia di sapere. «Hai già preparato le valigie?»

    «Sì, ma quanto tempo stiamo?». Guardai le borse dei piccoli. «Sembra che ci staremo un secolo...»

    «No, purtroppo solo una notte...», mormorò afferrando Blanket e sistemandogli bene la canottiera sotto i pantaloni. «Solo per la notte del primo...»

    M’inclinai in avanti e lo osservai attentamente.

    Quando ricambiò lo sguardo sussurrai: «Ma si può sapere dove andiamo?».

    Michael scoppiò a ridere di gusto, coprendosi la bocca con una mano.

    «Dai, non è giusto che l’unica a non sapere nulla sia proprio io! Non è corretto!»

    «In realtà» disse sghignazzando «nemmeno i bambini sanno dove andremo precisamente. Ho detto loro che andremo a vedere i fuochi in un luogo che amano parecchio… ma non ho specificato quale. Solo io e chi ci porterà lo sappiamo», e mi fece una linguaccia.

    Spalancai la bocca, offesa. «Ma non è giusto!» Michael continuò a ridere senza rispondermi, scuotendo la nuca. Poco dopo ripresi il mio interrogatorio. «Ma non posso avere un indizio? Uno piccolo piccolo? Dai... per favore...»

    «No, non puoi!» disse negando con il capo più enfaticamente di prima. M’imbronciai e lui mi pizzicò il naso rendendomi ancora più indispettita: socchiusi gli occhi e lo fulminai. «Ti prometto che ti piacerà! Non potrà non piacerti...»

    M’illuminai e lui si morse un labbro, con fare colpevole.

    «“Non potrà non piacermi”... “non potrà”... “non piacermi”...», borbottai pensosa, alzandomi da terra. Michael mi lanciava sguardi astutamente ridenti. «Prima di questa sera ne verrò fuori, scoprirò che cosa hai in mente!»

    Mulinai i capelli prima da una parte e poi dall’altra, fingendo un comportamento altezzoso quanto buffo, e alzai il viso verso l’alto, incamminandomi veloce verso la porta. Michael se ne stette a ridere a crepapelle per quella mia recitazione da smorfiosa perfetta, tenendo una mano sul volto e dondolandosi con la schiena avanti e indietro. Blanket lo guardò stupito.

    Prima di uscire dalla porta mi voltai e gli feci la linguaccia. Lui sorrise sornione.

    «A dopo, bambina impicciona».

    «A dopo...» Feci una smorfia. «Antipatico!»

    Michael sogghignò un’ultima volta e io me ne uscii a passo di marcia. Una volta oltrepassata la porta sorrisi anche io, mi passai una mano fra i capelli e mi diressi saltellando verso la mia stanza. Avrei dovuto liberare un po’ di vestiti e oggetti inutili dalla mia valigia.

    *

    Alle tre del pomeriggio ci furono ospiti. Si presentarono tre guardie del corpo (vestiti con abiti normali) e due truccatori, un uomo e una donna. Quest’ultima si chiamava Karen Faye; era bionda, un po’ in carne e con due occhi osservatori e azzurri. Dal viso sembrava una donna pacata ed elegante, ma qualcosa – di primo acchito – non mi convinceva per niente.

    Ci avviammo tutti in salotto, dove i due truccatori tirarono fuori da due grandi valigie un enorme quantità di trucchi e parrucche varie. I due parlarono e scherzarono tranquillamente coi bambini e le guardie del corpo; mi autoesclusi dalla conversazione e assistetti in silenzio. In attesa che Michael scendesse e ci raggiungesse, la donna continuò a lanciarmi occhiate profonde e indagatrici, pur senza chiedermi nulla direttamente. Io rimasi quieta, fissandola di rimando, accennando un sorriso che ella non ricambiò.

    Quando era entrata in casa mi ero presentata dicendo nome e cognome, stringendo la mano a lei e al suo collega, ma non le avevo detto il mio ruolo nella vita di Michael. Sembrava curiosa di conoscermi, ma anche molto fredda.

    Era decisamente un’antipatia a pelle, ricambiata da entrambe le parti.

    «Eccomi!»

    Una voce alle nostre spalle interruppe l’allegro chiacchiericcio dei bambini. Mi volsi verso la porta che dava sul corridoio e vidi Michael, vestito con jeans e felpa larga e rossa, avviarsi velocemente verso di noi. In braccio teneva Blanket.

    Gli occhi di Michael passarono in rassegna di tutti i presenti. Salutò la donna e l’uomo che lavorarono per lui e fece un cenno di saluto col capo ai suoi bodyguards. Prima di porre la sua attenzione per una seconda volta sui suoi amici truccatori, mi scoccò un’occhiata impenetrabile.

    «Ciao Mike!», disse una sorridente e carezzevole Karen.

    La prima cosa che fece quest’ultima, una volta alzatasi, fu andargli incontro e baciarlo e abbracciarlo concitatamente. Lo guardava con due occhi sognanti e trattenni un risolino divertito, immaginando che quello fosse l’effetto che Michael faceva ad ogni donna. Tuttavia Karen sembrava emotivamente rapita dal suo datore di lavoro e “amico”, tanto da sospettare che ci fosse del tenero… se non da parte di Michael, per lo meno da parte della truccatrice.

    Nel momento in cui Karen si chinò per baciare Blanket, Michael mi lanciò un debole cenno d’intesa (una sottospecie di occhiolino che in realtà non gli riuscì molto bene), che ricambiai con un mezzo sorriso. Nessuno lo vide, nemmeno i bambini, troppo meravigliati a fissare trucchi e parrucche.

    Scostai lo sguardo, mordendomi un labbro per non sorridere apertamente.

    «Ehi Mike, dov’è che scappi stavolta?», chiese l’altro truccatore di cui già mi ero dimenticata il nome. Aveva i capelli biondo scuro e un’aria gioviale; dedussi che fosse sulla trentina e passa.

    L’altro sorrise piano. «È una sorpresa...», e ammiccò ai suoi figli. «Rovinerei loro il regalo».

    «Papà ha detto che ci porta a vedere i fuochi...», mormorò Prince, fissando il padre eloquentemente. Paris chiese al truccatore se poteva prendere una parrucca fra le mani.

    Karen sorrise, guardando Prince. «Allora meglio non mandare a monte i suoi piani».

    Prince sbuffò e tornò a sedersi sul divano, non appena anche suo padre vi si poggiò sopra con Blanket. Poco dopo arrivò anche Paris con una bella parrucca nera fra le mani e si mise accanto a me, facendomela ammirare; mi chiese se un giorno mi sarei fatta i capelli di quel colore e io ridacchiai dissentendo: era un colore troppo scuro per me.

    «Allora», disse Michael battendo le mani sulle ginocchia. «Procediamo?»

    «Certo», disse il truccatore. «Anche Prince e Paris hanno bisogno di un po’ di trucco?», ironizzò.

    I bambini puntarono il padre ed egli sorrise. «No, loro no», disse abbattendo le loro speranze «Solo io, giusto affinché la gente non mi salti addosso di punto in bianco».

    Michael si alzò e mi venne incontro. Subito feci lo stesso e presi Blanket in braccio.

    Un altro sguardo carico di intesa, durato meno di un secondo.

    Sentii Karen punzecchiarmi con gli occhi. La puntai serenamente e lei si aspettò che parlassi; aveva capito che sarei andata anch’io con loro ed era strano che Michael non le avesse parlato di me. Ad ogni modo se ne stette zitta, anche quando assieme a Michael e all’altro uomo salì le scale, in direzione del primo piano, non prima di aver chiuso le loro valigette.

    «Mr. Jackson, le portiamo giù le valigie nel frattempo?», disse una guardia del corpo alzandosi in piedi, prima che questo uscisse dal salotto. Egli rimase in silenzio a pensare.

    «Sì, aiutate i miei figli a portare le loro, per il momento» mi ammiccò velocemente «per le mie ci penserò più tardi, una volta finito tutto...»

    «Sì, signore».

    Michael uscì dalla porta e io rimasi in salotto con i bambini, mentre le guardie del corpo si avviavano al piano di sopra.

    Scese una ventina di minuti più tardi, accompagnato dai suoi truccatori. Lo udii ridere. I truccatori salutarono i piccoli e le guardie – che nel frattempo erano già scese con tutti i bagagli – e se ne andarono. Sia io che i bambini rimanemmo a fissare il corridoio, volenterosi di vedere loro padre vestito e truccato.

    Quando entrò feci una serie di smorfie una dietro l’altra, dallo sconvolta al divertita.

    Michael indossava gli stessi abiti normali di prima, mentre la faccia, invece, era totalmente cambiata: era sicuramente una maschera. Una maschera straordinariamente vera. Aveva i capelli corti e brizzolati e il viso più pieno, con la barba e i baffi più reali che avessi mai potuto vedere. Gli occhi erano nascosti da un paio d’occhiali finti.

    Mi guardò e io fui indecisa se ridere o fissarlo con serietà.

    «Daddy?», esclamò Prince alzando la voce di un’ottava più alta, inclinando la testa da un lato.

    Scoppiai in una fragorosa risata e anche Michael, imbarazzato, sorrise. Spalancò le braccia e alzò le spalle. Non riuscivo a credere che quell’uomo fosse davvero lui.

    «Come sto?»

    «Sei buffo...»

    Paris ridacchiò. «Sei strano!»

    Michael mi scoccò l’ennesima occhiata curiosa ed io sorrisi.

    «Sei eccezionale».

    Abbassò gli occhi ponendosi una mano sotto il mento, sorridendo appena. Nonostante avesse quella maschera sapevo che era lui... non solo perché lo riconoscevo dagli sguardi o dai gesti, ma anche a causa delle vibrazioni che emanava ogni qualvolta entrasse in una stanza. Chi non dava molto conto alle sensazioni ed era preso da altri pensieri non avrebbe potuto percepirlo.

    «Be’, grazie a tutti. Sarah, dammi pure Blanket… intanto voi mettetevi la giaccia e salite in macchina, fra qualche minuto si parte».

    I bambini esultarono e corsero via immediatamente, verso lo sgabuzzino, alla ricerca dei loro giubbotti. E indossavano due parrucche così belle da sembrare capelli veri – concesse gentilmente dai due truccatori di prima. Michael mi scrutò con allegria ed entrambi sorridemmo; poi si voltò di schiena, guardando la porta di ingresso. Sentii le guardie del corpo chiedergli qualcosa riguardo le valigie.

    «No, non ti preoccupare, ci penso io. Portate giù le valigie di Miss Morris e basta...»

    Assunsi un’espressione stranita. Miss Morris?

    Non so perché, ma mi fece ridere.

    «No, davvero, non serve. Ci penso io», proruppi gentilmente.

    Michael mi gettò occhiate incomprensibili. Quella maschera gli impediva di fare le sue tipiche smorfie.

    «Ci penso da me, non ti preoccupare».

    «Ne sei sicura?»

    «Sì, ce la faccio!», e così m’avviai verso Michael. Gli consegnai Blanket in braccio.

    Una guardia del corpo, quella più alta e con gli occhi azzurri, parlò dicendo che ci avrebbero aspettati in macchina. Michael annuì, i bambini uscirono dalla porta del villino seguiti dai bodyguard. . Io e il padrone di casa rimanemmo soli. Feci per passargli a fianco ma drizzò il braccio, poggiando la mano sullo stipite della porta per impedirmi di uscire.

    Lo guardai e mi sembrò che sorridesse.

    Feci un passo avanti, scrutandolo indecisa; entrai in contatto col suo braccio e mi aggrappai ad esso con una mano. Michael non si mosse, anzi, stette a sorridermi con fare finto tonto.

    «Posso...?», ridacchiai titubante.

    S’avvicinò piano al mio viso, inclinando il capo verso sinistra e avvicinandosi alla mia guancia. Le sue labbra mi sfiorarono la pelle e la resero bollente. Il tocco fu devastante e mi ci vollero istanti per far funzionare il cervello di nuovo. Il suo profumo m’invase le narici e i suoi occhi, intensi e scuri, mi analizzarono fin dentro l’anima. Quel baciò durò solo un secondo, ma a me sembrò tutto il contrario.

    «Ora sì».

    Spostò il braccio abbassandolo sul fianco. Mi fece cenno di superarlo col capo, ridendo, e io lo oltrepassai scuotendo il capo con fare divertito. Feci le scale veloce, mi diressi in camera e presi il trolley. Controllai di non aver lasciato nulla in giro, ma tutto sembrava perfetto.

    Mi detti un’ultima controllata allo specchio prima di uscire, sistemando meglio il maglioncino con maniche a tre quarti color lavanda e alzando al massimo la zip dei jeans, per evitare che scivolasse. Le figuracce erano sempre in agguato quando si parlava della sottoscritta.

    Mi misi la giacca e scesi le scale.

    Uscii di casa con tutto il peso della valigia su un braccio.

    Michael era lì, ad attendermi, facendomi cenno di seguirlo. «Andiamo»

    Presi il trolley per una maniglia e lo trascinai. Quando gli fui vicino mi sorrise e cominciò ad incamminarsi verso la discesa, con Blanket che faceva versi entusiasti, in direzione del SUV nero che ci attendeva. Non aveva una valigia con sé. Evidentemente l’aveva già fatta sistemare in macchina e non me ne ero manco accorta.

    «Quanto ci metteremo per arrivare?», chiesi guardandolo.

    Mi lanciò un’occhiata fugace e sorrise della mia impazienza. «Tre ore, più o meno». Spalancai gli occhi, facendolo ridere. «Vedrai, ne varrà la pena, anche se penso che tu ci sia già stata...»

    «Se mi dicessi che posto è, te lo direi anche, sai?», borbottai.

    Si volse. Si bloccò di colpo e mi dette un buffetto sulla guancia. «Penso che per stavolta la tua curiosità dovrà essere placata, ragazza».

    Sorrisi indispettita.

    Salimmo in auto.

    I bambini avevano già preso posto e si erano spogliati delle loro giacche pesanti; Michael e io ci sedemmo di fronte a loro, poiché i sedili dell’auto erano stati sistemati appositamente affinché più persone potessero guardarsi faccia a faccia. Una tenda di velluto nero ci divideva da due dei tre bodyguard presenti, mentre il terzo se ne stava accanto a Michael, il quale aveva chiesto se potesse stare in mezzo.

    Non immaginavo dove mi avrebbe portato, non mi sarebbe neanche minimamente passato per la testa. Perciò posai il capo sul poggiatesta e guardai fuori, osservando pian piano il ranch sparire da sotto gli occhi.

    Sarebbe stato un viaggio lungo, ma come mi disse Michael ne sarebbe valsa la pena.

    *

    «Ok, ora indovinate che cos’è questo!»

    Prince fece una strana smorfia e portò le braccia dietro la schiena, alzando un po’ le spalle, facendo ridere tutti quanti. Michael si sforzò a lungo per capire quale animale stesse imitando, Paris pure, mentre io mi ero gentilmente astenuta, dicendo che avrei preferito rimanere a guardarli per vedere come giocavano.

    Erano già passate più di due ore e mezza e non lo sembrava affatto. Quella famiglia aveva sempre giochi nuovi da provare, nuove idee per passare il tempo, e facevano rumore, tanto rumore. Alla fine non mi ero riuscita a concentrare sul panorama perché ero troppo interessata a far parte di quel caos, intervenendo in qualche gioco o assumendo il ruolo di spettatrice in altri.

    Ci eravamo fermati per una pausa in autogrill per poter andare in bagno e, veloci come fulmini, eravamo tornati in macchina senza che nessuno si accorgesse di noi; salendo, la guardia che per un po’ era stata con noi decise di seguire i suoi compari davanti, visto che lì c’era parecchio spazio. I bodyguard si erano vestiti con abiti normali e non davano nell’occhio, quindi tutti sembravamo una gran compagnia d’amici in festa.

    «Uhm... è un uccello?», chiese Michael.

    «Nope!»

    Paris corrugò la fronte. «È... è un’aquila?»

    «Nooo!»

    Strinsi le labbra in un’espressione perplessa. Inclinai un po’ il capo e di colpo mi vennero in mente gli uccelli de Il Libro della Giungla, quelli a cui avevano dato le sembianze dei Beatles... come si chiama...

    «Avvoltoio?»

    «Sììì!», esclamò Prince saltando sul sedile.

    Paris e Michael, che odiavano perdere, sbuffarono contrariati. Michael mi guardò ridere di gusto per trenta secondi abbondanti, felice di essere intervenuta senza essere interpellata.

    «Non è valido! Non eri nel gioco!», esclamò Michael dandomi una piccola spinta sulla spalla, sogghignando a sua volta. «Ci stavo quasi per arrivare, Dio!»

    «Ehhh...» sospirai e gli mostrai la lingua.

    Lui assunse un’espressione divertita e infastidita assieme, spalancò un po’ le labbra per dire qualcosa ma si trattenne.

    Sollevai le sopracciglia, sfidandolo con gli occhi. Egli si passò la lingua sul labbro inferiore e si accostò al mio volto: con pollice e indice di una mano mi prese entrambe le guance e le attirò a sé, stringendo piano e facendomi fare una smorfia buffa con le labbra. Lo fissai a lungo – o almeno mi parve che il nostro sguardo durò per molto – e lui ricambiò con un’intensità tale capace di uccidermi. I suoi occhi sembravano sorridere comunque, anche al di sotto del travestimento.

    Ma prima che potessi dire qualcosa, sentimmo i bambini urlare dall’entusiasmo.

    «Papà! Disneyland!»

    Paris, che se ne stava di fronte a me, si appiccicò al vetro oscurato con entrambe le mani, seguito da Prince che si sporse oltre suo fratello Blanket, senza schiacciarlo, il quale se ne stava a giocherellare con il pupazzo di Monsters & Co. su un seggiolino per auto; anche il piccolo sembrò sentire l’entusiasmo e l’ansia di tutti quanti.

    Michael mi mollò e io scostai il capo nel giro di un millesimo di secondo. Le palpebre si spalancarono e in lontananza vidi tutte le giostre del parco.

    Il cuore mi batté furiosamente in petto e tutti i muscoli del corpo s’irrigidirono. Il respiro si fece corto, ridotto ad un flebile soffio, mentre le mie iridi si velavano di lacrime. Mille emozioni diverse invasero il corpo.

    Era quello il sogno di una vita, uno dei tanti che avevo... andare a Disneyland, ritornare all’infanzia, al divertimento e alla spensieratezza. Ritornare ad essere bambina, giocare con i personaggi dei cartoni, andare su ogni giostra che avessi avuto sotto gli occhi e ridere... ridere fino allo sfinimento.

    E vedere i fuochi di artificio il giorno di Capodanno.

    Quante volte avevo sognato di trovarmi di fronte a quella meraviglia senza pari?

    Perché era lì, in quei parchi di divertimenti, che io potevo ritrovare una parte della vera me stessa. Potevo essere la bambina felice che un tempo ero stata, che aveva perduto la sua socievolezza così come la capacità di lasciarsi andare alla vita, vivendo senza pensare ai “se” e ai “ma”.

    Tutto ciò che in me sembrava essersi sbiadito con gli anni, non si era fatto ridurre in cenere dalle delusioni della vita. Era sempre lì, come il tizzone ardente di un fuoco che aveva perso la sua fiamma ma non il suo calore. Non potevo abbandonare chi ero stata, perché io avevo lottato per rimanere un po’ bambina; avevo graffiato, combattuto e mi ero rialzata dalle delusioni della vita con la consapevolezza che i miei sogni e le mie fantasie le avrei riposte in quel luogo, la terra Disney, e un giorno sarei tornata a riprenderli. Avrei trovato un modo per tornare nel posto dove, facendo un giuramento a me stessa, credevo di potermi sentire veramente a casa.

    Ci fermammo di fronte ai cancelli, in coda, ma prima Michael tirò la tenda e disse a Prince e Paris di sistemarsi per bene; prese Blanket in braccio e lo tenne stretto a sé. Le guardie del corpo, assumendo un tono felice e per nulla preoccupato, mostrarono dei documenti. Nel giro di qualche minuto e telefonata – che parve durare un’infinità di tempo – ci fecero entrare.

    Il mio sguardo, esattamente come una macchina fotografica, cercò di captare ogni cosa e imprimersela bene in testa, così da non potersela dimenticare in futuro. Non fu facile, perché non appena superammo i cancelli luci e colori di festa attraversarono i vetri oscurati. Una lacrima mi scese dagli occhi; la tolsi in fretta dalla guancia, affinché i bambini non se ne accorgessero.

    Tutti tranne Michael.

    Lo sentivo. Mi guardava profondamente, stupito della mia reazione. Mi levai una seconda lacrima e Paris mi scoprì piangere.

    «Sei triste, zia Sarah?»

    Tutta l’attenzione dei presenti fu su me.

    «No, no, non sono triste» esclamai scuotendo la testa e sorridendo. «Sono commossa e felice, tutto qui».

    La voce s’incrinò e tornai a guardare fuori per qualche secondo, come incantata.

    Con le guance arrossate, dovute all’attenzione assoluta di Michael nei miei confronti, gli gettai un’espressione di indescrivibile gioia. Mi aveva richiamato silenziosamente. Quel suo sguardo sbigottito non riusciva a credere che fosse la mia prima volta a Disneyland.

    Annuii piano. «Grazie».

    Se Michael avesse saputo subito cosa significasse per me essere là, probabilmente mi avrebbe subito stretto la mano.

    *

    Cenammo verso le sette di sera, non appena riuscimmo ad entrare in stanza e sistemare i bagagli nelle nostre camere. Passammo per una piccola entrata sul retro del resort, attraversando le enormi cucine, prendendo un ascensore verso il piano più alto dello stabile.

    Michael aveva prenotato una Villa, così si chiamava il tipo di suite che avevamo a disposizione, e offriva tutti i servizi possibili e immaginabili per il comfort d’un cliente importante. C’era una cucina, completamente attrezzata e utile ad una rapida colazione o a uno spuntino notturno, una lavatrice e asciugatrice, tre camere da letto e quattro bagni con spazio per un massimo di dodici ospiti.

    Una Villa poteva offrire quattro, cinque o nove posti letto. Michael scelse la più grande, quella da nove. I bodyguards si presero la parte di suite che offriva tre posti letto nella stessa camera. I bambini e Michael presero quella da quattro – la più grande – e Michael lasciò a me quella da due. Volendo avrei potuto dormire sul divano letto di fronte alla terrazza, ma Michael mi disse di no, categoricamente, affermando che sarebbe stato giusto che dormissi in una stanza tutta per me come una vera ospite. Da una parte non aveva torto, ma non sarei riuscita a dormire quella notte: volevo dedicarmi al panorama circostante come se fosse il mio ultimo giorno sulla Terra.

    Gli ambienti erano sorprendentemente illuminati – c’erano lampade e luci ovunque – e la varietà di legni e marmi pregiati utilizzati per la costruzione delle varie stanze era mozzafiato. A disposizione dei clienti c’erano anche frigorifero, ferro e asse da stiro, asciugacapelli e, infine, nel grande salotto, un balcone privato che dava dritto sulla ruota panoramica e sulle montagne russe.

    Più mi guardavo in giro, più mi sembrava di sognare.

    «Guarda papà!», esclamò Prince indicando il balcone. Si appoggiò ai vetri e guardò in direzione del castello. «C’è la ruota! Vuol dire che vedremo i fuochi da qui?»

    Michael annuì e si avvicinò al figlio, scostando una tenda bianca per vedere fuori. Le due guardie del corpo avevano già preso posto nelle loro stanze; Michael e i bambini guardavano tutto ciò che li circondava con aria curiosa mentre io, troppo scioccata per l’improvvisa sorpresa, me ne stavo ferma in mezzo alla stanza. Mi sentivo in un vortice di sentimenti quali gioia e sorpresa e, al contempo stesso, mi sentivo un po’ sola.

    «Sì, li vedremo da qui. È un po’ distante, ma mi è stato assicurato che questa è la suite più bella».

    Mi lanciò un’occhiata entusiasta e io non mossi neanche un muscolo del volto. Cercai di sorridere, ma tutto ciò che me ne uscì fu una smorfia tristemente sorpresa; mi sentivo presa in una morsa di malinconia e lui lo capì, pur non dicendo nulla al riguardo.

    Ci esaminammo a lungo, senza distogliere lo sguardo l’uno dall’altro.

    Fu come se avesse compreso senza neanche parlare.

    Paris – che teneva in braccio suo fratello Blanket, cercando di non farlo cadere a terra – si sedette sul divano e guardò il padre. «Quand’è che mangiamo, daddy? Ho fame...»

    Michael guardò la figlia come se si fosse risvegliato da un sogno ad occhi aperti.

    «Ordiniamo la cena in camera immediatamente». Mi lanciò un’ultima occhiata prima di dirigersi al telefono fisso, posto su un elegante mobile in legno bianco; prese la cornetta e guardò i suoi figli. «Intanto andate in camera e cominciate a sistemare le vostre cose... Prince, lascia pure la mia valigia, non ti preoccupare, arrivo fra poco...»

    Mi gettò un ultimo sguardo e io feci per aiutare i bambini con le loro valigie.

    «No», esclamò Michael «lascia che le portino loro, ognuno la sua. Non sono pesanti».

    «Giusto...», mormorai imbarazzata e mi diressi con il trolley in camera.

    Non appena vi entrai, presi un profondo respiro.

    Guardai il secondo letto, quello accanto alla finestra che dava sul parco. Mi ci sedetti sopra non appena posi la valigia sopra l’altro posto letto.

    Silenzio.

    Mi passai una mano sui capelli. Lo stomaco brontolò dalla fame. Mi misi una mano sulla pancia e chiusi gli occhi. Poco dopo mi alzai e mi diressi alla finestra... lentamente poggiai il palmo della mano sul vetro e il freddo contatto con quella solida materia mi fece rabbrividire.

    Anche se ci fossi stata una notte soltanto – e perciò non avessi potuto godere dei divertimenti del parco – sapevo che i sentimenti che stavo provando erano troppo grandi per essere espressi a parole. Michael mi aveva fatto un dono immenso – il regalo di una vita – e non dovevo essere triste. Non dovevo sentirmi malinconica. Ero lì. Questo era l’importante.

    Ad un certo momento udii un bussare alla porta. Mi girai, incredula del fatto che la cena fosse già arrivata, e vidi Michael con un piede sulla soglia, il quale senza aspettare una mia risposta aveva già aperto la porta. Mi guardava con un’intensità travolgente, e sotto la luce della stanza le sue iridi sembravano scintillare ancor più del normale.

    «Già chiamato?».

    «Sì, ora basta soltanto attendere...». Esitò. «Posso entrare?»

    Annuì e lo lasciai fare. Chiuse la porta dietro di sé e rimase in piedi a squadrarmi. Io non feci una mossa ma lo invitai ad avanzare e non starsene lì impalato, accennando ad una risatina. Michael non indugiò: nel giro di quattro secondi mi fu accanto, seduto sul letto, sempre con quegl’occhi scuri su di me.

    «Non sei mai venuta qui? Nemmeno una volta?», chiese piano.

    Sorrisi e scossi il capo. «No, mai, ma è sempre stato un sogno...». Osservai il panorama e la notte che era calata da un pezzo. «Fin da quando riesco a ricordare...»

    Un attimo di pausa.

    «Non mi sei sembrata molto felice, poco fa...»

    Emisi uno spasmo di risata per nulla allegra. «Non ero triste... ero solo molto – »

    «Sola...»

    Incrociai il suo sguardo e la vista s’appannò. Strinsi le labbra per trattenermi dal commuovermi. Michael mi scrutava con due occhi profondi, tristi e osservatori. Non gli risposi, ma tutt’e due sapevamo che aveva dato la risposta giusta.

    Abbassai gli occhi sul mio maglioncino e giocherellai con un ciuffo di capelli. Sorrisi malinconica.

    «Quando ero piccola desideravo visitare Disneyland più di ogni altra cosa al mondo». La mia espressione si addolcì. Guardai fuori dalla finestra. «A Disneyland ho riposto la mia innocenza. Quando dovevo obbligarmi a essere forte e tenere duro – per i sacrifici che facevo per pagarmi parte del college, o per le delusioni affettive che stavo vivendo all’epoca, o per la solitudine che provavo in generale – pensai che questo sarebbe stato il luogo dove mi sarei ritrovata. Qui non mi sarei dovuta sentire sola. Della serie: “Tu, innocenza, rimani qui al sicuro. Un giorno ti verrò a riprendere”. Lo so che è una cosa stupida da dire…».

    Fui immediatamente avvolta da dietro dalle braccia di Michael e quel suo gesto mi offuscò la vista per una seconda volta.

    «Io ti conosco» mormorò scoccandomi un bacio sulla tempia. Rabbrividii. «Ma se questo ti può far star bene – se raccontare il tuo passato può farti sentire amata – io sono qui... raccontami di te più di quanto io già non sappia... e non pensare che ciò che dici è stupido, perché non lo è», sussurrò stringendomi ancora di più. «Non dirlo neanche per scherzo»

    Mi voltai e abbandonai la testa contro il suo torace. Stetti in silenzio per qualche istante, mentre Michael non mollava la presa attorno a me.

    «La mia vita era vuota. Sebbene avessi una famiglia che mi appoggiava e non mi faceva mancare nulla, io mi sono sentita sola per molto tempo. E non era sempre colpa degli altri. Ero sola quando sono venuta qui, in America, ed ero sola anche quando ero in Italia. È un sentimento a cui non ho potuto sfuggire, non voltandogli semplicemente le spalle. Disneyland era un sogno, un sogno stupendo, che mi permetteva di rimanere salda a qualcosa... ma non è mai stato facile...». Presi un respiro tremante. «Io ero solo una bambina che cercava qualcosa a cui tenersi su per non crollare…»

    Strinsi la sua camicia e il mio seno s’alzò e s’abbassò velocemente a ritmo del mio respiro. Mi sembrava che il sangue pulsasse nelle tempie. Alcune gocce salate spuntarono dai miei occhi come spilli perforanti.

