The Rebirth

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    Sempre più innamorata del tuo modo di scrivere. Le tue parole creano immagini che scorrono come un film nella mia mente ♥️
    Questa lettura mi ha distratto da pensieri scomodi ed io devo ringraziarti perché non solo stai continuando questa meravigliosa storia negli anni, ma anche per il modo in cui ci fai sognare.
    Ti abbraccio forte forte. 🍀
     
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    Grazie di cuore a R e b e l e LiberianGirl_ per le recensioni affettuose ♥️ Chiedo scusa per l'immenso ritardo, spero che questo capitolo possa compensare e colmare il tempo speso ad attendere. Un abbraccio :*






    ... and the Prey (pt. II)

    All the king's horses, all the king's men
    couldn't put me together again
    cause all of my enemies started out friends.

    ♪ ♫ ♬


    February, 28, 2007.


    Fu un’ora più lunga del solito.

    “Potrei impedire l’uscita del Sig. Randy con un SUV, portarla fuori dall’entrata laterale…”

    Avevo smesso di ascoltarli da un pezzo. Tutti quanti.

    “Così potremmo usare un’auto di scorta e fuggire via”.

    Il profumo che avevo indosso mi nauseava, non solo perché ne avessi messo troppo, ma perché non riuscivo più a tollerare neanche me stesso. Quegli abiti di alta classe erano improvvisamente troppo stretti, soffocanti, soprattutto all’altezza del collo. Mi facevano male, mi facevano freddo. La testa ronzava di silenzio pesante. Mi sentivo intorpidito.

    “No”, fui categorico. Javon mi guardò come se gli avessi dato una bastonata. Lo puntai senza mostrare vacillamenti. “In ogni caso scoprirebbe dove stiamo andando e troverebbe un modo per seguirci. Finirebbe per presentarsi alla festa di Liz e provocherebbe una sceneggiata da tabloid. Lei non se lo merita”.

    Javon non rispose. Annuì e tornò fuori.

    Passò il tempo fra un via vai di figure in completi scuri, le urla di mio fratello in giardino, i parlottii fastidiosi di Raymone e della troupe intera. Ordinai alla manager, John e tutti gli altri di ritirarsi immediatamente nel salotto principale, per poi andarsene quando Randy se ne fosse andato. Non rimbeccarono o protestarono in alcun modo, poiché il mio tono e il mio sguardo tradivano un’austerità che, se punzecchiata, si sarebbe trasformata in collera.

    Almeno i miei figli erano al sicuro in camera da letto.

    Quando li andai a trovare per rassicurarli, stavano piangendo tutti fuorché Prince. Blanket mi si attaccò alle gambe e non mi lasciò fino a quando non smise di singhiozzare fra le mie braccia; Paris aveva le guance bagnate di lacrime e solo tenendo stretta la mia mano e quella del fratello maggiore riuscì a calmarsi. Prince, invece, aveva un’espressione scura in volto e non parlava, pur non apparendo particolarmente turbato o scosso. Ascoltava le urla che provenivano dal giardino, guardandomi negli occhi con la maturità di un piccolo uomo, seduto accanto a una Grace altrettanto silenziosa e lievemente scossa.

    “Mike”, interruppi il silenzio. Fissai il bodyguard dagli occhi azzurri. “Devi portare i miei figli e Grace al nostro solito hotel. Raymone si occuperà della prenotazione, ma dovrete aspettare che Randy se ne vada prima di uscire. Non voglio che vi segua. Starete lì fino a nuovo ordine”.

    Questo non emise parola di protesta, ma il suo sguardo era titubante.

    I bambini scoppiarono in urla e preghiere disperate. Mi pregarono di non abbandonarli e di andare con loro, pensando che li avrei lasciati lì e che non mi avrebbero rivisto per molto tempo. Blanket si strinse al mio collo rischiando di soffocarmi, piangendomi all’orecchio; Paris e Prince avevano gli occhi gonfi di lacrime quando mi chiesero di lasciarli a casa con me. Mi mostrai irremovibile.