    Le labbra di Michael si adagiarono sulle mie guance, mentre le sue braccia mi cullavano e una mano scivolava tra i miei capelli, appoggiandosi amorevolmente sulla nuca.

    Prese una mia mano con dita tremanti e se l’adagiò sulle labbra.

    «Guardami un secondo...»

    Lo fissai tremante. I suoi occhi erano la grazia perfetta, un misto di amarezza e amore che non faceva che alimentare le vertigini che sentivo. Michael mi capiva, mi lasciava parlare e, anche se soffriva forse più di me in quel periodo, non smetteva d’amare. Era disposto a donare se stesso, nonostante lo stessero privando della serenità.

    Sorrise come un angelo. «I love you with all of my soul...»

    Le lacrime s’impossessarono dei suoi occhi. Le sue labbra, morbide e gentili, si poggiarono sulle mie gote di nuovo, a poca distanza dalla bocca, e premettero a lungo sulla pelle, inspirando a pieni polmoni.

    Per poco non mi sembrò che il respiro mi morisse in gola. Chiusi gli occhi per assaporare quella sensazione. Si separò di poco e affondò il viso fra i miei capelli, a contatto con l’orecchio. Lo stomaco si contorse, ma non a causa della tristezza o dei ricordi passati.

    «Non sarai mai più sola. Io sono tuo amico, lo sarò sempre».

    «Io…».

    «Hereafter...», sussurrò piano con il volto ancora immerso nei miei capelli. Lo sentii respirare a fondo e mi parve di sentirlo sorridere. «Forever».

    Sorrisi anch’io. «Anche io ci sarò sempre, qual...»

    Bussarono alla porta ed entrambi ci separammo l’uno dall’altro in un millesimo di secondo. Il cuore tumultuò. Michael mi guardò e mi asciugai gli occhi in fretta e furia.

    «Avanti?», dissi alzando la voce.

    Entrò una guardia del corpo, Wayne. Ci scrutò a lungo.

    «La cena è arrivata, signore».

    «Oh, bene», esclamò Michael, battendo le mani. Ci scambiammo un’occhiata d’intesa carica di dolcezza. «Andiamo...?»

    Annuii.

    Non detti retta alla guardia del corpo che, quando gli passai accanto, sorrideva.

    *

    «Dai, papà, stanno per iniziare!», esclamò Prince saltando sul posto.

    Paris era più agitata di lui, ma mai quanto me. Tenevo in braccio Blanket e andavo avanti e indietro per la stanza come una bambina in preda al panico, osservando insistentemente il paesaggio fuori dal balcone e la folla in lontananza. Le mani tremavano, mentre Blanket piagnucolava.

    «Voi andate fuori, io devo fare una cosa!»

    «Avanti Michael!», esclamai mordendomi le labbra. Egli mi puntò e ridacchiò per la mia reazione agitata. «Se ce li perdiamo è colpa tua! Avanti!»

    Ma Michael era già sulla soglia della sua stanza. La terrazza a porte scorrevoli aveva le finestre spalancate – una debole brezza ci risvegliava dal torpore della notte, portando con sé un clima di impazienza che si percepiva a chilometri di distanza; su due tavolini in legno, sul balcone, c’erano bibite, dolcetti e patatine per festeggiare alla grande.

    «Non ve li farò perdere se andate fuori e mi aspettate!», urlò dalla sua stanza. Una guardia del corpo era con lui e io non avevo la più pallida idea di cosa stessero architettando.

    La guardia in parte a me, scuro di pelle e con gli occhi nocciola, guardò l’orologio. «Mancano giusto due minuti!»

    «Oh, cazzo...», dissi in italiano. Presi un profondo respiro e uscii in terrazza seguita a ruota dai bambini. Il cuore stava per esplodermi in petto dalla trepidazione.

    Sto per morire, pensai.

    Poco dopo il bodyguard ci avvisò di nuovo: mancava un minuto. Sentii il cuore sobbalzare.

    Gli urletti eccitati di Prince e Paris mi misero ancora più ansia; mi presero per le braccia e le gambe, dicendomi quanto fossero felici e agitati. La mia espressione allucinata era tutto un programma.

    Le voci che partivano dal castello ci arrivarono come un eco.

    «Trenta secondi...»

    «Michael?!», chiamai rientrando, ridendo per il nervosismo. «Avanti, veloce!»

    Urlò di nuovo. «Abbiamo quasi finito!»

    Pochi secondi più tardi Wayne, che era entrato con lui, portò in salotto decine e decine di palloncini, facendoli cadere sui divani e sul pavimento. Michael era ancora dentro.

    Non detti molta retta ai palloncini, perché il conto alla rovescia finale incominciò.

    «Dieci...»

    Uscii fuori e Prince e Paris rimasero appesi al davanzale, stringendo le mani dei due bodyguard.

    «Nove...»

    I piccoli mi guardarono urlando i numeri assieme alle tante persone radunate davanti alla ruota panoramica.

    «Otto...»

    Tornarono con gli occhi sulla folla, muovendo i piedi e le braccia come impazziti. Io mi misi una mano sul cuore e tentai di contenere l’agitazione: era tutto troppo incredibile da credere possibile.

    «Sette...»

    Feci alcuni passi in avanti.

    «Sei...»

    Mi commossi e i piedi si bloccarono a pochi centimetri dalla balaustra in legno. Ero troppo pesante per potermi muovere, perciò rimasi lì, con Blanket che un po’ spaventato e un po’ incantato osservava la ruota panoramica.

    «Cinque!»

    Il respiro si mozzò in gola.

    «Quattro!»

    Una mano prese la mia e io la strinsi. Il profumo di Michael mi avvolse.

    «TRE!»

    Saperlo vicino era abbastanza, non mi serviva guardarlo negli occhi. Perciò feci scivolare le mie dita fra le sue, costruendo un intreccio perfetto che lui ricambiò con forza.

    «DUE!»

    Sorrisi e lo sentii prendermi con la mano libera un braccio.

    «UNO!»

    Un’ondata di brividi partì dai piedi alla testa, inaspettata come un fulmine a ciel sereno, e le lacrime scivolarono liberamente lungo le guance. Luci colorate si sparsero nel cielo e canti di gioia s’infransero su di me come un’esplosione in pieno petto.

    Botti e scoppi infransero l’atmosfera, colori e polvere di stelle s’incontrarono e scesero a terra, formando cascate di felicità e nuove speranze. Uno dietro l’altro i fuochi d’artificio scoppiarono nel buio dando vita a spettacoli meravigliosi.

    Avevo la pelle d’oca.

    Non sapevo come riuscissi a stare in piedi, né come la spina dorsale riuscisse a mantenersi rigida nonostante la sentissi sciolta e malleabile come cera liquida, e forse era proprio la salda mano di Michael a tenermi in piedi, a donarmi la forza di non cadere.

    Tutto si perse in un unico inestimabile momento.

    Ne era valsa la pena aspettare quasi ventinove anni per godere di quel momento? Era servito vivere anni di sacrifici e solitudine, per poi riuscire a incontrare Michael e ritrovarmi nel luogo dove avevo sempre sognato di appartenere? La risposta era sì. Assolutamente sì.

    Gli ultimi botti, uno dietro l’altro, dopo quasi dieci minuti di esplosioni e magiche emozioni, dettero il segnale che tutto stava finendo. Dipingevano la notte con tutte le sfumature dell’arcobaleno. Poi, una volta terminato lo spettacolo, sospirammo di gioia.

    Non mi ero nemmeno accorta che i bambini si erano accalcati a Michael e lo avevano abbracciato. Ma lui non aveva lasciato la mia mano.

    «Siete stati felici? Vi sono piaciuti?», sussurrò baciandoli.

    Il buio riavvolse il cielo. Musica e grida di auguri risuonavano nell’ambiente circostante. Sciolsi la stretta da Michael e lui mi fissò, sorridendo per il mio invano tentativo di passare inosservata mentre mi asciugavo le lacrime.

    «Zia Sarah, perché hai pianto?», mormorò Paris avvicinandosi a me, incuriosita.

    Ridacchiai, ma Michael mi anticipò. «Vostra zia non è mai stata a Disneyland, per questo era emozionata». Mi sorrise. «Ora il suo cuore è felice...»

    Sorrisi anch'io e mi presi un biscotto dal tavolino. Anche Blanket ne volle uno.

    «Bene, e ora possiamo continuare con i festeggiamenti», esclamò Michael in lontananza.

    Con un sorriso grande quasi come tutto il resort si diresse in salotto fra palloncini, stelle filanti, coriandoli, maschere e giocattoli. Risi, stupita; si mise un cappello da pirata in testa e brandì una spada, poi fece l’inchino levandosi lo strano berretto dal capo.

    «Siete pronti a combattere?»

    I bambini corsero verso di lui, afferrando i palloncini e lanciandoli in aria. Le loro risate s’infransero nell’aria tintinnando come il rumore di campanelle di cristallo. Michael rise e i suoi occhi scuri mi invitarono a far parte della loro felicità. Ricambiai e mi incamminai verso di loro.

    Ero felice.



    Edited by fallagain - 5/4/2020, 12:36
     
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    Capitolo Ventidue: La Mia Luna

    I bambini andarono a letto poco dopo l’una di notte, stanchi morti. Blanket già dormiva da un pezzo. Quand’anche gli altri due lo raggiunsero, non esitarono a lasciarsi scivolare immediatamente in un sonno profondo. Non erano abituati a quegli orari.

    Le guardie del corpo si ritirarono nella loro stanza, quella accanto ai bambini, e io uscii sul davanzale, approfittando del fatto che Michael era in camera dei figli; presi un bicchiere di Coca Cola e mi sedetti su una sedia lì vicino.

    Chiusi gli occhi e inspirai l’aria di magia che c’era intorno.

    Passai altri cinque minuti così, forse anche meno, prima che Michael comparisse alle mie spalle e mi facesse morire di paura, ponendomi una mano sulla spalla senza che me lo aspettassi.

    «Non riesci a dormire?» sussurrò sorridente.

    Ricambiai il sorriso. «Penso che mi godrò il momento...» e guardai dinanzi. «Tutto è pieno di incanto, merita che io lo possa guardare anche solo per una notte...»

    Prese una sedia alzandola piano e sistemandola accanto a me. Prese un bicchiere di spremuta e una pizzetta che addentò e mangiò in un batter d’occhio. Si sedette. Il suo sguardo era perso nell’orizzonte quando i suoi occhi divennero improvvisamente tristi.

    «Mi dispiace, Sarah... se avessi saputo quanto fosse stato importante per te questo posto, ti avrei portato o lasciato fare un giro. Purtroppo non è il mio momento migliore… e non voglio che si sappia che sono qui».

    Sorrisi del suo sguardo rattristato. «Non lo potevi sapere, non ne abbiamo mai parlato! E poi sono felice di aver assistito ai fuochi, è il dono di Natale – o di compleanno, visto che è fra poco – migliore che avresti potuto farmi! Non immagini quanto tu mi abbia reso felice oggi»

    «Sei felice comunque?» chiese titubante.

    Rotei gli occhi al cielo. «Se ti dicessi che sei l’unica persona su questa Terra ad aver realizzato uno dei miei più grandi sogni, che mi diresti?»

    «Direi che sono un uomo fortunato...», rise piano, guardandosi le ginocchia.

    Serrai le palpebre quando un colpo di vento mi scosse i capelli.

    «E tu?» chiesi qualche minuto dopo. «Tu sei felice? Come ti senti?»

    Michael lasciò cadere la testa all’indietro, respirando profondamente. Assunse una smorfia pensosa, sussurrando un “Uhm” a fior di labbra, e poco dopo mi osservò intensamente.

    «Tu come pensi che io stia?»

    Storsi le labbra. «Te l'ho fatta prima io la domanda».

    «Dai, avanti...!» Rise e mi dette una spintarella al braccio. «Voglio vedere quanto riesci a capirmi... cerca di comprendere cosa sto pensando o provando adesso»

    Sospirai e mi concentrai sul suo sguardo. Era intenso, forse anche troppo, e mi studiava dentro l’anima senza che io gli avessi dato il permesso di farlo. Le sue iridi possedevano una luce incredibile, ma non sapevo definire che tipo di sentimento fosse. Avevo sempre immaginato i suoi occhi come ossidiane nere, due pietre preziose e lucenti. Talvolta erano lo specchio della gioia, altre volte erano colmi di una tristezza indicibile.

    Come facevo a rimanere concentrata se Michael mi studiava in quel modo?

    «Sembri...» inclinai il capo da una parte, corrugando le sopracciglia e la bocca. «Al momento sembri tranquillo, felice... non mi sembri angustiato... sei… pensieroso...»

    Accennò un sorriso. «E perché pensi sia pensieroso? O felice?»

    «Non lo so, onestamente. Ma se ho indovinato, ti auguro di essere felice per davvero. E che i tuoi pensieri siano gioiosi».

    Michael s’accigliò, ammirato dal mio comportamento, segno che avevo detto la cosa giusta. Sorrisi e poi mi chiesi se fosse davvero contento o se sotto quell’occhiata ci fosse dell’altro che mi nascondeva.

    «Non sei triste, vero?» mormorai.

    Esaminò ogni dettaglio del mio viso. Guardò dinanzi e sorrise mestamente. C’era qualcosa che mi nascondeva, lo sentivo.

    «In verità...» sussurrò, intrecciando le dita delle mani e poggiandole sulla pancia. «Non lo sono... non ora... mi sto godendo un po’ di aria pulita, molto più di quella che c’è a Neverland, ma...» Schioccò la lingua al palato. «C'è qualcosa che mi tormenta...»

    «Te la senti di parlarne?»

    Mi studiò impenetrabilmente. Vidi quella scintilla di luce guizzare ancora una volta nei suoi occhi. Gli angoli della bocca si alzarono in un sorriso malinconico, non appena inclinò il capo verso il basso e si umettò le labbra con fare nervoso. Sembrava agitato. Più il suo silenzio aumentava, più si muoveva sul posto, cambiando sempre posizione delle gambe o delle braccia.

    Ingoiò rumorosamente la saliva. «Credo... credo di non voler più tornare a Neverland... quel posto... ho bisogno d’altro, ho bisogno di un luogo più...»

    «Più sereno?»

    Gli mancò il respiro. «Sì, diciamo di sì... più puro...»

    Mi gettò un’occhiata eloquente, tentando di comunicarmi qualcosa che non fui in grado di comprendere. Non riusciva a dirlo a parole... magari sperava che fossi io a tirargliele fuori con la forza.

    «Per quello che ha fatto la polizia? Cerchi un luogo dove sentirti più protetto, che non è stato ancora deturpato dalla sua... uhm... innocenza?»

    Tirò un sospiro profondo. «Sì, anche...»

    Si umettò le labbra e ammirò il vuoto per un po’.

    «Neverland è importante, ho molti ricordi... io... io non so se cerco precisamente un posto!» Aggrottai le sopracciglia e lui guardò in alto, cercando le parole adatte. Gesticolò a vuoto. «Io ho bisogno di amore, di un qualcosa che mi tenga al sicuro! Ho bisogno di rinascere, ma soprattutto di trovare forza, coraggio... il mio cuore deve volare di nuovo!»

    Se ci fosse stata la luce del giorno e non avessi pensato di aver visto male, avrei potuto dire che stava arrossendo. Era così impacciato che mi faceva tenerezza. Di colpo tutto si fece più chiaro. Almeno così credetti.

    «Aspetta, Michael...» mormorai poggiando i gomiti sulle ginocchia. I suoi occhi mi osservavano in attesa, quasi allarmati. «Tu non stai parlando di un posto dove vivere, non è così? Correggimi se sbaglio, perché mi sa che non ci arrivo da sola…» ridacchiai imbarazzata.

    Lui non rideva. «No, non è un posto...»

    Drizzai la schiena e lo guardai sorpresa. Michael svoltò la sua attenzione altrove, solo per sfuggire al diretto contatto coi miei occhi. Quella conversazione lo stava più mettendo a disagio che a suo agio, ma ero sicura che volesse tirar fuori ciò che lo angustiava.

    «Tu stai cercando l’amore di una donna?», domandai perplessa.

    Il suo tentativo di evadere il discorso crollò come un castello di carte. I muscoli del corpo e della faccia s’irrigidirono, bloccandolo in una morsa d’acciaio, e le palpebre si spalancarono sempre di più. Michael buttò fuori l’aria con un sussulto. Si morse le labbra e annuì piano.

    «Scusa... non vorrei farti altre domande di questo genere, però... la ragazza di cui sei innamorato? Non siete fidanzati?»

    Sembrò quasi sul punto di scuotere la testa, ma le sue iridi s’incatenarono alle mie prima che potessi dare giudizi troppo affrettati. Mi sentivo confusa.

    «Siamo fidanzati, sì, più o meno...»

    Corrugai la fronte. «Mmh».

    Il suo sguardo non la smetteva di puntarmi seriamente.

    «Be’, se lei ti ama davvero, non ti devi preoccupare di nulla. Insomma, quel più o meno non mi convince molto, te lo devo dire sinceramente, ma la cosa migliore da fare è parlarle. Essere onesti l’uno con l’altro. Parlale dei tuoi sentimenti. Se ti ama, sono sicura che ascolterà i tuoi bisogni e ti renderà veramente felice. Forse ti senti così perché ti manca e basta, in questo periodo...»

    Sorrisi e mi interruppi. Michael era sul rischio di un attacco d’ansia immediato e non volevo renderlo nervoso, non quando si stava godendo un momento di relax. Mi alzai per prendere qualcosa da mangiucchiare e gli passai di fronte senza più dire nulla; era completamente perso nel buio della notte, assieme alle sue silenziose riflessioni.

    Tornai a sedermi con due pizzette, soddisfatta di mettere qualcosa sotto i denti che fosse salato.

    «Sarah...» sussurrò. «Posso farti una domanda un po’ personale?»

    Mostrai un’espressione di finto terrore. «Mi spaventi quando usi questi toni, lo sai?»

    Ridemmo entrambi. Se solo avessi posto più attenzione alla verità di quei suoi occhi scuri, sarei stata in grado di capire ogni cosa.

    «No dai, dimmi. Non ho problemi a rispondere ad alcun tipo di domanda», sorrisi.

    Si umettò il labbro inferiore e accavallò le gambe, scoccandomi uno sguardo perplesso. «Sei innamorata?»

    Attimo di silenzio pesante.

    Io guardavo lui e lui guardava me, ma sicuramente sembrava più in agitazione Michael che io. Anzi, la sottoscritta cominciò a ridere.

    «No» scossi la testa con divertimento. «Non lo sono. Non lo sono più da anni, ormai» mormorai cupamente. «Questo sia perché ho paura di innamorarmi, sia perché sono diventata molto più selettiva con gli anni. Mi affeziono facilmente – anche se non sembra – e ora che ho quasi ventinove anni ci tengo a fare le cose per bene. Non voglio scegliere la prima persona che capita a casaccio. Voglio scegliere quella giusta, possibilmente». Tirai un profondo respiro. «Ma a volte penso che l’uomo dei miei sogni non esista».

    Mi ammutolii per qualche istante.

    «E come sarebbe l’uomo dei tuoi sogni?»

    «Forse chiedo troppo» dissi piano, mentre Michael non sapeva in che posizione mettersi per ascoltarmi. «Anzi, sicuramente chiedo troppo. Ma penso che la persona giusta sia semplicemente qualcuno che mi sappia amare. Ma amare veramente. Mi piacerebbe un uomo maturo, che sappia quel che vuole e non abbia paura di lottare per mantenere vivo un rapporto... e che sappia prendere l’iniziativa». Ridacchiai imbarazzata. «Qualcuno che sappia farmi ridere… che sappia come prendermi nei miei momenti brutti e in quelli belli – e io lo stesso con lui. In una relazione si cresce assieme. Non importa quali o quanti difetti uno abbia, neanche io sono perfetta, perciò mi basta che sia un rapporto di onestà e lealtà reciproca. Mi piacerebbe qualcuno che sappia vedere oltre... sì, insomma, che mi veda per quello che sono davvero e che mi aiuti a tirare fuori il meglio di me.

    Non sto cercando di essere salvata da qualcuno. So salvarmi da sola. Vorrei solo una persona che resti, che non mi faccia sentire in dubbio o insicura di me stessa. L’amore deve arricchire, non impoverire».

    Sospirai e lasciai cadere la schiena sulla sedia.

    «E tu?» chiesi fissando Michael sorridendo. Lui alzò le sopracciglia, confuso, e il suo silenzio mi fece intuire che stava meditando molto. «So che hai già una ragazza, ma… com’è la donna dei tuoi sogni?»

    Alzò lo sguardo. «Well...» sogghignò, «diciamo che è molto simile al tuo principe azzurro, solo in versione femminile. Mi piacciono le donne che sanno essere bambine, che vogliono giocare e divertirsi, che sono allegre quanto posate e dolci. Ma con la testa sulle spalle. Ammiro l’eleganza e la classe, la lealtà e la bontà d’animo, ma anche l’intelligenza e l’empatia.

    Con gli anni la possibilità di incontrare una donna del genere è praticamente scomparsa. Sono decisamente molto più selettivo di un tempo, esattamente come te. Tutte le donne hanno un loro fascino, chi per una cosa e chi per un’altra. Alcune sono speciali, uniche nel loro genere, belle come un gioiello prezioso, altre invece hanno bisogno di crescere, non importa quanti anni abbiano».

    Avrei potuto spendere una notte intera, lì, a sentir Michael parlare delle donne e di tutto ciò che amava in loro, come anche di ciò che invece non apprezzava. Quando gli dissi quanto lo rispettassi e lo ammirassi per ciò che aveva detto, sghignazzò tutto imbarazzato; tutt’e due capimmo che eravamo più simili di quanto credevamo.

    Sorrisi.

    Passammo gran parte della notte tra momenti di assoluto silenzio e fitte chiacchierate o risate spensierate. Parlammo di un po’ di tutto, ma soprattutto di infanzia, cartoni, giocattoli, ogni cosa che riguardasse il tema bambini; parlammo di sogni infantili, di desideri, di fantasia.

    Dopotutto, eravamo a Disneyland.

    Andammo a dormire verso le tre di notte e partimmo solo qualche ora più tardi, verso casa. Il cuore soffrì per la partenza. Quel giorno i raggi solari battevano sulla terra attraversando un cielo senza nuvole. Gli occhiali da sole riuscirono a nascondere la mia tristezza.

    Solo le dita di Michael, strette tra le mie, furono in grado di infondermi gioia e serenità.

    *

    Passò qualche settimana dal primo gennaio e successero parecchie cose; molte cambiarono, a cominciare dalla residenza.

    Come Michael aveva detto giorni prima del 31 dicembre 2003, non aveva più intenzione di abitare a Neverland; comprò una casa a Beverly Hills, su una collina alberata che dava su un parco per bambini, con tanto di campo da tennis, piscina e palestra. Era enorme, più grande del residence di Neverland. La casa era colorata di bianco all’esterno, mentre l’interno era tutto in legno – non magica come la tenuta precedente, ma tuttavia incantevole. Aveva dieci camere da letto, enormi stanze e finestre, e una grande meravigliosa terrazza al primo piano.

    I bambini ebbero ognuno la propria stanza; anche Blanket ne ottenne una, accessibile direttamente a quella di Michael, nel caso in cui il bambino avesse bisogno immediato del padre. Io dormivo vicino a Prince, di fronte alla camera da letto di Michael: la sola cosa che ci divideva era un ampio corridoio. Entrambi disponevamo di finestre enormi e perciò – se volevamo – potevamo salutarci da una camera all’altra senza neanche aprire le porte delle nostre camere.

    L’Isola che non c’è avrebbe continuato a vivere – andavamo a visitarla ogni settimana, quasi esclusivamente per portare i bambini a giocare, pernottando solo nel weekend. Per Michael erano dolori rivedere quella dimora, visto che cominciava ad abituarsi a quella nuova, anche se non del tutto; la pena che provava nel dover lasciare Neverland era un peso enorme da sopportare, poiché era in quella abitazione che aveva modellato il suo Io bambino e la sua infanzia mancata, nonostante tutto fosse stato tutto deturpato dalla polizia.

    Per i bambini non fu difficile reggere il trasferimento, anzi, la presero come una nuova entusiasmante avventura. La cosa più complicata per tutti fu fare i bagagli: tutti quanti – Michael soprattutto – avevamo un sacco di cose da portare via. Decidemmo perciò di fare le cose con calma e di utilizzare quei weekend in cui andavamo a far visita a Neverland per prelevare tutto ciò che ci serviva e che rimaneva dei nostri bagagli, anche se una parte l’avremo lasciata lì, in caso di un pernottamento più durevole.

    Il 16 gennaio ci fu la prima udienza preliminare in tribunale, a porte chiuse, a Santa Barbara.

    Il giudice negò alle telecamere di entrare in aula, quando più di 100 organizzazioni e media di tutto il mondo avevano richiesto l’accesso. Decine di autobus carichi di fan arrivarono di fronte al tribunale prima dell’alba di quel giorno, con tanto di cartelloni, striscioni e carri che supportavano Michael.

    Quest’ultimo fu in preda al panico e intrappolato in una sorta di silenziosa rabbia per i tre giorni precedenti all’evento. Fu terribile vederlo in quello stato, nervoso e angosciato, e tentai in tutte le maniere di consolarlo e assicurargli che non ci sarebbe stato nulla da temere. Ogni notte andavo a trovarlo nella sua stanza per dargli una mano a reggere quel peso terribile, standogli vicino o tenendogli la mano per ore, mentre lui si sfogava camminando avanti e indietro per la camera e si risiedeva sul letto per raccontarmi come si sentisse inquieto e arrabbiato. In quegli ultimi giorni decidemmo di comune accordo che avrei dormito con lui.

    Anche i membri della famiglia – quelli che lui descrisse come sua madre e i suoi due fratelli Jermaine e Randy – la mattina del sedici si presentarono ai cancelli della residenza di Beverly Hills, lei vestita con uno stupendo color lavanda e i due fratelli in un elegante abito nero e blu scuro, per fargli compagnia in quella giornata difficile.

    Ma quello era solo l’inizio.

    Michael si vestì con giacca e pantaloni neri, sotto una camicia bianca e – sul braccio destro – una fascia dello stesso colore. La sua famiglia non entrò in casa, lo aspettò fuori, e quel giorno anche Grace andò con lui, oltre a gran parte del suo staff più intimo; fu Michael che mi chiese di stare con i suoi bambini e sapevo era la cosa più giusta da fare... io avrei dovuto portare avanti le lezioni e lui mi disse – la sera prima – che sarebbe stato meglio per la mia sicurezza personale, per il mio umore e per i suoi figli.

    Fu Michael a raggiungermi in camera mia, poco prima di partire, bussando leggermente alla porta mentre io mi mordevo le mani; non ero ansiosa per cosa sarebbe successo, ma per lo stato d’animo di Michael. Inoltre l’idea di non essergli vicino, pronta a fargli percepire il mio affetto, mi faceva rodere lo stomaco; mi conosceva e aveva cercato in tutte le maniere di tranquillizzarmi, mentre io tentavo di tranquillizzare lui.

    Mi ricomposi dallo stato di inquietudine che provavo e lo feci entrare in camera. Rimase sulla soglia per parecchi istanti e fui io a raggiungerlo.

    Mi disse che presto se ne sarebbe andato in tribunale, che avrebbe tentato di farsi forza, e che gli sarebbe dispiaciuto non avermi là. Non appena mi disse che avrebbe dato prova della sua forza di carattere, lo abbracciai calorosamente. Ricambiò la stretta con un’energia tale che sembrava cercasse di aggrapparsi a me per non crollare a terra.

    «Sarai fortissimo», gli sussurrai, baciandolo su una guancia. I suoi occhi si chiusero e respirò a fondo. «Sono sicura che ti farai valere. Non avere paura di loro, io credo in te. I fan credono in te! La tua famiglia pure. Non sei solo, ci siamo noi. Sei indistruttibile. Ricordalo sempre».

    Lui mi accarezzò la guancia con il dorso della mano.

    «Non so proprio cosa farei senza il tuo appoggio...» I suoi occhi erano sul punto di lacrimare. La voce bassa non riusciva a tradire la nascosta tristezza del suo sguardo.

    Sorrisi dolcemente. «Io credo in te e ti appoggio perché sei mio amico, e ti voglio bene. Ora vai! Altrimenti farai tardi!», dissi gesticolando in modo buffo, tentando di mettergli allegria.

    Lui annuì e mostrò un debole sorriso addolcito, dandomi un ultimo affettuoso abbraccio e un energico bacio sulla fronte. Quando fu in procinto di scendere le scale lo richiamai; lui si voltò e mi guardò dubbioso, con in mano un paio di occhiali da sole per nascondere i suoi occhi tristi al pubblico.

    Strinsi un pugno e lo alzai, portandolo a poca distanza dal viso. «Non sono cose belle da dire, essendo una donna, ma mi raccomando...», il suo sguardo si fece interrogativo al mio tono fiero ed vivace. Sorrisi sorniona. «Fai loro il culo, Michael!»

    Lui rise piano, scuotendo la testa. Qualcuno lo richiamò dalle scale al piano terra e lui annuì, urlando un “Arrivo!” pieno d’emozioni; mi fissò un’ultima volta e, posando le dita della mano destra sulle labbra, mi mandò un bacio a distanza. Io sorrisi. Mi sussurrò uno dei suoi tipici “I love you more” e scese le scale, uscendo di casa e lasciandomi in una fitta coltre di pensieri.

    *

    Fui tesa per tutta la mattinata. Perfino i bambini erano nervosi... e con molta probabilità delle cose lo erano perché percepivano quelle emozioni da parte mia. Ma finsi abbastanza bene con loro. Concentrandomi solo sui figli di Michael, le ore passarono più o meno veloci.

    Michael arrivò con Grace e alcune guardie del corpo a casa nel primo pomeriggio. Michael scomparve in camera sua e ci rimase fino a sera. Io dovetti finire le lezioni pomeridiane con Prince e Paris, con un terribile magone sullo stomaco che non prometteva nulla di buono.

    Alle quattro e mezza spaccate, non appena Prince e Paris terminarono le lezioni e Grace decise di portarli a fare un giro con Blanket, accorsi in camera di Michael. Mi lasciò entrare senza che io gli chiedessi il permesso, frattanto che lui passeggiava per la stanza nervosamente; mi sedetti sul suo letto e lui mi raccontò ciò che era successo, come i suoi fan lo avessero appoggiato, come il giudice si fosse arrabbiato per il suo ritardo di venti minuti in tribunale, delle mosse di danza sopra la macchina... e della cosa che più lo aveva fatto adirare, ossia un poliziotto che aveva spinto a terra un suo fan.

    In tono molto irato, ripetendo sempre più o meno le stesse cose, esprimeva tutta la sua rabbia verso quell’uomo, usando un linguaggio colorito che mai mi sarei aspettata da parte sua. Alzando l’indice verso l’alto, imitò che cosa aveva detto: «Tu non tocchi i miei fan, fanculo!».

    Finito lo sfogo si sedette sul letto in parte a me, lo abbracciai.

    Il silenzio prese il posto delle parole. Ad un certo punto, distesi entrambi a pancia in su a guardare il soffitto con aria vacua, mi guardò, con occhi seri e intensi. La rabbia di prima scemò pian piano, dando spazio a riflessioni oscure e amareggiate.

    «Pensa se fossi stata tu quel fan...»

    Schioccai la lingua al palato, guardando il soffitto. «Ah be’! Di sicuro non appena mi rialzavo da terra gli tiravo un calcio nei cosiddetti!», risi. «Poi finivo in galera, ma almeno ci andavo contenta e soddisfatta!»

    Lui non rise, nonostante gli angoli della bocca si alzarono percettibilmente. Il mio riso scemò e si trasformò in un cenno di mogia allegria.

    «Probabilmente, se fossi stata al posto di quel fan... la cosa che mi sarebbe venuta più semplice sarebbe stato fulminarlo con lo sguardo. Credimi, sono capace di uccidere con solo un’occhiata, se mi metto».

    «Sì, lo so che sei una donna feroce» sorrise e io sghignazzai, lasciando andare tutta la tensione. Lui mi ascoltò ridere e poi ritornò cupo. Il viso si contrasse. «Credo che se tu fossi stata lì e se quel poliziotto ti avesse trattato così male, sarei sceso dalla macchina e...»

    La rabbia gli fece perdere le parole.

    Gli sventolai una mano davanti al viso. «Sì, lo so, lo so! Gli avresti dato un pugno che non si sarebbe mai più scordato per il resto della sua vita!» ridacchiai.

    «Sono serio, Sarah», impedì ogni mio tentativo di sdrammatizzare. Si mise d’un fianco per potermi guardare meglio. Il suo sguardo era duro. «Non so che cosa sarei stato capace di fare, ma sarei stato pericoloso. Sarei veramente sceso dalla macchina, per te...»

    Gli sorrisi e guardai il soffitto.

    Dovevo ammettere che vedere un Michael arrabbiato mi eccitava parecchio. Non lo pensavo in un contesto sessuale con me – non ero ancora arrivata a quel punto –, però non potevo negare che non stimolasse i miei ormoni, donandomi una leggera euforia.

    «Grazie...»

    Silenzio.

    «Non mi credi?»

    I miei occhi guizzarono verso di lui. Non seppe se respirare, parlare o starsene zitto; puntò un gomito sul materasso e inclinò il capo.

    «Pensi che non ti difenderei in una situazione del genere?»

    «Penso che lo faresti, ma non a livelli così esagerati...» mormorai intimidita dal suo sguardo acceso di rabbia. «Sì, insomma, credo mi difenderesti... forse non come quel fan, ma...»

    Corrugò le sopracciglia, dopodiché s’accostò al mio viso. «Tu meriti protezione esattamente come la meritano i miei fan! Tu e loro mi avete dato e continuate a donarmi un amore incondizionato, cosi come lo fanno i miei figli».

    Invaghita da quelle parole lasciai che il silenzio scendesse fra noi un'ulteriore volta. Lo sguardo d’uno era allacciato a quello dell’altro.

    Nel tempo che spendemmo in quella fitta assenza di rumori, le sue mani scivolarono verso i miei capelli, sistemando dei ciuffi ribelli al loro posto.

    Mi privava della capacità di parlare.

    *

    Passarono i giorni e la tensione per l’udienza preliminare scomparve dal corpo e dall’anima di Michael. Lo stress si fece meno e in meno di una decina di giorni tornò a giocare con i suoi figli e sì, anche con me.

    Ad ogni modo, anche se la rabbia si placò, non smise di domandarmi se la notte volessi fargli compagnia, anche solo leggendo un libro, guardando un film o parlando di tutto quello che ci passasse per la testa; scoprii quanto spiccata e intelligente fosse la sua persona, ma soprattutto che uomo profondo e di cultura egli fosse. Riusciva a parlare per ore se gli si dava la spinta per farlo. Formavamo tesi e discorsi su materie importanti, come anche per quelle più futili e superficiali.

    Dialogare con lui era come parlare con un’infinita fonte di informazioni; le sue parole entravano in me e mi rischiaravano l’animo, facendo scintillare i miei occhi dall’interesse. La maggior parte dei casi la pensavamo entrambi allo stesso modo, ma se c’era qualcosa in cui avevamo opinioni differenti discutevamo apertamente, senza litigare e soprattutto accettando l’opinione dell’altro. Entrambi sapevamo darci rispetto reciproco.

    Era stupendo aver qualcuno con cui cercare il senso profondo delle cose. A fine serata andavo a dormire con la mente stanca e un sorriso sulle labbra: il cuore si alleggeriva ogni qualvolta fosse presente. Tutto il giorno aspettavo che si facesse sera per andare a trovarlo.

    Durante i giorni del 24 e 25 gennaio, l’ultimo weekend del mese, tornammo come di consueto a Neverland.

    Il venticinque avrei compiuto gli anni – ventinove, ormai – ma non accennai la cosa a nessuno. Non volevo apparire egocentrica. Inoltre, non volevo che mi si facessero regali, soprattutto da parte di Michael; mi chiedevo anche se qualcuno se ne sarebbe ricordato, perciò me ne stetti buona e zitta per tutta la giornata del 24.

    L’indomani, il 25, mi svegliai tardi, destata da un forte battito alla porta della mia vecchia camera da letto. Con gli occhi ancora socchiusi e la voce gracchiante mi alzai in posizione seduta; stiracchiandomi, emisi un sottile “Avanti” e la porta si spalancò: Prince e Paris sbucarono da oltre lo stipite della porta con sguardo gioioso e impaziente.

    «Buongiorno...», mormorai sorridendo, strofinandomi gli occhi.

    Non feci tempo a chiedere che ore fossero o come stessero quel giorno, che subito le loro labbra si ampliarono in un gran sorriso, e urlando eccitati mi gridarono «Tanti auguri zia Sarah!».

    Io li fissai a bocca aperta, meravigliata, e loro corsero sopra al mio letto felici, saltandovi sopra e avvinghiandosi al mio petto; mi dettero entrambi un bacino sulle guance. Nei loro occhi scintillava contentezza allo stato puro, cosiccome nei miei.

    «Oddio, grazie!», esclamai ridacchiando imbarazzata. «Non pensavo ve lo sareste ricordato...»

    «Perché no?», domandò Prince.

    «Be’...». Pensai a Michael. «È passato taaanto tempo dall'ultima volta in cui ve lo feci presente...»

    «Sì che ce lo ricordiamo!», disse Paris prendendomi per un braccio, inducendomi a scendere dal letto. «Però ora devi seguirci, abbiamo una sorpresa per te!»

    Risi. «Andiamo allora!»

    Mi diressi con Paris e Prince nella stanza dedicata all’apprendimento scolastico. C’era anche Grace e teneva in braccio un Blanket tranquillo e pacifico. Si chinarono su un baule in fondo alla camera – dove c’erano giocattoli, strumenti per disegnare e colorare, ecc. – ed estrassero una sottospecie di poster gigante arrotolato. Con il mio aiuto lo poggiammo sul tavolo e non appena si sedettero sulle sedie lo aprirono.

    Il grande disegno, fatto con matite colorate e ridefinito in alcuni dettagli con i pennarelli, ritraeva un grande prato verde scuro e, in lontananza, le giostre di Neverland (una ruota panoramica e il carosello). Nel cielo azzurro splendeva un sole giallo e arancione, e tanti palloncini rossi e blu volavano liberi verso l’alto. Sul prato, in primo piano, c’erano sei personaggi, e tutti si tenevano per mano... in alto c’era scritto: “Buon compleanno! Ti vogliamo tanto bene!”, e in seguito le firme.

    «Quelli siamo noi?», domandai con la voce rotta dalla emozione.

    «Sì» disse Paris. Li indicò uno per uno. «Questi siamo io e Prince che ti teniamo la mano... e qui, in mezzo, ci sei tu, vedi? Poi in parte a me c’è papà, con Blanket e Grace...»

    Guardai il dipinto in ogni dettaglio, andando oltre al fatto che fosse un semplice disegno di bambini di sei e cinque anni, e mi sentii felice. Lo vidi assolutamente perfetto, non importava se non fosse colorato bene o se le parti del corpo non fossero ben proporzionate. Sentirmi parte di un disegno così era un onore, poiché era come sentirsi parte di una nuova famiglia... una famiglia dove l’amore era l’essenziale.

    «Vi voglio tanto bene...», mormorai abbracciandoli, stringendoli forte. Loro risero di gioia mentre io tentavo di trattenere la commozione. «Vi giuro, questo lo appendo in camera, vicino al mio letto, cosicché possa sempre vederlo! È uno dei più bei regali che abbia mai ricevuto finora!»

    Prince sussultò estasiato. «Davvero?»

    «Ve lo giuro!», annuii, dando ad entrambi un buffetto sulla guancia.

    Improvvisamente mi ricordai che mancava qualcuno all’appello, qualcuno di molto speciale. Un amico carissimo. Aspettai che Michael sbucasse dalla porta di punto in bianco, sorridente, e che mi facesse gli auguri; dopotutto prima o poi sarebbe venuto fuori, sarebbe apparso, anche solo per salutare.

    Ma lui non si fece vedere per tutto il giorno.

    «Papà ha detto che torna stasera per cena», disse Paris amaramente.

    Le illusioni che mi ero costruita in pochi minuti crollarono nel giro di un secondo. Egoisticamente, desideravo sentirgli dire “Tanti auguri” con la sua voce bassa e dolce e abbracciarmi. Nessuna stretta era affettuosa come la sua. Non mi serviva un regalo, ma il sospetto che stesse architettando qualcosa mi passò per la testa; non volli farmi troppe illusioni, perciò decisi di attenderlo per cena e aspettare.

    Passai un pomeriggio tranquillo, a volte passandolo con i bambini e a volte ritirandomi nella mia stanza per leggere o telefonare a quelle poche amiche che mi facevano gli auguri, compresi i miei genitori. Mi pareva una giornata come tutte le altre dopotutto, fra le risate e i giochi dei bambini e i miei momenti di riflessione totale, dove mi immergevo nel mio mondo di scrittura e lettura; fu difficoltoso rimanere serena quando in realtà non vedevo l’ora di incontrare Michael.

    Alle sei e mezza Michael arrivò. Entrò dalla porta di casa e salutò tutti noi con un lieve sorriso, il telefono cellulare in un orecchio. Ci disse, salendo le scale, di aspettarlo in sala da pranzo. Così facemmo.

    Qualche minuto più tardi arrivò, si sedette a tavola chiedendoci come fosse andata la giornata ma non emise alcuna frase d’auguri. Io lo guardai a lungo, indecisa se ridere o far finta di niente. Grace tratteneva un sorriso. Perfino i piccoli sembravano stupiti, e dopo vari minuti passati a guardarsi fra loro dubbiosi – mentre io fingevo indifferenza e tranquillità e pregavo affinché non dicessero nulla – lui si accorse del silenzio imbarazzante. I suoi occhi vagarono su tutti i presenti. Desiderai scomparire dalla faccia della Terra o sotterrarmi sotto il tavolo.

    «Che c’è?» domandò piano, sinceramente perplesso.

    «Non fai gli auguri a zia Sarah?» chiese Prince aggrottando la fronte.

    Lo sguardo di Michael s’adagiò su di me. Io lo fissai di sottecchi e sorrisi divertita, mentre le sue labbra si spalancavano dallo stupore. Con le palpebre sbarrate sorrise imbarazzato. Ricambiai con una risatina leggera di divertimento, annuendo piano e arcuando le sopracciglia.

    «Oh mio Dio...» Si alzò da tavola e mi venne accanto. «Scusa, davvero Sarah, me lo sono dimenticato... buon compleanno!» mormorò abbracciandomi. Non me l’ero presa, ma di sicuro mi aveva colto di sorpresa. «Tanti auguri!»

    «Grazie» sussurrai.

    Michael mi baciò prima una guancia e poi l’altra, accarezzandomi la nuca e i capelli dolcemente. Mi fissò dispiaciuto.

    «Mi dispiace davvero tanto», disse emettendo uno spasmo di risata poco divertita. «Scusa…»

    «Ma non serve che ti scusi!» ridacchiai ancora, scuotendo il capo veemente. Gli sorrisi con sincerità, nonostante fossi un po’ delusa per le illusioni che mi ero fatta per tutto il giorno. «Non è successo nulla! Sul serio!»

    Si tornò a sedere titubante. I bambini raccontarono di come il loro regalo mi fosse piaciuto. Ripetei anche che lo avrei appeso in camera, in uno spazio fra le pareti bianche che potesse contenerlo tutto. Michael mi guardò dispiaciuto e quando mi disse che si era dimenticato di farmi un regalo lo tranquillizzai; il regalo migliore che avesse potuto farmi era stato, come gli avevo già detto, portarmi a Disneyland.

    La sera leggemmo una fiaba in salotto accanto al camino, nel salotto di Neverland. Prince poggiò il capo sulle gambe di Grace, distendendosi per lungo, mentre la piccola Paris si teneva stretta al suo papà. Anche Blanket stava accanto al padre e giocava tranquillo con uno dei suoi pupazzi preferiti. Io mi ero seduta su una poltrona con gambe accavallate e una tazza di tè fumante tra le mani.

    Con i suoi occhiali da vista che lo rendevano più interessante e maturo di quanto già non fosse, Michael lesse una fiaba scelta da me: visto che era il mio compleanno – secondo loro – era mio diritto decidere quale fosse la favola del giorno. La sua dolcezza cullò come sempre le nostre menti all’interno del racconto e una volta finito decidemmo tutti di andare a dormire.

    Baciai i bambini sulle guance, augurando loro la buonanotte, ricambiata da un tenero abbraccio da parte di entrambi. Quel giorno abbracciai anche Grace. Infine salutai Michael, il quale mi sorrideva gentile, stringendomi a lui; mi fece dondolare a destra e sinistra per qualche secondo e poi mi dette un bacino sulla tempia.

    D’improvviso ridacchiò e mi si avvicinò ad un orecchio. «Faresti meglio a correre in camera tua...»

    Mi separai da lui con uno scatto.

    Capii tutto.

    I miei occhi si spalancarono, accendendosi per la meraviglia e la contentezza. Michael mi fece un occhiolino strano dei suoi e raggiunse i bambini, i quali erano già fuggiti nelle loro vecchie camere. Grace se ne andò a dormire nella stanza adiacente.

    Rimasi immobile per qualche istante, per riprendermi psicologicamente.

    Più rapida di un fulmine accorsi verso la mia stanza, attorcigliandomi i capelli dalla felicità e sfoderando un sorriso a trecentosessantacinque denti. Entrai con le mani e le gambe che tremavano dall’emozione. Sul letto vidi subito una piccola scatolina rettangolare, avvolta in carta rossa e fiocco bianco, e quella che sembrava una busta. Mi avvicinai correndo e ridendo lessi il messaggio che Michael mi aveva lasciato.

    "Apri il regalo. È importante che tu lo faccia... e in fretta!"

    Non lo rilessi due volte. Spezzai la carta colorata del pacchetto. La scatolina color panna, in plastica, era straordinariamente leggera. Mi morsi le labbra. Quando aprì la scatolina, però, rimasi sbigottita: non vi era niente al suo interno. Solo un altro messaggio su carta.

    Indossa l’abito più bello che hai.
    Ti aspetto vicino al carosello, poco distante dal venditore di gelati.
    Lì ti attende il tuo vero e proprio regalo di compleanno.
    I love you, Michael

    Praticamente mi aveva fregato.

    Rilessi una seconda volta, giusto per essere sicura di aver capito bene.

    La mia mente sembrò svuotarsi. I battiti del cuore alimentavano un agitato scoppiettio di emozioni che raramente mi era capitato di provare. Mi stava tenendo sulle spine e non c’era cosa più eccitante di quella.

    Accorsi all’armadio e rovistai attentamente al suo interno. Più o meno avevo una mezza idea di cosa indossare. Quando trovai il vestito che cercavo, lo presi in mano e lo ammirai, tenendolo per le spalline. In alto, sotto la luce del lampadario della stanza.

    Era un vestito lungo fino alle ginocchia, nero e cosparso di macchie fiorite color bianche e gialle con un visibile ma non sfacciato collo a V. L’abito aveva le maniche a tre quarti e il corpetto attillato si fermava poco più in alto della vita, per poi allargarsi in una gonna a cerchio decisamente ampia. Così risaltavano molto le mie curve, ma senza evidenziare i miei difetti. Mi L’abito mi ricordava molto uno stile anni ’50.

    Decisi di indossare anche dei tacchi bassi e neri e una giacchetta dello stesso colore, giusto per non prendere freddo. Risi tra me e me. Mi misi delle calze color carne e coprenti. Mi truccai con un filo di eyeliner e mascara, dandomi solo una lieve spolverata di fondotinta. Il mio viso non presentava chissà quali difetti – anzi – però lo mettevo per uniformare il colorito. Mi spruzzai anche una piccola goccia di profumo.

    E con la testa che ronzava tra mille pensieri ed emozioni, mi diressi nel luogo dove Michael mi aspettava.

    *

    I passi risuonavano a terra come se il suolo rimbombasse al mio passaggio. Attorno a me c’era un silenzio tombale, se non per una lieve musica proveniente dal carosello lontano. Quando arrivai di fronte al parco giochi, scoprii che tutte le strutture erano accese, illuminando la notte di mille colori diversi, come se stessero aspettato frementi il mio arrivo.

    Presi un respiro.

    Mi guardai intorno, accarezzando nervosamente i lunghi capelli che tenevo in una coda alta. Gli occhi ammirarono tutto ciò che avevo intorno, godendo della dolce musica da carillon che proveniva dalle casse del carosello. Mi fermai accanto ad esso e mi sistemai la gonna del vestito, poi successivamente le maniche e la scollatura del collo a V; non volevo che il seno si vedesse troppo, nonostante fosse una parte di me che amavo molto.

    Mi guardai intorno, cercando Michael nel buio.

    Chinai lo sguardo sui miei piedi.

    Mi sembrò di essere al primo appuntamento con un ragazzo e tuttavia sfumai subito quel ridicolo pensiero dalla mente sorridendo: Michael era solo un amico.

    Ero troppo elegante?

    Eppure mi aveva detto di indossare l’abito più bello che avessi.

    E se fossi stata esagerata?

    Tutta presa dai miei pensieri non mi accorsi nemmeno che il soggetto delle mie più intime riflessioni si era avvicinato di soppiatto. I suoi passi echeggiarono lontani alle mie orecchie, così lontani che lui non esitò a venirmi vicino con le movenze di un astuto felino.

    All’improvviso notai una cosa bianca e scintillante scendere dall’alto, da sopra la mia testa, e posarsi fredda e rigida sul mio collo. Rabbrividii al contatto, sobbalzando appena, sentendo quel piccolo e strano oggetto allacciarsi dietro la nuca grazie a una sottile catenina argentata; Michael non fece difficoltà ad infilarsi di soppiatto sotto la mia chioma e allacciarla al collo.

    La toccai e non potei far altro che abbassare lo sguardo: era il ciondolo di una mezza Luna. Era in oro bianco e al suo interno vi erano quelli che sicuramente erano diamanti di diverse dimensioni. Questi diamanti riempivano il ciondolo completamente. Poco più grande di una nocciolina, la mezza Luna era tenuta al collo da una sottile catena, anch’essa in oro bianco.

    Emisi uno spasmo di imbarazzata risata. «Ma...»

    Cercai di voltarmi verso di lui, ma le sue mani scivolarono sulle mie braccia coperte dalla giacchetta prima che potessi muovermi. Premette i polpastrelli sul tessuto nero, e il suo volto scivolò vicino alla mia gota destra. Mi scoccò un tenue, affettuoso bacio. La spina dorsale fu scossa dal basso verso l’alto da un’ondata di brividi inimmaginabile. Inclinai la testa verso la spalla destra, ridacchiando imbarazzata.

    «Mi dispiace averti mentito poco fa, ma non volevo rovinarti tutto questo...», mormorò soavemente.

    La sua voce, bassa e calda, mi fece venire la pelle d’oca.

    Prima che potessi rispondergli parlò di nuovo.

    «Sarah...» La mano destra cadde lungo il basso, cercando la mia, ed io ebbi un innocente soffio al cuore; non appena la strinse sentii il respiro fermarsi. «Per stasera... anche solo per una notte...». Il suo profumo di pulito mi dette alla testa. «Ritorna bambina con me, all’Isola che non C’è».

    Sbattei le palpebre velocemente, mentre tutto il mondo attorno a me acquisiva colori che non avevo mai notato prima di allora. I brividi mi cinsero la testa in una morsa possente, sconnettendomi dalla realtà, ma quel improvviso senso di euforia non mi permise di perdere il senno completamente.

    Mi girai, arrossendo, senza mollare la presa. Indossava un completo nero con sotto una camicia bianca. Lasciai scorrere lo sguardo dal suo torace al viso, esaminando ogni dettaglio che appariva perfetto così com’era – le guance ben delineate, le labbra marcate, il naso sottile –, scivolando infine sui suoi occhi profondi e luminosi. Mi persi di nuovo in quel tunnel di emozioni, in quei buchi neri di dolore e amore assieme. I sentimenti che quelle oscurità trasmettevano erano di un’incommensurabile bellezza: sorrisi a quelle e alla sua posata ma amorevole espressione.

    «Sarò la prima bambina sperduta?»

    «Sì», disse illuminando il volto con un sorriso ricambiato. «Sarai tutto ciò che vorrai essere e nessuno potrà farci del male. Ti sarò accanto per tutto il tempo».

    Le dita di entrambe le mani s’incatenarono perfettamente alle sue.

    Abbassai lo sguardo, celando la commozione. «Vorrei che fosse lo stesso per te. Dovrei essere io a consolarti e distrarti, invece me ne sto qui – »

    «Moony...», mormorò lasciandomi una mano e alzandomi il mento verso il suo viso. Non appena lo guardai negli occhi, una strana fitta allo stomaco mi fece mancare il fiato. Era bellissimo. Mi sorrise. «Sei più speciale di quanto credi... ma ora devi dimenticare ogni cosa. Ti fidi di me?»

    Più di quanto immagini.

    «Sì, mi fido di te».

    Non avevo colto subito perché avesse scelto la Luna come regalo di compleanno, ma quando mi chiamò “Moony” tutto si fece chiaro e cristallino come l’acqua. Tutti i pezzi del puzzle vennero rimessi al loro posto in un batter d’occhio.

    «Sai, all’università mi chiamavano Moony. Non solo perché ero sempre con la testa fra le nuvole, ma perché ricordavo loro la Luna. La Luna è misteriosa, la sua presenza è delicata e silenziosa. Mi chiamavano così perché, per quanto potessi essere spontanea e amichevole, ero una persona molto segreta e riflessiva. Si dice che la Luna aiuti le persone a guardare dentro loro stesse con onestà. E io aiutavo gli altri con i loro problemi. Quale nome più perfetto di quello?».
    Mi fissò con una serietà disarmante. «Meraviglioso».

    Le sue dita scesero lungo il mio collo, sfiorandolo inavvertitamente, per adagiarsi sulla mezza Luna. Abbassai gli occhi e notai, ancora una volta, quanto le sue mani fossero grandi e protettive rispetto alle mie, e soprattutto quanto desiderassi il costante contatto con esse. Accarezzò il ciondolo con il polpastrello dell’indice.

    «Allora, se ti fidi, lasciati andare» sussurrò fissando la collana. «Lascia uscire la vera te stessa. Chiudi gli occhi».

    Dopo un secondo di titubanza seguii il suo suggerimento, inspirando a fondo.

    Non riuscii immediatamente a tranquillizzarmi, come non riuscii a placare i battiti del mio cuore. Percepivo calore nel petto, una sensazione senza precedenti. Immagini sfuocate invasero la mia mente.

    «Ora non sei più a Neverland, non in quella che conosci» sussurrò Michael riscuotendomi dalle mie riflessioni. «Io sono Peter Pan, e tu la prima bimba sperduta...» Pausa. «La mia prima bimba sperduta».

    Ridacchiai.

    «Qui non sei adulta. Gli adulti sono i nostri nemici, sono i pirati. Dobbiamo lottare, dobbiamo esultare, dobbiamo giocare... dobbiamo fare ciò che vogliamo. Non ci sarà nessuna regola».

    Aprii le palpebre e ampliai il mio sorriso. «Nessuna slealtà...»

    Michael ricambiò con entusiasmo bambinesco. «Nessuno che ci possa dire cosa dobbiamo fare o come la dobbiamo fare».

    «Nessuno che ci giudichi», gli strinsi la mano.

    I nostri occhi si fecero più scintillanti delle stelle in cielo.

    Ridacchiò. Abbassò lo sguardo sulle nostre dita allacciate e s’avvicinò d’un passo. Non udivo più la musica del carosello, ma sapevo che c’era; quegli occhi profondi slittarono furtivi verso i miei, schiudendo piano la bocca nel vano tentativo di parlare.

    «Nessuno che ci dica che non siamo abbastanza per questo mondo» S’umettò la bocca pronto a esplodere in un’altra dolce risatina. Si placò in breve tempo. «... e che non siamo abbastanza in grado di amare».

    Lo sguardo si bagnò di lacrime e lo guidai in direzione del suo collo, sorridendo per sciogliere l’imbarazzo.

    Alcuni istanti di assoluto silenzio mi dettero il tempo di incassare quella frase devastante quanto incoraggiante. Quand’ebbi il coraggio di sollevare lo sguardo per una seconda volta, il suo sorriso era l’essenza dell’amore. Amore vero.

    «Sei pronta a cercare il tesoro del Capitano?», esclamò allegramente, mostrando i denti. «Pronta a volare?»

    «Sempre».

    Due secondi dopo m’incupii.

    «Credo che tu mi debba dare lezioni di volo, perché non credo di ricordarmi più come si fa».

    Scherzai, ma lui prese la cosa seriamente. Mi prese il volto fra le grandi mani. Sarebbe potuto entrare con una sola occhiata dentro la mia testa, il mio corpo o la mia anima e di sicuro io non sarei stata in grado di rifiutarlo.

    I lineamenti marcati delle sue guance si irrigidirono appena.

    «Mesi fa, l’11 novembre 2003, sei arrivata in questo Ranch volando. Le tue ali erano ferite, e lo sono ancora, ma non ti sei mai abbattuta».

    Avvicinò le labbra sulla mia fronte e premette forte. Socchiusi gli occhi. Quando si separo rimase a scrutarmi con fare assente.

    «Ho bisogno del tuo aiuto quanto tu del mio. Devi aiutarmi, e insegnarmi come posso vivere se non ho...», chiuse le palpebre, «se non ho speranza, amore e purezza dentro di me...»

    Percepii ancora la sua sofferenza, quella che non si decideva a lasciarlo in pace e che lo torturava ancora nei meandri più profondi dell’animo. M’avvicinai alla sua guancia, baciandolo, incespicando sui miei stessi piedi per alzarmi sulle punte e arrivare al suo viso.

    Nell’istante in cui sentì le mie labbra, Michael spalancò gli occhi, confuso.

    «Ti voglio bene...», sussurrai.

    Rimase immobile, quasi perplesso. Io sorrisi furbina, gli voltai le spalle e corsi lontano da lui. Arrivata sopra alla pedana del carosello in movimento, mi appesi ad un bastone in legno, stando attenta a non inciampare; solo quando mi afferrai ad esso con entrambe le mani mi girai verso Michael, lasciando cadere la testa da un lato: sorrideva sorpreso.

    «Abbiamo o no un tesoro da trovare? Su!»