    “No, non se ne parla. Voi starete con Grace e Mike fino a quando le acque non si saranno calmate. Il cancello principale è completamente distrutto, bisogna farlo cambiare o aggiustarlo in qualche modo. Fino a quando la sicurezza non sarà completamente ristabilita, ed io non sarò sicuro che i miei figli siano protetti, voglio che stiate dove so che nessuno vi possa fare male”.

    “Nessuno ci farà male se restiamo con te!”, singhiozzò Blanket.

    Gli accarezzai la nuca. “Vostro padre vi proteggerà sempre, per questo dovete fare come dico. Oggi la nostra casa è stata violata ed è una cosa che non sarebbe mai dovuta accadere. E non accadrà più. Me ne accerterò io stesso”, guardai Prince e Paris con un’occhiata seria ma affettuosa. “Dovete promettermi di avere pazienza per un giorno o due. Sarà una cosa temporanea e veloce. Io devo rimanere qui per risolvere la situazione”.

    I tre, alla fine, accettarono – non con pochi capricci da parte di Blanket.

    Quando abbandonai la loro camera, lasciandoli alle cure di Grace e Mike nella preparazione dei bagagli, non prima di averli abbracciati forte, non ebbi più la forza di reggermi in piedi.

    “Signor Jackson…”.

    Bill s’intrufolò nella mia sfera ovattata, richiamando l’attenzione mentre saliva le scale ampie e marmoree. Mi guardò con un misto di incertezza e severità. Una parte di lui faceva trasparire dispiacere, segno che era in arrivo una notizia spiacevole.

    “Suo fratello non ha intenzione di andarsene”.

    Abbassai gli occhi verso il luogo da cui provenivano le proteste.

    Le gambe mi tremarono dalla collera, ma smisi di pensare, facendomi colpire da un’emozione amica, di cui purtroppo non sentivo affatto la mancanza. Il sangue si raffreddò e al suo posto percepii il gelo strizzare le ossa.

    La mia bocca emise un sospiro tremante.

    Davanti a me vedevo sfuocato.

    “Va bene”.

    Con la coda dell’occhio scorsi Raymone e tutti gli altri dello staff ai piedi delle scale e fissare in mia direzione, in attesa di un mio nuovo ordine.

    “C’è bisogno di chiamare e prenotare una suite. Tenetela occupata per due notti”, ammonii John e Raymone insieme. Prima che questi si crucciassero, continuai. “Grace e i bambini rimarranno lì con Mike fino a quando non tornerà la calma in questa casa. Chiamate urgentemente qualcuno che venga a sistemare il cancello e instaurare un sistema di sicurezza migliore: voglio tutto risolto nel giro di due giorni, non di più. Il casino di stanotte non si dovrà più ripetere”.

    Bill s’irrigidì.

    Diedi loro la schiena e mi avviai verso la camera da letto.

    “Io vado a dormire”.

    “E noi?”, chiese una voce al piano terra, probabilmente una truccatrice.

    Non rallentai e non risposi. Li ignorai perché non avevo la forza e la voglia di pensare, dire o decidere altro.

    Di seguito Bill avrebbe fatto una chiamata all’unica persona che avrebbe potuto trascinare Randy lontano da lì, mio padre, mentre io avrei guardato la scena nascosto dalle tende della mia stanza, avvolto dall’oscurità di una notte senza stelle. Il mio entourage se ne sarebbe andato poco dopo, a testa basta, e di seguito anche i miei figli, Grace e Mike. Infine avrei fatto una chiacchierata con Liz, le avrei spiegato la situazione e lei avrebbe capito, mi avrebbe rassicurato ed io avrei spento il telefono per non sentire più nessuno.

    Avrei pensato a Sarah, pregando di avere la forza di chiederle aiuto, ma non avrei fatto nulla. L’avrei lasciata in silenzio senza dire una parola e lei, probabilmente, mi avrebbe odiato esattamente come due anni prima.

    *

    Per i due giorni seguenti non successe nulla.