    Notai quanto meravigliato fosse il suo sguardo, quanto il suo viso fosse contratto da un emozione incapace da descrivere. Poi lo vidi ridere e scuotere la testa. Con una mano si massaggiò il collo. Mi lanciò un’occhiata maliziosa e s’incammino veloce verso me, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi.



    Edited by fallagain - 5/4/2020, 13:18
     
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    Capitolo Ventitre: La Fragilità dei Fiori

    «Corri, più veloce!» gridò Michael, ridendo come un bambino. Salì lungo una collina in direzione di un albero lontano. «È proprio lì che ci aspettano i bimbi sperduti!»

    Lo seguii con il fiatone.

    «Non ce la faccio più!» urlai esasperata.

    Michael e io stavamo correndo, giocando e saltando da più di un’ora. Avevamo creato avventure fantastiche, fingendo di essere Peter Pan e la bimba sperduta Moony, e che con noi ci fossero anche Tinkerbell e gli altri: tutti contro Uncino e i pirati. Avevamo finto di navigare oceani, volare e divertirci come due bambini piccoli e infantili. Non sembravamo affatto due adulti di quarantasei e ventinove anni.

    Michael mi aveva fatto patire le pene dell'inferno facendomi correre avanti e indietro per il parco giochi e per i vasti prati di Neverland. Avevo abbandonato la giacchetta su una panchina poco distante dal carosello e, subito dopo, anche i tacchi. I piedi, liberi da scarpe scomode, accarezzavano l’erba pulita e umida.

    C’era un perché se, ad ogni fine giornata, a causa dei bambini e delle corse che mi facevano fare giocando, avevo una fame terribile.

    «Un ultimo sforzo, sfaticata!» rise Michael, il quale distava più di due metri da me. Guardò oltre la mia figura, assunse una smorfia di terrore e indicò un qualcosa alle mie spalle. «Guarda, ci stanno per raggiungere! Se entriamo nel rifugio non potranno farci male! Veloce, principessa!»

    Michael aveva deciso di ribattezzarmi principessa, quel giorno, perché nel bel mezzo del gioco mi aveva fatto indossare la “corona di cristallo del tesoro d’Uncino”. E in più gli ricordava la principessa Selenite della favola. Mi disse anche che il significato del nome “Sarah” era proprio principessa. Mi piaceva quel nomignolo.

    Raggiungemmo l’albero con un ultimo scatto e, toccandolo, il gioco finì: vincemmo contro Uncino, ancora una volta!

    Ci accasciammo a terra, ansimanti, e rimanemmo in silenzio per parecchio tempo. Io ero completamente spompata, avevo un caldo infernale e le calze – che odiavo con tutta me stessa – mi stavano facendo diventare nevrotica; avevo il desiderio di toglierle e camminare a gambe nude. L’altro compagno di avventure, invece, rideva da solo. Anch’egli si era tolto la giacca, già molto tempo prima, rimanendo soltanto con la camicia nera come la notte.

    Più di una volta, durante i giochi, Michael mi aveva fatto i dispetti cercando di alzarmi la gonna; non appena lo fissavo fintamente scioccata, lui sfoderava un sorriso a trentadue denti e una faccia di bronzo assurda.

    Sospirò.

    «Well...» mi guardò allegramente. «Io non sono ancora soddisfatto di questa serata. Vuoi dar ai pirati la rivincita?»

    Inclinai il collo verso di lui molto lentamente, fulminandolo. Michael rise di gusto, si alzò e temetti che volesse costringermi a correre ancora: mi vennero i capelli dritti al solo pensiero.

    Mi porse la mano. «Avanti, andiamo...» disse con il petto che ancora saliva e scendeva per la corsa, nonostante fosse più tranquillo di me. «Ti prendi freddo se non ti metti qualcosa, e ti ammali...»

    «Con questo caldo?» esclamai spalancando le palpebre.

    Sghignazzò e mi fece cenno di alzarmi. Gli diedi la mano, ma mi tirai su da sola con l’altra, giusto per non dargli troppo peso da sollevare. Ci dirigemmo verso la panchina dove avevamo lasciato le nostre cose, ci rivestimmo e finimmo la serata in bellezza con un giro sul carosello. Mentre ci avviavamo verso la giostra, mi chiese se mi fossi divertita e io annuii.

    Vedendomi intenta ad osservare la collana con cura, giusto per controllare che non si fosse rovinata, mi parlò nuovamente.

    «Deduco che ti sia piaciuta parecchio…».

    «Non ne hai idea», gli sorrisi. Michael si grattò la nuca ridacchiando imbarazzato, chinando il capo verso il basso. «Penso di aver capito come mai hai scelto la Luna, fra tutte le cose che potevo ricordarti… ed è un pensiero dolcissimo. Ti ringrazio di cuore».

    Michael fece per parlare, socchiudendo le labbra leggermente, ma poi cambiò idea e sorrise soltanto. Lo sguardo scivolò in basso, sul mio vestito, e lì vi rimase per un bel po’.

    «Hai scelto un abito stupendo»

    Mi guardai. «Grazie. Penso che sia il vestito più bello che abbia avuto fino ad ora. E poi adoro i fiori. Questi sono gigli bianchi e gialli. Penso che risaltino molto sul nero di sfondo. E tra l’altro hanno tutti e due un significato bellissimo, anche se molto differente».

    Mi fissò incuriosito. «E quali sarebbero?»

    «Il giglio giallo significa nobiltà d'animo, un tipo di regalità molto più legata ai propri principi morali che alla nobiltà in sé, qualità che invece viene rappresentata da suo fratello, il giglio bianco. Quest'ultimo può indicare anche purezza e candore. È il mio fiore preferito tra tutti».

    «Qualità che possiedi anche tu», mormorò affabilmente. Arrossii e Michael si umettò le labbra. «Hai un libro con tutti i significati dei fiori?»

    «Sì, anche se in realtà è un quaderno scritto a mano tanti anni fa».

    «Interessante... che significato ha… uhm, la rosa?»

    «Dipende dal colore» esclamai meditabonda. Mi aiutò a salire sulla piattaforma mobile della giostra, per poi sedersi con me su una carrozza. «Se non ricordo male, quella rossa rappresenta “amore passionale”. Quella rosa invece “grazia”. Quella gialla “gelosia”, ma anche “allegria”. Quella bianca, la mia preferita, “innocenza”… un amore puro».

    «Davvero?». Michael sembrava incantato. «E il girasole?»

    «“Ammirazione”, “rispetto” o “gioia”. Dipende dai contesti» dissi ridacchiando. «Tutti i significati li ho presi da un libro scritto da mia nonna – la stessa che scrisse la storia di Selenite e dell’angelo». Risi. «Pensa, da piccola volevo fare la fioraia»

    Rise anche Michael. «Oh God, davvero?»

    «Anzi, no, ho sbagliato! Prima di fare la fioraia volevo diventare stilista!»

    Mi chiese perché; gli dissi che amavo disegnare i vestiti e guardarli sui cataloghi della mia famigerata nonna, la quale per anni – fino alla sua morte – non aveva mai smesso di cucirmi abiti. Ciò nonostante, i miei sogni nel cassetto erano curarmi dell’educazione dei bambini e scrivere libri.

    «Ti piace scrivere?»

    «È la mia vita... oltre ad insegnare. E un giorno, presto o tardi, pubblicherò un libro. Fino ad ora non ho mai trovato l’ispirazione giusta. Tutti spezzoni a casaccio, in mancanza di una trama vera e propria. So che prima o poi avrò un’illuminazione che cambierà per sempre la mia vita».

    Michael si zittì per qualche minuto.

    «Mi auguro davvero che un giorno possa leggere i tuoi racconti...».

    M’irrigidii e arrossii. «Nessuno ha mai letto le mie storie, nemmeno i miei genitori. Sei il primo e forse l’ultimo che sa quanto io sia devota alla scrittura».

    «Mi stai dando il permesso di leggere?», arcuò un sopracciglio.

    Lo fissai intensamente: sorrise con fare dolce, aspettando con ansia la mia risposta. Solo allora capii che forse sarei dovuta restare zitta, sia per l’imbarazzo che avrei provato nel fargli leggere un mio racconto, sia perché avrebbe potuto fraintendere le mie intenzioni: temevo che credesse che lo avrei usato per il successo, prima o poi, cosa che non avevo intenzione di fare.

    «Un giorno, forse...» mormorai facendo la preziosa, alzando gli occhi al cielo. «Forse, e non prometto nulla!»

    Ridacchiò accigliato, poggiando una mano sulla parte alta del sedile della carrozza. Poco dopo si mise in una posizione tale con cui potesse vedermi senza inclinare il capo.

    «Ok, come vuoi» fece spallucce. «E, se me lo permetterai, mi piacerebbe dare un’occhiata anche a quel tuo libro sul linguaggio dei fiori. Anche io li amo, potrebbe essermi utile».

    «Te lo presto volentieri!»

    Sorridemmo entrambi e ci allacciamo nuovamente alle nostre riflessioni personali, esaminando l’ambiente attorno a noi nell’ennesimo giro su quella giostra instancabile. Guardai il vuoto finché non sentii il peso degli occhi di Michael su di me. Studiava il ciondolo che tenevo al collo.

    «Penso a te quando vedo la Luna e i fiori...», attirò la mia attenzione con un sussurro delicato. Si passò la lingua sulle labbra. «I fiori sono uno dei doni più belli della natura. Sono delicati, di svariati colori... alcuni possono nascondere spine e rovi, altri possono spezzarsi non appena li si tocca.

    Così è il sentimento. Il sentimento sboccia come un fiore, ma appassisce nei momenti più bui se non è in grado di superare il freddo inverno; ciò nonostante, rinasce e ritorna ad abbellire il mondo con la sua presenza. I fiori appassiscono, ma se trattati con cura in primavera riprendono vita, creando germogli ancora più belli e più profumati di quelli della stagione precedente. Un cuore può appassire, ma può anche rinascere... se trattati amorevolmente, quei boccioli sopravvivranno all’inverno che verrà, perché c’è qualcuno che li ama davvero».

    Lo fissai a lungo, silenziosamente, aspettando che mi guardasse. Osservava ciò che aveva di fronte con espressione distante, lontana anni luce da quel luogo: dovevo essere abituata a quelle emozioni, con tutte le chiacchierate che avevamo fatto; tuttavia, ogni volta mi catturava nel modo più strabiliante possibile. Tutto ruotava sempre attorno a lui.

    Mi puntò. «Tu sei come un fiore, lo sai? Hai bisogno di essere amata per davvero, affinché tu riesca a sbocciare in tutto il tuo splendore. E sei anche come la Luna. Sei una sorpresa continua. Sei cristallina come l’acqua e il momento dopo sei un mistero a cui non riesco darmi risposta. Sei come luce nell’oscurità».

    Abbassai gli occhi per timidezza. Guardai verso la ruota panoramica, umettandomi le labbra. Emisi uno spasmo di risata e riposi la mia attenzione su Michael. Aspettava che parlassi, forse.

    «Mi pensi più pura e più bella di ciò che sono realmente. Anche tu hai tutte queste qualità».

    Mi lanciò un’occhiata penetrante. «Hai ragione... sul mio conto intendo. Penso che tu sia una delle poche persone che mi conoscono a fondo, una alla quale non ho detto nulla della mia personalità eppure ha capito tutto. Ma non sono d’accordo su una cosa… non è vero che ho un’opinione di te troppo “pura” rispetto alla realtà. Io ti vedo per come sei veramente».

    Prima che potessi rispondere, scosse piano il capo e sospirò tristemente. Il suo volto si contrasse in una smorfia sofferente. Le iridi scure assunsero un’aria malinconica.

    «Penso che questo inverno e i prossimi a venire mi priveranno di ogni futuro germoglio. La primavera non sarà più una fonte di rinascita, solo di angoscia e paura. Non so come farò a resistere...».

    Mi guardò pregante. «Promettimi che almeno tu tenterai di salvarti, nel caso in cui dovessi mai essere coinvolta in storie come la mia. Cerca di scappare da questo mondo di bugie e ipocrisie, e se mai dovessi non...» chiuse le palpebre e poi le riaprì. «Non farti mettere i piedi in testa, fuggi prima che ti distruggano come intendono distruggere me».

    Mi commossi. Mi prese le mani e le strinse forte.

    «Giurami che se mai diventerai famosa coi tuoi libri, non ti lascerai governare da nessuno, neanche se ti obbligheranno a strisciare per terra e baciare i loro piedi. Difendi la tua dignità, mettiti in salvo l’anima... sei più forte di me in questo...».

    Scossi la testa, contrariata. «No, non è vero. Sono forte, ma non quanto te...». I miei occhi lucidi incrociarono i suoi. «Non avrei mai retto e non riuscirei a reggere questo male come te...», sorrisi amaramente, alzando le spalle.

    Posai una mano sulla sua guancia e per un istante mi sembrò di sentirlo tremare.

    «Non sei solo. So che hai paura e che sei preoccupato, sappiamo tutt’e due che non sarà per niente semplice... si capisce che cerchi di nascondere questo dolore a chi ti sta intorno...»

    «Tranne a te...» sospirò.

    Respirai a fondo, concedendomi un istante di silenzio.

    «Tranne a me...» annuii e tolsi la mano dalla sua guancia.

    Lisciai le pieghe della gonna, cercando di nascondere la parte di gambe che fuoriusciva irrispettosa. Nel silenzio che ci abbracciò, rimasi ad accarezzarmi una ciocca di capelli, fissando il suo colore in modo totalmente assente. Quando alzai lo sguardo, vidi che Michael mi squadrava da capo a piedi.

    «Sei stanca? Vuoi andare a dormire?»

    Scossi la testa. «No, riesco a resistere... ho sete però». Mi guardai intorno. «Posso prendere qualcosa da bere, per favore?»

    «No, non puoi».

    La mia espressione speranzosa si congelò. Michael scoppiò a ridere e successivamente mi accarezzò la nuca con sguardo intenerito.

    «Vai, avanti...» borbottò ironicamente, «ti aspetto davanti alla ruota panoramica... prendi anche qualche cosa da mangiare?»

    Non cedere, Sarah... non cedere.

    «Ma sì, dai».

    A fanculo la linea.

    «Ti va di condividere un po’ di caramelle con me?» chiesi.

    «Sì, grazie».

    Scendemmo dal carosello e ci dirigemmo ognuno per la propria strada. Ad una bancarella abbandonata presi un tè freddo – in pieno gennaio, poi... – e riempii un sacchetto di caramelle, tutta felice e contenta all’idea di mangiucchiare qualcosa.

    In seguito mi diressi verso la ruota, la quale distava solo qualche metro dalla bancarella, proseguendo lungo una stradina piana e illuminata da lampioni. Camminai veloce, desiderosa di arrivare da Michael il prima possibile e non farlo attendere molto. Canticchiando silenziosamente una canzone proveniente dal carosello sempre più lontano – precisamente Non ho che un canto di Biancaneve – bevvi un sorso della bevanda che tenevo nella mano sinistra.

    Il tentativo di non creare disastri andò presto in fumo, proprio nel momento in cui fui presa alla sprovvista. Da dietro la schiena due mani mi pizzicarono i fianchi. Lanciai un urlo per la paura, ma non rovesciai il sacchetto di caramelle... la bevanda, in compenso, mi allagò completamente. Il liquido precipitò in gran parte della gonna e delle gambe, con qualche macchiolina anche sul petto, e il bicchiere di plastica cadde a terra.

    Subito quelle braccia si separarono da me e una risata acuta e interminabile mi fece voltare con un’espressione letale stampata in faccia. Michael mi guardava con una mano sulla pancia e una sulle labbra, indeciso se dispiacersi o meravigliarsi riguardo quanto accaduto. Aveva un enorme sorriso che partiva da un orecchio all’altro, si piegava in due dalle risate e tentava di parlare in modo comprensibile.

    «Oh be’» sorrisi sarcastica, alzando un sopracciglio. «La doccia era proprio quello che mi ci voleva!»

    Lui tornò a spanciarsi senza più fiato in gola e dovette sedersi a terra per non crollare di colpo. Le spalle si alzavano e si abbassavano a ritmo degli spasmi. Nemmeno io presi la cosa seriamente, nemmeno m’offesi, e mi misi a ridere con lui – soprattutto a causa della sua risata contagiosa. Quando riebbe le forze per alzarsi – seppur lentamente – la sua faccia era contratta per lo sforzo immane di trattenersi. Evitò perfino di incrociare i miei occhi.

    «Ok, uhm...», strinse le labbra energicamente per non sorridere. «Penso che ci sia bisogno di un cambio abito...»

    Mi atteggiai da finta sconvolta. «Tu pensi?»

    Di nuovo si sganasciò. Poggiai le mani sui fianchi e rimasi a fissarlo fino al momento in cui sembrò riprendersi nuovamente. Gli occhi erano lucidi.

    «Scusa, davvero, scusa, non...» Ebbe altri spasmi di ridarella. La voce s’alzò d'un’ottava. «Sei... sei inzuppata!»

    «Colpa tua, eh!», borbottai. «Mi vieni alla spalle!»

    La mia mente ricondusse quella frase a pensieri perversi, ma finsi indifferenza. Michael si tranquillizzò, pian pianino, respirando a fondo. Continuammo a fissarci sorridendo.

    «Penso che anche non volendo dobbiamo ritornare a casa. Potresti ammalarti...» mi squadrò da cima a fondo con lentezza, adocchiandomi mentre cercavo qualcosa con cui asciugarmi le braccia e il vestito; ormai era tutto da lavare.

    «Hai qualcosa con cui potermi asciugare velocemente? Giusto per non entrare in casa gocciolante...»

    Mi osservò dubbioso, bagnandosi il labbro inferiore.

    «Aspettami qui seduta, torno subito...»

    Annuii.

    Mi sedetti su una panchina vicina nel momento in cui sparì all’orizzonte. Avevo freddo, ma dovetti aspettare qualche minuto prima che Michael tornasse con un paio di salviette in mano. Tolsi la giacchetta. Michael mi consegnò i fazzoletti, ansimando per la corsa fatta, e si sedette accanto a me.

    «Grazie mille».

    «Figurati...». Pausa. «Anzi, scusa...»

    Cominciai prima ad asciugarmi le braccia e i polsi. «E di cosa? Non ti preoccupare!», sorrisi divertita.

    Passai alle scapole, verso il seno, completamente indifferente alla sua presenza. Successivamente passai altri fazzoletti in direzione della pancia e tamponai a vuoto sul vestito; mi inclinai – tenendo una mano sulla scollatura per non lasciar intravedere il seno – verso i polpacci, giusto per controllare che non fossi bagnata anche lì. Non guardai Michael neanche per un secondo; era così silenzioso che non pareva che fosse lì con me, e grazie a Dio erano più bagnati i vestiti che il corpo.

    Espirai soddisfatta. «Fatto!»

    Lo scorsi osservarmi intensamente. Sorrise appena e per un bel tot di tempo non emise una sola parola. Lo guardai confusa, aggrottando le sopracciglia. Si riprese scostando gli occhi verso le sue ginocchia, dove le mani si erano aggrappate con forza. Le ammirai e desiderai prenderle fra le mie: ero innamorata di quelle dita e di quei grandi palmi.

    «Allora... torniamo in casa. Penso che sia un po’ tardi per te» mi studiò di sfuggita e sghignazzò piano non appena alzai gli occhi al cielo. «Hai bisogno di fare una doccia e cambiarti...»

    Mangiammo assieme tutte le caramelle del sacchetto, gettando la spazzatura nei cestini come persone educate e civili. Dopodiché ci alzammo dalla panchina, dirigendoci verso la stazione del treno che ci avrebbe riportato al residence. Non smisi d’osservarlo e Michael se ne accorse, leggendo attraverso la mia occhiata molto eloquente.

    «Non hai sonno, vero?», emise con un risolino.

    Scossi la testa, sorridendo furbetta.

    «Be’», s’umettò il labbro inferiore scrutando dinanzi. «Se fai la brava ti faccio compagnia per un altro po’. Ma prima devi lavarti e vestirti...»

    «Mmh» borbottai. «Io sono sempre brava».

    Michael mi gettò un’espressione indecifrabile. Successivamente percepii la sua mano scorrere lungo il mio fianco, sfiorandomi appena, spingendomi piano verso il suo petto. Rallentò il passo e avvicinò le sue morbide labbra sulla mia guancia; vi premette con dolcezza, mentre il suo profumo di pulito e dopobarba rendeva fragile la mia sanità mentale. La pelle d’oca spuntò sulle braccia e sulle cosce, mentre la nuca pulsava a ritmo dei battiti del cuore.

    «No...». Separò le labbra dalla mia guancia e mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, senza guardarmi negli occhi. «Non lo sei»

    Lo adocchiai di sottecchi, ma tutto ciò che vidi fu la sua lingua scivolare sulle labbra per l'ennesima volta: mi sciolse in una maniera tale da perdere la testa senza rendermene conto, per nulla immune al suo ghigno maliziosamente interessato.

    «Non sono brava?», arcuai un sopracciglio.

    Mi fissò a lungo.

    Poi scosse il capo.

    La sua grande mano percorse la mia schiena verso l’alto. Le dita sfiorarono il vestito e si diressero verso il braccio che tenevo disteso sul fianco. Michael accarezzò l’avambraccio e si allacciò timidamente al palmo della mia mano.

    Arrossii, ricambiando la presa con coraggio, indecisa se dire qualcosa o meno. Che cosa potevo rispondere? Protestare affinché lui mi spiegasse cosa intendesse con quell’occhiata oppure tenere le domande per me? Scelsi l’ultima opzione; era meglio lasciare le cose così e stringere la sua mano fino al ritorno.

    «Sarah?»

    «Uhm?»

    Mi puntò. «Tu sai che ti voglio tanto bene, non è vero?»

    Ebbi un attimo di spaesamento completo. M’accaldai e arrossii di botto.

    «Certo...»

    Quella frase ad effetto mi confuse le idee. Michael annuì gravemente e tornò a guardare di fronte a sé. La stazione era poco lontana, ancora un minuto e l’avremmo raggiunta.

    «Dovrai tenerlo a mente, Sarah...» sussurrò. Le sue iridi si velarono di una luce purissima. «Ricordalo ogni qualvolta starai male: il mio amore è per sempre».

    Sorrisi con dolcezza.

    «Anche il mio lo è». Michael mi guardò ed io cedetti alla commozione. «Sei il mio migliore amico»

    Inclinò la testa di lato. Mi accarezzò la nuca.

    «Noi siamo per sempre», disse seriamente.

    «Per sempre?».

    Sorrise. «Per sempre».

    *

    «Ti aspetto qui, ok?», disse Michael, indicando il materasso con una mano.

    Eravamo in camera mia e mi stava obbligando da mezz’ora a fare una doccia. Io avevo detto che l’avrei fatta dopo, prima di andare a dormire, ma lui insistette così tanto che a momenti volli soffocarlo col cuscino. Si era seduto sul mio letto e avevo incrociato le gambe a farfalla poggiando i gomiti sulle ginocchia.

    Mi chinai su un cassetto, presi la biancheria intima senza mostrarla ai quattro venti e soprattutto allo sguardo curioso di Michael. Dopodiché afferrai il pigiama ben sistemato e ripiegato sulla sedia accanto, dandogli le spalle.

    Non mi dava per niente fastidio il fatto che fosse lì con me, perciò non captai nemmeno se fosse imbarazzato. Io non avevo molto senso del pudore – da piccola giravo quasi sempre nuda per casa – e vedevo lo stare con lui quasi come lo stare vicino ad un amico intimo, un fratello; tuttavia comprendevo che, per rispetto di entrambi, dovevo sicuramente trattenermi dell’andare in giro sventolando in aria il reggiseno o camminando per la stanza in mutande.

    Michael attese una mia risposta a lungo. Mi scordai della domanda che mi aveva posto, poiché troppo impegnata a riflettere sul tempo che avrei speso sotto la doccia. Qualche secondo più tardi lo sentii schiarirsi la voce, proprio mentre ero sullo stipite della porta con lo sguardo perso nel vuoto. Alzò un sopracciglio e sorrise.

    «Stavi parlando con me?» corrugai la fronte. Luì annuì gravemente. «Oh, scusa... non ti ho sentito...», mormorai.

    La sua faccia divenne seria. «Non l’avrei mai detto».

    Lo fulminai con così tanto impeto che si mise una mano davanti la bocca per trattenersi dal ridere. Le mie espressioni erano il metodo migliore per fargli capire ciò che pensavo ancor prima di parlare, e Michael comprendeva ogni mia smorfia.

    «Ah, ah, ah. Molto spiritoso».

    Gli mostrai la lingua, indispettita.

    Michael si incupì; temetti di averlo offeso, ma nel giro di due secondi trasformò quel volto in un’espressione molto buffa e divertente, un’espressione che sembrava quella di un bizzarro animaletto che conoscevo ma di cui non ricordavo il nome. Risi a mia volta.

    «Se a te non disturba attendere, fai pure... qui non c’è niente con cui distrarsi, però».

    Alzò le spalle. «Non fa nulla, io sono paziente...» posò lo sguardo sul libro sopra il comodino, Il Cavaliere D’Inverno. «Posso dare un’occhiata?»

    «Certo! Leggi pure!» annuii e mi chiusi la porta del bagno alle spalle.

    Non chiusi a chiave poiché sapevo che Michael non sarebbe mai entrato di soppiatto. Rispettava la mia privacy, nonostante la sua curiosità rispecchiasse quella di un bimbo di cinque anni.

    Mi spogliai, entrai nella doccia e mi lavai capelli e tutto il resto, cercando di metterci il minor tempo possibile. Uscii, indossai la biancheria e mi asciugai i capelli con due passate di phon. Non appena mi misi su la maglia del pigiama, mi resi conto che mancavano i pantaloni.

    Porcaccia di quella miseriaccia.

    Sospirai. A piccoli passi mi avviai alla porta, l’aprii e mi nascosi dietro per non mostrare le mie gambe nude e un po’ imperfette. Sbucai fuori con il capo e Michael – il quale era preso ad ascoltare la musica del mio lettore CD – s’accorse subito della mia sbirciatina; puntò in mia direzione e rimase ad osservarmi nella mia disperata ricerca dei pantaloni perduti: erano appesi sulla sponda del letto, sulla parte opposta a quella di Michael...

    Lo fissai sbuffando. Ricambiò con uno sguardo confuso, togliendosi le cuffie.

    «Michael» sussurrai ridacchiando imbarazzata, «pensi che ti possa creare qualche shock vedermi a gambe nude? Perché i pantaloni sono...», li indicai con l’indice.

    Si voltò.

    «Pensavo di averli ripiegati assieme alla maglia, ma non ho controllato...», pigolai alla ricerca di scuse. «Ti avviso, non sono un granché come spettacolo. Puoi anche voltarti».

    Mi guardò e fece spallucce, sorridendo di scherno. «Penso che sopravvivrò per questa volta»

    Ridacchiai. Gli lanciai un’occhiata di rimprovero prima di sistemarmi bene la lunga maglia a maniche lunghe che – fortunatamente – mi copriva tutto il fondo schiena. Aprii la porta e mi incamminai velocemente verso i pantaloni: Michael m’osservò per tutto il tragitto, giusto per farmi irrigidire come un palo della luce. Li afferrai con foga, li raggomitolai sotto al braccio e mi diressi nuovamente verso il bagno, veloce come una lepre.

    Prima che potessi attraversare l’altra metà della stanza mi bloccai: Michael mi stava facendo un check-up completo, soffermandosi in maggior modo sulle gambe, e la cosa mi immobilizzava... credevo di aver preso l’uso dei piedi.

    Trattenne un sorriso. «Vederti a gambe nude è veramente scioccante ragazza, lo sai?»

    Roteai gli occhi al cielo. Era chiaro che mi stesse prendendo in giro. Arrossii e mi richiusi in bagno.

    Tornai da lui pochi istanti più tardi. Michael era ancora preso dal mio lettore CD, batteva il ritmo della musica che sentiva attraverso gli auricolari, sia col piede che col capo, senza fare una particolare espressione. Mi avvicinai per poter sentire meglio cosa stesse ascoltando, camminando a piedi scalzi, ma soprattutto per ricordare che CD avessi inserito l’ultima volta. Da quel che riuscii a capire era uno dei dischi di Phil Collins, uno dei miei tanti cantanti preferiti.

    «Ti piace Phil Collins?» chiese nel momento in cui mi sedetti accanto a lui, mentre mimavo le parole della canzone All of my life.

    «Lo conosci?»

    Davo sempre per scontato che, essendo un grande artista, probabilmente avevano conosciuto un bel paio di persone importanti.

    S’umettò le labbra e annuì veemente. «Oh sì. Una volta mi consegnò un premio, sai? E mi fece anche conoscere i suoi figli, Lily e Jill… uno dei pochi adulti che non mi ha mai giudicato malignamente». Mi puntò, gentile. «Il suo stile è molto bello, raffinato, e la sua voce è davvero dolce. Mi piace».

    «Già, anche a me piace per quello» sorrisi, «le sue canzoni hanno dei testi davvero belli. E la sua musica mi dà un senso di pace incredibile. Be’, in realtà amo tutto di quell’uomo»

    Mi studiò a lungo, sorridendo. «Lo ami come fan?»

    «Anche. Ma penso che se avessi avuto la possibilità di stargli accanto, me ne sarei perdutamente innamorata. Proprio per la sua aria pacifica e amorevole»

    Feci una pausa, sospirando felice.