    Il telefono rimase spento per tutto il tempo – o quasi. Lo accesi soltanto per contattare i miei figli la seconda notte fuori casa, comunicando che Mike li avrebbe riportati a casa la mattina seguente. Raymone e John avevano ubbidito e seguito i miei ordini senza fiatare, facendo riparare i danni nel migliore dei modi. Aileen, l’insegnante dei bambini, ottenne alcuni giorni liberi, che avrebbe recuperato in seguito. Insieme comunicai a Grace che avrebbe goduto di qualche settimana di riposo, dal momento in cui i miei figli sarebbero tornati a casa la mattina successiva.

    Mi sarei occupato di loro io stesso, sforzando una serenità che non avevo e che loro, all’istante, intuirono.

    I bambini non fecero domande ed io non volli parlare di come stava loro padre. Non volevo appesantirli con i miei problemi. La loro risposta al mio palese malessere fu tenermi abbracciato per tutto il tempo, non mollandomi un istante se non quando non andavano a dormire e rimanevo solo con i miei pensieri.

    Quella notte fu la terza di seguito in cui non riuscii a chiudere occhio. Più delle altre sere non trovai la forza di alzarmi dal letto e fare niente, se non guardare il soffitto e percepire il mio amico elefante sopra il torace, così pesante da farmi soffocare nella mia stessa angoscia.

    Non mangiavo, non avevo sete, non riuscivo a far niente se non essere niente.

    Le ore buie passavano con me immobile sul letto, disteso in posizione supina, ad ascoltare il respiro sommesso e il silenzio opprimente; ogni tanto i pensieri si intromettevano e lottavano con una miriade di immagini diverse davanti agli occhi.

    Pensavo alla mia vita nel suo complesso e la vedevo un guscio vuoto, fatto di felicità effimera e temporanea e lunghi periodi di tristezza e bugie.

    Non era la sorpresa andata in fumo, la cosa che mi aveva fatto crollare un’altra volta. Era tutto un insieme di sentimenti – paranoia, depressione e inettitudine – che erano gli stessi che mi soffocavano da una vita intera. Non ero in pace neanche dopo il processo, e giunto a quel punto della mia esistenza pensavo che non fossi in grado di meritarmela; perché, per una volta che ero contento di qualcosa, quel qualcosa veniva raso al suolo da un mondo che non era fatto per me, che si divertiva a vedermi strisciante e senza forze continuamente. Non ero destinato alla gioia, ancor meno a spendere il resto dei miei giorni godendo degli affetti che mi restavano e vivere serenamente.

    Non avevo il controllo di niente. Tutto scivolava via dalle dita ed io cercavo di afferrare quei pochi istanti di gioia prima che fosse troppo tardi, non riuscendoci. Ero stanco di lottare e combattere per rimanere in superficie a fatica. Randy e le sue stronzate, la sorpresa per Liz andata in fumo, io e le mie fughe da un continente all’altro, le calunnie ricevute, il rancore per una vita rovinata dalla cattiveria umana… tutta questa merda mi rendeva impossibile credere che potessi ottenere un lieto fine.

    Se ripensavo al me stesso di un tempo, ricordavo un uomo solo, con la triste consapevolezza era che non era cambiato niente da allora. Ero ancora straordinariamente solo. Circondato dalle urla della folla, dai pianti della gente che mi ammirava come fossi Dio in terra, talmente odiato dai media da essere etichettato pedofilo, strambo e psicologicamente instabile fino a quando sarebbe giunta la morte, se non oltre. I miei figli che, senza di me, rischiavano di rimanere soli per sempre. La mia vita rovinata da una depressione che aveva perdurato per anni, fin da bambino, a volte silenziosa ed altre invece rumorosa, caotica, bruciante.

    È veramente contraddittorio, sentirsi tanto soli e così straordinariamente desiderati. Anche quando toccavo qualcosa di speciale con le mie stesse mani, l’oro colato e i diamanti rischiavano di tramutarsi in petrolio e in fango, rivelandomi come la causa della mia infelicità anche quando la vita mi dava una chance.

    Perché avevo fatto quello che avevo fatto? Ogni scelta, ogni percorso intrapreso, ogni singola mossa che avevo calcolato, era stata fatta perché volevo essere amato. Perché volevo essere e sentirmi grande, orgoglioso di me stesso, e così facendo rendere il mondo altrettanto orgoglioso di me. Più ottenevo, più perdevo. Davo tutto, davo il mondo, affinché la gente percepisse il mio amore e ricambiasse con altrettanta intensità. Ma non sapevo avvicinare le persone quel tanto da fidarmi ciecamente o, ancor peggio, da renderle felici.

    Sarah era una di queste.

    Fra tutte le chiamate perse in quei tre giorni passati, dieci erano sue. La più recente era del giorno prima. Mi aveva lasciato due messaggi; uno chiedeva semplicemente “Che succede? Mi sto preoccupando”, mentre l’altro – mandato subito dopo l’ultimo tentativo di chiamata – diceva “Mi dispiace tanto”.

    Mi dispiace tanto, ma ho chiuso. Non c’è speranza per noi due.

    Era questo che voleva scrivere.

    Avrei potuto sorridere per quella triste circostanza che si ripeteva per l’ennesima volta, esattamente come aveva previsto. Avrei potuto scriverle che l’avrei contattata presto, anticipandole la verità. Invece feci la cosa che sapevo fare meglio: lasciarla senza risposta. Aggiungendosi al mio stato d’animo attuale, non riuscii più ad alzare un dito o muovere un passo per uscire di casa, quel giorno.

    Non avevo più motivazione per fare qualsiasi cosa.

    *

    La terza notte dall’incidente udii alcuni passi in corridoio.

    Strano.

    L’unica cosa che feci fu voltare la testa verso la porta, lentamente e con sguardo vitreo. La Luna risplendeva a metà nel cielo, riuscendo a penetrare le enormi vetrate con la sua luce fioca. I fasci bianco latte illuminavano il parquet e parte dell’immenso armadio guardaroba, dando alla stanza un’aria spettrale. Dalla fessura della porta intravedevo la luce accesa in corridoio.

    L’orologio sul comodino segnava le 4:41 in rosso.

    Mi tirai su a sedere. Avevo il cuore in gola.

    Pensai subito al peggio – a qualcuno che si era introdotto in casa senza che le guardie fossero state in grado di fermarlo. Immaginai perfino di aver sentito un boato proveniente dal cancello, puro frutto della mia paranoia.

    Quando bussarono sobbalzai.

    “Sig. Jackson?”.

    Respirai rumorosamente.

    Chinai il capo e mi passai una mano sulla fronte.

    Bill…

    Non risposi. Nel momento in cui le mie ansie si cancellarono con il rumore della sua voce, la disperazione tornò nuovamente a prendere controllo del mio corpo e della mia testa. Non mi preoccupai nemmeno di come Bill fosse riuscito ad entrare in casa – lui che senza il mio permesso non muoveva un passo dentro l’abitazione, pur avendogli affidato tutte le chiavi di ogni stanza e porta.

    Feci finta di dormire. Restai seduto con le spalle ricurve e il respiro impalpabile.

    Udii bisbigli inudibili. Non ci detti importanza.

    “Sig. Jackson”, riprese Bill con voce tremante, “è sveglio?”

    “Michael…”

    Ebbi un fremito al cuore, il quale smise di battere.

    Spalancai le palpebre.

    Gli occhi scattarono verso la porta.

    Cosa?

    “Michael…”. La voce femminile si sospese in aria, pensando alle parole migliori da dire. “Sono Sarah”.

    I piedi scattarono verso il pavimento. Mi ressi al bordo del materasso per l’improvvisa vertigine che mi offuscò la vista. Le pulsazioni veloci rimbombarono nel silenzio della mia testa.

    “So che è assurdo che io sia qui…”, il suo tono di voce si fece più incerto.

    Una parte di me avrebbe voluto reagire scattando in piedi, spalancando la porta e abbracciandola forte. Invece, tutto quello che riuscii a fare fu una smorfia addolorata e serrare gli occhi con forza.

    “Ma mi sto preoccupando per te”. Pausa. “So che sei sveglio e mi stai ascoltando”.

    Non puoi salvarmi, perché sei qui?