    Michael inarcò le sopracciglia. Continuò a fissare le sue mani in silenzio, finché ad un certo punto sorrise. Sghignazzò fra sé e sé, dando modo alla curiosità di delinearsi sul mio volto.

    «Hai avuto altri amanti impossibili oltre a Phil?», mostrò un sorrisetto sghembo.

    «George Michael», risposi seriamente.

    Ci fu un attimo di silenzio e si accigliò.

    «George Michael?»

    Annuii. «George Michael, già...».

    Michael era indeciso se ridere o rimanere serio.

    Sorrise, spiazzato e addolcito. «Sei sensazionale... incredibile davvero...».

    Arrossii non appena me lo disse.

    «Lo sai che George Michael è omosessuale, vero?».

    «Sì, lo so», sospirai tristemente.

    Michael mi dette un buffetto sulla guancia.

    «Non mi interessa se è omosessuale, è stato il mio primo amore impossibile. Uno dei due uomini che mi ha fatto piangere quando ho scoperto che non avrei mai avuto nessuna possibilità con lui». Risi. «Ero persa – totalmente fusa – per quell’uomo, lo vedevo in TV e mi spuntava subito un sorriso grande come una casa, e il cuore non la smetteva di battere! Può essere anche pelato, disabile, cieco o con gravi problemi mentali, ma rimane sempre l’uomo dei miei sogni adolescenziali».

    Notai che Michael era rimasto silenzioso e con un’espressione talmente seria da far paura. Immediatamente mi chiesi se non avessi esagerato con le moine da fangirl, ma mi sbagliai: sorrise.

    «Si vede...», sussurrò. Le sue iridi scintillarono. «Si vede che lo ami moltissimo... ed è per questo che ti dico che sei incredibile... solo per questo. Perché lo scintillio che i tuoi occhi hanno quando parli di lui o di Phil sono di amore profondo. Ti ammiro perché ami incondizionatamente».

    «Davvero?», chiesi titubante.

    Annuì. «Non potrei dire cosa più vera di questa». Mi accarezzò la guancia inglobandola con tutto il palmo della mano. «Ti adoro per come riesci ad amare senza distinzioni e senza fare differenze»

    Arrossii e, accennando ad un riso, inclinai il capo verso destra, come se stessi cercando di nascondermi dalla sua vista. Lo sentii sogghignare di gusto e posare le sue dita dalla mia guancia alla mia mano; mi parve di sentirlo tremare dall’emozione.

    «Lo sai che anche io come te mi sono innamorato di persone famose?»

    Lo fissai. «Di chi?»

    «Di Brooke Shields», sghignazzò timidamente.

    Smise di ridere vedendo la mia faccia sconvolta. Feci gli occhi a palla.

    «Non dirmelo… quella di Laguna Blu

    «Mmh...», annuì pensoso. «Come me è stata una bambina prodigio, una ragazza che ha iniziato fin da piccola la sua carriera nel mondo dello spettacolo. Avevo la camera da letto piena dei suoi poster... l’adoravo e con questo scaturivo la gelosia delle mie sorelle...», rise. «L’ho anche conosciuta. Siamo usciti parecchie volte... la volevo sposare…»

    Spalancai la bocca dalla meraviglia. «Wow... non l’avrei mai detto! E ti piacevano altre ragazze oltre Brooke Shields? C’erano altre attrici o cantanti o ballerine che ti hanno fatto provare amore?»

    «Sì, certo...», annuì piano, «c’era... uhm... Diana Ross, che penso che tu conosca. Per me è stata unica. L’ho sempre ammirata e segretamente amata fin da bambino...»

    «Amata nel senso... da uomo a donna? Un amore vero?»

    Annuì. «A-ha...»

    Cominciò a raccontarmi di lei, di cosa avesse provato e della “storia” che li aveva coinvolti: da come me ne parlò sembrò veramente innamorato, o perlomeno lo era stato. Anche se aveva sofferto aveva mantenuto un affetto molto profondo per lei. Era una cosa da stimare.

    «Ci sono state delle ragazze famose che ti hanno cercato? Nel senso, donne che erano attratte da te e che non ricambiavi?»

    Rifletté. «Sì, c’è stata Madonna, per esempio».

    «Madonna? La Ciccone?» domandai sgomenta.

    «Sì, proprio lei...» annuì divertito per la mia mascella calata.

    «E che donna è?»

    «Sarò sincero, è attraente. Ha un bel corpo e molto carisma, non c’è alcun dubbio, ma...» fece una strana smorfia, «la cosa che non mi è mai piaciuta di lei è che è troppo...»

    «Maliziosa?»

    «Anche, ma soprattutto troppo esibizionista. E poi pensava solo ed esclusivamente al sesso».

    La risposta di Michael mi spense. La sua espressione era grave e tuttavia se ne stava con un sopracciglio arcuato, imbarazzato per le parole appena dette. Non avevamo mai trattato dell’argomento “sesso” insieme, e quella fu la prima occasione che avemmo per farlo.

    Lo guardai pensierosa. «Non ti piacciono le persone troppo interessate al sesso?»

    «Sarah...» sospirò chinandosi verso di me. «Io non ho mai avuto un bel rapporto con donne e sesso, soprattutto se i due concetti sono strettamente legati fra loro. Ma sono comunque un uomo. Ho i miei bisogni e desideri», arrossì vistosamente, «ma all’epoca non mi interessavano le persone come lei. Personalmente preferisco le donne amanti della propria privacy, non quelle provocatrici e incapaci di tenere a freno l’istinto. Sensuali, sì, ma riservate».

    Gli sorrisi.

    «Quindi...» aspettai che la sua attenzione fosse su di me, «alla fine Madonna non ha fruttato una relazione amorosa?»

    Scosse piano la testa. «No, non abbiamo avuto nessun rapporto, niente di niente... era anche parecchio gelosa – gelosa della fama – come tutti coloro che ti circondano quando sei così famoso come me».

    «Forse è stato meglio così. Hai avuto le idee chiare fin da subito e non hai commesso errori che potevi evitare».

    Annuì con serietà. «Lo credo anch’io».

    Lasciammo che la musica che si sentiva attraverso le cuffie inglobasse noi e tutto ciò che vi era intorno. Scese ancora verso la mia mano, la strinse in una solida presa e ne accarezzò a lungo il dorso. Mi venne voglia di abbracciarlo e posare la testa sulla sua spalla, ma mi trattenni.

    Di colpo spense la musica, posò il lettore CD sul comodino in parte a lui e assunse un’aria per nulla convincente. «Ti piace Janet Jackson, Sarah?»

    Annuii. «Sì, molto!» esclamai ingenuamente.

    Janet era una delle mie cantanti preferite, mi aveva accompagnato per tutta l’adolescenza e gli anni universitari. Sentivo un legame speciale nei suoi confronti, ma non l’avevo mai nominata di fronte a Michael perché, per quel poco che sapevo di lui, ero cosciente del fatto che fossero fratello e sorella; nominarla per me sarebbe stato come dire: “Ehi Michael, adoro tua sorella, non è che per caso me la fai conoscere di persona?”.

    «Le assomigli» disse sorridendo. «In alcuni aspetti caratteriali siete molto simili...» Guardò in basso e si bagnò il labbro. «Io e Dunk siamo sempre stati molto amici, sono protettivo nei suoi confronti e condividiamo le stesse passioni»

    «Dunk?» chiesi confusa.

    Mi fissò sorridente. «Sì. In famiglia tutti la chiamiamo Dunk. È la nostra asinella. È un nomignolo che le abbiamo dato quando era piccolissima»

    M’imbronciai. «Non è molto carino...» mormorai, contrariata nel vedere la sua espressione segretamente divertita. «Non è gentile...»

    «Ma lei non si offende».

    «Sicuro?»

    Annuì. «Sì, sa che scherziamo».

    Bofonchiai un “Mmh” per nulla convinto.

    «Ha avuto nomignoli peggiori... questo è un complimento in confronto». Alzai lo sguardo, ma cambiò discorso, sfuggendo dai miei occhi. «Lo sai che si esibirà al Superbowl di quest’anno? Fra qualche giorno?»

    Spalancai le palpebre, illuminandomi. «No, davvero?»

    «Sì, piccola». Morii non appena mi disse piccola con la sua voce rauca e bassa. «Ti va di guardarlo assieme? Non dovrei avere alcun impegno quella sera...».

    «Oddio, sì!» esclamai in tono euforico, facendolo ridere. «Davvero?»

    «Te lo sto chiedendo apposta». Schioccò le mani sulle mie cosce; si morse un labbro e sorrise. «Janet sarà felice di avere una fan a casa di suo fratello».

    Impallidii. «No, ti prego, non dirle nulla».

    Michael si meravigliò. Sollevò le sopracciglia e un attimo dopo le corrugò con indefinita dubbiosità. Arrossii sentendomi piccola piccola per l’imbarazzo; anche se sarei stata la donna più felice della Terra, facendo la sua conoscenza, non desideravo che lo venisse a sapere.

    Issò un sopracciglio. «Perché no?»

    «Perché non mi va che sappia... insomma, non...», mormorai impacciata, gesticolando. Sbuffai. «Non mi sentirei a mio agio, e non lo trovo giusto...»

    Pesò la mia risposta per un paio di secondi. «Quale delle due risposte è la verità?», sorrise piano.

    Arrossii. «In che senso?»

    «Non vuoi perché sei imbarazzata all’idea di vederla di persona», mi puntò, «oppure perché non vuoi che lo sappia per il timore della sua opinione nei tuoi confronti?»

    Abbassai gli occhi. «Per l’ultima...», sussurrai, «e un po’ anche per la prima...»

    Lo studiai scoccandogli un’occhiata penetrante ma sfuggente, solo per capire l’espressione del suo volto: non sembrava ironicamente divertito, anzi, era piuttosto pensieroso.

    «Dunk non ti giudicherà, se è questo che temi» disse individuando il punto della questione. «Non ne ha motivo. Tu sei l’insegnante dei miei figli, lavori per me, e sì...» sospirò, «sei anche mia amica. Perciò non ti guarderà dall’alto in basso, né si farà dei pregiudizi... non in mia presenza».

    Respirai a fondo, osservando le sue mani e il modo in cui le sue dita erano strette alle mie, avvolgenti e piacevoli al tatto.

    Certo, era una grande consolazione sapere che Michael non pensasse alla reazione della sorella, ma quella era una situazione complicata da risolvere; non mi ero presentata alla famiglia Jackson il primo giorno d’udienza e non l’avrei mai fatto volentieri: ammiravo Janet e sognavo conoscerla da una vita, ma non volevo si creasse una brutta idea di me. E poi, anche se con la consapevolezza che Michael mi avrebbe difeso, non volevo creargli dei problemi con la famiglia.

    «Non so, Michael...», bisbigliai. «Preferisco pensarci su... ci devo riflettere con calma...»

    «Sei o no la mia bambina cocciuta?» scherzò Michael, facendo una buffa smorfia fra lo scandalizzato e il divertito. Ridacchiò, poi mi sorrise dolcemente. «Prendi tutto il tempo che vuoi, non ti voglio costringere». Si umettò il labbro inferiore. «Ma saresti una sciocca se non approfittassi dell’occasione...»

    Sogghignai senza divertimento, sistemando una ciocca di capelli dietro l’orecchio; annuii piano, in segno di aver compreso alla perfezione ciò che mi aveva detto, e le nostre mani si slegarono con un sospiro.

    Presi la collana fra le dita, girando e rigirando la mezza Luna fra i polpastrelli, studiandola nei minimi dettagli. Ne osservai i contorni e lo scintillio dei piccoli diamanti come stregata, fino al momento in cui una cuscinata mi colpì in pieno viso, senza però farmi male.

    A bocca aperta fissai colui che me l’aveva lanciata: il sorriso malizioso e birichino che tracciava i lineamenti del suo volto marcarono due lievi fossette sulle guance. Michael era apparentemente calmo, ma possedeva un’anima vivace e giocosa. Nelle sue iridi scure risplendeva la voglia di ricevere una mia reazione arrabbiata.

    Presi il cuscino che mi aveva lanciato e glielo rigettai, squittendo dallo sbigottimento. «Maledetto! È stato un colpo basso!»

    Lo prese al volo e si lasciò cadere sul materasso, ridendo a pieni polmoni. Presi un altro cuscino e mi avventai su di lui, mentre Michael continuava a ridersela e a difendersi con quello che aveva fra le mani.

    «Asp... aspetta! Ouch!... Time out!» urlò sghignazzando.

    Mi fermai e lo osservai diffidente. Si alzò a sedere.

    «Volevo ringraziarti...» Mi gettò un’occhiata maliziosamente divertita. «Non avrei mai pensato che prima o poi avresti comprato qualche mio CD. E non uno, bensì tre!»

    Avvampai. Aveva sbirciato nei miei cassetti.

    «Brutto... spione!»

    Partii all’attacco sferrandogli quanti più colpi potessi, senza la minima pietà. Michael rise ma non se ne stette a guardare: partirono altre cuscinate e poco dopo le abbandonò per passare ad un solletico devastante. Mi solleticò il collo e i fianchi, e per difesa mi raggomitolai su me stessa, tentando di colpirlo con le sue stesse armi.

    Quello era senza dubbio il compleanno più bello della mia vita, e Michael era il dono più bello che potessi ricevere.

    *

    <div style="text-align: justify;">Giorni dopo, come Michael mi promise la sera del 25, ci trovammo a guardare il Superbowl come due vecchi e cari amici (ovviamente registrato, visto che era andato in onda in prima serata). Preparammo pop-corn e bibite fingendo di essere al cinema e ci rintanammo in camera sua, seduti a terra su tanti enormi e soffici cuscini. I bambini andarono a letto relativamente presto, poiché quel giorno Michael aveva bellamente progettato di stremarli con attività che - di sicuro - li avrebbero privati di energie in breve tempo.

    Non aveva considerato il fatto che anche io fossi praticamente cotta.

    Ogni notte andavo a dormire a mezzanotte e mezza – mezzanotte se ero fortunata – e l’indomani mi svegliavo alle sette in punto, sentendomi ogni giorno sempre più stanca; avevo bisogno di dormire, eppure per Michael sarei stata disposta a fare tutte le 24 ore ad occhi aperti se me lo avesse chiesto.

    Il Superbowl iniziò con l'esibizione di Janet. Ebbi i brividi per tutto il tempo, in attesa che la mia adorata cantante comparisse sul palco e si manifestasse in tutta la sua bravura; non ero mai stata ad un suo concerto, ma se un giorno fosse accaduto non sapevo come ne sarei uscita. Ballò “Rhythm Nation”, una delle mie preferite, un pezzo di “The Knowledge” e in seguito comparve Justin Timberlake; assieme cantarono “Rock Your Body”, un pezzo di quest’ultimo artista.

    Di colpo, senza che nessuno lo prevedesse, una parte di seno di Janet fuoriuscì dal costume. Justin aveva strappato – come da copione – un pezzo del suo top e qualcosa era andato storto, svelando un po’ troppo, ma Janet si era ricoperta in un millesimo di secondo.

    La mia bocca e le mie palpebre si spalancarono, ma non perché fossi scandalizzata: la faccia di Janet, di colpo incupita e piena di imbarazzo per non essersi accorta dell’errore, mi fece portare una mano davanti alle labbra. Michael non notò nulla, poiché nell’attimo in cui il seno di Janet veniva svelato al pubblico egli si chinò per prendere un bicchiere di spremuta, sia per me che per lui. Alla mia faccia pensò che fosse successo qualcosa di brutto a sua sorella, ma spiegandogli cosa fosse successo si rilassò... quasi.

    «I media non aspetteranno altro che pubblicizzare l’evento, domani mattina...» sussurrò contrariato, scuotendo la testa con velato disgusto. «Sono fatti così. Trovano il minimo segno di stranezza e lo tramutano in qualcosa di scandaloso. Anche se può essere la cosa più normale del mondo o, in questo caso, una svista. No, per loro l’importante è vendere, dar fiato alle loro cazzate affinché gli stolti possano crederci... così loro guadagnano e intanto l’ignoranza affolla le menti delle persone».

    Il suo sguardo era duro e severo, una maschera di repulsione per la sconsiderata mancanza d’intelligenza delle persone, in questo caso dei giornalisti. Era chiaro che il discorso lo facesse innervosire più di quanto desse a vedere.

    Puntualizzai. «Anche le persone che danno loro considerazione non sono meno ottusi dei giornalisti stessi, a mio parere. E poi, nella vita di ogni giorno, purtroppo, ci sono persone che si divertono a sparare cazzate sul tuo conto, rovinandoti la reputazione».

    Michael meditò. Guardo l’inizio del Superbowl con aria assente e poco dopo si mise in bocca un paio di pop-corn. Una volta masticati e ingoiati mi fissò.

    «Purtroppo hai ragione, ma i tabloid hanno un grande potere, quello di riuscire a manovrare il popolo attraverso i giornali e quant’altro, a differenza delle persone comuni...»

    Michael mi disse che entro qualche giorno avrebbe chiamato la sorella, per darle il suo supporto. Mi domandò se avessi voluto assistere alla conversazione, ma nonostante la segreta voglia di sentire la voce di Janet al telefono, rifiutai; le loro discussioni non erano affar mio e non lo sarebbero mai state. Sarei stata soltanto che maleducata.

    M’addormentai per errore in camera sua, poche ore più tardi, e Michael non mi svegliò. Mi lasciò dormire per tutta la mattinata, senza nemmeno avvisarmi, tant’è che non appena mi svegliai rischiai un colpo al cuore.

    Con il timore d’esser in ritardo per le lezioni mi ribaltai dal letto con uno scatto così agile da sembrare Spiderman in gonnella, non accorgendomi che Michael fosse disteso al mio fianco e che perciò lo avessi svegliato di soprassalto. Alzandomi quasi lo buttai a terra: ridendo, mi avvisò che aveva deciso di lasciarmi libera la mattinata apposta per riposare e riacquistare le ore di sonno perdute. Apprezzai il gesto, perché conoscevo l’individuo, e sapevo che era molto fiscale per quanto riguardava l’educazione dei figli. Difficilmente faceva saltare loro un giorno di scuola, a meno che non ci fosse una motivazione giusta e sensata.

    Michael decise di telefonare a sua sorella il pomeriggio stesso, durante le mie lezioni con Prince e Paris. Mi raccontò di quanto fosse depressa per la sua figuraccia: i giornali cominciarono a far circolare la notizia dell’incidente la mattina stessa. Michael mi comunicò anche che, prima o poi, Janet sarebbe venuta a trovare suo fratello e i suoi nipoti: non seppi se esserne felice o rammaricata.

    «Oh…»

    Mi lanciò un’occhiata penetrante. «Sei felice?»

    Sospirai «Non lo so, onestamente...»

    Mi sistemò la collana sul collo. «Non devi presentarti per forza...» mormorò umettandosi le labbra, fissando la mezza Luna, «e hai molto tempo per decidere. Mia sorella verrà a farci visita a fine mese, o agli inizi di marzo, perché deve concludere l’ultimo album in progetto...»

    La gioia mi scintillò negl’occhi. «Un nuovo album?»

    «Sì...» sorrise, «lo pubblicherà fra qualche settimana, se non ho capito male».

    «Non vedo l’ora». Ero estasiata.

    Fu così che attesi una settimana sperando in una sua apparizione inaspettata. Ahimè ciò non accadde, e io cominciai a perdere la speranza di poterla conoscere al più presto.

    Una mattina – quella del 9 febbraio –, nel pieno di una lezione coi bambini fummo sorpresi da una visita.

    Inizialmente pensai che fosse Michael, probabilmente di ritorno da un impegno importante di lavoro, e invece mi sbagliai. La ghiaia scricchiolò sotto i passi della persona che si apprestava ad entrare in casa, senza destare troppa curiosità a me e ai piccoli Jackson. Mezz’ora dopo bussarono alla porta dello studio. Michael apparve da oltre lo stipite con un sorriso tranquillo.

    Nel momento in cui i bambini s’alzarono per corrergli incontro, egli dette loro ordine di rimanere seduti. Mi chiese se potessi interrompere la lezione e io dissi immediatamente sì, con il cuore che batteva fortissimo.

    «Indovinate chi è venuta trovarci...?», domandò teatralmente, spalancando la porta.

    Il respiro si mozzò, ma la speranza di vedere Janet si spense più veloce di un alito di vento su un fiammifero.

    Una ragazza giovane, forse poco più che ventenne, si mostrò a noi con fare posato e sorridente. Aveva capelli biondi fino alle spalle, occhi azzurri e un viso da bambolina. Era magra, ma aveva le curve nei punti giusti. Studiò Prince e Paris lanciando loro un saluto con la mano, e mi adocchiò rapidamente, con sguardo sfuggevole.

    Era lei la ragazza che Michael amava?



    Edited by fallagain - 5/4/2020, 13:31
     
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    I bambini scesero dalle sedie avviandosi piuttosto rapidamente verso la ragazza. Lei si chinò, li abbracciò e si rialzò con fare composto, sistemandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio. Mi gettò un’occhiata eloquente, esaminandomi in profondità.

    Michael lo notò e si pose fra noi, lasciandoci lo spazio per stringerci la mano. Prima di farlo, però, presentò l’una all’altra; la giovane era silenziosa, e a primo impatto mi dette l’idea di una ragazza un po’ impacciata; non era comunque stupida, anzi...

    «Lei è l’insegnante di Prince e Paris, Sarah Morris» disse dolcemente, indicandomi. In seguito posò gli occhi su di me, intensi ma tuttavia sfuggenti. «Sarah, lei è Joanna Thomae, un’amica e una fan di vecchia data» mormorò l’ultima frase con un fil di voce.

    Seh, amica...

    Le presi le mano e le sorrisi. Scoccai a Michael un’occhiata maliziosamente e sottilmente divertita, uno sguardo che lui comprese fino in fondo; s’imbarazzò ma rimase a fissare me e Joanna frattanto che ci salutavamo con un lieve e cordiale “Piacere”.

    I bambini intervennero prima che il silenzio diventasse imbarazzante. La presero per mano e con affetto le chiesero dove fosse stata per tutto quel tempo, cosa avesse fatto e soprattutto se sarebbe restata per qualche giorno: Joanna rispose di aver passato del tempo con la sua famiglia e dopo aver scoccato un lungo, speranzoso sguardo a Michael continuò: «Mi auguro di poter rimanere qui per più tempo possibile...», con deciso accento francese.
    Era titubante, ma il suo tono era carico di aspettative per il futuro.

    Michael intervenne alzando le sopracciglia. «Joanna può rimanere quanto desidera. Inviteremo anche altri amici, come Danielle, Sebastian e tutto il gruppo. Che ne dite?».

    Joanna sorrise e si scambiarono uno sguardo complice.

    Sorrisi anche io, profondamente serena.

    Michael strinse le labbra in un’espressione soddisfatta e batté le mani. Mi puntò. «Ti disturba se finiamo la lezione così, per oggi? Recupereranno un sabato, magari», chiese mordendosi un labbro.

    «No, non c’è alcun problema!»

    Michael annuì piano.

    «Bene... che ne dite di fare merenda?». Poi adocchiò Joanna in maniera carezzevole. «O preferisci andare a dormire? Sei stanca?»

    Dormire, uh?

    «No, non ho sonno» esclamò. «Ho una certa fame, però...»

    Io avrei detto di sì immediatamente.

    Prince e Paris sorrisero; uscirono dalla stanza con Joanna, continuando a tenerle la mano, chiedendole di fare merenda con loro e di vedere i nuovi giocattoli che avevano ricevuto per Natale; lei esultò, attendendo che anche Michael la seguisse: quest’ultimo mantenne un’espressione neutrale dando l’impressione di non aver compreso il perché di quell’occhiata. I tre proseguirono senza aspettarci.

    Due secondi dopo esser rimasta a fissare la porta con fare assente, il mio viso si inclinò verso quello di Michael: mi stava osservando impassibile, ma con due pietre scure negli occhi che ardevano di curiosità.

    «Che ti sembra?».

    La sua voce era più bassa e maschile del solito.

    Feci una smorfia soddisfatta. «Credo sia una ragazza molto, molto dolce. Educata, soprattutto».

    Lui non disse nulla. Abbassò lo sguardo, toccandosi la fossetta del mento con l’indice, mordendosi un labbro. Il vuoto aleggiò in me mentre continuavo a domandarmi il perché di quel suo atteggiamento pensoso.

    «È lei la ragazza che ami?» esclamai eccitata, sorridendo.

    Alzò gli occhi.

    Passarono cinque secondi di totale silenzio.

    «Sì... lo è...» sorrise piano. «È appena arrivata dalla Francia, perché per molto tempo è stata occupata con vari set fotografici e non ha trovato il tempo per venire»

    Mi sorpresi. «Fa la modella?»

    Annuì. «Sì. È stata davvero una sorpresa che...»

    Prima che potesse finire di parlare, Prince si fece vivo da oltre la soglia. Con un’occhiata eloquente e un tono incitante ci indusse a terminare la conversazione e seguirlo in cucina, rimandando le domande in un altro momento. Lo seguimmo senza fiatare, trovando le altre due nel pieno della preparazione di “una merenda coi fiocchi”; ci sedemmo nell’ampio soggiorno, discutendo del più e del meno. Presto i bambini si stancarono e ci dedicammo ad alcuni giochi di società.

    Il modo in cui la ragazza si atteggiava, Joanna, mi pareva davvero carino, da ragazza educata ma spiritosa, il tipo perfetto per Michael. Era gentile coi bambini e anche con me, poiché ogni volta che le rivolgevo parola mi sorrideva cordialmente. Per di più, il legame che aveva con Michael sembrava davvero intimo: il feeling era ricambiato da entrambe le parti.1

    Non ero gelosa, non lo ero nemmeno un po’. Forse saremmo diventate amiche, io e la ragazza di Michael, e la sua apparente e forse reale dolcezza mi avrebbe fatto bene all’animo. Non vedevo in lei una ragazza malvagia, anzi, pensavo che assieme ai bambini e Michael saremo andati tutti d’accordo e avremo passato dei bei momenti assieme.

    Fino a quando non cambiai idea.

    *

    Scorse una settimana e mezza, la quale parve durare un’infinità di tempo.

    Nel frattempo molte cose erano cambiate: Joanna sembrava essere arrivata in casa Jackson da quasi un mese, e l’opinione che mi ero fatta di lei era esatta soltanto a metà. Le mie aspettative si erano sbriciolate nel giro di 72 ore o più, dal momento in cui l’avevo conosciuta.

    Innanzitutto ritornammo al Neverland Ranch per quasi due settimane. Joanna si sistemò in una camera del residence adiacente al villino principale, quello dedicato agli ospiti. Non passai più una notte a chiacchierare da sola con Michael, a guardare film o a leggere. Non glielo chiesi e lui non lo chiese a me. Ci tenevo a comportarmi da persona rispettosa, sapendo che io – da fidanzata – sarei stata molto diffidente a causa di quell’ipotetica “amica” che spendeva la notte con il mio uomo. Dedussi che era più propenso a passare un po’ di tempo con la sua ragazza, piuttosto che con me, perciò la cosa non mi turbava affatto. Aveva ragione e io non me la presi, nonostante sentivo che la sua assenza cominciava a farmi sentire un guscio vuoto; ad ogni modo giocavamo con i bambini tutti quanti assieme, io mi occupavo delle mie lezioni come se nulla fosse e parlavo e scherzavo con Michael serenamente.

    Anche i primi giorni con Joanna risultarono positivi: l’opinione che avevo di lei si trasformò ben presto in qualcosa di buono, credendo che la sua gentilezza fosse sincera; chiacchieravamo in base a ciò che le situazioni del giorno ci proponevano, ci salutavamo la mattina e ci auguravamo buonanotte la sera. E ridevamo pure.

    Tuttavia, piano piano, forse per gelosia o forse per ipocrisia, divenne sempre più distaccata, più seria nei miei confronti, più propensa ad evitarmi piuttosto che a dialogare. A stento mi sorrideva, giocava con Prince e Paris come se io non esistessi e li coinvolgeva in divertimenti tutti nuovi e interessanti. Mi dava l’impressione che quello che stesse facendo fosse un tentativo per allontanarmi da lei e dagli altri componenti della famiglia.

    Allo stesso tempo cambiò la situazione con Michael, il quale cominciò ad ignorarmi totalmente, poco a poco. I suoi sguardi ruotavano per la maggior parte delle volte attorno a Joanna e ai suoi figli. Raramente facevamo una conversazione seria e non aveva neppure provato a cercarmi. Mi sorrideva appena, mi lanciava occhiate penetranti, ma non era più quello di prima... che lo facesse per non far ingelosire Joanna o perché semplicemente non mi considerava più come un tempo, non ne avevo idea. Restava il fatto che comunque mi allontanai da tutti loro, per una sorta di meccanismo di difesa.

    Non avevo intenzione di essere usata – desiderata quando si aveva bisogno del mio appoggio e dimenticata l’attimo dopo, quando tutto sembrava passato; se dovevo essere sua amica, doveva trattarmi come tale ogni giorno, mi dissi, o doveva almeno darmi una scusa per quel suo strano comportamento. Mi sentivo praticamente messa in un angolo – soprattutto da Michael, ma anche un po’ dai bambini, i quali ahimè non avevano colpa – e l’idea di divenire un gruppo compatto e ben unito con i Jackson e Joanna si disintegrò completamente.

    Ero ritornata Sarah Morris, l’insegnante e non più l’amica.

    Il caldo affetto che provavo per Michael venne messo da parte, assieme alla mia presenza in quella casa, e sostituito con una sorta di sottile amarezza nei suoi confronti.