    Ingoiai la saliva rumorosamente e mi chinai verso le ginocchia. Puntai i gomiti sulle cosce e tenni stretto il capo fra i palmi, affondando in un pianto silenzioso.

    “Per favore, non ti arrabbiare con Bill. Sono stata io a chiamarlo”, continuò ignorando il mio silenzio. “So che sarei dovuta venire a trovarvi fra quindici giorni, ma ho pensato di anticipare”.

    Ero stato io a chiedere a Bill e Sarah di scambiarsi i numeri di telefono. Sarah sarebbe dovuta venire presto a Las Vegas per incontrare i bambini; sarebbe stato molto più semplice se Bill avesse avuto il suo contatto, visto che sarebbe andato a prenderla lui in aeroporto. In quel modo avrebbero concordato insieme orari e luogo di ritrovo direttamente.

    Tu ci sei sempre stata…

    Non volevo farla ricadere nel baratro per colpa mia.

    “Posso entrare?”

    No.

    Con la mente tornai a due anni prima.

    L’avevo distrutta con il mio ritirarmi in camera e non uscire per giorni. Con il mio evitare ogni sguardo e ogni sorta di comunicazione. Con il mio allontanarmi dal suo affetto, con i nostri litigi e le urla che si bloccavano in gola e che nessuno dei due riusciva a esternare.

    “Non me ne andrò…”

    Mi strinsi nelle spalle e mi lasciai cadere sul letto, in posizione fetale.

    Soffocai un singhiozzo tenendomi le mani sulla faccia.

    Il suo amore era la sola cosa che desideravo più di ogni altra in quel momento. Ma se le avessi permesso di entrare nel mio cuore e scorgere la mia fragilità – cosa che mi illudevo non avesse già fatto –, temevo soltanto che le avrei causato altri danni. Sapevo di averle promesso il contrario, ma ero terrorizzato: avrei potuto distruggerla ancora e lei avrebbe potuto lasciarmi di nuovo.

    “Mi siedo qui, davanti alla porta”, sussurrò gentilmente. La sua voce era delicata e comprensiva, un aspetto di lei che mi mandava fuori di testa. “Se te la senti di farmi entrare, io sono qui”. Espirò e poggiò la borsa a terra. “Ma non mi arrabbierò se non lo farai”.

    Ti amo così tanto.

    Ricordai le lacrime che le avevo visto versare in Irlanda. Mi sembrò di udire la canzone che mi aveva dedicato al pianoforte tanto tempo prima, il cui suono s’inceppava interrotto dalla sua commozione. Immaginai la stanchezza che provava per le ore di viaggio e per il fuso orario diverso, la difficoltà che aveva fatto per far combaciare i suoi impegni e mollare tutto per venire a trovarmi: quel “Mi dispiace tanto” inviatomi il giorno prima non era rivolto al suo addio, ma a ciò che stava per fare.

    Dava e dava di continuo, senza mai smettere.

    “Non meritavi quel che è successo…”, mormorò flebilmente, non abbastanza da non poterla udire.

    Mi posi una mano sul petto e con l’altro avambraccio mi coprii la bocca. Fui scosso dai singhiozzi mentre non la smettevo di puntare il vuoto senza trattenere le lacrime.

    “Non sei solo”.

    Le si incrinò la voce e smise di parlare.

    Ho bisogno di te.

    Ti amo.

    Aiutami.

    *

    Avevo perso il conto del tempo trascorso. Perfino il pianto era scemato senza nemmeno accorgersene.

    Bill se n’era andato subito dopo il discorso di Sarah e da quel momento era piombato il silenzio. Sarah non aveva più detto una parola. Non sapevo neanche se fosse ancora lì o no.

    Per intervenire non avrebbe più insistito come anni prima, cercando di tirarmi fuori le cose con forza. Avrebbe aspettato che fossi io a cercarla, come giusto che fosse.

    Sicuramente non mi avrebbe aspettato per sempre.

    Non aveva torto.