    Il fatto che non mi trattasse dolcemente mi faceva arrabbiare. Questa rabbia si trasformò ben presto in un senso di profonda delusione. Io, che credevo di aver riposto in Michael la mia più completa fiducia, dovetti ricredermi e prendere le distanze. Dovevo darci un taglio con le mie assurde aspettative per il futuro e prendere quel che veniva con serenità.

    Ero buona, ma non remissiva. Accettavo quello che ricevevo, lo analizzavo con cura e poi, in base a quanto mi facesse stare male o meno, mi dirigevo verso un cambiamento o verso nuovi metodi di approccio; Michael avrebbe sempre ricevuto il mio affetto, ma non desideravo che mi parlasse come i giorni precedenti all’arrivo di Joanna. Così facendo mi sarei risparmiata una tristezza inutile.

    Con il passare dei giorni tentai di dedicarmi sempre più a me stessa. Me ne stavo da sola e, nonostante le fitte allo stomaco per l’amarezza, sentivo che stavo guarendo. Pian pianino. Mi sentivo meglio e tuttavia avevo il profondo desiderio di porre fine a quel malessere interiore, sfogandomi una volta per tutte con il signor Jackson.

    Una sera, proprio in un momento di profondo scoraggiamento, una vecchia amica dell’università telefonò; era una delle poche con cui avessi mantenuto dei legami affettivi, non avendo mai smesso di contattarla via messaggio, posta elettronica o rare chiamate telefoniche. Mi chiese come stavo e dove lavorassi, soprattutto per chi... mantenni il segreto professionale e la privacy di Michael.

    «Mah, è un signore con dei figli d’educare», dissi camminando su e giù per la stanza, col telefono in mano e lo sguardo abbassato sui miei piedi.

    «È sposato?», chiese curiosamente Margaret, la mia amica.

    «No, divorziato». Mi bloccai sorridendo maliziosamente. «Non ti starai mica facendo strani pensieri, vero?»

    La sentii ridacchiare. «Nooo! Chi? Io?», esclamò. «Io non faccio mai strani pensieri!»

    «Sì, certo, come no...» risi, «ma non temere, non c’è niente fra me e il mio capo. Ci rispettiamo a vicenda e questo è l’importante» dissi cercando di essere convincente. «E poi è fidanzato, non ho intenzione di sedurlo, assolutamente!»

    «Mmh...», mormorò mostrandosi dubbiosa. «Magari è un bel tipo... gentile... romantico... uno di quelli a cui piace conquistare... arrapante...». Prese una pausa e si trattenne dallo scoppiare in una fragorosa risata. «Uh-huu!»

    Risi con tutte le forze che avevo. «Dai, su, non cominciare!»

    «Ma che ti prende? Di solito rispondi a queste provocazioni. Hai sempre la battuta pronta». Emise un urlo strozzato. «No, non dirmi che è vicino a te e che sta origliando questa conversazione...»

    «No, non c’è...», sogghignai. «Però è meglio non rischiare...»

    Sospirò. «Be’, hai ragione... comunque, potremo parlare di questo “tizio” di persona...». Corrugai la fronte. «Questo tuo misterioso “capo” ti lascerebbe libera il prossimo weekend? Perché, sai, avrei intenzione di fare una gita a LA con una mia cara amica, in un appartamento in centro città... all’insegna di shopping e divertimento...»

    In un primo istante non seppi nemmeno cosa rispondere. Rimasi a bocca aperta, sorpresa ma piacevolmente grata per quel suo pensiero; non solo mi avrebbe fatto bene incontrarla, ma uscire da quella residenza – e perciò fuggire dalle preoccupazioni per un paio di giorni – sarebbe stata la mia medicina. Non facevo shopping da parecchio, soprattutto non andavo a ballare da quasi un anno. Potevo permettermi il lusso di far baldoria e spendere quanto volevo.

    Michael mi avrebbe lasciato andare.

    «Mio Dio» sussurrai stupita, sorridendo fra me e me. «Be’, questa tua amica ha accettato la proposta. E costi quel che costi verrà con te alla ricerca di avventura».

    «Grande!» esultò Maggie.

    «Ah, una cosa però...» l’ammonii appena in tempo. «Non ho intenzione di entrare in contatto con uomini single e sessualmente affamati per essere portata a letto da loro, intesi?»

    «Ovvio! Sta tranquilla!» annunciò serenamente. «Pensi che mi sia già dimenticata dei tuoi principi morali? Se nel caso qualcuno ci infastidisse... ti avverto che quest’anno sono diventata cintura nera di karatè! Yattaaa!».

    Sghignazzai scuotendo il capo. «Ti telefono il più presto possibile e tentiamo di concordare gli orari assieme... l’hotel lo prenotiamo non appena arriviamo in centro a Los Angeles, no?»

    «Sì, tanto non penso che siano tutti occupati! Al massimo dormiremo sotto i ponti, come due poveracce».

    Sorrisi. «D’accordo, allora ci sentiamo... ti chiamo io... grazie di cuore per l’invito, sul serio!»

    «Quando vuoi, Sarah» rispose dolcemente.

    Ci salutammo e concludemmo la conversazione.

    Stetti a pensare per qualche lungo secondo, mordendomi il labbro inferiore: dovevo cercare Michael e parlargli, anche a costo di entrare nella camera da letto con Joanna presente (sempre che fossero assieme).

    Senza troppi ripensamenti uscii dalla stanza, decisa a incontrarlo.

    Andai a bussare alla sua porta, ma nessuno rispose.

    Bussai una seconda volta, ma mi convinsi che in camera non ci fosse nessuno. O che forse Michael e Joanna non volevano essere disturbati.

    Vagai indisturbata per il resto della casa, sostando in cucina per farmi una camomilla, fino a quando – risalendo le scale – non incontrai Joanna, che invece scendeva. Indossava un paio di jeans stretti e una camicia non eccessivamente scollata. I capelli erano lisci e tenuti sulle spalle senza lacci. Nell’attimo in cui i nostri occhi si incontrarono spostò una ciocca dietro l’orecchio; il suo sguardo non durò molto, e il suo saluto fu soltanto un debole un cenno del capo.

    La sorpassai ricambiando il gesto con un sorriso stirato.

    Li avevo interrotti in qualcosa di intimo? Probabilmente sì. Non che mi dispiacesse a dire il vero, ma preferivo non essere la causa di una spiacevole interruzione... l’occhiata dura e sottilmente fulminante che mi aveva lanciato non mi rassicurò per nulla.

    Nel momento in cui stetti per aprire la porta della mia camera, sentii due mani pizzicarmi i fianchi. Sobbalzai e mi voltai: Michael mi lanciò uno sguardo fra il sorridente e l’inquieto.

    «Oh» mormorai simulando allegria. «Ciao!»

    Michael alzò le sopracciglia, piegando di poco gli angoli delle labbra in un sorriso più divertito, mentre con lo sguardo tentava di farmi un check-up interiore. Il tono del mio saluto sembrò strafottente anche alle mie orecchie. Evitai di guardarlo negli occhi, sapendo che non sarei stata in grado di falsificare le mie emozioni.

    «Ciao» disse mantenendo una voce normale e posata.

    Sorrisi piano, ma non attesi che dicesse altro per voltarmi e abbassare la maniglia della porta. Un pizzico di irritazione e desiderio di vendetta mi portò a comportarmi da completa indifferente, come se la sua presenza non mi facesse né caldo né freddo.

    «Dovevi chiedermi qualcosa?» domandò.

    Mi girai, fingendo di cadere dalle nuvole. «Uh?»

    «Ho sentito qualcuno bussare alla porta della mia camera, ma stavo dormendo e non ho aperto...» mormorò accarezzandosi il collo col palmo di una mano. Poco dopo mi puntò attentamente. «Pensavo fossi tu...»

    A-ha, “dormendo”.

    «Oh, sì sì...» annuii senza ricambiare lo sguardo. «Volevo solo darti un’informazione...»

    «Del tipo?»

    Sospirai. «Questo weekend viene a trovarmi una mia amica da Boston. Credo che passerò tutto il weekend con lei» Le sue sopracciglia s’alzarono per la sorpresa. «È da molto che non la vedo e mi ha chiesto di uscire. Ho accettato».

    Il volto di Michael si contrasse leggermente, nonostante desse l’impressione di essere tranquillo e pacifico. Le sue iridi mi esaminarono a fondo, navigando lungo tutto il mio viso, passandosi più volte la lingua sulle labbra; tenne il sopracciglio inarcato per diversi secondi.

    «Oh.» sussurrò piano. «Ok, non c’è problema, vai pure».

    Non parlò più e io non attesi oltre per rimanere in sua presenza.

    Sorrisi cordialmente, ringraziando, e al suo lieve cenno del capo lo salutai con la mano. Voltai la schiena, entrando nella mia stanza, non preoccupandomi di chiudergli la porta in faccia. Una volta chiusa, trassi un profondo respiro di sollievo.

    Ero felice di essermi mostrata disinteressata. Il silenzio contava più delle parole, così dicevano. In ogni caso – se fosse stato confuso, arrabbiato o dispiaciuto – non lo capivo, perché era più bravo di me a mascherare le sue emozioni.

    Mi avviai verso l’armadio e lo aprii. Guardai i vestiti appesi. Dedussi che, molto probabilmente, non avrei dovuto riempire la valigia con troppe cose.

    Sospirai ancora.

    Presi il cellulare sul comodino e composi il numero di Margaret.

    La tristezza per dover lasciare quella casa per un paio di giorni mi stritolava il cuore, ma non avrei permesso a niente e nessuno di privarmi della voglia di divertirmi e vivere la mia vita. A nessuno, né a Joanna, né ai miei genitori, né ad amici, né a sconosciuti...

    Né a Michael.

    *

    «Daddy, perché questo sabato non andiamo al cinema?» chiese Paris speranzosa, ingoiando un piccolo boccone della cena. «Joanna non ha ancora visto Alla ricerca di Nemo...»

    Vidi Michael e Joanna osservarsi a lungo. Riposi lo sguardo sul mio cibo non appena egli mi scoccò un’occhiata di soppiatto; feci finta di essere sola, e di non essere una presenza estranea.

    Era un martedì sera ed erano passati otto giorni dall’arrivo di Joanna. Quel weekend passato erano venute anche altre 7 persone, tre ragazzi e quattro ragazze tra i 25 e i 35 anni, e scoprii che erano tutti fan fedelissimi di Michael. Qualche volta li invitava al Ranch e, siccome si fidava ciecamente di loro, li ospitava per diversi giorni nella sua tenuta. Tutti avevano un lavoro, perciò poterono restare solo il sabato e la domenica. Io mi ero totalmente eclissata dal resto del mondo, rinchiudendomi in camera mia.

    «Perché no?» disse Michael. Si rivolse alla sottoscritta. «La maestra Sarah uscirà nel weekend, quindi saremo solo noi quattro… a te dispiace?».

    Osservai tutti, uno dopo l’altro, soffermandomi sulla faccia spaesata di Blanket: quel piccolo era l’unico che non si era ancora stufato di me e che desiderava starmi in braccio tutto il giorno. Sorrisi guardandolo.

    «No problem» assentii alla proposta e riabbassai lo sguardo.

    Michael mi squadrò a fondo, mettendomi in soggezione. Guardò i suoi figli e poi Joanna.

    «Allora potremo anche invitare i Cascio, che ne dite?»

    Loro esultarono e lo fecero sorridere.

    Non sapevo se Michael stesse invitando altra gente apposta per farmi male o no. Tuttavia il suo modo di agire era incomprensibile; da quando gli avevo detto della mia uscita con Margaret, aveva tentato di non rivolgermi più la parola.

    Continuai a mangiare fingendo interesse, mentre il resto delle persone a tavola parlottava tra loro. Lo stomaco mi si chiuse per l’irritazione e così finii di cenare senza riuscire ad ultimare l’ultima portata. Non aspettai il dolce per alzarmi e andarmene.

    «Io non ho più fame, vado in camera. Grazie per la cena» sussurrai appena, alzandomi piano, nonostante credessi che a nessuno la cosa sarebbe importata.

    I bambini mi chiesero di rimanere a giocare con loro ma dissentii sorridendo, dando loro una piccola ma passeggera delusione. Joanna non mi rivolse parola. Michael mi studiò dando la falsa impressione d’esser sorpreso, mentre Blanket borbottava parole confuse per farsi imboccare.

    Detti la buonanotte e questa venne ricambiata... la voce di Michael risuonò sopra quella degli altri.

    Salii le scale senza neanche rendermi conto di cosa avevo appena fatto e mi chiusi nella mia stanza, con il viso di Michael ancora impresso nella mente: mi aveva scrutato con due occhi puramente inespressivi. Finii di preparare la valigia per il weekend, giusto per distrarmi.

    Odiavo la sua indifferenza. Odiavo le sue proposte create apposta per intaccare la mia fragile muraglia di menefreghismo. Odiavo sentirmi così sola e non avere la possibilità di abbracciarlo come avevo fatto prima d’allora, prima che mi rendessi veramente conto di quanto fosse importante il suo affetto per me. Odiavo il fatto che lui non mi avesse mai cercato. Odiavo essere ignorata.

    Rimasi a contemplare la valigia – fatta e finita – con le mani sui fianchi. Rimasi con lo sguardo perso nel vuoto per un po’. Solo cinque minuti dopo ebbi la forte tentazione di andarmi a fare una corsa. Era scuro ormai, perciò optai per una semplice camminata per il centro di Santa Barbara.

    Incurante di dover dare spiegazioni a Michael – visto che a quest’ultimo non sarebbe comunque importato – mi affrettai a cambiarmi, prendere le chiavi della macchina e scappare via da Neverland. Non riuscivo a starmene ferma sul posto. Ero stanca di pensar troppo. Dovevo scappare prima che scoppiassi come un fuoco d’artificio.

    Uscii dalla porta della camera a passo spedito.

    Stavo per intraprendere il primo gradino della rampa di scale, quando mi sentii chiamare da dietro.

    «Dove vai?».

    Mi girai, comprendendo che l’unico soggetto al quale sarebbe potuta appartenere quella voce fosse proprio Michael. Mi guardò con un sorrisetto divertito mentre io lo osservavo seriamente, senza la minima voglia di ricambiare l’apparente gentilezza del suo volto.

    Alzò le sopracciglia. «Fuggi da me?»

    Mi venne incontro con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni di velluto nero. Indossava una larga felpa arancione, calzini verdi e blu e, diversamente dal solito, un paio di ciabatte. Aveva i capelli un po’ scompigliati – come a cena, dopotutto – ed era quasi completamente struccato.

    Mi venne da sputargli in un occhio per quella sua ridicola frase, anche se il cuore perse un battito.

    «In realtà... non proprio», ammisi facendo una smorfia un po’ infastidita. «Vado a farmi un semplice giro a Santa Barbara».

    S’incupì. «A quest’ora?»

    «Be’, sì», mi accigliai e sorrisi di circostanza. «Ora vado, buonanoootte!», e mi voltai incrociando un piede sopra l’alto, facendo una specie di piroetta storta.

    «Perché…»

    Mi bloccai al secondo gradino, non molto sicura di aver capito bene. Lo fissai di rimando. La sua espressione era lo specchio dell’inquietudine.

    «Perché te ne vai?», mormorò.

    Di fronte al mio silenzio, sospirò guardando da un’altra parte. In seguito mi puntò di nuovo. Incrociò le braccia al petto. Non ebbe il coraggio di mantenere il contatto visivo.

    «Ti devo parlare...»

    Inarcai un sopracciglio. «Ah...»

    Lo feci apposta a rispondere in quel modo, ma effettivamente non sapevo nemmeno cosa dire.

    Si umettò le labbra e con l’indice mi invitò ad avvicinarmi. Non disse nulla per tentarmi, aspettò che facessi il primo passo ben sapendo che non avrei rinunciato alla proposta di andargli incontro. I suoi occhi parvero catturarmi e richiamarmi verso il suo corpo.

    Emettendo un sospiro stanco, feci come mi aveva chiesto.

    Nel momento in cui gli fui accanto incrociai anch’io le braccia al petto. Non volevo perdermi nel suo sguardo. Mi passai la lingua fra i denti, facendola scoccare al palato, e attesi, ma Michael non dette il minimo cenno di voler continuare la conversazione: continuò a squadrarmi in tralice per un po’, fino a quando, respirando a fondo, il suo sguardo s’addolcì notevolmente.

    Le sue grandi e morbide dita si avviarono verso i miei capelli. La sua mano entrò a contatto con la pelle scoperta del collo, sfiorò il cuoio capelluto in direzione della nuca portandomi a inclinare il capo – non di proposito – all’indietro, così da poterlo guardare dritto negli occhi. Man mano che si faceva spazio fra i miei capelli inclinò la testa verso sinistra. Mi lanciò un’occhiata amorevole.

    Rabbrividii.

    «Possiamo parlare in privato, per favore?», sussurrò in tono sottile ma rauco. «In camera mia...»

    Cosa?

    Aggrottai la fronte, ma alla fine annuii.

    Sorrise piano. Districò la mano dai miei capelli e mi parve di ritornare lucida, di essermi svegliata da un sogno ad occhi aperti... abbassò lo sguardo sulle mie braccia incrociate al petto. S’avvicinò di un passo al mio corpo e mi prese una mano.

    «Andiamo...»

    Lo seguii come un automa, muovendomi a scatti. Guardai in basso frattanto che Michael pensava a trascinarmi verso la sua stanza. Qualche volta scoccai rapide occhiate a destra e a manca, per vedere se Joanna sarebbe comparsa dal nulla... ma di lei non c’era neanche l’ombra.

    Nell’attimo in cui entrai in camera di Michael, mi parve di sentirmi di nuovo a casa. L’odore del suo profumo invase le narici non appena chiuse la porta alle nostre spalle.

    «Siediti».

    Mi guardai intorno e vidi che il letto era stato sistemato malamente. La luce che illuminava la stanza proveniva dai comodini soltanto. Mi sedetti su un angolino del materasso e lui fece lo stesso. Si massaggiò le mani e si bagnò le labbra come se fosse vittima di un tic nervoso.

    Lo studiai a lungo.

    Chiuse gli occhi e respirò a fondo. «Pensi di dover prendere una pausa da questo lavoro?»

    Fu come un fulmine a ciel sereno.

    Mi stava forse licenziando?

    Guardai altrove e non detti una risposta.

    «Sarah...» mormorò. «Mi guardi...?»

    Ebbi paura e perciò non lo feci. Rimasi con lo sguardo bloccato sul tappeto color crema. Il cuore batteva fortissimo, tanto che credevo stesse per mettersi a gridare e chiedere pietà. Le iridi furono sul punto di velarsi di lacrime salate, ma non lo fecero. Il naso mi pizzicava tremendamente, però.

    Le sue dita scivolarono sotto il mio mento. Esse mi condussero verso i suoi occhi profondi e carichi di emozioni incomprensibili. Era serio, ragion per cui mi sentii ancor peggio di prima.

    Una stretta allo stomaco mi fece venir voglia di distendermi. O rimettere.

    «Pensi che io non ti voglia più qui, Sarah?» domandò Michael con un sussurro. Avvicinò la fronte alla mia, senza toccarla. Percepii il suo respiro sulla mia pelle e i suoi occhi su di me. Abbassai lo sguardo, tremai. «Ti prego, rispondi... ho bisogno di sapere se ti manco...»

    Corrugai la fronte e storsi le labbra.

    Quella frase dolce e tenera mi stizzì, dandomi profondamente sui nervi.

    Non poteva domandarmi questo. La risposta non era difficile da comprendere, e non apprezzavo questi suoi giochetti affinché mi mostrassi completamente devota a lui.

    Mi allontanai, squadrandolo dall’alto in basso. In silenzio notai quanto Michael fosse rimasto sconvolto da quel mio comportamento. Il mio viso si contrasse in una smorfia di profonda irritazione e sdegno.

    «Perché me lo chiedi?».

    Ero sulla difensiva.

    Rimase ad osservarmi muto come una tomba.

    «Sei arrabbiata con me?»

    «No».

    Silenzio...

    «Tu menti...»

    Beccata sul punto dolente.

    «No. Voglio uscire, tutto qui. Non c’è nient’altro».

    Sbatté piano le palpebre. «Non ti credo»

    «E allora fai a meno!», risposi acidamente.

    M’alzai più velocemente possibile, al fine di raggiungere la porta e sparire da lì. Ogni passo sembrava rallentato dal peso che gravava sulla pancia, sul cuore e anche in gola. Lo sentii sollevarsi dal letto e in un batter d’occhio due mani mi presero da dietro la schiena; premettero sulle mie braccia nell’attimo in cui affondò il viso nell’incavo del mio collo, affondando nella mia folta chioma.

    Incapace di sciogliermi da quella stretta provai a chinarmi su me stessa, forse nel tentativo di raggomitolarmi a ciambella: fu tutto inutile, mi paralizzai e smisi di respirare. Il suo profumo mi inglobò e tremai di nuovo.

    Non fui in grado di dare un freno alla magia che aveva su di me, tanto meno al desiderio di sentirlo premere sulla mia pelle e infilarsi sinuosamente nel cuore.

    Sospirò sul mio collo.

    Rabbrividii ancora.

    «Scusa se non ti ho dato molte attenzioni...» mormorò a bassa voce, impacciato. «Delle volte mi comporto male con chi non se lo merita... non volevo farti star male... mi dispiace averti fatto sentire un pesce fuor d’acqua».

    Espirai pesantemente. «Non fa nulla».

    «Ne sei sicura?» il suo respiro vibrò, sfiorando l’orecchio sinistro con le labbra.

    Per il solletico che mi procurò quasi risi, e quasi mancò poco che il cuore smettesse di battere e io chiudessi le palpebre dall’emozione. Quel carezzevole e intrigante modo di fare era capace di farmi diventare gelatina nelle sue mani.

    Annuii piano, fissando il vuoto.

    Michael mi scoccò un bacio sulla guancia. Premette forte. Le labbra erano più morbide di quanto ricordassi, ma non mi ero mai scordata di quanto fosse meraviglioso essere con lui, al sicuro e protetta tra le sue braccia.

    Lo sentii sorridere. «Grazie...» respirò piano e a voce bassa. «Senza il tuo perdono sarei spacciato».

    «A-ha, come no!»

    Mi girai.

    Mi porse la guancia. Ricambiai il bacio sorridendo, emettendo un timido accenno di risata. Mi lasciò andare solo dopo un’ultima profonda occhiata. Sorrise della mia espressione rasserenata.

    Mi sfiorò la gota con il dorso della mano. «Sei decisamente più bella quando sei felice...»

    Abbassai il capo, accigliandomi. «Ora non esageriamo adesso...»

    Mi prese il viso fra le mani e mi baciò la fronte.

    In seguito fui io a cercarlo, spinta da un moto d’affettuosità improvvisa; gli avvinghiai le braccia al collo, stringendomi forte al suo corpo. Michael rimase impalato. Affondai il viso fra i suoi capelli e allora ricambiò la stretta.

    Rimanemmo in quella posizione per non so quanto tempo, tutt’e due con la mancata voglia di fare un passo che ci dividesse; con l’abbraccio comunicavamo tutto, non c’era bisogno di parole, e Michael diventava più docile di un agnello se lo si stringeva affettuosamente; non era abituato, esattamente come me, a quelle dimostrazioni d’affetto improvviso.

    «Ti voglio bene».

    Lo sentii sorridere di nuovo.

    «Te ne voglio anche io, Moony». Mi accarezzò la nuca. «Resti a farmi compagnia stanotte?»

    Aggrottai le sopracciglia.

    L’immagine di Joanna mi passò dinanzi agli occhi e mi irrigidii nuovamente. Percepì la mia freddezza e di riflesso mi strinse con maggior vigore, come a dirmi “No, ti prego, aspetta. Non andare”.

    «E Joanna?», emisi con un fil di voce.

    «Che cosa vuoi dire?»

    Silenzio.

    «Non credo che sia la cosa giusta da fare…», mormorai tristemente.

    «Perché no?»

    «Perché è la tua fidanzata. E io sono solo un’amica. Cosa penseresti se lei facesse lo stesso con te, rimanendo tutta la notte in camera con un uomo che non sei tu? Io non lo accetterei e non voglio mancare di rispetto in questo modo…», borbottai.

    Inspirò a fondo. «Tu non sei soltanto un’amica…»

    Feci per reclinare la testa all’indietro e guardarlo negli occhi, confusa, ma mi pose una mano dietro la testa per impedirmelo.

    «Michael, non voglio fare soffrire nessuno», ero seria e decisa.

    «Non lo fai… credimi…». Prese un altro profondo respiro. Stavolta fu lui a tremare. «Resta, ti prego».

    Mi strinsi alla sua felpa e affondai la testa nell’incavo del suo collo. Si irrigidì e tremò di nuovo quando, con il naso, gli sfiorai lentamente la giugulare, segnando una linea da sotto al mento fino al collo. Per un attimo sentii una fitta di dolore al basso ventre.

    «Resto un po’, ma non dormirò qui…»

    Annuì.

    Restammo in quella posizione un altro po’. Nessuno dei due voleva mollare la presa.

    «Vado a leggere una fiaba ai miei figli, mi aspetti qui?»

    «Ok...»

    Sciolsi amaramente l’abbraccio.

    Avevo un’espressione da ebete e Michael, non meno di me, appariva turbato. Mi sorpassò dandomi una lieve e scherzosa pressione sulla nuca, giusto per farmi inciampare in avanti. Mi fece l’occhiolino prima di uscire dalla porta, avvertendomi che avrebbe cercato di fare il prima possibile.

    Quando se ne andò, ritornai finalmente a respirare.

    Nei momenti in cui Michael ed io eravamo assieme, il suo sguardo era sempre puntato su di me; sapeva donarmi un’importanza devastante, un affetto che faceva vibrare ogni singola particella del corpo. Mi dava tutta la sua attenzione, l’amore che nessun altro essere umano era stato in grado di donarmi. Non gli importava cosa facessi, cosa dicessi... i suoi occhi non mi lasciavano. Ma quando voleva sapeva privarti di queste attenzioni, non appena lo ritenesse necessario.

    Se si arrabbiava o s’indispettiva per qualcosa non ti affrontava subito, ma si chiudeva e ti ignorava; era permaloso e anche un po’ orgoglioso. Fingeva che tu non esistessi e in automatico, se poco prima ti eri sentito sulla punta del mondo, un attimo dopo ti sentivi smarrito, esattamente come un viandante nel deserto del Sahara. Quando percepiva la tua sofferenza allora ti parlava... e tornava sui suoi passi come se nulla fosse accaduto, fingendo tranquillità.

    Ma con me non riusciva a rimanere silenzioso a lungo. Mi ignorava, ma tornava sempre sui suoi passi. Probabilmente perché ero un caratterino tosto e non mi piaceva pregarlo in ginocchio. Non era abituato a qualcuno che si comportasse come lui.

    Se io e Michael litigavamo o ci arrabbiavamo l’uno con l’altro, questo moto di rabbia mi rendeva uno straccio. Solo allora, rammaricato, si toglieva di dosso quella maschera che falsificava le sue vere emozioni, anche quelle più recondite che non avevo ancora compreso del tutto.

    *

    «Dove alloggerete?» disse Michael alla fine del film, Fievel Conquista Il West. Spense il registratore. «Tu e la tua amica, intendo... avete prenotato un hotel?»

    Lo osservai: non mi guardava.

    «No», dissi stirando un sorriso. «Abbiamo deciso di prenotarlo sul momento».

    Michael mi scagliò un’occhiata interdetta. Attesi che rispondesse e invece tacque; qualche minuto dopo, rizzò il sopracciglio destro.

    Risi, sollevando le spalle e i palmi delle mani. «Che c’è?»

    «Mmh...» scosse la testa. «Non ti avrei mai immaginato così… mi hai sempre dato l’impressione di una ragazza molto organizzata, per niente avventuriera».

    M’imbronciai, offesa.

    «Non è che – per una volta che non mi organizzo – sono una sconsiderata!»

    Mi rideva in faccia.

    «E poi non capisco tutta quest’aria scioccata. I soldi non mi mancano, e – »

    «Sarah, fermati».

    Michael mi fermò con due dita sulle labbra, sghignazzando furbescamente. Mi si avvicinò, pronto ad abbracciarmi e ad “addolcirmi la pillola”.

    «No... no!» tentai di non ridere dal nervoso. Incrociai le braccia al petto. «Non fare il lecchino, vai via!»

    «Non fare l’offesa, daaai...», sussurrò soavemente, usando un tono a dir poco smielato. «Vieni qui, su... Non essere permalosa, l’ho detto apposta!», protestò vedendomi sul punto di alzarmi in piedi e fuggire.

    «No, sei cattivo!», esclamai.

    Mi tirai su dal letto, ma mi prese per i polsi da dietro e mi ributtò a sedere. Provai a divincolarmi con tutte le forze, ma mi veniva da ridere man mano che le sue mani si dirigevano sul collo e sui fianchi, intenzionate a farmi il solletico. Mi scostai con un balzo: il suo sorriso diveniva sempre meno convincente.

    Alzò un sopracciglio. «Sono cattivo?»

    «Mooolto cattivo...», sghignazzai.

    «Non giudicare dalle apparenze, Moony...». Mi mollò e io mi trascinai lontano, studiandolo con divertita diffidenza. Tutt’e due ci guardammo negli occhi senza muovere un muscol. «Lo dovresti sapere che potrei essere molto peggio...»

    Spalancai le palpebre.

    Le sue dita furono su di me prima che potessi prepararmi al contrattacco. M’avvinghiò per la vita e cominciò a stuzzicarmi, mentre io mi ritrovavo a ridere come una cretina sull’orlo di un attacco d’asma; non soffrivo molto il solletico... ma Michael lo sapeva fare bene.

    Dovette mettermi la mano sulla bocca per ammutolirmi, e per protesta tirai fuori la lingua leccandogli il palmo. Lui la ritirò immediatamente, scioccato e divertito, pulendoselo sulla felpa. Mi lanciò un’occhiata sbalordita, ma non si arrese.

    «Ti avverto che mordo!», esclamai con il cuore in gola, senza fiato. «Basta

    Michael mostrò un ghigno sarcastico – poiché ovviamente non mi prendeva mai sul serio –, e tentò ad istigarmi di nuovo. In automatico aprii la mandibola e feci per addentarlo per davvero. Ritirò la mano che avevo puntato, ridendo da solo, con gli occhi fuori dalle orbite.

    «Ma sei una tigre!».

    «Esattamente!»

    «Ma non puoi sconfiggere un leone come me», disse in tono saccente, raggiante come non mai.

    «Hai ragione», confermai, sfoggiando altrettanta boriosità. «Non posso che arrendermi di fronte a te – un micio indifeso – visto come sei saltato all’indietro per paura che ti azzannassi!»

    Il sorriso di Michael si congelò all’istante.

    Mi spanciai davanti a lui senza contegno. Michael si posò le mani sui fianchi e trattenne un sorriso, malizioso e vendicativo. Si passò più volte la lingua sulle labbra, in silenzio: mi alzai dal letto e camminai all’indietro, lontano da lui, sapendo che per punizione non mi avrebbe risparmiato nessuna tortura.

    «Ah... micio indifeso, dici? Bene...», mormorò annuendo fra sé e sé.

    L’adrenalina attraversò il mio corpo come una scossa.

    Michael s’incamminò verso la sottoscritta con passo felino.

    «No, no, ti prego... vai via, mi fai paura...», risi.

    «Uhm...», si accigliò, «devi averne, ragazza...»

    Frignavo e ridevo per la tensione.

    «Oh, Dio, aiuto...».

    Si fermò.

    Feci lo stesso.

    Uno sguardo d’intesa e partì alla carica, rincorrendomi per tutta la stanza.

    Lanciai sottili urla di terrore, troppo lenta per scampare a quella gazzella che era; sarà stato anche un uomo di quasi mezza età, ma l’arzillo vecchietto non era da sottovalutare: Michael era più agile e scattante di un maratoneta!

    Mi prese. Cercai di divincolarmi ma non seppi come fare; la presa era solida. Anche se Michael sembrava 'mingherlino' o senza energie, non lo era per niente. Aveva una forza muscolare che mi lasciava completamente basita.

    Mi buttò sul letto tenendomi per i polsi con entrambe le mani e incastrando un ginocchio in mezzo alle mie gambe. I suoi capelli ricaddero lungo il volto – disordinati e macchiati dello stesso colore dell’inchiostro -, il quale se ne stava a più di venti centimetri dal mio. Ansimava e mi scrutava sorridente, sopra di me.

    «Questo è per avermi chiamato micio indifeso» sussurrò raucamente «e per quella vittoria di tanto tempo fa, quella sleale vittoria di inizio dicembre...»

    Feci una smorfia confusa.

    Capii che si riferiva alla battaglia con i cuscini avvenuta tra me, lui, Prince e Paris, il giorno in cui mi ero trasferita a Neverland.

    Sorrise. «Questo è per avermi sconfitto ingiustamente...».

    Guardò il palmo della mano destra e allacciò le dita in un delicato intreccio con le mie. Le osservai a lungo senza dire nulla. Fu un legame che mi fece esplodere il cuore. Poi Michael si chinò su di me e trattenni il respiro in gola. Le sue labbra mi sfiorarono una guancia. Mi strinsi nelle spalle percependo il suo profumo. Quando Michael si allontanò sorrideva incantato.

    «E questo è per avermi perdonato...»

    Scostai il capo a sinistra, visibilmente imbarazzata.

    «Sono troppo buona con te...», sorrisi, ironizzando sulla situazione. «Ma le tue carinerie non funzioneranno ogni volta... non sono così malleabile!»

    Si alzò ridendo, tenendomi la mano affinché m’issassi in piedi. Mi sistemai la maglia sui fianchi, nel frattempo che Michael se ne stava accanto senza dire una parola; quando m’accorsi che era in silenzio da un pezzo, lo fissai.

    Avvicinò le labbra al mio orecchio sinistro, sorridente, pettinandomi i capelli all'indietro.

    «Non essere così sicura di quel che dici, potresti pentirtene».



    1 Tutti i fan sanno - più o meno - chi sia Joanna Thomae. Alcuni dicono che aveva una relazione con Michael, altri no. Da quel che ho potuto capire attraverso le testimonianze, Joanna rimase in contatto con Michael fino al 2004. Dopodichè scomparve dalla sua vita. Anche qua le voci sono due: lei disse che fu a causa delle “persone” che circondavano Michael, che non la volevano tra i piedi, ma che erano entrambi innamorati; altri dicono che ebbe una storiella con Frank Cascio, che Michael fu semplicemente un tramite per quei due, e che Frank la invitò di nascosto a Neverland (assieme ad un altro gruppo di fan). Fecero sesso nella camera di Michael e fu Frank – se non erro – a far intervistare Joanna in TV, inventando la storia che lei e Michael si amavano. In assenza di testimonianze certe, ho pensato di fondere entrambe le versioni trovate nel web, creando una sorta di “verità nel mezzo”.


    Edited by fallagain - 5/4/2020, 14:07
     
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    «Grazie per la compagnia, Maggie!», la abbracciai prima che s’incamminasse verso il gate di imbarco. Nel giro di qualche ora sarebbe tornata a Boston. «Mi sono divertita tantissimo, ne avevo proprio bisogno»

    «Grazie a te, Sarah», ricambiò sorridendo. «Mi auguro di avere più tempo di fare altre gite come queste... vienimi a trovare anche tu qualche volta, però! Il mio appartamento è grande abbastanza per te, me e il mio fidanzato», fece l’occhiolino.

    Annuii. «D’accordo, cercherò di trovare un po’ di tempo libero»

    L’immagine del viso di Michael offuscò la ragione del momento.

    «E mi raccomando», m’ammonì puntandomi l’indice. «Ricordati di scrivere a quel tizio! Quel David dell’altra sera, il barista. Secondo me ne vale la pena, sembrava veramente attratto da te!»,.

    La rassicurai controvoglia, ci salutammo e ognuna ritornò sulla propria strada.

    In macchina, diretta verso Neverland, cominciai a riflettere su come avrebbe reagito Michael quando mi avrebbe rivisto – soprattutto pensavo ai suoi possibili cambiamenti d'umore o ripensamenti. Mi aspettavo di tutto, anche che mi ignorasse come aveva fatto per una settimana intera, con l’arrivo di Joanna.

    Arrivai ai cancelli di Neverland verso tarda serata, affamata e piena di sonno. Non avevo ancora cenato ed erano le 22.47. E, per di più, in quei due giorni passati con Margaret avevo dormito sì e no quattro ore.

    Avevamo fatto shopping svaligiando più o meno tre quarti dei negozi presenti a Los Angeles: ogni tanto mi piaceva attuare un cambio completo del mio intero guardaroba, donando i vecchi vestiti ai più bisognosi. La sera del sabato e della domenica, invece, avevamo frequentato dei pub - quelli dove si poteva ballare – o dei bar all'aperto per parlare del più e del meno. Lì un ragazzo di 32 anni, David, aveva attaccato bottone con noi e si era mostrato molto interessato alla mia persona. Come un vero gentleman mi aveva chiesto se potevamo scambiarci i numeri di telefono, non dopo essersi offerto di pagarmi da bere (proposta che inizialmente rifiutai, per non dargli false speranze). Alla fine, anche se con una certa titubanza, avevo ceduto alle continue insistenze e gli avevo dato il mio numero.

    A volte, nei momenti di silenzio tra me e Margaret, desideravo che Michael fosse lì con me.

    Mi chiesi se Michael stesse provando le mie stesse sensazioni; soprattutto mi chiedevo se gli mancassi, se gli fossi mai passata per la testa in tutte quelle ore di palpabile distanza fisica fra noi, o se invece gli ero stata completamente indifferente; se si stava divertendo o se in fondo si sentisse solo.

    Varcata la soglia della casa fatata il mio stomaco brontolò.

    Il silenzio rendeva l'atmosfera quasi inquietante e il buio non aiutò affatto: accesi la luce del corridoio e mi diressi con la valigia fin su per la scalinata, reggendola con entrambe le mani, senza fare rumore; dopo averla messa in camera ed essermi tolta il giubbotto ingombrante, andai in cucina a prendere qualcosa da mangiare. Mi feci un panino con ciò che trovai. Dopo aver mangiato, mi avviai in camera.

    Per tutto il tragitto restai in allerta: mi aspettavo uno dei dannati scherzi di Michael, ma entrando in stanza sana e salva credetti che non mi avesse sentito arrivare. Dopotutto avevo cercato di essere silenziosa come un felino.

    Non volli disfare subito la valigia, nemmeno fare una doccia, pertanto mi struccai e mi lavai i denti soltanto. Quando mi buttai a letto non mi ero neanche messa il pigiama, poiché morta di sonno.

    Avrei tanto voluto vedere Michael, abbracciarlo, o incrociare i suoi occhi scuri. Mi aspettavo che fosse lì, pronto a tendermi uno scherzo nel cuore della notte, non appena arrivata al residence, ed invece così non fu... ed ero triste per questo. Ma la fase REM mi accolse veloce fra le sue braccia e mi addormentai per un tempo che a me parve durare solo cinque minuti.

    Di botto sobbalzai, sentendo battere alla porta.

    Quando mi alzai dal letto, frastornata e confusa, fissai l'orologio sul comodino: erano le due di notte.

    Con uno scatto mi diressi verso la porta. Mi stropicciai gli occhi e mi raccolsi i capelli su una spalla. Il cuore salì in gola nel momento in cui l'aprii, così come la gioia zampillò dai miei occhi non appena lo vidi.

    Il suo sguardo era come il mio. Gli occhi erano profondi, forse più malinconici di quando li avessi visti prima di partire per l'aeroporto. Il pigiama che indossava era blu. I capelli erano scompigliati.

    Michael mi squadrò sorridendo, impacciato ma sereno.

    «Sono felice che tu sia tornata...»

    Feci un enorme sorriso.

    Un secondo dopo gli fui addosso. Lo abbracciai forte, affondando il capo nell'incavo del suo collo; anche il profumo era quello di sempre, un misto di dopobarba, pulito, e l'odore che solo la candida pelle di un bambino possiede. Fu come tornare a casa dopo anni di lontananza.

    Le sue ampie mani scivolarono sulla mia nuca.

    «I missed you so much...», mormorai con un profondo respiro.

    Lo sentii ridacchiare piano.

    «Non mi crederesti mai se ti dicessi quanto ti sono stato accanto...» sussurrò dolcemente, dandomi un bacio tra i capelli, «non avresti più idea di cos'è la privacy».

    *

    «Non credevo fossi un’amante dello shopping»

    «Non lo sono, infatti» sussurrai. «Erano anni che non facevo un cambio di guardaroba come si deve. Oddio... se avessi un fisico più snello e non fossi così tanto risparmiatrice, sicuramente fare spese sarebbe un piacere maggiore»

    Michael fece una smorfia infastidita. «Perché aggredisci sempre il tuo fisico? Non capisci che non sei affatto male?»

    Ci guardammo senza dire una parola, distesi uno di fianco all’altro, sul letto di camera mia.

    «Già il fatto che uno mi dica “Non sei affatto male” mi fa intendere il contrario...» borbottai in tono di simpatico rimprovero. «Tuttavia non mi sto criticando, io mi piaccio tutto sommato. Ho un viso decente e un vitino stretto… sono le cosce e il fondoschiena che tendono a rendermi un po’ sproporzionata. Però lascia perdere il tuo affetto per me, per un secondo... metti che io sia una qualsiasi ragazza che si veste con magliette strette e pantaloni super attillati... cosa penseresti allora?»

    Si voltò di fianco e accostò il viso al mio. Mi puntò e sorrise, alzando un sopracciglio con fare leggermente provocatorio.

    «Ti crederei una persona che non ha paura di essere quello che è, e per questo ti ammirerei».

    Attese che dicessi qualcosa, ma ero troppo incantata dal movimento delle sue labbra e dall'intensità del suo sguardo per trovare qualcosa di serio da dire. Non enunciai nemmeno una sillaba, ma storsi le labbra visibilmente contrariata.

    «E non pensare che io non ti consideri una bella donna...», mormorò affabile, posando l’attenzione sulle mie labbra.

    «Perché, mi credi una bella donna sul serio?» quasi ridacchiai per l'incredulità.

    Michael si umettò il labbro inferiore e sorrise con misticità – un insieme di affetto, imbarazzo e inquietudine. Guardò altrove, ritirandosi in sé e distendendosi a pancia in su.

    «Sì, ti trovo molto bella...»

    Sorrisi maliziosamente, accigliandomi.

    «Ah. Non l’avrei mai detto, ci credi?»

    Scosse il capo e roteò gli occhi verso l’alto, emettendo un “Tsk” seccato. Ridacchiai. Mi puntò sorridendo con astuzia e mi dette una spintarella col braccio, allontanandomi dal suo corpo. Mi passai una mano fra i capelli, imbarazzata.

    Sbadigliai e mi stiracchiai.

    «Scusa, sei stanca... ti sto tenendo sveglia troppo a lungo, dovresti riposare...»

    «No, figurati, non sono stanca... sono tornata alle undici e qualcosa, sono riuscita a dormire due o tre ore...». Mi scrutò con rimprovero. Spalancai le palpebre e alzai le mani innocentemente. «È la verità, sul serio!»

    L’idea di andare a dormire mi dette l’energia per ritornare sveglia e lucida per almeno un’altra ventina di minuti, o forse anche più. Tuttavia mi sentivo in colpa… credevo che la sua fidanzata, Joanna, non sarebbe stata felice nel saperlo in camera con me. E ne sapevo qualcosa di tradimento e di paranoie al riguardo.

    «Tu, piuttosto... non devi andare a letto? Non hai bisogno di riposare?»

    Ridacchiò scuotendo la testa. Lasciò passare qualche secondo, fissandosi le mani, intrecciate fra loro e delicatamente posate sulla sua pancia. Si bagnò le labbra per l’ennesima volta, meditando in silenzio.

    «Io non ho problemi di questo tipo» mormorò, «io faccio sempre fatica a dormire... mi addormento anche alle quattro di notte, e alla fine riesco a dormire meno di due ore. Ma se mi appisolo ho il sonno decisamente pesante, faccio fatica a svegliarmi subito. La mia mente è in continua elaborazione, mi piace riflettere su molte cose, soprattutto sulla mia musica...»

    «Qualche volta ti farebbe bene distrarti un po’...», risposi piano. Mi girai in posizione supina, con i gomiti appoggiati al materasso, cercando il suo sguardo. «Dobbiamo trovare una soluzione. Adesso non mi viene in mente niente, ma qualcosa troverò, lo prometto», bisbigliai piano.

    Michael emise uno spasmo di risata. Chiuse le palpebre per un attimo e di colpo gli occhi furono su di me, tristi ma colmi di dolcezza e tenerezza. «Perché pensi che ami così tanto la tua compagnia? Perché credi che io ti cerchi anche la notte, non solo di giorno?»

    «Mmh... perché sono così noiosa e apatica che ti faccio addormentare facilmente?»

    Rise di gusto.

    «Sciocchina, certo che no...!», sogghignò. Si distese sul fianco, fronteggiandomi. Scosse la testa e mi prese la mano, stringendola tra i suoi grandi palmi. Inclinò la testa da un lato. «Stare con te mi sottrae dal pensare troppo e a lungo. E non mi sento solo. Sto così bene – quando sono con te – che quando vado a dormire sono rilassato, in pace con me stesso... io sono la notte che non riposa mai, mentre tu sei la Luna». Abbassò lo sguardo sul ciondolo che tenevo al collo e sorrise. «You’re the Moon of my Heart...»
    1

    Arrossii, facendolo ridere.

    Tu sei la Luna del mio cuore…

    Non smise di analizzare le mie iridi verdi chiaro.

    «La notte è il momento della giornata che preferisco. Sono egoista, purtroppo, perché non penso al fatto che tu abbia bisogno di riposarti... ma non riesco a starti lontano. Mi fai sentire così libero che non bado a cosa tu potresti desiderare – se vorresti che me ne andassi e ti lasciassi dormire tranquilla, o se invece vorresti che ti stessi vicino...» Feci una smorfia e sorrise. «Ma mi rendo conto che la risposta ce l’ho sempre davanti agli occhi, impressa nel tuo volto e nelle tue sfacciate espressioni...».

    Scossi il capo, emettendo una bassa risata.

    All'improvviso mi venne in mente Joanna – di nuovo – e l’importanza che lei doveva avere per Michael; la felicità si spense, così come il viso cambiò espressione. Michael lo notò subito, tanto che mi squadrò con espressione dubbiosa.

    «Credo che sia meglio che tu vada da Joanna», inspirai forte. «Insomma, magari le manchi... non ci pensi? Non mi sento a mio agio, sapendo che potrebbe farsi idee sbagliate su di noi»

    Non che fossi terribilmente affranta per il fatto che preferisse stare con me piuttosto che con Joanna... ma volevo che Michael fosse felice, anche se ciò avrebbe comportato rimanere da sola. Desideravo che mi fosse accanto, ma non volevo neanche vivere con i sensi di colpa, sapendo che avrei fatto soffrire qualcuno per colpa mia.

    Meditò a lungo con espressione ambigua. Schioccò la lingua al palato e fissò il soffitto, ritornando a pancia in su e portandosi le mani dietro la nuca. Osservai il suo petto alzarsi e abbassarsi due volte, prima che emettesse un suono.

    «Non capisci...»

    «Eh?»

    Michael sospirò.

    «Qualcosa non va tra voi?»

    Non rispose. Serrò le mascelle e continuò ad ammirare il soffitto.

    «Ne avere parlato a quattr'occhi?»

    Scosse il capo.

    Qualcosa non mi convinceva. Sembrava che Michael non volesse affrontare l’argomento, facendo finta che Joanna non esistesse e non fosse la sua ragazza… eppure mi aveva confermato che fosse lei la donna che amava. Ogni qualvolta gli facessi una domanda che riguardava la loro relazione, si incupiva tremendamente. Era interessato a lei o no?

    Non sembrava molto innamorato, da come si comportava.

    «Sono onesta, non capisco che tipo di legame ci sia tra voi. Se ci tieni a Joanna, dovresti pensare ai suoi sentimenti e a come si sentirebbe all’idea di saperti in camera con un’altra donna. E io non sono una sfascia-coppie».

    Lo dissi così brutalmente e seccatamente che Michael mi fissò allibito. Una lieve scintilla di sdegno si dipinse nell’espressione del suo viso, come se lo avessi offeso in qualche modo. Mi morsi la lingua, pensando di essere stata troppo aggressiva. Rilassai le spalle e riformulai la frase, cambiando il tono di voce.

    «Ho capito che non vuoi affrontare l’argomento. Ma se c’è qualcosa che non va con Joanna, dovresti parlarle. Una relazione si basa sulla comunicazione. Se manca questo, manca tutto, anche l’amore. Lo dico perché ci tengo a te e voglio che siate felici»

    Michael mi lanciò un’occhiata di soqquadro. Lo vidi impacciato, incapace di dare una risposta corretta o ben formulata; quel mio discorso doveva averlo messo in netta difficoltà, tanto che me ne sorpresi io stessa. Arrossì.

    «Al momento preferirei stare con te...» si morse un labbro. «A te la cosa disturba?»

    «Michael...» sorrisi intenerita. «La tua presenza non mi disturba mai... ma promettimi che ne parlerete a quattr’occhi. Lo dovete a entrambi. Non potete lasciare le cose in sospeso, non fa bene a nessuno dei due. Ok?»

    Emise un accenno di risata e mi prese la mano, evitando i miei occhi.

    «Te lo prometto».

    Feci finta di credergli.

    Mi accostai alla sua guancia sinistra, scoccandogli un bacio a fior di labbra, appoggiando la mano libera sul suo petto. Percepii Michael trattenere il respiro. Mi stesi a pancia in su ed egli emise una risatina per niente allegra, stringendo la presa sulle nostre dita ancora unite.

    «Siamo due incorreggibili egoisti», esclamò. Guardava le nostre mani con fare assente. «Tutti e due amiamo la compagnia dell'altro e finiamo per dimenticarci del resto del mondo...»

    Aggrottai la fronte.

    «Ma sai che ti dico?» mormorò piano, sorridendomi. «Se essere egoista equivale a condividere questi momenti con te e dimenticare la sofferenza del mondo per un attimo, allora ho intenzione di restare così per il resto della vita.»

    *

    La mattina successiva mi svegliai alle sei e mezza, ancora desiderosa di dormire ma molto più riposata di qualche ora prima.

    Comodamente a pancia in giù e con alcuni ciuffi di capelli davanti agli occhi, portai una mano sulla parte del letto in cui avevo sentito Michael l’ultima volta, interessata a capire se mi avesse lasciato o se ci fosse ancora.

    Nell’attimo in cui entrai in contatto con il suo torace sobbalzai, tirando di poco indietro la mano. Egli me la prese subito. La trattenne sul petto e accarezzò il dorso con il delicato movimento del pollice.

    Il cuore vibrò come se, al suo interno, un timido uccellino fosse pronto a spiccare il volo.

    Aprii gli occhi qualche minuto dopo, strofinandoli e stiracchiandomi al contempo stesso; non si era mosso di un millimetro, rispetto alla posizione della notte passata. Mi guardava, attento e silenzioso.

    «Giorno», sorrise.

    «Giorno...», sussurrai piano e con voce più o meno gracchiante. Gli angoli delle labbra si sollevarono in un sorriso sbilenco. «Sono tanto impresentabile?»

    Arcuò un sopracciglio. «Direi che senza trucco sei un orrore», scherzò.

    Nascosi il viso sul cuscino, esasperata. «Lo immaginavo».

    «Dormito bene?»

    Emisi un verso più o meno soddisfatto, poi mi allungai sul comodino per bere un sorso di acqua da una bottiglietta da un litro e mezzo, quella che mi portavo sempre appresso quando andavo a dormire. «Sì, alla fine sì... ma ho ancora sonno...»

    Mi sedetti sul materasso con la lentezza di una lumaca. Michael mi studiò dall’alto in basso, spostando gli occhi dal mio viso al mio corpo e, in ultimo, al letto disfatto. Tutt’e due rimanemmo in silenzio. Ci mettevo diversi minuti per svegliarmi e collegare la spina al cervello.

    «Tu sei riuscito a dormire un po’?»

    I suoi occhi grandi mi scrutarono profondamente. «Qualche ora».

    «Mmh…», bisbigliai portandomi tutti i capelli, mossi e scompigliati, su una spalla. «A quanto pare la mia compagnia non è un potente sonnifero come pensavo...». Ridacchiò. «Ma perché sei rimasto se non avevi sonno? Non ti sei annoiato?»

    «Nooo, anzi!», esclamò gioioso. Si alzò in posizione seduta. «Sentirti russare è stato divertente! E poi non sei regolare, vai a pause di due o tre minuti, li ho contati!»

    Avvampai calorosamente, spalancando le labbra. «Non è vero, non...!»

    Rise come un matto, lasciando cadere la testa all’indietro e coprendosi la bocca con una mano.

    Continuò per mezz'ora mentre io, balbettante come un'idiota, tentavo di capire se mi avesse preso per i fondelli o se dicesse sul serio; l'idea di aver russato con lui accanto mi fece venire la voglia di buttarmi giù dal terrazzo, correndo a perdifiato verso la morte.

    «Oh Dio...» esclamò asciugandosi gli occhi per le grasse risate che si era fatto grazie alle mie espressioni. «Non pensavo fosse così imbarazzante per te...»

    «Ma... ho veramente...? No, rispondi ora! Michael... non fare il cretino... Rispondi!» e gli lanciai un cuscino nell'istante in cui fu vittima degli spasmi una seconda volta.

    Scosse la testa, in preda agli spasmi, dandomi conferma che mi aveva preso in giro, sempre con quella maledetta mano a coprirgli il sorriso. Sbuffando m'avvicinai e gliela tolsi, volenterosa di vedere quel suo magnifico riso: Michael lo perse improvvisamente.

    Lo guardai con affetto. Gli ero così vicino che sarei potuta cadergli sopra in qualsiasi istante, scivolando senza sapere... e lui non faceva nulla per allontanarmi, lasciava che le mie mani abbassassero la sua mentre gli occhi gravitavano attorno a me soltanto. Era così disperatamente bello sentirli sulla pelle.

    I nostri sguardi si legarono, silenziosi ma emozionati. Le iridi gli brillavano di luce propria, analizzando ogni lineamento della mia faccia, carezzevoli come non mai.

    «Perché ti copri il sorriso?» domandai innocentemente. «È molto bello da vedere, è praticamente perfetto!»

    Scosse piano la testa. «Non mi piace...»

    Rimasi in silenzio.

    «E poi dici che sono io che non si piace...» borbottai. «Io non devo avere paura di amarmi e poi tu non dai retta ai consigli che mi dai, che dovrebbero valere anche per te stesso...»

    «Tu sei un altro discorso...» sussurrò dissentendo. Le iridi persero la loro luce. Mirò altrove. «Tu non hai ragione di essere considerata il ritratto di mostro, non hai il viso che rispecchia una maschera terrificante!», assunse un cipiglio schifato.

    Alzai un sopracciglio, allibita. «Tu non sei un mostro»

    «Lo sono...» esclamò convinto ma sofferente. «E non mi piaccio. Non amo vedermi in foto o davanti a una telecamera», mi guardò, «non mi piaccio e basta...»

    Meditai per qualche secondo.

    «Per me tu sei un uomo bellissimo» mormorai aizzando la sua attenzione. «E credo ci sia un perché molte donne svengono o tremano quando ti vedono… e ti assicuro che non è solo per la fama che hai. A me piaci molto – anche fisicamente – e mai ti ho visto orribile... ti adoro. Se posso darti un parere da donna, quando sei struccato – o hai solo una passata di fondotinta – sei ancora più bello».

    Arrossì. Si bagnò le labbra, stringendosi nelle braccia, e si toccò il labbro inferiore con due dita.

    «Sei gentile, grazie...»

    Corrugai la fronte. «Non mi credi?»

    Emise una risatina per niente felice.

    Sospirai.

    «Sentimi bene, Michael Jackson» esclamai sicura come non mai, puntandogli l'indice, lasciandolo sbigottito. «Per me sei un uomo stupendo, e non mi importa né di cosa pensi di te stesso né se ti fidi di me! Ora, non dico che sei Mister Universo - come io non sono una top model o la donna più bella del globo - però tu sei un gran pezzo d'uomo, e se fossi Joanna o un'altra ragazza che ti corresse dietro sarei totalmente persa per te!»

    Alla mia espressione impacciata mi attirò verso il suo petto, facendo scivolare la mano destra dietro la nuca. Mi prese fra le sue braccia calde, accarezzandomi il capo con le sue soffici mani. Mi parve di non riuscire a respirare.

    «Ti voglio un bene immenso, piccola...»

    «Tzè...» arrossii. «Io di più...»

    «No, Sarah...»

    Si separò. Mi sentii smarrita, non in grado di comprendere il perché del suo gesto, fino a quando i suoi palmi non mi cinsero le guance e mi avvicinarono a lui. L'intensità devastante di quello sguardo mi procurò una dolorosa fitta allo stomaco, così tremendamente dolorosa da gemere.

    «Io ti amo di più. Non puoi farci niente» disse alzando le spalle e sorridendo appena. Non comprendevo se fosse felice o meno. «Non puoi vincere questa battaglia».

    Mi venne l’improvvisa voglia di distendermi e chiudere gli occhi.

    Respirai a fatica.

    Mi baciò sulla fronte. «Andiamo, vai a cambiarti ora... tra poco è ora di colazione e ti devo far conoscere i Cascio, alcuni membri della mia “seconda famiglia”» Il mio stomaco brontolò... Michael rise. «E hai anche fame, giustamente».

    Mi colorai di rosso, bofonchiando. «Arrivo subito...»

    Afferrai le prime cose che trovai. Stetti per aprire la porta del bagno, quando la voce bassa di Michael richiamò la mia attenzione.

    «Moony...»

    Mi voltai. «Sì?»

    Si umettò la bocca, arrossendo a sua volta.

    «Dormendo vicino a te non ho incubi».

    Mi presi qualche secondo per concretizzare.

    «Ne sono felice» sorrisi.

    Feci per entrare nella stanza, ma qualcosa mi spinse ad attendere. Michael si guardò nervosamente le mani, per poi scoccarmi un'occhiata sopraffatta. Trattenne il fiato.

    «I missed you so much...»

    Arrossii, ridendo. «Non mi crederesti mai se ti dicessi quanto ti sono stato accanto...» ripetei le sue stesse parole, «non avresti più idea di cos'è la privacy.»

    Michael sbarrò le palpebre. Gli mostrai la lingua e così facendo mi ritirai in bagno.

    L'uccellino che avevo nel cuore desiderò volare lontano e cantare di gioia.

    *

    Questo giorno non appartiene ad un uomo solo, ma a tutti. Insieme ricostruiamo questo mondo da poter condividere nei giorni di pace...