    In un anno e mezzo Sarah aveva imparato molte più cose di quante ne avessi imparate io. Si era sentita privare dell’amore più bello che avesse mai sperimentato, era stata lacerata dentro eppure trovava la forza di starmi vicino in nome dell’amore che provava per me. Era riuscita a risalire in superficie, a stenti, e a donare amore a tante altre persone che avevano colto la sua vera bellezza. Era esplosa come una bomba, ma nonostante tutto guardava alle ceneri del passato come qualcosa da cui trarre profondi insegnamenti... e così faceva. Imparava continuamente. Cambiava in meglio.

    Era una donna fantastica, unica nel suo genere.

    Era troppo per me.

    Quante volte mi sarei dovuto convincere di questo, prima di arrendermi su di lei e su di noi?

    Da sempre mi aveva trattato come un uomo comune, anche quando aveva avuto riguardo di me. Era schietta. Era dolce e sensibile. Era permalosa, estremamente permalosa. Desiderava che mi fidassi di lei. Ci metteva il cuore in tutto quello che faceva per me e per i miei figli. Mi scrutava nell’anima e non abbassava mai lo sguardo se ci trovava oscurità e tristezza, perché era disposta a farmi compagnia nel bene o nel male. Arrossiva per me e per le mie attenzioni. E quando l’accarezzavo, la tenevo per mano o la riempivo di baci, il suo sguardo si ammorbidiva di un’emozione che avrei voluto divorare con gli occhi, per sempre.

    Non riuscivo a non pensare a quanto fosse misera la mia vita senza di lei.

    Percepii dei nuovi passi e le stesse voci di prima da oltre la soglia.

    “Desidera qualcosa? Ha fame o sete?”.

    Bill fu particolarmente educato.

    “No, grazie Bill. Sono apposto così”, la donna scosse quella che doveva essere una bottiglietta mezza vuota.

    Sei ancora qui.

    Quel singolo istante – quel candore assonnato nella sua voce – fu in grado di cancellare momentaneamente un anno e mezzo di accuse, cinque mesi di processo e un anno e mezzo della sua assenza, in cui mi ero trascinato a fatica per i paesi di mezzo mondo.

    M’issai con il peso di una mano.

    Adagiai i piedi a terra.

    Con una spinta mi tirai su, rimanendo fermo sul posto per un minuto. Mi girò la testa e storsi la bocca e il naso per il fastidioso ronzio alle orecchie, ignorando quella sensazione di spilli in gola.

    Mi diressi verso la porta.

    Sollevai una mano verso la chiave. Nel momento in cui la girai per sbloccare la serratura, Sarah si alzò immediatamente.

    Il cuore mi esplodeva in petto.

    Abbassai la maniglia della porta, la aprii.

    La vidi.

    Bill, a tre passi da lei, con sguardo scosso ma sollevato, smise di esistere non appena mi legai a quegli occhi verde intenso.

    Portava un maglioncino lilla e jeans neri. La giacca pesante era adagiata sopra la borsa ai suoi piedi. Teneva i capelli sciolti, tinti del colore dell’ebano, e il suo volto mostrava i segni delle ore di sonno mancanti. L’unico trucco che indossava era il calore sulle sue guance. Le labbra schiuse – carnose come le ricordavo a memoria – e quegli occhi da cerbiatta spalancati palesarono la sua sorpresa. Era la donna più bella che avessi mai visto.

    Che cosa vedeva in me?

    Che cosa la faceva rimanere, se non un amore totalmente insensato?

    Avrebbe potuto avere tutti gli uomini del mondo. Uomini normali, belli, con una vita ordinaria, che avrebbero potuto amarla incondizionatamente, senza mai farla sentire una pezza o inutile. Avrebbe potuto avere di tutto, chiunque, ed invece voleva me.

    Mi sorrise dolcemente. Il viso comunicò tutta la sua amorevole tristezza. Mi studiava, mi comprendeva, e per questo le lacrime le velarono gli occhi.

    “Ciao, Michael”.

    Due parole.

    Abbassai la testa e mi coprii il viso. Sarah fece un passo in avanti; percepii le sue dita sul mio petto. Rabbrividii e le spalle furono scosse da ulteriori tremori.

    “Va tutto bene…”, bisbigliò teneramente. Una pausa, un’esitazione. “Grazie per avermi fatto entrare”.

    L’abbracciai forte e lei mi strinse di rimando. La tenni stretta, come se avessi paura che mi sfuggisse di mano, e piansi rumorosamente. Respirai il suo profumo delicato, costringendomi a credere che forse – in tutto quel disastro degli ultimi giorni – qualcosa di buono era effettivamente successo.

    Il suo cuore era il riparo più sicuro in mezzo alla bufera.

    Forse non volevo più cadere da solo.

    “Sarah…”, sussurrai. “Sono stanco…”

    Mi cinse più forte. “Distenditi immediatamente”.

    Mi allontanai per poterla vedere in faccia.

    Bill la studiava come se fosse andata fuori di senno. Ma Sarah era seria, inflessibile, e non ammetteva repliche. Mi pose le mani sulle gote e le asciugò con i pollici. La sua pelle, morbida come una rosa, era più calda che mai.

    “Distenditi a terra, fai come dico”.

    La fissai con un’espressione smarrita.

    Sorrise. “Fidati di me”.

    Guardai Bill e lui ricambiò con altrettanto sbigottimento. Indietreggiai alla cieca di qualche passo. Tirai leggermente su con il naso, sbattendo le palpebre per cancellare le lacrime, e mi chinai a terra. Puntai le ginocchia, tenendo le mani sopra di esse.

    La osservai.

    “A pancia in su”, continuò.

    Mi sedetti con le gambe a farfalla. Dopodiché mi lasciai cadere lentamente – prima con la schiena, infine con la nuca. Distesi le braccia lungo i fianchi.

    Quando tutto il corpo entrò in contatto con il freddo sottostante, tremai.

    Per un momento mi parve di comprendere il perché mi avesse chiesto di farlo. Credetti di essere sul fondo di un mare gelato, dal quale non potevo vedere la superficie e il sole scontrarsi con le acque cristalline sopra di me. Fu come se le mie angosce, le mie paure e le mie paranoie si fossero sollevate da terra, facendo sparire il peso dal cuore. Era un controsenso, ma nella solitudine che provai credetti di riuscire a respirare a pieni polmoni.

    Sarah mi venne vicino ed io la scrutai con la coda dell’occhio. Con espressione serena fece la stessa cosa: si chinò a terra, si sedette e si lasciò cadere al mio fianco. Quando si distese e appoggiò la testa sul pavimento, il suo braccio toccava il mio.

    Ruotò il capo in mia direzione.

    La guardai con le lacrime agli occhi.

    Accennò un sorriso.

    Lanciò un’occhiata alle nostre mani che si sfioravano ed io feci lo stesso. Si infilò tra le mie dita sinuosamente, intrecciandole in una ferrea stretta che ricambiai di riflesso. Sollevò le nostre mani legate e se le pose sul cuore, abbracciandole con quella che era rimasta libera.

    Mi scoccò uno sguardo intenso e amorevole.

    Per un attimo ebbi paura – paura di tutto, soprattutto di Sarah.

    “Io rimarrò con te”, mi strinse forte e mi puntò con una profondità incantevole. “Toccherò il fondo con te, fino a quando non avrai voglia di tornare in piedi. Perché so che lo farai. Fino ad allora, non sarai solo”.

    Si bagnò le labbra e sorrise commossa, vedendo le lacrime scivolare copiosamente dai miei occhi.

    “Grazie per aver chiesto aiuto”.




     
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    “Io rimarrò con te”, mi strinse forte e mi puntò con una profondità incantevole. “Toccherò il fondo con te, fino a quando non avrai voglia di tornare in piedi. Perché so che lo farai. Fino ad allora, non sarai solo”.
    Brividi.❤ grazie..sai sempre come emozionare ed entrare nella psiche di michael e ci riesci benissimo, facendo trapelare tutto quello che ha passato.
    Ci deve essere per forza un lieto fine per loro..aspetto con trepidazione il prossimo.❤
     
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    😍😍😍😍😍😍😍😍Mi sentivo lì con lui e poi con loro❤️❤️
     
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    In ritardo, ma sempre qui per te. <3
     
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