    Un applauso e Aragorn cantò una canzone elfica. Petali di fiori bianchi caddero dal cielo e i protagonisti del film si inchinarono al passaggio del corteo degli elfi. Aragorn e Legolas, due membri della Compagnia dell’Anello, si misero uno di fronte all’altro, una mano sulla spalla dell’altro; poi, per lo stupore del Re, comparve lei, Arwen Undòmiel.

    Le lacrime mi punsero gli occhi e cercai inutilmente di nasconderle agli altri, mettendomi una mano davanti alla bocca e rannicchiandomi su me stessa. La scena dell’incontro dei due amanti – Aragorn e Arwen – mi fece scoppiare in un pianto silenzioso. I loro sguardi, carichi di emozione, così come il loro lungo bacio, mi donarono una gioia incredibile.

    «Sarah» mormorò Prince tirandomi per la camicia rosa antico. «Piangi?»

    Sia Paris sia Michael si voltarono verso di me.

    Mi asciugai velocemente le guance bagnate senza smettere di guardare il video. Alzai le sopracciglia e ridacchiai timidamente: credevo il loro amore fosse un sentimento troppo grande per non riuscire a non sentirlo.

    «Eh...», piagnucolai. «Piango per il loro incontro, Prince... perché si amano davvero».

    Gli occhi volarono su Michael. Mi fissava, sorridente, anch’egli commosso. Ricambiai con un lieve sorriso ma scostai lo sguardo immediatamente, imbarazzata come non mai.

    Era passata qualche settimana dal mio weekend con Margaret e nel frattempo il mio rapporto con Michael diventava ogni giorno più intimo. Eravamo amici che condividevano anche la più piccola sciocchezza assieme: lui ed io eravamo affiatati, quasi indivisibili, e la cosa mi rendeva felice oltre ogni limite.

    E Joanna?, vi chiederete.

    Be’, lei sparì...

    Una sera, circa tre giorni dopo il mio arrivo, comunicò a tutti la propria partenza; disse che sarebbe tornata in Francia per lavoro, e Michael non mostrò molto interesse nei suoi confronti... effettivamente non si mostrò attratto da lei come quando era arrivata la prima volta, e forse anche per questo Joanna decise di prendere le distanze dalla famiglia.

    Quando dette la notizia, i Cascio erano ancora a casa Jackson. Non dissero nulla per farle cambiare idea.

    Fu così che conobbi i due fratelli Eddie e Frank e la sorella Marie Nicole. Tutti e tre conoscevano Joanna molto bene, avevano uno stretto rapporto con lei - soprattutto uno dei due maschi – tant’è che all’inizio sospettai che ci fosse un qualche intrigo amoroso ben celato. Il ragazzo mostrava una viva curiosità per Joanna, flirt che a lei non dava per nulla fastidio: Michael non reagì in alcun modo.

    Io, però, decisamente più ingenua del previsto, pensavo che Michael non mostrasse il suo disappunto per orgoglio. Credevo che Joanna fosse gelosa, possessiva, e che non avesse proprio sbagliato ad esserlo: era più il tempo che Michael passava con la sottoscritta che con gli altri! Anche nel momento in cui venivo isolata dai tre fratelli e da Joanna, Michael mi si avvicinava e mi teneva compagnia: non mi lasciava sola, come io non lo facevo con lui.

    Altri piccoli gruppi di fan vennero a trovarci, portando tanti regali per Michael e i bambini.

    Michael non volle darmi ulteriori spiegazioni riguardo la partenza di Joanna. Io non domandai nulla e lui non tirò più fuori l’argomento.

    Solo una sera si irritò parecchio, quando gli confessai che la colpa del distacco tra lui e Joanna erano - secondo me - io e le attenzioni che Michael mi riservava; non accettava che mi dessi la responsabilità di tutto, ma non mi informò del perché l’avesse lasciata perdere.

    Ad un certo punto, nel bel mezzo dei titoli di coda, mentre la sottoscritta continuava a sventolarsi una mano davanti agli occhi per fermare le lacrime, qualcuno cacciò un’esclamazione di terrore alle spalle. Sobbalzammo tutti e quattro: una mano teneva le spalle dei bambini.

    La stanza rimase all’oscuro per qualche secondo.

    Appena le luci illuminarono il cinema, una conosciuta figura femminile apparve alle nostre spalle. Era una donna piena di brio: aveva un sorriso abbagliante, simile a quello di Michael, un bellissimo fisico curvilineo, capelli lunghi e castani fino alle spalle, la pelle scura...

    Janet Jackson.

    Smisi di respirare.

    «Zia Janet!», esclamò Paris.

    I bambini si alzarono sulla poltrona per abbracciarla. Le scoccarono un grande bacione sulle guance. Quest’ultima ricambiò con altrettanto affetto, sussurrando loro quanto le fossero mancati i suoi nipotini. Chiese anche dove fosse Blanket, ma Michael disse che era con la tata al residence.

    Gettai un’occhiata disperata ed emozionata a Michael. Egli ricambiò velocemente, sfuggendomi nel momento in cui gli chiesi delle risposte con gli occhi: era a conoscenza della sorpresa della sorella – questo lo potevo accertare dall’espressione furbesca che aveva – ma non mi aveva detto nulla al riguardo.

    Janet mi scoccò uno sguardo interessato.

    Arrossii.

    Desiderai essere invisibile.

    «Ciao Dunk» disse Michael con un sorriso affettuoso. «Alla fine hai trovato del tempo per venire a trovarci. Era ora».

    Janet guardò il fratello, storcendo le labbra in un sorriso sghembo. «Pensavi che non avrei mantenuto la parola?».

    Sperai che Michael morisse sotto le mie occhiate torve.

    Gli avevo espressamente chiesto di avvisarmi se e quando Janet sarebbe venuta al Ranch, proprio perché volevo decidere se farmi conoscere o meno, prepararmi psicologicamente per il suo arrivo per non sentirmi spaesata... ma nooo, lui aveva preso tutte le decisioni da solo.

    «Ti presento l’istruttrice dei miei figli» disse lanciandomi una rapida sbirciatina. Janet mi analizzò alleviando il sorriso, passando in rassegna di ogni dettaglio del mio volto. «Sarah Morris».

    «È un vero piacere conoscerti», disse amichevolmente.

    Mi porse la mano e io la strinsi. Cominciai a sudare freddo.

    Non ero in me dalla gioia e tutto mi pareva offuscato. Il cuore batteva forte. Non riuscivo a credere di averla proprio di fronte al mio naso. Ero stata più felice di vedere Janet, quel giorno, che lo stesso Michael Jackson il giorno del colloquio di lavoro, il quale era forse l’artista di maggior successo internazionale.

    Una parte di me volle scoppiare a ridere nervosamente.

    «Il piacere è mio...», sussurrai a voce fioca.

    «Zia» esclamò Prince. «Sai che film stavamo guardando?»

    «No» rispose posando gli occhi su di lui. Erano simili a quelli di Michael. «Che film avete visto?»

    «Il Ritorno del Re!» disse tutto eccitato. «Dovevi vedere che scene! C’erano battaglie... personaggi mostruosissimi!» Io e Michael ridacchiammo. «Ed è durato tantiiissimo! È uno dei più bei film che io abbia mai visto!», buttò le mani in aria.

    Mi resi conto che le mie iridi erano ancora lucide; cercando di non dare nell’occhio passai l’indice della mano destra sulle gote per asciugare i residui delle lacrime.

    «Dio, allora mi sa proprio che lo devo vedere!».

    Janet mi puntò di soppiatto. Fu solo questione di un secondo, perché Michael interruppe subito quello scambio di opinioni e sguardi; propose di fare un giro per il parco giochi (era il weekend ed eravamo ritornati a Neverland come di consuetudine). Tutti accettarono la proposta.

    Uscendo dal cinema Janet approfittò per mangiare, prendendosi qualche deliziosa caramella dalle bancarelle vicine. Anche Paris chiese se potesse prenderne qualcuna, ma Michael dissentì; aveva già mangiato parecchi dolcetti durante la visione del film. Paris assentì con visibile dispiacere.

    Mentre ci avviavamo verso le giostre – frattanto che Paris e Prince tenevano per mano la zia e le parlavano a raffica, non lasciandole il tempo di rispondere – Michael mi si avvicinò. Lo guardai in tralice. Gli dissi che era meglio che tornassi al residence.

    Mi fissò sbigottito. «E perché mai?»

    «Perché» sbuffai «penso sia meglio lasciarvi soli, tu, tua sorella e i bambini... io non c’entro niente con tutto questo, sono fuori posto!»

    Capii che ciò che stavo dicendo non aveva senso, ma ero così orgogliosa da non volerlo ammettere.

    S’avvicinò al mio corpo e sfiorò l’avambraccio con le dita; i suoi occhi scivolarono languidi su di me, assieme al tono quasi smielato di voce. Si era accorto che mi stavo scaldando, ma pensava di farmi cambiare idea e umore utilizzando il metodo “Tanto non sei convinta di quello che pensi e ora ti faccio sciogliere sotto il mio sguardo magnetico”: purtroppo quel suo “mezzo di tortura psicologica” mi fece irritare ancora di più.

    Ero nel dubbio, indecisa se godere della presenza di una persona che avevo sempre desiderato conoscere o se starmene per i cavoli miei, lasciandoli in pace… eppure una voce nella testa mi diceva “Proteggi Michael”.

    «Non ti senti a tuo agio con lei?» disse sempre più piano.

    «Anche...», borbottai.

    Michael si zittì, esattamente come la sottoscritta; cercò più e più volte di incrociare i miei occhi... io, invece, li indirizzavo in tutt’altra direzione. Michael lo notò. Mi sfiorò il polso con la mano e io, presa in contropiede, rabbrividii: lo scrutai allarmata, mentre la sua espressione si incupiva sempre più rapidamente.

    «Fammi compagnia, ti prego...», mormorò carezzevole e a voce bassa. «Lascia perdere Janet, guarda me... fai come se ci fossi solo io»

    «Oh be’» bofonchiai arrossendo. «La fai facile, tu... è tua sorella!», e in quel momento mi ammutolii per un’esclamazione di Paris, che si era voltata verso di noi così come Prince e Janet.

    Lo sguardo di Janet passò in rassegna del mio viso, per poi chinarsi sul lieve contatto fra me e suo fratello. Osservò entrambi con un’espressione indecifrabile, dando maggior attenzione al personaggio accanto a me.

    Feci per staccarmi da Michael, ma lui incastrò due dita fra le mie, tenendomi legata a lui per l’anulare e il mignolo. Sembrò tremare dall’emozione... io, al contrario, mi accorsi di essere quella che si trovava sul punto di un attacco d’ansia. Ciò nonostante, non fui in grado di non ammirare i suoi occhi, fiammeggianti di un qualcosa che non desideravo comprendere.

    «Potremmo andare sul grande ragno», propose Michael con tono sarcastico. «Zia Dunk potrebbe affrontare una delle sue paure più grandi, una di quelle che rimanda da secoli!».

    Janet mostrò un finto sorrisino di cortesia. «Molto spiritoso, ma anche per ‘sta volta rinuncio! Non ho alcuna intenzione di rimettere ciò che ho appena mangiato», fece una smorfia schifata e rabbrividì visibilmente.

    Michael ridacchiò. Io sorrisi a malapena.

    «Bene, allora vorrà dire che i più temerari della situazione ne usciranno vincitori di nuovo!», e non volendo mi trascinò con lui, inseguito dai suoi piccoli.

    Paris si attaccò al braccio del padre. Approfittai per staccarmi dalle sue dita, sospirando di sollievo nel momento in cui Prince fu così rapido da stringere l’altro arto libero di Michael. Indietreggiai, ma quest’ultimo si girò in mia direzione, prima di avviarsi verso il grande veicolo.

    «Non vieni, Sarah?», chiese con nonchalance.

    Scossi la testa.

    «No, grazie comunque!», esclamai stringendomi nelle spalle con fare tranquillo, infreddolita a causa di quel gelido pomeriggio di inizio marzo.

    Michael gettò uno sguardo alle mie spalle – evidentemente rivolto alla sorella. In seguito mi regalò un sorriso stirato e salì sulla giostra coi bambini. Lo vidi assicurarsi che fossero ben saldi e protetti. Indietreggiai di una decina di metri solo quando vidi la loro cabina salire verso il cielo azzurro e terso.

    Erano già alla fine del primo giro quando mi sentii richiamare dalla delicata voce di Janet.

    «Vieni a sederti con me su quella panchina laggiù? Mi sa che quei tre ne avranno un bel po’», sorrise.

    Si era portata silenziosamente al mio fianco e mi osservava.

    Le mie guance si accaldarono. «Sì, certo... grazie...»

    Facemmo marcia indietro. Ero tesa, rigida come un palo, e continuavo a ripetermi: “Sto camminando vicino a Janet... Janet Jackson... sto per morire”.

    «A me non piace proprio quella giostra» disse prima di sedersi. «Sono una fifona. Michael ama queste cose così pericolose, mentre io me la svigno sempre a gambe levate».

    Sghignazzai divertita, arrossendo appena. «Capisco perfettamente» esclamai con una certa adrenalina in corpo. «L’ho provata una volta e mi è bastata. Preferisco giostre più tranquille, come il carosello».

    «Oh, sì! Anche io» Janet sorrise.

    Ricambiai.

    Pochi secondi dopo mi offrì un po’ delle sue caramelle, ma io dissentii ringraziandola. Anche Janet, come Michael, aveva il vizio di umettarsi frequentemente le labbra. Lo fece e mi fissò. Erano proprio fratelli.

    «Michael mi ha parlato di te e di quanto sei brava coi bambini» continuò. «Poco fa ti hanno chiamato addirittura zia... devi averli proprio conquistati».

    «Lo spero tanto», balbettai annuendo. Fissai la giostra in cui si trovavano Michael e i bambini. «Il fatto che usino quel appellativo mi regala una felicità immensa, perché non avrò mai la possibilità di diventare zia. Almeno me lo sono sentita dire, una volta nella vita».

    «Non hai fratelli?» chiese con discrezione.

    Annuii. «Esatto, sono figlia unica».

    La mia enigmaticità la rese curiosa, ma non maleducata.

    «Non si direbbe, sai?» abbassò lo sguardo. «Il tuo atteggiamento è molto maturo per la tua età, e non credo che tu non abbia più di 30 anni. Tuttavia pare che tu sappia bene come gestire un legame fraterno. Prince e Paris ti trattano come una sorella più grande».

    «Quei bimbi sono due angeli. Anche Blanket lo è», dissi sorridendo e guardandola negli occhi. La sua attenzione crebbe, ma non lo dette a vedere. «Sono stati cresciuti proprio bene. Sono uniti e si vogliono un bene dell’anima. Non hanno bisogno del mio aiuto in questo».

    Janet rimase seria. Il suo sguardo ti attraversava quasi come quello di Michael.

    Poi sorrise dolcemente. «Assomigli a me quando ero più giovane...»

    Avvampai maggiormente e chinai lo sguardo, con un cenno del capo a mo’ di ringraziamento. Lo presi come un complimento, nonostante il suo tono pensoso e la sua espressione concentrata.

    Entrambe osservammo Michael e i bambini scendere dalla giostra. Prince e Paris sembravano eccitati come non mai. Michael, invece, aveva un’espressione scossa.

    «Ehi, che succede?» chiese Janet scherzando. «Vuoi per caso un secchio dove vomitare, Mike? Perché il mio sacchetto di caramelle non è stato ancora svuotato del tutto!»

    Egli sorrise piano, alzando un sopracciglio nonostante la sua faccia sconvolta. «No, grazie Dunk, penso che ti dimostrerò per l’ennesima volta quanto sono resistente di fronte a queste sciocchezze».

    «Uhhh!» disse lei falsificando un’aria di meraviglia. «Sciocchezze?»

    Michael finse di non sentirla.

    «Papà guardava sempre in basso, anche quando c’erano i grandi salti!» esclamò Prince fissando il padre con preoccupazione indefinita. Io e Janet lo fissammo.

    Paris tirò Michael per la manica. «Va tutto bene, daddy

    Mi diede un’occhiata veloce prima di accarezzare Paris sulla nuca, inglobandole completamente il capo. Sentii lo sguardo attento di Janet su di me, ma non ci detti troppa attenzione.

    «Va tutto bene, principessina». Michael guardò la sorella. «Rimarrai a cenare con noi, vero Dunk?»

    L’altra scosse il capo mentre entrambe ci alzavamo in piedi. «No, non penso. Ho molto lavoro da fare e i tempi per la registrazione dell’album si restringono. Piuttosto… volevo parlarti di una cosa, in privato. Ho bisogno di un tuo consiglio».

    Temetti che volesse parlare di me e mi sentii morire.

    «Perché non rimani?» domandò Prince, tristemente.

    «Zia... resta...» piagnucolò Paris, avviandosi verso la gamba della donna. Lo sguardo le brillava di speranza. «Per favore...»

    «Piccoli...» sorrise rammaricata Janet. «Mi piacerebbe...», accarezzò loro il capo. «Per questa volta sono venuta a farvi un saluto veloce, ma la prossima volta giuro che rimarrò di più».

    «Papà, ti prego, convincila!»

    Ma Michael non disse nulla per farla restare. Tuttavia le fece promettere che sarebbe ritornata presto. I due fratelli Jackson si incamminarono lontano, mentre io e i bambini ci dirigevamo verso altre giostre. Feci di tutto per non guardare in loro direzione, ma qualche volta sbirciai: erano seri, uno di fronte all’altra, e lei parlava più di lui. Michael annuiva di tanto in tanto, fissandola intensamente, e poi le rispondeva con qualche breve frase. Quando lui parlava, Janet incrociava le braccia al petto e corrugava o sollevava le sopracciglia.

    Quando ebbero finito di conversare – dopo una trentina di minuti – ci vennero incontro. Decidemmo di accompagnare Janet alla macchina, posta nel parcheggio nei pressi delle giostre. I nipoti la salutarono calorosamente e anche Michael accolse Dunk tra le sue braccia. Io mi mostrai lo specchio della tranquillità, salutandola con un lieve cenno della mano e un piccolo sorriso. Michael mi fissava.

    Janet s’avvicinò a me, ma non mi strinse la mano: allargò le braccia e mi trattenne a sé, accarezzandomi una spalla, mormorandomi un gentile «Felice di averti conosciuta». Ricambiai arrossendo, troppo sbigottita per riuscire a parlare, mentre lei si allontanava esibendo un’ultima espressione scrutatrice.

    Aprì la macchina, salì e mise in moto. Un rombo di motore e scomparve dalla nostra vita, non dopo averci salutato con il basso suono del clacson del SUV nero. I bambini fecero svolazzare le braccia al cielo per far notare il loro saluto al punto nero sempre più piccolo.

    Michael ammirò l’espressione basita che ancora non mi abbandonava.

    Lentamente mi volsi in sua direzione.

    Non ci dicemmo nulla, nemmeno sorridemmo, perché entrambi sapevamo che io – nonostante non lo dessi a vedere – ero rimasta offesa dal suo comportamento, così come Michael ci era rimasto male per come mi fossi distaccata da lui e avessi rifiutato di salire sulle giostre.

    «È meglio che torniamo in casa» disse guardando i suoi figli. «Comincia a fare freddo. Andiamo...»

    *

    Michael rimase a scrutarmi impassibilmente per un tempo che sembrò infinito, appoggiato a braccia incrociate sullo stipite della porta. Aveva uno sguardo profondo e duro, mentre osservava il modo in cui, a testa in giù, mi asciugavo i capelli nel bagno della mia stanza, con indosso la larga maglia del pigiama che – fortunatamente – copriva tutto il fondoschiena... se in posizione eretta.

    «Dimmi» disse con tonalità di voce abbastanza alta da farsi sentire al di sopra il rumore del phon. «Perché sei arrabbiata con me?»

    «Non sono arrabbiata».

    Inclinai la testa verso sinistra e poi verso destra per asciugarmi meglio i capelli.

    «Prima lo eri... e il motivo?»

    Eravamo tornati nella villa a Beverly Hills e subito dopo cena ero andata a farmi una doccia calda. Michael mi aveva raggiunto una decina di minuti prima del nostro abituale orario d'incontro, quando i bambini si erano già tutti addormentati come sassi. Così facendo non ero riuscita né a indossare i pantaloni del pigiama né a lavarmi completamente i capelli.

    Sbuffai e alzai la testa gettandoli tutti all’indietro.

    Lo studiai: Michael attendeva con calma apparente la mia risposta. Anche se a gambe scoperte, non ero minimamente in imbarazzo. Covavo ancora un po’ di rancore nei suoi confronti, tanto da non sentire alcun tipo di vergogna.

    Spensi il phon.

    «Perché non mi hai avvisato che sarebbe arrivata?» domandai con smorfia rammaricata. «Speravo me lo avresti comunicato».

    Sospirò, staccandosi dallo stipite. «Perché avresti detto di no. Ma non sarebbe stato quello che volevi davvero»

    Alzai le sopracciglia. «Ah no?»

    «No» ribatté seccamente, ponendosi le mani sui fianchi. «Il tuo rifiuto sarebbe stato un gesto inutile! Il tuo orgoglio, talvolta, ti impedisce di considerare ciò che il tuo cuore desidera davvero».

    Socchiusi la bocca, sbigottita ed imbarazzata assieme.

    Aveva ragione, ma non lo volli ammettere.

    «Orgogliosa? Scusami, non è questo il punto» esclamai spalancando le braccia con esasperazione. Staccai la spina del phon, attorcigliai il filo e lo appoggiai sul mobile del bagno. «È il principio, Michael! Dovevi dirmelo!»

    Michael si umettò le labbra. Le braccia erano sempre incrociate al petto. Fissò in basso per poi passare in rassegna di tutta la stanza; infine, si riposò su di me. Passò la lingua sul labbro inferiore, ancora, e indurì i lineamenti del viso.

    «È per questo che eviti atteggiamenti amichevoli con me, davanti a mia sorella?», si accigliò. «Sono tuo amico ma non possiamo comportarci come tali?»

    Emisi uno spasmo di risata nervosa.

    La nostra prima vera litigata?

    «Non ci arrivi» dissi sbattendo nervosamente le palpebre. Stavo cominciando ad irritarmi. «Non pensi che io non voglia che la gente consideri te uno sprovveduto e me una stronza?»

    «Ma a te che importa degli altri?» proruppe Michael, alzando appena la voce e le mani. Tenne la bocca schiusa, in attesa delle parole giuste da dire. «Perché ti fai condizionare dalla opinione che la gente può avere di te? Ti importa così tanto?»

    Presi un respiro profondo. Mi passai una mano fra i capelli, tirandoli all’indietro con un irato gesto delle dita. Adocchiai di sottecchi la mia immagine allo specchio nel tentativo di non esplodere.

    «Ci sono tante persone che fingono di essere tue amiche, nella vita di ogni giorno», sibilai, «così tante che non ho intenzione di essere considerata tale. Non sono una persona che ti sta accanto solo per interesse. Non voglio che le loro opinioni possano cambiare anche il tuo modo di pensare!». Mi tremò la voce. «Non voglio che la tua famiglia mi consideri quella che non sono. Se pensi che io mi preoccupo degli altri, be’, in certo senso hai ragione! Non mi piace essere considerata bugiarda, approfittatrice e pure disonesta! E ti sbagli sul mio conto, perché purtroppo per me penso a te, all’idea che si possono fare... anzi, hai ragione, sai? Mi curo troppo degli altri, dovrei essere più egoista!»

    Michael si massaggiò il collo, abbassando lo sguardo. «Sarah...»

    Misi il phon in un cassetto, al suo posto.

    «E sai perché non voglio conoscere i tuoi famigliari? Perché potresti benissimo essere preso per uno sciocco, dopo tutto quello che stai passando! Magari pensano “Oh, guarda, Michael ha un altro di quegli avvoltoi che si approfittano di lui!”, e non mi piace essere considerata così... non lo sono e basta».

    «Sarah, aspetta... un momento...», mormorò ad un passo da me. Si pose una mano sul petto. I suoi occhi erano lucidi. «Sarah, tu pensi che io non sappia chi sei? Pensi che mi importi della loro opinione? Che mi influenzi in modo negativo? Hai paura davvero di questo? Fai male, molto male a pensarlo... non dovresti nemmeno dubitare! Io ti voglio un bene dell’anima, un affetto profondo» disse con voce carica d’emozione «e so che ci potrebbero essere molti fraintendimenti. Voglio mantenere la nostra amicizia all'oscuro, tranne a Janet e a Liz. E a mia madre. Per quello ho invitato mia sorella all’improvviso, affinché potesse cogliere la tua essenza al naturale, come la percepisco io tutti i giorni!». Inspirò calmandosi. «Era l’unico modo per farti vedere per come sei... senza prove allo specchio su come atteggiarti».

    Il mio spirito si placò. Al posto della rabbia lasciai spazio alla gratitudine, alla buona fede, e dimenticai il rancore provato poco prima. Chinai gli occhi, affranta. Volevo credergli.

    «Janet sa della nostra amicizia?» chiesi a voce bassa.

    Lo adocchiai timidamente.

    Annuì piano, bagnandosi il labbro inferiore. «Non ne sa molto, non quanto Liz, ma le ho accennato di te il giorno dopo il Superbowl. Era interessata a conoscerti, anche se comprensibilmente preoccupata. Teme che mi cacci nei guai...» sussurrò abbracciandomi con gli occhi.

    «Ecco, vedi? È comprensibile che io...»

    «Appunto: è comprensibile» sussurrò accarezzandomi una guancia con il dorso della mano. Il respiro incespicò in gola. «Devi solo lasciare che sia il tempo a cambiare le idee di chi pensa che la nostra amicizia non sia vera. Noi sappiamo la verità, no?». Prese un profondo respiro. «E la verità trionfa sempre».

    Sorrisi leggermente.

    «Scusami...».

    Sogghignò intenerito e scosse la testa. Le sue grandi braccia mi avvolsero. Il suo profumo inondò l’olfatto, cullandomi in un’altra dimensione. Abbandonai il capo fra i suoi capelli, mentre mi legava a sé con energia, per niente desideroso di lasciarmi andare. Mi aggrappai con le mani alla sua camicia nel momento in cui mormorò:

    «So che lo fai per proteggere me e anche te stessa, e non sai quanto ti adoro quando sei così decisa delle tue pazze idee per difendere chi ami...», mi fece avvampare, «ma fino a quando io crederò in te, non devi avere paura»

    «E se cambiassi idea?» chiesi come una bambina bisognosa di rassicurazioni.

    «Te l’ho detto, no? Sei la Luna del mio cuore. Come potrei?»

    Sospirai.

    Le sue dita mi pettinarono i capelli. Mi diede un bacio sulla nuca. Rabbrividii e mi strinsi a lui.

    Quando ero con Michael, ero in pace.

    «Michael...»

    «Mmh?»

    «Secondo te come le sono apparsa?» chiesi. «A Janet, intendo...». Feci una smorfia. «Sembro tanto fredda e introversa, vista da fuori?»

    «Mmh...», mormorò voltando la testa verso lo specchio. Feci lo stesso. Arrossii vedendo i nostri riflessi abbracciati. Strinse le palpebre e le labbra, nascondendo un ghigno divertito. «No, non sei fredda. Sei misteriosa. È come... come se non volessi farti scoprire facilmente. E questo può farti sembrare introversa...»

    Sorrisi nascondendo parte della faccia a contatto con la sua camicia. Attraverso lo specchio vidi i suoi occhi illuminarsi come non mai. Mi abbracciò più forte. Il suo respiro profondo mi dava serenità.

    «Lo ero anche per te?»

    «Mi chiedi se inizialmente ti pensassi enigmatica?».

    «Sì».

    Lo guardai sorridere dolcemente. «Sì, in un certo senso sì... con quel tuo alone di impenetrabile segretezza, di mistero, be’... mi hai sempre messo curiosità. Ma ti sei aperta facilmente, comunque, e questo mi ha dato modo di scoprirti. Ora sei un libro che conosco quasi a memoria. Hai solo bisogno che qualcuno ti faccia sentire importante, che si interessi a te sinceramente».

    «Ti mettevo curiosità, uh?», mostrai un sorriso.

    «A-ha...», sussurrò accarezzandomi i capelli.

    Mi allontanai dal torace di Michael per guardarlo negli occhi. Rise del mio sguardo esitante.

    «Non ci credi?»

    Scossi la testa. «No, non è questo... è... è strano...».

    Aggrottò la fronte. «Strano cosa?»

    «Strano che io ti abbia messo curiosità. Non pensavo fossi amante dei “misteri” a tal punto».

    «Invece lo sono, e molto», mi squadrò. «Amo i codici da risolvere. Amo tutto ciò che mi richiede sforzo e impegno per essere compreso. E amo scavare nell’animo di una persona, per conoscere la sua vera essenza».

    Espirò e rimase a fissare il ciondolo che tenevo al collo. Feci la stessa cosa, prendendolo in mano e rigirandolo fra i polpastrelli. Qualche secondo dopo mi scompigliò i capelli.

    «Non dovresti sottovalutarti, sai?»

    Sorrideva.

    «Nel tuo mistero c'è una così particolare bellezza che è impossibile non notare».




    1 “Moon of my Heart” non è un riferimento indiretto a Game of Thrones (in cui si utilizza l’espressione Moon of my Life). La frase è collegata alla favola di Sarah, dove quest’ultima rappresenta la principessa Selenite (= Selene è la dea della Luna) e anche al nomignolo “Moony”.



    Edited by fallagain - 5/4/2020, 14:35
     
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